l`incredulita` del credente

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l`incredulita` del credente
L’INCREDULITA’ DEL CREDENTE
Esodo 17, 7
Si chiamò quel luogo Massa e Meriba, a causa della protesta
degli Israeliti e perché misero alla prova il Signore, dicendo: “Il
Signore è in mezzo a noi si o no?”.
Il popolo d’Israele protesta fino a dubitare della presenza del
Signore in mezzo a loro. E’ un popolo che ha fatto esperienza di
liberazione, ha passato il Mar Rosso, è passato dalla schiavitù
d’Egitto alla libertà del popolo di Dio… eppure diventa incredulo,
non si fida più, rimpiange, non si affida. In una parola
DIMENTICA.
Ciò che deve farci riflettere, vedete, è che questa domanda non
è una domanda del non credente, di chi non confessa un Dio e
Signore, dell’ateo, ma di chi è stato testimone e ha goduto dei
benefici della grande azione di Dio, il credente in Dio. Per
questo, fratelli, siamo chiamati ogni giorno a vigilare, a non dare
niente per scontato nelle cose di Dio, pregare con il Salmo 95:
“Ascoltate oggi la sua voce, non indurite il vostro cuore…”.
Sapete perché vigilare? Perché questa domanda spesso
sonnecchia nei nostri cuori, la scacciamo o facciamo finta di non
ascoltarla. Altre volte, invece, emerge dal cuore del credente,
fino a diventare grido, invocazione (come non ricordare il grido
di Cesare all’aeroporto…).
Allora questa sera cercheremo di confrontarci insieme non sulla
fede,
come sabato pomeriggio, ma sull’incredulità, la nostra
incredulità, quella che abita, seppur in misura diversa, nel cuore
di ogni credente (la non – fede del credente).
L’incredulità è un fatto, una realtà esistente perché ci sono
uomini e donne che si dicono e si sentono non credenti. Ciò mi
dà la conferma che la fede è un atto libero e che la mia fede è
un atto di libertà. Ma l’incredulità, proprio per il fatto che è una
realtà esistente, oggettiva, come possibilità di non credere per
l’uomo (fa parte dell’uomo poiché la fede non è una certezza) fa
sì che esiste anche un non credente in me e mi costringe a
confessare che fede e incredulità mi abitano.
E a volte la distinzione netta che facciamo tra credenti e non –
credenti è molto comoda perché è un modo per scacciare da noi
credenti il problema dell’incredulità, dei dubbi che ci assalgono e
ci attraversano. E’ difficile per ognuno di noi riconoscere che
molte domande dell’ateo, non sono estranee al nostro cuore o,
comunque, alla nostra mente. Non ci spaventi questo… Forse
molte intolleranze, dure reazioni nei confronti dei non credenti
sono dovute proprio alla volontà di voler allontanare questa
tensione interiore che a volte ci coglie. Quasi a non voler
affrontare la realtà, come se la fede fosse opera nostra e non di
Dio!
Dall’incredulità e dal dubbio il credente dovrebbe imparare a non
essere arrogante, né fanatico, ad accogliere il mistero che non
può spiegare come costitutivo del suo essere credente e
cristiano, accettare la ferita bruciante delle volte in cui dubita, e
la sua debolezza e fragilità che non sono per lui motivo di
vergogna (il riconoscerlo ci fa tornare ogni volta a Dio e a
riconoscere che da Lui tutto dipende). Fede e ricerca non si
eludono a vicenda, e questo rende i credenti molto più vicini ai
non – credenti di quanto possiamo immaginare. Il cristiano sta
sempre in cammino (illusione pensare di attraversare come
delle tappe: incredulità, conversione, fede e ricerca della
perfezione), anche questo significa sentirsi sempre in stato di
conversione, capace di ricominciare e/o ritornare a Dio.
Vedete la stessa Scrittura ci mostra diversi episodi di incredulità
e sembra si possano individuare tre tipi di incredulità del
credente:
1. l’incredulità come idolatria;
2. l’incredulità come poca fede;
3. l’incredulità come tenebra.
L’incredulità come idolatria
Nella distanza che lo separa da Dio e che gli appare intollerabile
ed insostenibile l’uomo cede alla tentazione (torna la lotta
spirituale sempre) e si fabbrica l’idolo di Dio. Cede al bisogno di
un dio vicino, più umano, senza rendersi conto che il suo idolo è
un dio assente, che non parla, un dio a portata di mano e di
bocca. Farsi un idolo è sempre un’operazione di sostituzione del
Dio vero, del Dio ALTRO da noi, con un dio facile e rassicurante.
Facendosi
il
vitello
d’oro
gli
ebrei
non
intendevano
assolutamente cambiare Dio, no, ma la loro incapacità di
seguirlo fino in fondo in quel momento, di affidarsi a lui
completamente al sorgere delle prime difficoltà, li aveva portati a
riempire questo vuoto con l’immagine che voleva rappresentare
Dio e farlo così più vicino e prossimo. Questo è valido anche per
noi, fratelli, anche noi possiamo sostituire Dio con un nostro
idolo pur continuando a chiamarlo per nome e dicendoci
appartenenti a lui.
E gli idoli possono essere i più vari: il lavoro, la famiglia, le mie
scelte personali che si differenziano o allontanano da quello che
il Signore mi sta chiedendo e che per me è troppo duro, difficile,
mi chiede troppo.
Il credente, allora, può creare idoli, e sentirli addirittura più sacri
del non – credente: è una vera e propria mancanza di adesione,
non fiducia nel Dio vivo e vero.
Così, quando il Nome o l’Immagine di Dio sono usati invano o
manipolati (anche in buona fede), quando la Chiesa si sottrae al
primato dello Spirito, quando la legge e le regole sono avulse
dalla misericordia… allora Dio non è la dove ci sono credenti che
si rifanno a lui, Dio è altrove!
A noi cristiani non è chiesto di affermare l’esistenza di Dio, ma di
rispondere sempre, ogni giorno, incessantemente alla domanda:
“Dio dov’è nella tua vita?”, “Com’è?”. Diceva Teofilo di Antiochia
al cristiano: “Mostrami il tuo uomo e io ti mostrerò il tuo Dio”.
Nel vangelo di Giovanni è molto evidente la presenza di increduli
tra i credenti, e questo prova anche la forte opposizione tra i
religiosi del tempo e Gesù (capitolo 5).
Si crea, allora, una dinamica che è quasi sempre la stessa:
dall’adesione al rifiuto di credere, fino a volte all’ostilità verso Dio
con il quale la relazione è diventata ormai perversa. E di qui la
divisione, l’incapacità di vedere le ragioni altrui, di ascoltare.
Giungiamo all’incredulità come idolatria quando sentiamo la
Parola di Dio come dura o, addirittura, scandalosa. E lo scaldalo
è quando Dio sorprende, quando mi dice o chiede qualcosa che
non mi aspetto, che contraddice le mie attese, quando la Parola
di Dio, o della Chiesa,
mi costa, mi scomoda, richiede un sacrificio forte, mi pesa ma so
che è vera (allora mi rifugio nel mio idolo e mi giustifico) in una
parola: quando Dio è Dio, è il Kirios, il Signore!
Non mi lascio andare nelle mani di Dio, non metto nelle sue
mani la mia difficoltà e la mia incapacità di accettare la distanza
che c’è tra me e lui.
Gesù ha ammonito: “Non chiunque mi dice Signore, Signore,
entrerà nel Regno dei Cieli…” Mt 7, 21-23; Lc 6, 46; 13, 25-27.
L’incredulità come poca fede
Accanto all’incredulità come idolatria che si risolve con un rifiuto,
la nostra vita di fede conosce anche l’incredulità come poca fede
o fede di breve durata.
La nostra fede, dono di Dio, è come un seme, un germe che
deve crescere e diventare maturo; ma proprio per questo deve
sempre affrontare quella dinamica di crescita minacciata e
fragile.
Soprattutto il vangelo di Matteo mette in evidenza la poca fede
che caratterizza il discepolo di Gesù, noi tutti. Nelle situazioni di
pericolo, di sconforto, quando le forze umane non possono
contrastarle, quando Gesù è assente o non è percepito come
presente, quando i discepoli si sentono abbandonati, allora
Matteo mostra una fede non facile, vulnerabile, che si ferma di
fronte ad un ostacolo che fa inciampare. L’episodio di Pietro
sulle acque è emblematico: Pietro scende dalla barca e si mette
a camminare sulle acque andando verso Gesù. Ma per la
violenza del vento s’impaurisce e comincia ad affondare. Grida a
Gesù: Signore, salvami. E subito Gesù stende la mano e lo
afferra, dicendogli: “Uomo di poca fede perché hai dubitato?”. La
fede di Pietro è insufficiente, è poca fede, ma è anche dubbio
che incrina la saldezza della sua fede, è incredulità. Ma non a
caso Gesù vorrà lui alla guida della sua chiesa, roccia salda,
perché a renderlo roccia salda non sarà la solidità della sua
fede, ma la grazie e l’elezione del Signore che resta sempre
fedele alla sue promesse.
Quando Pietro avanzava sulle acque la sua poca fede era
nascosta, non appariva, ma il vento forte (situazione difficile) fa
emergere il dubbio e la sua poca fede viene alla luce.
La fede è poca nel credente, è carente in tutti i cristiani, e perciò
si rende sempre necessario vigilare ed aprirsi ad una fede più
grande che può aumentare se Dio opera in noi, se ascoltiamo la
sua Parola, se non manca la preghiera nelle nostre giornate, se
viviamo la sua chiesa. Ma vedete, anche se poca, la fede ha in
sé una potenza straordinaria; lo stesso Gesù dice: “Voi farete
cose più grandi di me”.
L’incredulità come tenebra
Il credente, però, a volte può anche trovarsi in una situazione di
non fede, perché il Dio su cui vorrebbe fare affidamento nella
sua vita, il Signore al quale vorrebbe restare legato si ritrae,
nasconde il suo volto, resta in silenzio e non parla.
Al posto della fede, allora, subentra oscurità e confusione,
assenza di Dio e non più presenza, solitudine anche
drammatica.
Numerosi salmi sono pieni di lamentazioni nei confronti di Dio
nascosto e assente, che sembra aver abbandonato il suo
popolo. Di fronte a tutto questo comprendiamo che l’uomo può
precipitare in un vero e proprio abisso di male, di sofferenza e di
tenebra: situazioni di solitudini, abbandoni, sofferenze, dolori,
morti, dove davvero Dio sembra non esserci più, possono
portare l’uomo a dubitare sulla sincerità della sua fede, sulla
verità della sua fede.
Sono diverse le situazioni di buio e notte nella bibbia: pensiamo
a Mosè ma, soprattutto, a Gesù nel Getsemani e, poi, sulla
croce. Abbandonato da Dio, è maledetto da Dio e dagli uomini,
appeso ad una croce, nudo, fuori dalla città santa, avvolto
nell’ignominia e muore senza Dio (Eb 2, 9). Non c’è solo
silenzio, ma abbandono di Dio. E il centurione che esclama e
grida la signoria di Cristo lo fa identificando proprio in quella
tenebra ed in quell’abbandono il legame di Gesù con Dio. Dio
dov’era? Noi crediamo e siamo certi che era dove il Figlio stava
morendo, su quella croce.
La forza del credente, allora, è quella di Dio alla quale egli si
apre per mezzo della fede (MC 9, 24).
Voglio donare a voi a me stesso l’esempio di Teresa di Lisieux
che, soffrendo l’assenza di Dio, ha desiderio di sedere al tavolo
dei peccatori sicura che lì avrebbe sentito la vicinanza del
Signore; se mai dovessimo passare per un’ora buia, di
disperazione e di abbandono di Dio, andiamo al nostro peccato,
al luogo del nostro cuore più lontano d Dio e là, certamente, lo
ritroveremo.
San Paolo in 2Cor 5, 7 ci ricorda che “camminiamo alla luce
della fede e non della visione”, ma di una fede che abbisogna
costantemente di essere sostenuta, confermata, vivificata dalla
nostra assiduità con il Signore, assiduità fatta di silenzio, ascolto,
preghiera, Parola, Eucarestia, fraternità, ecc…
Vedete, e concludo, la vera icona del credente non è Pietro che
cammina sulle acque verso Gesù, ma quella in cui Pietro sta per
affondare, gridando al Signore: Salvami! E il Signore lo afferra.