Storie di altri tempi

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Storie di altri tempi
LA ZIA FRANCESCA
STORIE DI ALTRI TEMPI
LA ZIA FRANCESCA
La prima volta che vidi la zia Francesca credo non avessi più di quattro anni. Ricordo come in sogno
che giocavo col mio fratellino minore al cavalluccio, trascinando per la casa uno stivaletto di mia
madre, attaccato ad una cordicella; e quando passava il treno strillavo come una gazza perché la serva
mi prendesse in braccio e mi portasse vicino alla ferrovia per vedere il mostro che passava sbuffando
tra le siepi di fichi d’india e la linea azzurra del mare.
Quell’anno eravamo scesi dal nostro paese di montagna ai bagni con la mia famiglia, e fu in quella
occasione che conobbi la sorella di mio padre, la bella zia Francesca, che era andata sposa qualche
anno prima ad un signore della marina. Essa era veramente bella, bianca di pelle, di splendida
persona, con un grazioso viso rotondo e dei bei capelli ricci, spartiti sulla fronte, alta e intelligente,
che pareva fatta apposta per stamparvi sopra dei baci. Vestiva anche bene, alla cittadina, con abiti di
seta e pizzi fini e portava sempre ai polsi, al collo e alle orecchie molto oro e graziosi gioielli.
A me, abituato a vedere mia madre magra, bruna, coi capelli lisci e la fisionomia energica, senza altri
ornamenti che l’anello matrimoniale, quella bella donna sorridente ed elegante fece una impressione
straordinaria e me ne affezionai subito. Per quella specie di attrazione fisica ch’è così potente nei
bambini, non appena potevo scappavo da lei, ed ero così contento di starle vicino, che dimenticavo i
giuochi ed anche il treno.
La sua casa era accanto alla nostra e io, non appena avevo finito di mangiare, afferravo il mio
stivaletto e frignavo per andare dalla zia Francesca.
- Va… va, caro, va… - mi faceva mia madre – e dille che ti dia un bel pezzo di "tartegno".
Ciò significava che mia madre si raccomandava alla zia Francesca perché mi tenesse a lungo con lei.
Io correvo sgambettando, bussavo alla porta, che era sempre ermeticamente chiusa, e chiamavo: - Zia,
o zia… la mamma mi ha mandato da te perché tu mi dia un pezzo di tartegno.
- Vieni, - tesoro – vieni -… diceva la zia Francesca. Mi prendeva in braccio, mi baciava le guance, poi
mi portava nella dispensa e mi dava dei grossi dadi di mostarda fatta con la frutta e il vin cotto, che io
trovavo di un sapore squisito.
- È questo il tartegno, zia – chiedevo io, sbocconcellando golosamente la mostarda – e chi è che te la
porta?
- Me la porta San Nicola, caro.
- E a San Nicola chi la porta?
- A San Nicola la portano le monache di legno.
Le monache di legno!… Davanti a queste parole io rimanevo incantato, e nella mia mente si aprivano
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le porte delle meravigliose fantasticherie. Mi pareva di vedere in un luogo imprecisato un grande
monastero, e poiché di monasteri non avevo la minima idea, vedevo una specie di chiesa, e di questa
chiesa più precisamente una grande sagrestia, nella quale al posto dei cassettoni che contengono i
paramenti sacri, vi erano delle madie enormi; intorno delle curiose monache di legno impastavano un
miscuglio bruno, che spandeva un odorino tanto simile a quello della mia buona mostarda.
Nella casa di mia zia al di fuori di me e di mio fratellino non capitava mai nessuno. La porta era
sempre chiusa e mia zia lavorava tutto il giorno di ricamo in una specie di tinello che aveva una
finestra alta quanto un uomo, tanto che per affacciarvisi bisognava salire su una sedia. E tutte le
finestre di quella strana casa erano alte così, e il sole vi entrava di sbieco come nelle cantine. Nei
corridoi vi erano dei vecchi quadri di battaglia e dei vecchissimi orologi coi pesi; ed io ricordo ancora
lo strano effetto che mi faceva il tic-tac monotono di quegli orologi nel silenzio misterioso di quella
casa solitaria. Un solo personaggio io vedevo di quando in quando in quella strana casa ed era il
marito di mia zia, lo zio Girolamo. Era un uomo gigantesco, dalle spalle tremende con una testa da
uomo di quaranta anni tutta calva ed una specie di bitorzolo sulla fronte. Non era brutto di viso, ma
aveva due occhi inquieti e sempre naturalmente minacciosi, un po’ gialli come quelli dei falchi. Con
noi bambini non parlava mai, ma con la zia Francesca era tenerissimo, e la carezzava e la baciava a
lungo anche alla mia presenza, specie quando tornava dalla caccia che credevo fosse la unica sua
occupazione.
Un giorno, nel pomeriggio, mi presentai alla porta della zia con la cordicella del mio stivaletto in
mano, ma invece del suo bel viso bianco e sorridente, mi apparve sull’uscio quello arcigno dello zio
Girolamo, il quale con un solo sguardo minaccioso mi fece scappare via strillando, come un cagnolino
a cui sia stata pestata la coda. Seppi poi da mia mamma, e con mio grande stupore, che lo zio non
aveva piacere che andassi in casa sua tutti i giorni, perciò, per paura di lui, sospesi le mie visite.
Intanto la stagione dei bagni ebbe termine, noi ritornammo in paese e della zia Francesca non me ne
ricordai più. Passarono così alcuni anni, sette od otto mi pare; io andavo a scuola, declamavo poesie, e
tutto quanto si riferiva alle passioni, era per me come una moneta di cui non riuscivo a conoscere il
valore. Un giorno improvvisamente giunse la notizia che lo zio Girolamo era morto. In casa vi fu un
po’ di trambusto. Mio padre fece sellare la mula e immediatamente partì, rimanendo fuori di casa tre
giorni. Al suo ritorno condusse con sé la zia Francesca che io trovai in casa nostra tornando dalla
scuola. Era sempre bella, un po’ più pallida e leggermente ingrassata, ma sempre affascinante come
mi era apparsa la prima volta, coi capelli e il dolce sorriso intatti. Ora vestiva di nero e quel colore
luttuoso mi pareva conferisse un non so che di misteriosamente squisito alla sua persona. Ci
mettemmo a tavola. La zia e i miei genitori parlarono a lungo di affari e di interessi. Poi, finita la
colazione, andammo tutti sulla loggia.
Era d’aprile, l’aria era dolce e tiepida, con un bel sole che splendeva sulle biade e sul fogliame nuovo.
La loggia guardava il mare e nello sfondo si profilavano il campanile di Bovalino e i cipressi del
camposanto, dove dormiva il suo ultimo sonno lo zio Girolamo. Mia zia, guardando quei cipressi
staglianti sul mare di indaco, si mise a piangere silenziosamente. Le lacrime le scendevano lente sul
volto pallido, senza un moto, mentre le labbra le tremavano sotto lo sforzo di un’angoscia contenuta.
Mia madre, che si era messa a fare il punto a giorno a certi fazzoletti, la fissò un po’ inquieta, poi
scattò con la sua naturale vivacità che spesso diventava aggressiva.
- Senti, cara, io ti comprendo e ti compiango. Il marito è sempre il marito, e poi sei rimasta sola, senza
un piccino; ma quando penso a lui – scusami sai… non so come hai fatto tu ad adattarti. Io non gli
sarei rimasta insieme neppure ventiquattrore. In fondo i dodici anni che hai trascorsi con lui, furono
dodici anni di prigione. La sua non era gelosia, ma pazzo egoismo, crudeltà irragionevole. Figurati…
era geloso di mio marito; di questo ragazzo – e indicava me. Quell’anno che scendemmo ai bagni lo
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urtava che il bambino venisse da te a mangiar la mostarda. Ora tutto questo è ridicolo e crudele. E
poi… picchiava tutti… sempre alle prese con la giustizia.
La zia Francesca sospirò: - Sì, era irragionevolmente geloso, ed anche violento, ma a me voleva un
bene unico al mondo. In dodici anni uscii con lui a passeggio solo tre volte, ma quell’uomo per me
non era un marito, era un innamorato. Quanto era fiero e violento con gli altri, altrettanto era
affettuoso con me; mi adorava come una cosa santa e preziosa. Egli credeva, nella sua totale
adorazione che nessuna donna fosse più bella di me. Sì… era anche violento… Cosa vuoi… era un
uomo fuori del suo tempo, un vecchio barone medievale nato per comandare, senza altra legge che la
propria.
E piangeva col suo bel volto bianco e mite solcato dalle lacrime, sotto i capelli neri che sembravano
anch’essi un segno di lutto intorno alla fronte pallida e dolente. Quella conversazione, e le lacrime di
mia zia e le rivelazioni intorno a quella specie di prigionia ricordo che produssero nel mio animo una
impressione profonda. La parola "amore" cominciava a turbare la mia immaginazione di ragazzo
precoce, e qualche aerea fantasia popolava già i miei sogni. Non sapevo che cosa fosse, ma sentivo
che doveva essere una cosa divina che sconvolge e inebria la ragione. E quando al sera udivo la zia
che riposava nel suo lettino accanto al mio, sospirava, mi rannicchiavo senza fiato e ascoltavo. Che
cosa? Non so, ma mi pareva che nel silenzio profondo avrei udito battere il suo cuore, e che attraverso
quel palpito avrei avuta la rivelazione di un mistero bellissimo e suggestivo, il mistero che già turbava
per mille vie la mia piccola vita.
LA PASQUA DI VECCIA
Il porto sonnecchiava nel calore meridiano.
L’acqua grassa come l’olio, tutta sparsa di detriti, di foglie d’insalata, di bucce di cocomero, di stracci
di carta, di spazzature circolava intorno alle chiglie di alcune paranze, ammarrate vicino al molo,
raccogliendo nel suo moto tardo e uniforme le lordure in piccole isole vaganti, sotto cui le ombre degli
alberi e dei cordami ondeggiavano a spire come viluppi di piante in una corrente.
In mezzo allo specchio dell’acqua giganteggiava un vapore postale della compagnia Florio e
Rubattino, sul quale alcuni marinai meriggiavano fumando. La capitaneria, la stazione, il pontile del
Ferry-Boat erano deserti; i carrelli della decouville erano abbandonati sui binari, e alcuni operai
dormivano all’ombra della draga russando. Per tutto il porto era un silenzio pesante, rotto appena dal
gorgoglio dell’acqua, che fra gli scogli dell’imboccatura e i blocchi di calcestruzzo, avventava di
quanto in quanto una frangia di schiuma.
Una donna giovane, vestiva di colori gai, attraversò ad un tratto a piccoli passi svelti, lo spazio tra il
pontile e la stazione, svoltò verso la ferrovia e scomparve dietro la casa di salute del professor Labate.
Dopo una decina di minuti ritornò, e guardandosi attorno un po’ corrucciata, si diresse lungo il molo,
verso le paranze. Giunta davanti a quella di Veccia lo chiamò, con la sua voce un po’ raume soffiata
attraverso una gola di velluto.
- Veccia che fai?
Veccia, che dava la caccia ai polipi, si voltò.
- Oh, Nannina, come mai in questi luoghi a quest’ora. Anche tu alla pesca?
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- Già, rispose con una smorfia sfrontata la ragazza, ma la mia pesca va male. Cos’hai in quel
mastello?
- Tre polipi magnifici.
- O Veccia, come fai a pescarli; mi fai vedere?
- Vieni qui, bellezza, ne ho uno in vista ch’è più grosso di tutti.
Nannina battendo allegramente i tacchi sul lastricato, si avvicinò alla tavola gittata tra la ranza e il
molo, e tentò porvi il piede; ma il cane di Veccia, un bel Terranova lanuto, guizzando di tra le gambe
del suo padrone, balzò con le zampe davanti sulla tavola, e cominciò a latrare furiosamente. Nannina
spaventata gittò un grido, e si ritrasse pronta a fuggire.
Veccia afferrò il cane per il collare di cuoio, e con due manate sul ceffo lo acquietò.
- Legalo, legalo, gridava Nannina, altrimenti non vengo.
- Non ti tocca, ti assicuro io, non ti tocca: vieni. E alzava la mano in atto di minaccia, contro il cane
che guaiva mugolando, con la testa e il muso acquattati fra le zampe.
Rassicurata Nannina salì sulla tavola, avanzando a piccoli passi incerti, con risa di spavento. Veccia,
che aveva deposta la fiocina, le tese le mani, e la ricevette quasi nelle braccia.
Il cane ringhiava minaccioso.
- Guarda che mi morde, fece Nannina, afferrandosi alle spalle di Veccia.
- Non aver paura, ora lo mando giù.
Ad un cenno del suo padrone il cane infilò la botola, e scomparve nel ventre della barca.
- Questi sono i polipi che hai pescati? – disse Nannina guardando nel mastello.
- Questi. Se vuoi assistere alla pesca di uno siediti qua, su questa gomena, e vedrai.
Nannina si sedette, rivolgendo al suo ospite quel suo caratteristico sorriso di bambina viziata, mentre
Veccia, ripresa la fiocina, si era inginocchiato a prua, guardando ora l’acqua ora la ragazza.
Nannina aveva appena ventidue anni, ma chiunque le avrebbe dati trenta, tanto era sciupata e sfiorita.
Quella sua faccetta tutta rotonda, dalle labbra che parevano due ciliegie, il naso piccolo, sfregiato,
portava i segni delle precoci devastazioni che lasciano il cattivo nutrimento e la lussuria. Ma la sua
carne era ancor fine e bella, ed un nastro di velluto nero che portava stretto al collo dava alla sua pelle
bianca un tono di freschezza singolare.
Veccia la guardava, specialmente nel collo, e sorrideva mostrando i suoi grossi denti anneriti dal
tabacco.
- Come sei bella, Nannina.
- Lasciami in pace, Veccia. Dimmi piuttosto: è questa la tua casa?
- Questa. Qui vivo e qui morrò.
- Ma tu hai un’altra casa a Reggio Campi. Sei ricco tu, Veccia.
- Sì, ma quella l’ho affittata. Che me ne faccio? Non avendo una moglie da mettere dentro, la dò in
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affitto, ed io vivo tutto l’anno in questa barca.
- Perché non prendi moglie, Veccia?
- Perché non trovo. Tu, per esempio, mi vuoi?
Nannina si arrovesciò sulla gomena ridendo.
- Io?, fece, guardandolo fisso, con due begli occhi giallastri, luminosi e stanchi delle veglie d’amore,
ma io sono la moglie di tutti. Veccia mio, che te ne faresti di me?
Veccia la guardò serio.
- Con chi sei adesso, Nannina?
- Con nessuno, rispose la ragazza; sono stanca di farmi mangiare l’anima. Ora mi voglio far monaca.
- Non scherzare, Nannina, fece Veccia molto serio, tu dovresti metterti a posto una volta per sempre.
- E come, domandò la ragazza, sforzandosi di chiudere i suoi labbruzzi a ciliegia, che restavano
sempre, inevitabilmente aperti.
- Se vuoi ci mettiamo insieme.
- Per quanto tempo?
- Per… per molto tempo; e se tu sarai brava io ti sposerò.
Nannina si arrovesciò ancora ridendo di un riso superficiale, poi squadrò Veccia in faccia e nel corpo.
Non era certamente bello. E a lei piacevano gli uomini belli, alti, forti, con la pelle fresca, la
biancheria pulita: i sottufficiali gagliardi che le pagavano il cognac, e le cantavano sulla chitarra delle
canzoni esotiche; i viaggiatori di commercio ben vestiti, con grossi anelli e catene d’oro; gli studenti
d’università così ben rasati, coi baffi morbidi, che parlavano bene, e sentivano di odori delicati e
tabacco fine.
Vi erano delle esigenze estetiche negli amori di Nannina, una specie di gusto d’arte. Il guadagno ella
lo disprezzava.
Veccia invece era un marinaio tozzo, con una larga faccia solcata da rughe sottili e profonde, che
acquistavano un forte rilievo su quella pelle bronzina. Aveva appena toccati i quarant’anni, era sano e
buono, ma di carattere taciturno. Non aveva altra cosa al mondo che il suo cane e la sua barca, con la
quale trasportava da Reggio a Villa S. Giovanni, e da qui sulla costa siciliana, le cassette degli agrumi
dirette in Germania e in Austria, i bergamotti e i carichi d’olio e di grano. I suoi risparmi li depositava
alla posta vivendo con poco. Non frequentava neppure i suoi compagni perché, essendo soggetto ad
attacchi di mal caduco, bastava un bicchiere di vino per farlo andare in furore. Ed allora era terribile.
Una sera in una bettola, davanti piazza Garibaldi, dopo avere bevuti due bicchierini d’anice, venne
alle mani con un ferroviere, e poco mancò non l’uccidesse. Poi fu preso dal suo terribile male, e
rimase più di due ore sotto gli alberi a grugnire come un verro, e a masticarsi orribilmente la lingua.
Nannina ora lo guardava con curiosità, e al pensiero di diventare la moglie di quell’uomo tozzo,
brutto, ordinario che odorava di salmastro come un pesce, sentiva una specie di ribrezzo che le faceva
accapponare la pelle. Ma d’altro canto che vita cruda ed affamata era la sua! Vissuta giorno per
giorno, come una febbre, senza guadagni, perché essa disprezzava il denaro, senza casa, con la sola
gioia dell’amore goduto, che ardeva la sua vita come un fuoco, lasciando in fondo una cenere triste: la
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stanchezza e la malinconia.
- Stati attenta, disse Veccia, interrompendo la meditazione di Nannina, il polipo sale.
- Dov’è, domandò Nannina, avvicinandosi alla sponda della paranza e guardando ansiosa l’acqua.
- Guarda, vedi quell’ombra giallognola laggiù, vicino al molo?
Rasente al muraglione, coperto di alghe e di ricci marini, si scorgeva una macchia giallastra,
fluttuante, che saliva con i movimenti flosci dei tentacoli verso la superficie. Quando fu più vicino
Nannina scorse gli occhi dell’animale spalancati sotto la cortina d’acqua, e diede un grido di
meraviglia e di paura.
Veccia brandì la fiocina, e quando lo credette a tiro, la vibrò con forza, ritraendola rapidamente.
Sulle punte della fiocina si agitavano convulsamente i tentacoli mollicci, grondanti, aggrappandosi e
sgrovigliandosi con una vicenda spasmodica.
- Magnifico! disse Veccia osservandolo.
Nannina rideva e batteva le mani, con gli occhi meravigliati.
- Me lo dai, Veccia, chiese la ragazza; lo mangerò questa sera.
- No, cara; se vuoi, vieni a mangiarlo con me.
- Dove?, chiese la ragazza.
- Qui nella barca.
- Quando?
- Stasera. Cucinerò io, e sentirai che gusto.
Nannina rimase un po’ interdetta. Poi con un gesto rapido si alzò in piedi.
- Va bene, disse, questa sera aspettami. Verrò.
- Verrai davvero?
- Sull’anima mia. Addio Veccia.
Salì sulla tavola e a piccoli passi svelti scomparve sotto gli alberi d’acacia della capitaneria.
Come fu sera, Veccia che aveva preparati i polipi con ogni cura, si sedette in coperta, legò il cane
nella stiva, e stette ad attendere un po’ malinconico.
Già all’estremità del molo brillava la lanterna rossa del faro. Sui fianchi del vapore postale si erano
accese tutte le luci, e qualche lampadina chiara tremolava sul ponte e nelle antenne. Veccia spiava lo
spazio tra il pontile del Ferry-boat e la stazione, per vedere se, nel chiarore che gittavano i lumi degli
uffici, attraverso le porte aperte a due battenti, passasse la figura snella ed elegante di Nannina. Un
impiegato apparve, su uno di quegli usci fumando una sigaretta. Veccia ne fu contrariato. Se Nannina
fosse passata in quel momento; quell’impiegato le avrebbe parlato, forse anche l’avrebbe seguita.
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L’impiegato rientrò.
- Non viene più, disse Veccia tra sé, guardando la collana di lumi che ardevano lungo il viale, oltre la
capitaneria; quando udì il tic-tac di un passo affrettato sotto la tettoia, e tra la mole nerastra di una
locomotiva, ed un enorme cubo di sacchi di zolfo accatastati sul molo, vide sbucare una silhouette
femminile. Era lei.
Nannina si avvicinò rapidamente alla paranza e chiamò a bassa voce: "Veccia!".
- Nannina, fece il marinaio, mettendosi ai piedi della tavola. Ti aspettavo.
- Mi aspettavi?, disse la ragazza; e quando fu nella barca domandò subito: hai preparati i polipi?
- Sì, andiamo.
Scesero nel ventre della paranza. Veccia aveva preparato sopra un asse la sua tavola, con tutta la cura
un po’ goffa che mettono gli uomini nelle bisogne donnesche. Aveva stesa su l’asse una tovaglia, e
sulla tovaglia aveva posti dei piatti di creta smaltata, a piccoli fiorellini verdi, un bicchiere, un fiasco
di vino e delle forchette di ferro. Vi si avvertiva, con l’odore di acre salsedine caratteristico delle stive,
un odor di cucina, in cui predominava il sentore dell’aglio ed un acuto profumo di serpillo.
Si sedettero allegri, e poiché Veccia ebbe scodellato il cotto, un intenso odore vinse quello della
salsedine, ed eccitò l’appetito. Mangiarono ambedue sorridendosi come due amici, chiacchierando e
commentando la bontà della pietanza. Veccia mesceva il vino, ed offriva il bicchiere colmo a
Nannina.
- Tu non bevi?
- No... a me fa male; bevi tu.
Nannina mangiò e bevve con voracità, allegra, lanciando dei frizzi a Veccia che le stava davanti un
po’ cupo, oppresso dal desiderio. Finita la cena risalirono in coperta. Nannina aveva la faccia accesa
per calore della stiva e per il vino tracannato, e si sentiva un po’ annebbiata la testa.
- Vuoi una fetta di anguria?, chiese Veccia.
- Sì, disse la ragazza, andiamo a mangiarla insieme.
Salirono sul molo, passarono davanti la stazione, ed uscirono sul piazzale, davanti la capitaneria. In un
angolo, sopra una tavola stava ritto un uomo in maniche di camicia e alle sue spalle, sotto una specie
di tenda, si levava un grosso mucchio di angurie. Vicino al lume vi era una tagliata a metà, rossa come
un sorbetto di fragola. Veccia chiese due fette, e ne porse una a Nannina, che ne addentò golosamente
la polpa succosa.
Dopo averla mangiata, ripassarono il pontile e si avviarono lungo il molo. Girarono intorno al faro, e
si andarono a sedere sopra uno di quei massi di calcestruzzo che guardavano verso la costa siciliana.
Messina ardeva nella sua triplice fila di lumi, in un alone di chiarori, fino a Ganzirri; più là altri lumi
segnavano altri centri abitati. Sulle Madonie, tagliate come una linea turchina, immateriale nel cielo
verdognolo, ardevano delle grosse stelle rare.
Dal largo veniva un suono diffuso di correnti, ed una brezza refrigerante.
Nannina si sedette, come imbambolata, vicino a Veccia che le diceva delle parole smozzicate.
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- Nannina, hai pensato a quello che ti ho detto oggi?
- Sì, ci ho pensato, rispose la ragazza, e poiché sotto l’influsso del vino tracannato era presa da un
ardente desiderio, gli passò un braccio intorno al collo. Veccia la serrò nelle braccia e la baciò sulle
guance sussurrandole amorosamente: "Piccolina mia, perché non vieni con me? Io ti farò stare come
una signora; nulla ti mancherà, quanto è vera la Madonna della Consolata".
- Sì, sì…, faceva Nannina abbandonandosi; sposami subito, sono stanca di far questa vita che faccio.
Veccia ebbe un tremito. Staccò da sé violentemente la donna e le chiese accigliato.
- Ma dimmi, Nannina… per l’anima tua, sei proprio stanca? Se ti prendo con me farai il tuo dovere?
- Sì… sì… ripeteva macchinalmente la ragazza abbiosciandosi su lui… sono tanto stanca… tanto…
tanto… tanto… - e si mise a singhiozzare.
Veccia oppresso e smarrito la strinse ancora, e come la donna gli si abbandonava inerte, la prese in
braccio e la portò di peso nella barca.
Per la festa di mezzagosto Veccia e Nannina erano sposati.
Nella casa a Reggio Campi Nannina era diventata una mogliettina adorabile, premurosa, pulita; aveva
portato nella vita di Veccia un profumo di giovinezza a lui sconosciuto.
Veccia diventava casalingo, e l’amore della donna andava gradatamente sostituendo in lui l’amore
della barca e delle solitudini marine. Attiguo alla casa, ad oriente, Veccia aveva un orto, che quando
egli era solo, non si era mai curato di coltivare. Due peschi, un mandorlo, un susino e due piante
d’arancio crescevano quasi inselvatichiti, tutti avvampati e divorati da una miriade di rami secchi e di
polloni stenti.
Verso il declinare dell’inverno li potò e con essi potò e foggiò a pergola una vite maestosa di uva di
Lipari. Poi dissodò il terreno, piantò lattughe, agli, cipolle, e per la prima volta in vita sua, dopo avere
per tanti anni amata la grazia e la fioritura mutabile delle schiume, sentì di amare la terra e la
primavera.
Dopo un anno, verso la fine di marzo, Nannina ebbe un figlio; un bel bambinone grosso e roseo come
un bocciolo di rosa. La felicità nella casa di Veccia fu grande, e grandi furono le feste; tanto che i
vicini, malignando sul passato di Nannina, brontolavano: "Che forse è nato il principe ereditario? Chi
sa quanti padri avrà quel piccino. È tanto bello! Possibile che un tappo di sughero come Veccia, con
quella sua faccia corta e rincagnata, potesse mettere al mondo un figlio così?".
Ma erano tutte dicerie senza consistenza, e i primi ad esserne persuasi erano quelli che le mettevano in
giro.
Nannina, da quando si era messa con Veccia, era diventata lo specchio delle amanti. Della sua antica
vita non le rimaneva che una leggera ed istintiva civetteria nell’abbigliarsi e nel trattare. Per il resto la
vecchia Nannina pareva morta per sempre.
Ora le piaceva vedersi nella sua buona casa tutta sua, messa con una certa eleganza, con le tendine
stirate, i garofani e l’origano alla finestra, il grande armadio a specchio, nel quale essa amava
contemplarsi tutta dalle scarpe ai capelli, il letto con il lenzuolo di tela d’Olanda, che sul risvolto
portava, entro una ghirlanda di ricami, l’augurio: "buon riposo".
Aveva tutto quanto era necessario, ed anche qualche cosa di più.
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Le calze di filo di Scozia? Il suo uomo le portava un paio ogni volta che andava a Messina. Di velette
ne aveva quattro, e due bellissimi scialli di lana azzurra, che quando andava alla messa nella chiesa
delle Rosine, la facevano somigliare ad una madonnina. I vestiti non le mancavano. Era stata sempre
ambiziosa per le belle scarpette. Ebbene, ora ne aveva quattro paia: fra cui uno di copale ed una di
pelle cobrata, che le facevano un piedino adorabile.
Cosa le mancava dunque?
Qualche cosa veramente sentiva le mancasse, ma era una cosa torbida, alla quale si sforzava di non
pensare mai.
Le mancavano le terribili febbri della carne, quelle attese così dolci e dolorose, all’angolo di una via
in ombra, di un uomo che si ama, che si desidera con ansia, quelle risse furibonde che la lasciavano
vinta e disfatta, e le chiudevano gli occhi, in un abbandono dolce come una bella morte.
Ora le sembrava di non esser più giovane. Le febbri erano finite, l’amore era diventato un’abitudine
calma e senza spasimi. Si sentiva ingrassare, diventare rotonda e un po’ tarda, e i suoi labbruzzi
piccoli e rosei come due metà di una ciliegia si coloravano di un sangue riposato e gagliardo.
Veccia le voleva tanto bene.
Ma Veccia, ora che aveva un figlio, stava tanto poco in casa. La maggior parte dei giorni Nannina li
passava sola. Accudiva alla casa, ripuliva il bambino; qualche volta nell’orto lavava i pannolini e
cantava. Le canzoni erano quelle di una volta, ma passavano nella quiete tranquilla dell’orto e
dileguavano: lo scenario non era adatto a risuscitare le febbri dell’amore impetuoso. La pergola
frusciante al vento che veniva dal mare, il mandorlo, i peschi e tutta quella ortaglia tranquilla, si
conciliava con la pace del cuore, la calma dei sensi, e col vivere quasi agreste, su quella collina tutta
bella di ulivi, di orti e di alberi in fiore.
Nei pomeriggi Nannina stendeva davanti all’uscio di casa una stuoia e sopra sdraiava il bambino, che
bisbigliava come un passerotto, agitando le manine e le gambette rosee, e spalancando verso il cielo
profondo due occhietti smagati color d’acqua con latte. Essa rammendava dei vestiti, o faceva la
calza. L’aria era morbida e tiepida come la pelurie di un nido; il mare ora schiumava e lampeggiava
fragoroso, tutto fiorito di fiocchi candidi, ora s’increspava appena, e pareva correre verso il sud come
un fiume.
Contro la casa, sopra un piccolo poggio, si vedeva biancheggiare la casermetta della polveriera, con in
alto l’antenna sottile del parafulmine, e sull’angolo la garitta dipinta di grigio.
Nannina era allegra, si sentiva esuberante di salute e quasi oppressa dalla troppa dolcezza dell’aria, e
dalla tranquillità immutabile di quella vita casalinga. Una sottile impercettibile nostalgia le si
affacciava timidamente nel fondo del cuore, ma come il suono di un oboe con la sordina in una grande
orchestra. Nostalgia di che cosa? Non sapeva neppure. Era come se un ricordo di suoni e di giuochi
giovanili, di sapori gustati in un tempo di festa, le passasse nella memoria, tentando di trascinarsi
dietro il cuore, Nannina scrollava la testa, e mandava via i pensieri molesti guardando il suo piccolino
che gorgogliava sulla stuoia sgambettando, con un verso sempre eguale come quello di un giocattolo
meccanico. Gli sorrideva, gli faceva dei segni con la mano e con la testa garrendo: il piccino la
cercava con gli occhi estatici, la fissava, poi apriva le labbra ad uno di quei sorrisi dei bimbi che
hanno la grazia inconsapevole degli spettacoli naturali.
Un giorno mentre Nannina agucchiava intorno ad un paio di calze un po’ ragnate, ed il piccino garriva
ai suoi piedi, passò davanti alla sua casa un drappello di soldati che andavano a dare il cambio alla
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guardia della polveriera. Li guidava un sergente, bel giovanottone alto, biondo e con un bel paio di
baffi all’aria. I soldati passarono cantando; il sergente attratto non so se più dalla madre che dal
bambino, si avvicinò e chinatosi su la stuoia, cominciò a vezzeggiarlo.
Nannina sorrideva contenta, e quando il sergente si rialzò e la salutò, si fissarono un istante negli
occhi. Nannina aveva addosso una camicetta di mussola a grossi acini azzurri, e come questa era un
po’ aperta davanti, mostrava un angolo del suo petto bianco e turgido. Lo sguardo del sergente la
circondò tutta come una fiamma, e Nannina si sentì stranamente turbata. Quando quello si fu
allontanato sollevò il bambino e rientrò in casa.
Gli occhi azzurri un po’ barbarici, di quel sergente avevano prodotto nel suo spirito l’effetto di una
pertica che rimuova il fondo d’un’acqua limacciosa: la melma gorgogliando sale a spire rapide, gonfie
come le nuvole di un temporale. Una falange di pensieri e di sensazioni tumultuose si addensarono nel
cervello e nel cuore di Nannina. Per distrarsi uscì nell’orto e si mise a cantare, ma dovette rientrare
subito più turbata che mai: sul poggiolo, davanti alla casermetta della polveriera, il sergente ritto e
attento la stava a guardare. Quella notte Nannina non dormì; Veccia era lontano con la paranza, e lei
sola nel letto, ebbe continuamente l’impressione che qualcuno girasse intorno alla casa e toccasse la
porta, e spiasse dietro il cancello dell’orto.
Verso mezzanotte passarono nella via alcuni operai con la chitarra cantando.
O vento portami lontan lontano.
Nannina scoppiò in un pianto angoscioso e irragionevole; tutti i vecchi ricordi l’assalirono come
spiriti perversi: i sapori acri dei vecchi amori, le veglie ardenti in compagnia dei sottufficiali che le
offrivano il cognac, e ballavano a turno il tango argentino, le notti d’amore trascorse con degli
sconosciuti, bei giovani aitanti, che la divoravano di baci fino al delirio, e parlavano dialetti a lei
sconosciuti, dando un profumo nuovo ed eccitante alle dolci parole dell’intimità. Terribile vita ma
vita, che aveva tutti i sapori e tutte le ansie della giovinezza.
Cosa era diventata adesso la sua esistenza? Ingrassava come una quaglia, ma la dolcezza dell’amore
non la conosceva più.
Dopo quel giorno, quasi tutti i pomeriggi, il sergente, passando davanti la casa di Nannina, si fermava,
e scambiava con lei qualche parola. La chiamava madamin e da ciò ella aveva capito che era
piemontese.
Da principio erano complimenti al piccino, poi i complimenti si estesero alla madre: piccole
schermaglie che a Nannina mettevano nel sangue una febbre perversa.
Una sera di settembre che Veccia era a Villa S. Giovanni per certi carichi, il sergente chiese a Nannina
un convegno. Si trovarono nell’orto e fu una resa rapida e furiosa. Nannina ritrovava se stessa.
Dopo quella sera, tutte le notti che Veccia era via con la barca, Nannina le passava col suo sergente,
dimentica di sé, come fuori dal mondo. La vecchia Nannina, la donna irregolare e randagia, assetata di
esperienze sempre nuove, riviveva in lei con l’impeto dei venticinque anni. Anche il figlio in quella
rinascente febbre dei sensi, le diventava indifferente; era una specie di episodio gentile ma secondario,
che non poteva influire sulla sua natura. Non è a dire che non l’amasse. Oh! essa lo amava il suo
piccino; ma quando veniva l’ora del convegno col suo sergente, e il bambino miagolava prima di
addormentarsi, essa montava in furore, e lo batteva per fino, accomunando in una serie di ingiurie il
piccolo e suo padre.
Per la quaresima Veccia fece un lavoro infernale con la barca, e guadagnò un mucchio di quattrini: gli
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agrumi quell’anno erano stati abbondanti e partivano a tonnellate nelle cassette per la Germania.
L’ultimo viaggio lo fece il giovedì santo, e lasciato il carico la sera del venerdì a Messina, volle
partire a tutti i costi, perché voleva fare la Pasqua in casa.
Il mare era tremendo! Lo stretto ribolliva come un’immensa caldaia e le montagne di schiuma,
sfioccandosi fragorosamente nell’aria, la riempivano di una nebbia umida e tagliente.
La barca, trascinata dalle correnti fortissime dovette accostare verso Catona, e a stento, solo verso le
tre del mattino, riuscì ad entrare nel porto. Veccia, mezzo morto, tutto inzuppato d’acqua, intirizzito,
licenziò i tre marinai suoi compagni, e lasciato il cane a guardia della paranza, si diresse verso casa.
I lumi a gas lungo la via di Reggio Campi languivano fiochi, e le case erano ancora tutte sepolte nel
sonno. Nell’aria veniva la voce sonora del mare, che rombava incessantemente rompendo sulla
spiaggia.
Veccia bussò alla porta di casa sua con un senso di conforto. Attese un poco, e sebbene gli fosse parso
di udir del rumore non ebbe alcuna risposta. Bussò ancora chiamando: Nannina.
- Chi è, rispose Nannina da dentro con voce roca.
- Apri, sono io.
Veccia sentiva all’interno uno stropiccio, un bisbiglio, qualche cosa di agitato e di febbrile.
- Che diavolo fai, Nannina, non apri?
- Un momento che mi vesta, rispose irritata la donna.
Era quasi un quarto d’ora che Veccia era davanti alla porta, ed essa non si apriva. Continuavano
invece i rumori all’interno, circospetti, ma inquieti… A un tratto un uscio, l’uscio che dava nell’orto,
scricchiolò un istante, poi s’udì nella calma perfetta della notte come un passo cauto; ancora il rumore
strisciante del cancelletto di legno, e quindi una fuga leggera e precipitosa…
Veccia ebbe la sensazione che il terreno gli mancasse sotto i piedi.
Intanto Nannina venne ad aprirgli stralunata, deglutendo spasmodicamente e con un gran tremito nella
voce e nelle mani. La porta che dava nell’orto era ancora aperta, e sotto una sedia, vicino al letto,
luccicava qualche cosa.
Veccia, stralunato anche lui, fissò un istante la moglie.
- Dormivi con la porta aperta?, le chiese; e intanto si chinò a raccattare quella cosa luccicante sotto la
sedia.
Era un cinturino militare.
Balzò come un lupo verso la donna e l’afferrò per le braccia scuotendola con furore.
- Chi c’era qua dentro con te?
- Nessuno, rispose la donna, svincolandosi con impeto.
- E questa che cosa è?, chiese ancora Veccia con gli occhi sinistri, mostrandole la cintura che aveva
raccattato sotto la sedia.
Nannina si vide perduta: discinta com’era balzò tra il letto e Veccia, e scomparve di corsa dietro la
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porta che dava nell’orto. Veccia con un ruggito tentò raggiungerla, ma su gli occhi gli calò una nebbia
rossa, e cadde senza conoscenza sul pavimento.
Quando si destò entrava nella stanza il primo chiarore cinereo dell’alba. Il bambino nella culla
piangeva adagio, con un verso uniforme, come un gattino. Veccia si alzò stralunato e intirizzito, si
guardò intorno ed ebbe un subitaneo orrore di quella casa: una ripugnanza invincibile lo spingeva
fuori da quei muri, dove le vestigia di sua moglie lo sconvolgevano come la presenza di una cosa
immonda. Non vi era altro che gli appartenesse al di fuori di quel bambino, che pareva stesse già a
disagio anche lui, e si lagnasse implorando.
Si avvicinò alla culla, col cuore che gli scoppiava, la testa in fiamme, contemplò un istante il bambino
che agitava i piccoli pugni chiusi sul volto contratto, lo sollevò d’impeto, lo avvolse in una pelle di
pecora che copriva il piccolo lettino, e fuggì nella strada come inseguito.
Era l’alba. Il mare di un grigio argenteo accoglieva già i primi chiarori del giorno, muovendosi come
una immensa corrente verso il Sud.
Il suo rombo sonoro riempiva il silenzio mattinale. I lumi si spegnevano ad uno ad uno. Dalla
campagna giungeva un cantare alternato di galli, e su, verso il cimitero, si udivano già tinnire i
campanelli delle capre, che portavano il latte in città.
Il bambino avvolto nella pelle, e sballottato dal ritmo rapido di suo padre, si era taciuto, e Veccia
correva stringendosi al petto, come fuori di sé. Passò davanti l’ospedale, entrò nel greto di un torrente
incassato entro due alti muraglioni, e sbucò sulla via del porto.
Improvvisamente dal campanile del Duomo partì un rombo, il rintocco della campana grande. Passò
rapido nell’aria mossa dal vento, si ripeté due o tre volte come per accordarsi con la voce del mare,
poi ruppe in uno scampanio vasto e gaudioso, lo scampanio dell’alleluja. In breve tutta l’aria vibrò
della sinfonia immensa delle campane pasquali: il Carmine, Santa Lucia, San Filippo, Santa Caterina,
Archi; da ogni angolo del cielo lo scampanio giungeva ad onde col vento saliva, radeva con le raffiche
le case ancora addormentate, annunziando la resurrezione del Signore.
Nelle case i ragazzi si destavano, agguantavano avidamente la sguta con l’uovo e la salsiccia, e
l’addentavano garrendo. Tutto era in festa, anche il cielo che, come spazzato dalle onde dello
scampanare festoso, dietro il forte di Pendimeli, era diventato abbagliante. Il Signore è risorto,
parevano dire le campane, ogni cuore si rallegri, con la quaresima triste dilegua l’inverno, la terra
fiorisce, il mare si fa più bello, i profumi tornano nei campi, i nidi sugli alberi, le rondini ai tetti e ai
campanili, le zagare su gli aranci e i limoni, i tonni e i pesci spada nello stretto.
Al povero Veccia quelle campane tagliavano il cuore a fette. Ansimando, come un uomo rincorso da
una belva, aveva raggiunta la sua barca, e tanto era stanco, che si dovette sedere sopra una duglia per
prendere fiato. Il suo cane gli era corso incontro, ed ora scodinzolando, con gli occhi inquieti, gli
leccava le mani, annusava il piccolo che si era rimesso a piagnucolare; e poi gli girava intorno con un
uggiolio affettuoso.
Il pianto del bambino si faceva sempre più forte. Veccia gli toccò delicatamente i labbruzzi, con le sue
grosse dita, accostò alla sua la faccia tiepida e fine del piccolo, ne ascoltò il respiro, e fu invaso da un
senso terribile di ribellione.
Sì, avrebbe lasciato il bambino nella barca, sotto la guardia del cane, e sarebbe ritornato a casa in
cerca di Nannina. Dovunque l’avesse incontrata l’avrebbe stracciata coi denti. Tentò alzarsi in piedi,
ma la barca gli cominciò a girare di sotto; una nebbia rossa gli appannò la vista, ed una contrazione
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spasmodica, la terribile contrazione che egli ben conosceva, gli attanagliò le mascelle. Traballò,
precipitando verso l’orlo della barca, strinse il bambino convulsamente sul petto, e piombò come un
ubriaco nell’acqua. Il cane, disorientato, gittò nel vento due o tre latrati furiosi, spiando il luogo nel
quale era sparito il padrone, poi si tuffò in acqua e disparve anche lui.
Quando il sole spuntò sulla cima di Pendimeli, Nannina avvolta in uno di quei suoi scialli di lana
azzurra che la facevano tanto graziosa quando andava a messa, arrivò trafelata sul molo, e si provò a
scendere nella paranza di Veccia; quando starnutendo, intirizzito, col lungo pelo gocciolante, le corse
incontro il cane che veniva da in fondo al molo. Le scodinzolava intorno guaendo, la guardava coi
dolci occhi color d’agata, poi correva verso la lanterna, balzava tra i massi, e scompariva, per
ricomparire ancora latrando e scodinzolando.
Nannina, tutta smarrita e disorientata, lo seguì tra i massi di calcestruzzo, e ai piedi di uno di essi, che
guardava verso la costa siciliana, vide…
Vide una specie di fagotto scuro tra l’acqua e l’arena.
Veccia, raggomitolato nella terribile contrazione del morbo sacro, dormiva col suo bimbo in braccio.
Un lieve ondeggiamento qualche volta gli diffondeva intorno una frangia di schiuma.
LA RAGANELLA DI SAN PASQUALE
L’ultima macchina dei fuochi d’artificio, una pittoresca macchina di canne e di razzi, rappresentante
qualche cosa tra la facciata della chiesa romanica e il castello medievale, si disfaceva sgretolandosi
con uno sfrigolio d’incendio e soffiando verso il cielo di un bell’azzurro notturno gli ultimi fasci di
scintille, quando Lisabetta, salutati i parenti che si godevano lo spettacolo da sopra un poggiolo, si
ritirò nella sua camera, chiuse la finestra e s’inginocchiò davanti una cassa per dire le orazioni della
sera.
Recitò così l’Angelus, indi alcune avemarie, ma fu subito distratta dagli ultimi clamori della festa. I
contadini, con fischi acutissimi, assaltavano la macchina già spenta per impossessarsi dello spago
incatramato che teneva insieme le canne dell’impalcatura; la musica aveva intonata una canzonetta
sopra un motivo di tarantella, e molte voci cantavano sulla piazza.
Lisabetta si distrasse: la preghiera le morì sulle labbra, mentre la sua mente veniva occupata da nuovi
solleciti pensieri. Appoggiò i gomiti sulla cassa, il viso alle palme, e con gli occhi fissi alla fiammella
del lume ad olio che tremolava, esalando un sottilissimo filo di fumo sulla punta aguzza, si mise a
fantasticare.
Il tedio della festa aveva assalita la giovane e bella vedova prima che annottasse. Dopo la morte di suo
marito avvenuta appunto in quel mese, allora faceva un anno, ella non aveva più preso parte neppure
alle solennità religiose; si era isolata e passava il suo tempo sfaccendando in casa, tessendo al telaio e
pensando al morto. Quel giorno la prima volta, per cedere alle insistenze del suocero e di un cugino
venuto da San Luca per la fiera di San Vito, si era recata alla messa grande, aveva visitato il mercato,
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ed aveva anche accettata un’orzata che il cugino le aveva offerto, insieme con un pugno di confetti
mandorlati. Erano stati appunto quei confetti, col loro profumo di nozze, che l’avevano richiamata alla
malinconia e ai ricordi dolorosi.
"Che vuoi morire di crepacuore?" le aveva detto il cugino prendendola per una mano, e fissandola
negli occhi con una premura troppo eloquente per non essere compresa; "lo so che gli volevi bene; ciò
ti fa onore. Ma cosa vuoi, cara mia, la morte non rispetta nessuno. Non sei tu sola ad essere stata
colpita; bisogna fare la volontà di Dio". Tu ora sei giovane, sei bella come il sole, non puoi passare la
vita a piangere, serrata in casa come una monaca".
Lisabetta aveva alzato un istante in volto al cugino i suoi begli occhi color nocciola, e li aveva
riabbassati rapidamente arrossendo fino alle orecchie. Sebbene quei discorsi la irritassero, ella si
sentiva presa, ascoltandoli, da un turbamento sottile e fastidioso, come sono fastidiose in genere le
cose di cui si teme.
"Che cosa debbo fare?" disse la vedova, abbozzando un amaro sorriso e ritirando la mano; "vuoi che
mi vesta di rosso e che mi metta a ballare?".
"Non dico questo" fece il cugino, "ma dico ch’è venuto il tempo che tu pensi al tuo avvenire. A
ventitré anni non si può restar sola in casa".
"Io non sono mai sola disse con un fil di voce Lisabetta, e voleva aggiungere ch’era sempre
accompagnata dalla memoria del morto; ma gli occhi le si riempirono di lacrime e non poté dirlo.
Tutte queste cose le tornavano ora alla memoria mentre, con la mente svagata nella malinconia della
sera festiva, fissava il lume come una cosa misteriosa, dalla quale dovesse venirle un suggerimento e
un consiglio.
Ella sapeva che suo cugino l’aveva chiesta in moglie al suocero, sotto la tutela del quale ora viveva,
non avendo più alcuno dei suoi parenti diretti; ma non vi era nulla che contrariasse la giovane vedova
quanto l’idea di rimaritarsi. Lisabetta aveva amato suo marito di un amore unico al mondo, uno di
quegli amori che non si ripetono due volte nella vita di una donna. Erano stati tanto poco insieme, che
del periodo matrimoniale rimaneva nella sua memoria il ricordo come di un sogno, un bel sogno che
si chiuda con uno scoppio di pianto. L’aveva visto morire, il suo uomo, come un fiore in un vaso,
giorno per giorno, sicuri l’una e l’altro della sua morte, come erano sicuri della luce del giorno. Il
morbo era di quelli che non perdonano, e di fronte ai quali i medici non possono fare altro che
constatare i progressi inesorabili. A questo punto le tornava a mente un ricordo che la riempiva di
amarezza e di tedio. Ricordava come fosse adesso. Era un pomeriggio di giugno; ella si trovava sola
col malato, e mentre gli scacciava le mosche con una ventola di carta, quello aveva voluto
intrattenerla parlando serenamente della sua morte imminente.
"Io morirò" diceva lui, carezzandola con passione sui capelli; "questa è una cosa certa, perché non
discorrerne? Io morirò, e tu rimarrai vedova a ventidue anni, con tutta la vita davanti a te da godere.
Naturalmente ti rimariterai, ed amerai un altro uomo in vece mia".
"Perché pensi a questo?" aveva detto lei con un nodo alla gola, "non mi credi capace di esserti fedele
dopo la morte?".
"Eh, mia piccina" aveva mormorato sconsolatamente il marito, "i morti coi morti!… E poi io non
vorrei neppure che tu mi fossi fedele fino a quel punto. Solo vorrei…".
Si era arrestato cercando gli occhi di lei con una perplessità umile e ansiosa.
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Ella lo aveva fissato con uno sguardo che pareva dicesse: domandami quello che vuoi, lo farò.
"Solo vorrei che tu mi ricordassi qualche volta dopo morto. Ci siamo voluti tanto bene, e ci separiamo
così presto…".
"Ascoltami:" aveva detto Lisabetta "facciamo un patto. Tu promettimi che dopo morto mi verrai di
quando in quando a visitare".
"E come?" disse lui con un amaro sorriso.
"Come? Nel modo che Dio ti consentirà. A me basta un segno qualunque. Non vivono i nostri morti
con noi in mille modi? Vienimi in sogno, svegliami col rumor di un tarlo, diventa un passero, un’ape,
insomma quel che Dio vorrà, e fa che io t’avverta. Così potrai constatare da te se io ti ricordo e ti
penso anche dopo che sarai morto".
Il malato rifletté un istante, con una strana luce negli occhi febbricitanti, poi disse:
"Sì, chiederò al Signore che mi consenta di farmi sentire da te col suono della Raganella di San
Pasquale. Quando sentirai quel suono sul tuo capezzale sarò io che ti sarò vicino".
Qualche volta, di notte, specialmente nelle case popolane, dove le pareti sopra il letto sono spesso
tappezzate d’immagini di santi, le donne odono un ticchettio minuto come prodotto dalle ali di un
insetto. È la Raganella di San Pasquale, dicono, un segno ammonitore di avvenimenti tristi o lieti che
si preparano per la famiglia. Se il ticchettio è rapido ed inquieto, cattivo segno; una disgrazia è
imminente. Se il suono è invece ritmico e uguale, gli avvenimenti saranno lieti.
"Vuoi, cara?" le aveva sussurrato lui baciandola sulla guancia, "non avrai poi paura quando sarò
morto?".
"O anima mia, paura di te?" aveva risposto Lisabetta; e lo aveva abbracciato piangendo.
Era la novena di Sant’Antonio. Nella strada, mentre essi parlavano così tranquillamente della morte,
passavano i tamburi che precedono il vespro. Poi lui il diciassette era morto, e la giovane vedova era
rimasta sola e inconsolabile nell’attesa di rivederlo in sogno, di udire sul capezzale il ticchettio
convenuto che le annunziasse la presenza del suo caro trapassato. Ma quello non aveva mantenuta la
sua promessa. Non una sera era passata senza che lei, dopo la preghiera, non lo invocasse
appassionatamente. Si segnava, si accucciava sotto le lenzuola e tendeva l’orecchio per udire se, tra i
varî rumori che incrinavano il silenzio notturno, non venisse da sopra il suo letto il tic tac precipitoso
e monotono della Raganella di San Pasquale. Assolutamente nulla! Nella cassa che conteneva il
corredo nuziale qualche tarlo faceva udire il suo rodio lugubre e fastidioso; qualche topo passava in
corsa precipitosa sull’embrice; e l’assiolo cantava negli orti, ma la raganella non l’aveva mai udita.
Il suo cuore si riempiva di tristezza. Neppure in sogno l’aveva mai riveduto.
"E in sogno perché no?" diceva Lisabetta tra sé, assolutamente persuasa che i sogni fossero, più che
ogni altra cosa, nel dominio dei morti. "Una volta sola perché io possa rivedere il suo volto, quel caro
volto che si appannava inesorabilmente nella sua memoria, come una immagine riflessa in uno
specchio sul quale passa un alito caldo.
"Neppure quello! Ahimè, i morti non pensano più ai vivi; essi sono nel mondo della verità, e non si
curano più di noi. Tutto quello ch’è terreno non li tocca più; un muro di bronzo separa la nostra dalla
loro vita, ed ogni corrispondenza coi trapassati è una mera illusione. E allora perché serbarsi fedele a
chi non appartiene più a questo mondo, e non si cura di noi più di quanto noi non curiamo le cose che
non abbiamo mai vedute? Meglio è vivere, amare ancora, godere la gioventù ch’è bella e non ritorna".
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E lei era tanto giovane, e si sentiva spesso tanto turbata anche dal profumo del vento e dalla vista di
un fiore.
Ora suo cugino l’aveva chiesta in moglie. Era un bel giovane gagliardo, ricco: perché non accettare
quella felicità? A lei piaceva molto, e quel giorno, quando sulla fiera l’aveva presa per mano,
Lisabetta si era sentita in cuore quella specie di sbigottimento che precede l’amore e del quale sentiva
ora una così sottile e misteriosa nostalgia.
Intanto che volgeva questi pensieri nella mente, Lisabetta si era levato il busto e la sottana, poi si era
seduta sul letto – un lettuccio con un saccone ripieno di paglia d’orzo, che aveva preso il posto del
letto matrimoniale disfatto – si era segnata, e dopo avere baciato con la mano una immagine della
Madonna di Seminara che teneva inchiodata con quattro bullette al muro, sul capezzale, si era cacciata
sotto il lenzuolo smorzando il lume.
Ma si era appena adagiata che udì sul suo capo un piccolo rumore secco, sordo come per il battere
dell’ala di un calabrone sopra una foglia. Si mise in ascolto trattenendo il respiro: il suono diventò
rapidissimo, insistente, quasi rabbioso.
"Ah, Vergine Maria!" fece Lisabetta sbigottita, "la raganella di San Pasquale!".
Un brivido di freddo le contrasse la radice dei capelli, il cuore le cominciò a battere furiosamente.
"È lui" disse stringendosi convulsamente le mani sul petto, "è lui! È venuto a trovarmi nel giorno in
cui per la prima volta gli sono stata infedele sia pure con un pensiero fuggitivo. Dunque mi è stato
sempre vicino, mi ha sorvegliata, ha voluto provare la mia fede".
In tante sere che lo aveva invocato e chiamato con il desiderio del cuore, non aveva mai pensato alla
possibilità di aver paura della sua presenza invisibile. Le sembrava che, se lo avesse avvertito vicino,
si sarebbe sentita piena di gioia, che gli avrebbe tese le braccia nell’ombra, come se fosse ritornato a
lei vivo e felice, ed eccola invece in preda a uno spavento indicibile, sbigottita davanti a quel
ticchettio precipitoso, come si è sbigottiti davanti al mistero inviolabile dei morti.
"Anima mia" mormorò rivolgendosi al marito, quasi ch’egli l’avesse potuta udire, "lasciami, non mi
dare spavento!".
E si nascose quanto più poté sotto il lenzuolo, tremando, con un sudor freddo che le bagnava la fronte
e il petto.
Il ticchettio della raganella riempiva ora l’ombra come il suono di un tamburo. Il buio si animava,
sembrava brulicasse di ombre; una presenza terribile come un incubo era intorno. Ella credette di
vedere il morto con la sua faccia emaciata, le labbra livide, semiaperte nell’ultimo respiro, e quella
espressione di misteriosa sofferenza che si stende sul volto dei trapassati, e che pare derivi da un
dolore non più umano.
A un tratto il coraggio l’abbandonò del tutto. Allontanò da sé con un impeto delle braccia il lenzuolo,
balzò a sedere, spalancò gli occhi e volle gridare, ma la voce le morì in gola ed ella cadde sul lettuccio
come una morta.
Quando rinvenne, i pallidi chiarori dell’alba entravano per le fessure della finestra nella stanza
silenziosa. Alcuni passeri pigolavano sui tetti con un ciangottio sommesso, poi cantarono dei galli e si
udirono delle voci di uomini che partivano coi loro asini per la campagna. La stanzetta rigata di sottili
liste di luce rosea sembrava ancora attonita delle paure notturne. L’immagine della Madonna di
Seminara attaccata alla parete, con gli occhi chiari nel volto nero di mora e gli ori visibili della corona,
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sembrava un idolo misterioso che le rimproverasse qualche cosa.
Lisabetta scese dal letto barcollando come una ubriaca ed aprì la finestra. L’aria era piena di una luce
riflessa che veniva dal mare, dove un vasto incendio di nuvole trasformava le acque lontane in oro
liquefatto. La brocca di terracotta, attaccata a un chiodo nel vano della finestra, era rorida di gocciole
come una foglia al mattino. Due pianticelle di origano tremavano sul balcone in un vecchio tegame
pieno di terra. La vista di quelle pianticelle innocenti dalle piccole foglie odorose le mise nel cuore un
senso di freschezza e di conforto, e la distolse per un istante dalla contemplazione della stanza che
aveva qualche cosa di sinistro e di funebre.
Rifece rapidamente il letto, si pettinò, poi entrò nel telaio, ma subito si sorprese con la mano inerte
sulla cassa e la mente lontana. Le sembrava di essere fuori della vita, in un paese nuovo e misterioso,
pieno di voci strane e di paure, con un piede nella regione dei morti. Tutte le voci intorno, il pigolio
delle galline che razzolavano nella via, le voci dei passeri sui tetti, quelle dei bambini su gli usci,
pareva avessero delle significazioni strane, misteriose, che venissero da un mondo fino allora
sconosciuto e parlassero all’anima sola, che cancellava il suo corpo come una luce troppo intensa
cancella le forme di un oggetto dal quale si sprigiona. Tutte le cose che vedeva: l’ordito, i licci, le
sedie, il subbio, le matasse di filato appese al muro, i pettini per il telaio accatastati sopra una
mensola, l’arcolaio immobile, con la sua forma geometrica in un angolo della stanza, le sembravano
cose vive che fossero sul punto di parlare, di rivelare un segreto per comunicarle uno spavento o una
pena. Tutti i ricordi della sua vita matrimoniale le tornavano ora alla memoria turbandola fino alle
lacrime. Rivedeva il marito con una lucidità impressionante: egli errava nella casa, la fissava con gli
occhi dolorosi di quando era malato, le ricordava la sua promessa e la riprendeva interamente con una
folla di ricordi teneri conturbanti come carezze. L’idea di rimaritarsi l’atterriva come il proposito di
una cattiva azione: l’immagine del cugino, la sua simpatia per lui, il brivido che l’aveva tenuta per un
istante sulla fiera, quando quello l’aveva presa per la mano, le destavano ora in cuore un senso di
ribellione e di spavento.
"Ah no" diceva tra sé, "io non mi rimariterò più: il mio povero morto non vuole, mi reclama per sé, e
io me ne andrò con lui nel regno delle ombre piuttosto che venir meno alla mia promessa".
Da quel giorno Lisabetta visse nella casa quasi fuori del mondo. I suoceri la vedevano languire come
una pianta a cui manchi l’acqua, e non sapevano perché. Invano l’avevano interrogata e sorvegliata;
ella rimaneva chiusa ed ostile nel suo terribile segreto, isolandosi sempre più, persuasa di vivere in
una singolare, misteriosa corrispondenza col morto, che tutte le notti immancabilmente le faceva
avvertire la sua presenza con il palpito precipitoso della raganella di San Pasquale. Era un ticchettio,
un frullare sordo e monotono che riempiva il silenzio della stanzetta, e continuava per delle ore, ora
rapido ora tranquillo, con un ritmo simile a quello di certi vecchi orologi a pendolo, i quali sembra
parlino il linguaggio misterioso del tempo che viene dall’eternità e goccia nell’eternità.
Le prime sere furono di spavento e d’angoscia indicibili. La vedova si chiudeva nella sua stanzetta, e
col lume acceso, trasalendo ad ogni scricchiolio, pallida, stralunata, pregava fino a che la testa stanca
non le ricadeva sulla cassa. Poiché la solitudine la opprimeva ed aumentava le sue paure, per avere
una specie di compagnia nel chiarore della luna e nelle voci notturne che venivano dagli orti, lasciava
aperta la finestra, e, quando era stanca di pregare inginocchiata davanti alla cassa o presso il letto, si
accostava alla immagine della Madonna di Seminara e tendeva la mano nel consueto atto devoto.
Appena le sue dita toccavano la carta, il rapido ticchettio della raganella si metteva a rullare come una
voce acre e petulante di rimprovero. Allora la poverina, con un brivido di spavento, si rifugiava presso
la finestra, vi si rannicchiava in un angolo come un cane minacciato, e riprendeva a recitare
all’infinito le preghiere già dette invocando il morto. Poi la preghiera le moriva sulle labbra, un sopore
inquieto le gravava sugli occhi; si accoccolava con la testa sulle ginocchia, e così passava intere notti,
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LA ZIA FRANCESCA
ascoltando in un dormiveglia ansioso le musiche dei grilli e dei rospi che venivano dalla campagna, e
parevano una voce nuova che rivelasse improvvisamente le cose per comunicare coi misteri notturni e
parlare con le lucenti geometrie delle stelle. Qualche volta, destata da uno scricchiolio più vicino,
alzava la testa e guardava nella stanza con gli occhi sbarrati: i mobili che vedeva confusamente
nell’ombra prendevano l’aspetto di cose animate che stessero anch’esse rannicchiate ad ascoltare la
voce del morto. Sembravano vecchie ombre famigliari quivi convenute per una veglia funebre.
Ma dopo le prime paure, a poco a poco Lisabetta si era abituata alla creduta presenza del morto nella
sua casa. In preda a una specie di lucida follia la giovane vedova viveva con lui in una soggezione
macabra e commovente. Le era venuta una specie di mania religiosa, come se dovesse prepararsi
anche lei a morire in un tempo breve. Stava delle mezze giornate in chiesa, assisteva a tutte le
commemorazioni e alle messe dei defunti, faceva spesso la comunione e distribuiva delle elemosine
con una allarmante prodigalità. In campagna non andava quasi più, e il telaio la stancava; girava
invece tutto il giorno per casa come una lunatica, parlando da sola, e ripetendo sempre le stesse cose a
guisa dei pazzi.
I suoceri, vedendola languire di giorno in giorno, pallida, nervosa, con gli occhi febbricitanti e
spaventati, la sottoposero a certi strani esorcismi contro il malocchio. Poi pensarono che quel
malessere fosse effetto della prolungata vedovanza. Nelle persone in cui il lavoro e il naturale ritegno
dell’ambiente distolgono i pensieri dai bisogni sessuali, questi si manifestano con effetti fisiologici
come negli animali e nelle piante.
"È giovane, è sana" diceva il vecchio suocero, "deve rimaritarsi, non bisogna farla soffrire".
Valendosi perciò della inflessibile autorità paterna l’aveva senz’altro fidanzata col cugino di San
Luca.
Ma la povera Lisabetta era diventa un’ombra: il volto disfatto, gli occhi stanchi e stralunati fissavano
nel vuoto come quelli degli alienati. In autunno ebbe una specie di raffreddore con febbri, e quando si
alzò dal letto le rimase una tosserella secca, insistente, che non la lasciava tranquilla un minuto.
Aveva perduto interamente l’appetito e girava per la casa come una lunatica, tossicchiando e recitando
continuamente preghiere per i morti. In quaresima intensificò le pratiche religiose; poi si mise a fare
delle stranezze. Cantava ad alta voce in casa delle poesie amorose, e ciò nelle ore notturne; indossava
gli abiti da sposa e si sedeva vicino al letto, davanti alla immagine della Madonna di Seminara,
fissandola intensamente e parlandole come ad una persona viva. Fu chiamato il medico che la trovò
debolissima e le ordinò delle medicine ricostituenti.
Tutto fu inutile: in aprile la vedova prese letto e non si rialzò più. Erano cominciati abbondanti gli
sputi sanguigni, e il disordine del cervello ora si manifestava con una specie d’idea fissa.
"Mio marito è con me" diceva la malata, "mi parla da dietro l’immagine della Madonna e mi vuole
con lui".
A quell’immagine guardavano ora tutti in casa con un misterioso terrore come a un idolo implacabile,
e, quando la sera il ticchettio della raganella di San Pasquale si faceva udire nella stanza, tutti
s’inginocchiavano esterrefatti e pregavano per la pace del morto, nella cui presenza ora credevano tutti
fermamente, come in una verità di fede.
Col declinare dell’aprile la malata peggiorò, tanto che il suocero mandò un’ambasciata al cugino di
San Luca in montagna perché scendesse a vederla per l’ultima volta.
Quello venne giù per il calendimaggio, e, sebbene la sapesse moribonda, volle portare alla fidanzata,
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come segno augurale, il majù, il tradizionale ramo di pino e d’alloro che gli innamorati all’inizio del
mese dell’amore depongono, all’alba, davanti al balcone delle loro belle.
Quella notte il paese risuonò tutto di zampogne e di canti: innumerevoli comitive passavano e
ripassavano per le vie. Si fermavano sotto le finestre, cantavano una o due strofette amorose e poi si
allontanavano per riprendere il canto e la danza sotto un altro balcone. Il tintinnio dei tamburelli
lasciava nell’aria notturna come delle scorie d’argento; si accendevano e si spegnevano continuamente
dei lumi, e dei fiori di garofano e dei ramoscelli di origano odoroso volevano dalle finestre nelle vie
come pegni d’amore.
Lisabetta, già ridotta a un’ombra, ascoltava dal letto quelle musiche amorose con una specie di serena
beatitudine. Le idee deliranti l’avevano abbandonata, l’incubo sembrava placato. Ella ragionava ora,
guardava tutti con occhi calmi, pigliava le medicine e sembrava perfino ripresa dalla speranza di
guarire. Quando all’alba entrò nella sua stanza il cugino, portando sulla spalla un ramo di pino e uno
d’alloro fragranti del profumo della montagna, Lisabetta era sopita. Stava distesa supina sopra un
mucchio di cuscini; i suoi capelli castagni, sparpagliati intorno al viso scarno e livido, sembravano
una cosa bella e ricca che non appartenesse più a quel corpo distrutto. Il cugino la guardò con un nodo
in gola e scambiò qualche parola con i suoceri che la vegliavano.
La malata si riscosse ed aprì gli occhi.
"Lisabetta" disse la suocera con un tono accorato, "non vedi chi è venuto a trovarti?".
"Ah" fece Lisabetta con un filo di voce, e si levò a sedere sul letto; "sei tu, Bastiano? Mi hai portato il
majù? Come sono contenta! Avvicinati, fammelo odorare". Bastiano prese i rami profumati e li portò
vicino al letto. La malata tese le mani, strappò alcuni ramoscelli e se li portò alla bocca aspirando
avidamente.
"Che odore di montagna!" disse, e guardò il cugino con dolcezza; "come mi farebbe bene se potessi
venire con te sulla montagna!".
"Ci verrai" rispose il cugino; "non vuoi dunque guarire?".
"Guarire?" fece la malata: "volesse Iddio!" e trasse a sé ancora più vicino i due rami.
In quel punto una fronda di pino toccò appena la immagine della Madonna sul capezzale.
Improvvisamente il ticchettio della raganella risuonò nella stanza rapidissimo, come il rullo di un
minuscolo tamburo.
La malata trasalì, sbarrò gli occhi e fece uno sforzo come per uscire dal letto.
"È lui!" si mise a gridare terrorizzata, e respinse lontano i due rami "è lui… non vuole… non
vuole…".
Annaspò disperatamente con le mani, tentò gridare ancora, poi ricadde sui guanciali con in gola una
specie di singhiozzo, e spirò.
"È andata, figlia benedetta, è andata…" gemette la vecchia suocera passandole una mano
amorosamente sulle palpebre semiaperte "non soffre più…".
Bastiano guardò un istante accorato la morta, poi si avvicinò d’impeto al capezzale e, allungando la
mano, con un gesto rabbioso, strappò l’immagine inchiodata sul muro.
Tutti balzarono in piedi esterrefatti.
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LA ZIA FRANCESCA
Sulla parete, proprio nel centro del rettangolo dove era inchiodata l’immagine lacerata, un bombo
grigio, peloso, palpitò con le ali un istante, si staccò dal muro ronzando, poi, dopo un rapido giro nella
stanza, infilò la finestra e scomparve nell’aria rosea della mattina di maggio.
PICCOLA MADRE
Alla signora Molari da parecchi anni non era capitata più una donna di servizio brava, laboriosa e
affezionata come quella friulana. Poteva avere vent’anni e sebbene fosse robusta e discretamente
nutrita, aveva l’aspetto pallido e sofferente di chi esce appena da una malattia. Era tutt’altro che
brutta, con bei capelli castagni, occhi chiari e grandi e un sorriso buono; solo nella sua persona si
notava un contrasto singolare tra il volto assolutamente fresco, da fanciulla, e una certa maturità di
espressione, quel non so che di molle e di languido che si riscontra nelle giovani spose.
In casa era un tesoro. Timida, che pareva volesse dissimulare la sua presenza, silenziosa come una
farfalla, ubbidiva senza discutere, non aveva grilli per la testa e non prendeva conversazione con le
ragazze del vicinato.
L’unica cosa da notare nella sua condotta era questa: che lei aveva pregato, con una certa insistenza,
di essere lasciata libera la domenica all’una e mezza, perché voleva partire col tram di Monza, dove si
recava a passare il pomeriggio in casa di una sua zia che abitava in una cascina, tra Sesto e Monza. E
quando veniva la domenica, sbrigava rapidamente le sue faccende e partiva come un razzo, ritornando
la sera sempre un po’ tardi.
- Curiosa questa zia – disse un giorno a tavola il signor Molari – purché non sia uno zio.
- Non credo – fece la signora che aveva preso una vera affezione alla servetta friulana – mi pare tanto
buona, anzi per certi argomenti mi pare anche sciocca.
- Può darsi – disse il signor Molari – tanto sveglia non pare neanche a me. Certo è curioso che,
nell’unico giorno che ha libero, lasci la città, e vada a passare quelle poche ore in campagna.
Da lì a qualche settimana la signora si accorse che la ragazza, quando usciva la domenica per il suo
pomeriggio festivo, portava sempre con sé un involtino che pareva contenere biancheria. Insospettita
fece una rapida ispezione al guardaroba, ai suoi vestiti, all’argenteria. Nulla! Tutto in perfetto ordine.
Eppure la servetta qualche cosa portava in quel fagotto, e quel qualche cosa lo aveva preso in casa,
perché fuori non le risultava avesse acquistato nulla. La condotta della ragazza cominciava a
diventarle un po’ enigmatica.
Un pomeriggio di domenica dopo che la ragazza era uscita, la signora si recò nella soffitta, dove
quella aveva la sua stanzetta per dormire, e si mise a rovistare nei cassetti in cerca di qualche lettera
rivelatrice. L’armadio era chiuso. Nel cassetto del tavolino da notte trovò un vecchio portafoglio di
cuoio, con dentro alcune ricevute di vaglia postali. I denari erano spediti a certa Anna Ricca, cascina
Brambilla, Sesto San Giovanni, e ciò regolarmente tutti i mesi. D’invio di denari alla sua mamma non
una traccia. Era la zia quell’Anna Ricca a cui la servetta mandava ogni mese il suo salario? La sera
stessa la signora Molari ne parlò al marito.
- Io comincio a preoccuparmi – disse la signora – la condotta di questa ragazza non è affatto chiara.
Questa misteriosa zia a cui manda i denari, tutti i mesi, questa premura di andarla a trovare tutte le
settimane, è una cosa tutt’altro che rassicurante.
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LA ZIA FRANCESCA
Il signor Molari si strinse nelle spalle:
- Facciamola sorvegliare da un’agenzia – disse.
- Io propongo un’altra cosa – disse la signora. – Domenica ventura andiamo anche noi in macchina a
Sesto. Con l’aria di fare una passeggiata, vedremo dove va a finire.
Difatti la domenica i signori Molari, dopo che la ragazza fu uscita di casa si portarono a Sesto, ed
attesero l’arrivo del tranvai. Qualche minuto dopo le due questo giunse. La servetta scese da uno
scompartimento di terza classe e, tutta premurosa, senza guardarsi intorno, prese la via della
campagna. I signori Molari la lasciarono allontanare di qualche centinaio di metri, per poterla
sorvegliare senza essere eventualmente riconosciuti, e si misero a seguirla. La ragazza filava con
passo svelto e con aria allegra, tenendo il margine sinistro della strada. La giornata di giugno era
luminosa e un po’ fresca, perché durante la settimana, tutti i pomeriggi era piovuto qualche ora, e le
biade abbiosciate al suolo dall’impeto del vento e degli acquazzoni, formavano delle ampie zone
cinerine nel verde lucido e rigoglioso della campagna.
La servetta avanzò sullo stradone provinciale per un buon chilometro, poi imboccò un viottolo e si
avviò verso una casa di campagna, di cui si vedeva chiara l’aia, dietro una siepe di biancospino e di
sambuco. Sull’uscio di quella casa stava una donna alta e forte, ancor giovane, con un lattante in
braccio. Quando vide la ragazza, la indicò con la mano al piccino, e le mosse incontro. La servetta si
mise a correre e, quando la raggiunse, si lanciò sul bimbo, se lo prese in braccio e cominciò a
tempestarlo di baci, con gridi di gioia.
I signori Molari, che si erano fermati sullo stradone, dietro una specie di stecconato, si guardarono
interdetti.
- Hai visto, - chiese la signora al marito, - di chi è quel bambino?
- E che cosa vuoi che ne sappia io? – fece il signor Molari.
- Sarebbe un bel caso che fosse della ragazza.
- E perché un bel caso? Sarebbe normalissimo invece.
- Io la credevo una santarellina.
- Oh! sì, - disse il signor Molari – di santi al giorno d’oggi ce n’è pochi anche in paradiso.
- Andiamo fino alla casa – disse la signora Molari, in cui la curiosità diventava un po’ dispettosa –
faremo finta di cercare delle uova fresche. Il signor Molari la seguì.
La corte era deserta. In un angolo un gruppo di galline razzolavano sopra un truogolo intriso di un
pastone di crusca.
Le voci delle donne ora si udivano più chiare e comprensibili.
Questa settimana aveva un po’ di tosse – diceva la contadina – e non teneva il latte. Gli ho dato da
mangiare polenta e fagioli: sta benissimo.
- Non sapete – diceva la ragazza – che è più grosso di quello della mia padrona che ha dieci mesi?
Guardate, questa cuffia non gli va…
Ma i passi dei sopravvenienti e lo scoccolare corale delle galline allarmate interruppero la
conversazione, e il viso della contadina, rubicondo come fosse dipinto, si affacciò sull’uscio mentre la
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LA ZIA FRANCESCA
signora Molari diceva: - Non c’è nessuno qui?
La servetta si alzò in piedi, pallida, e si fece sull’uscio anche lei. Aveva in mano una cuffietta color
rosa con nastro azzurro, e il bimbo in braccio, un bel bambinone solido, con una grossa testa coperta
da una fine calugine bionda.
- Oh, signora, voi qui? – disse la ragazza, e rimase sulla soglia interdetta, guardando ora la padrona
ora la contadina.
- Già – disse la signora ostentando una certa sicurezza – abbiamo fatto una passeggiatina in campagna
ed abbiamo pensato che qui si debbono trovare delle uova fresche. E tu?… È tua zia questa donna? – e
indicò la contadina.
- No, signora, io sono la sua balia – fece la contadina.
La servetta diventò bianca come un cencio, abbassò gli occhi e disse con un fil di voce:
- È la mia balia, e questo bimbo è mio.
- Oh, bella! – fece la signora, con una punta di ironia – allora sei sposata?
- Non sono sposata, signora, ma il bimbo è mio…
Gli occhi le si erano riempiti di spavento e di lacrime. La contadina che se ne accorse, da principio si
guardò intorno inquieta, poi con uno di quegli impeti grossolani e generosi della gente di campagna, si
mise a parlare gesticolando:
- Oh perché piangi adesso?… È la tua padrona questa signora? E non lo sapeva? Bene… ora lo sa. Di
figli ne fa anche lei, non è vero, signora? Quando si è giovani i figli si fanno volentieri.
- Ma sicuro – disse la signora Molari ridendo, - solo che questa sciocchina non mi aveva mai detto
nulla. – Si avvicinò alla ragazza e si mise a vezzeggiare il piccino… - Guarda come è carino, e come è
forte!… Quanti mesi ha?…
- Sei mesi, signora – rispose la servetta.
- Ma è una meraviglia! Guarda Mario – e chiamò il marito. È più grosso del nostro che ne ha dieci…
Poi si rivolse alla servetta: - Perché non me lo hai mai detto che avevi un figlio?…
- Perché temevo che mi mandaste via, signora – rispose la ragazza, - ed il mio mensile alla balia lo
pago col mio salario.
- Mandarti via… e perché? – fece la signora… Meno male che hai avuto il coraggio di tenerlo… E
suo padre dov’è?
La ragazza fece il viso desolato.
- Non lo so, signora – e raccontò la sua storia.
Era una storia comune, la storia di molte persone di servizio che finiscono col cadere nelle mani o dei
padroni o dei compagni di lavoro, o dei soldati o dei vagabondi. Qui era stato proprio un vagabondo,
uno di quei randagi che trascorrono i pomeriggi sdraiati sulle panche del parco e occhieggiano le balie
e le cameriere. Lei era venuta da poco dal suo paese, era ancora una sciocca, inesperta, che non sapeva
neppure come erano fatti gli uomini.
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LA ZIA FRANCESCA
- Quando mi accorsi di essere incinta, signora – diceva la ragazza, con gli occhi accesi e febbrili –
pensai di uccidermi ma non ebbi il coraggio. Andare a casa mia non osavo. Mi feci forza e ora sono
contenta di avere un bambino mio al mondo. Quando venne lei a prendermi all’agenzia ero liberata
appena da un mese. Spero non mi manderà via per questo, signora.
- Ma no… benedetta… - fece la signora Molari intenerita, - mi dispiace che tu me l’abbia nascosto
fino adesso. Poi prese il bimbo in braccio e continuò a carezzarlo, tentandogli il piccolo mento col
dito medio e dicendogli mille cose futili.
Intanto la contadina aveva portate delle uova grosse come ciottoli, e le faceva vedere nel grembiule
aperto.
- Guardate signora come sono grosse, e fresche come l’acqua! Quando ne avete bisogno ditelo alla
ragazza: ve ne mando. Poi si mise a parlare con la voce aspra e franca di suo marito, della campagna
che prometteva bene, dei suoi figliuoli che erano tre e ne facevano da appendere.
- Guardate – e indicò un ragazzo di circa sei anni che sbucava da dietro una siepe. In mano portava,
appesa ad un cappio fatto con un filo di avena, una lucertola, che ancora si dibatteva dimenando qua e
là la coda e la testolina verdognola.
- Questo è il maggiore… un demonio, ma a questo piccino vuol più bene che ai suoi fratelli, volete
vedere?… Si rivolse al ragazzetto: - Sai perché sono venuti questi signori? – disse – per portarsi via il
nostro baliott.
Il bimbo aggrottò le ciglia, diede uno sguardo di sbieco ai due forestieri, poi prese un sasso, lo mostrò
al signor Molari, facendo l’atto di lanciarglielo contro e si nascose come in agguato dietro la siepe.
Si misero tutti a ridere. La servetta friulana era felice, e la signora Molari pensava vezzeggiando il bimbo: Grandezza
della Provvidenza! Questo piccino che è venuto al mondo senza amore, ha già tanta gente che lo ama. E un po’ sentiva
di amarlo anche lei, sebbene lo conoscesse da un’ora.
ASSOLUZIONE
Suor Benedetta e Suor Clementina vanno alla cerca. Hanno finito ieri il loro turno in città alla cura dei
malati e al soccorso degli indigenti; ora battono la campagna per raccogliere offerte nelle cascine.
Il tempo è rigido ma bello, con un sole splendente e un cielo di un azzurro come quello che si vede
dietro le aureole dei Santi negli affreschi delle chiese di campagna. I pioppi e i salici sono spogli, i
canali argentei, l’erba superstite dei fossi, dov’è in ombra, è bianca di brina.
Dietro i cancelli delle ville si vedono i giardini brulli vigilati da qualche cipresso. Sembrano angoli di
cimiteri.
Le due suore vanno per la via solitaria, vestite di quel nero da rondini, sul quale le cuffie a grandi ali
si muovono leggermente come candidi uccelli uscito dall’Arca.
Suor Clementina cammina a testa bassa, malinconica, la mente svagata, le mani sul seno e risponde a
monosillabi alle domande della sua compagna. Essa è la più giovane perché non ha che 35 anni e,
sebbene quel vestito la renda un po’ goffa, ha pure una sua delicata grazia nel viso pallido e
sofferente.
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LA ZIA FRANCESCA
- A che cosa pensi, suor Clementina – le domanda suor Benedetta – non sei contenta di venire in
campagna alla cerca? O hai lasciata qualche malata che ti era particolarmente cara?
- Ah! Come ho pianto ieri, suor Benedetta, come ho pianto! È morta la più cara delle mie malate.
Suor Clementina tira fuori dall’ampia manica una pezzuola, si asciuga gli occhi e poi comincia il suo
racconto.
- Ricordi il caso di quella giovane che ci fu segnalato questo autunno dal parroco di San Francesco da
Paola?
- Sì, sì. Quel biglietto trovato nella cassetta delle elemosine?
- Appunto. Il biglietto, se ricordi, diceva: "Forse domani mi metterò a letto e non potrò alzarmi. Sono
sola. Mandate una suora che mi visiti di quando in quando e che mi porti qualche giornale. Nel nome
di Dio, grazie. Una giovane malata".
Ad andarla a trovare fui incaricata io.
Tanto mi fu cara quella piccola graziosa inferma che di ciò che si riferisce a lei io ricordo tutto, fino ai
minimi particolari. Ricordo, per esempio, che quella mattina, quando mi recai a trovarla, io non vidi
che cose gentili, aspetti di grazia: bambini che andavano a scuola, colombi, e una schiera di ragazzette
che entravano in chiesa col velo bianco per la prima comunione.
Pareva che circostanze esterne, provvidenziali, volessero predisporre il mio cuore alla conoscenza di
quell’essere infelice e delicato, al quale doveva legarmi un interesse così tenero, e… Dio mio… così
condannevole per me, che non debbo più amare le cose del mondo.
La cameretta dove abitava era al quinto piano, una stanzuccia linda, ma poverissima, la cui finestra
guardava sopra un parco signorile. La ragazza non era a letto, ma distesa sopra un sedia a sdraio. Era
senza calze, con un paio di pianelline di seta rosa ai piedi e stava tutta raggomitolata in una pelliccia
di coniglio dal colletto grigio. Non aveva più di vent’anni, era esile, graziosa, con una piccola bazza,
due occhi bruni assai belli, e i capelli, di quel castano denso che tende al marrone, davano una
espressione quasi esotica al suo volto olivastro.
Dall’unica finestra a davanzale entrava un bel tappeto di sole caldo ed ella, inquadrata in quell’oro
stava distesa come una gattina, tendendo le mani e i piedini bianchi come quelli di una bambola di
porcellana.
Quando venne ad aprire, da principio rimase un po’ stupita: si vede che non mi aspettava in quell’ora
mattutina. E poi noi abbiamo un aspetto così lugubre e misero, che solo la estrema miseria ci accetta
volentieri; e quella poveretta non era ancora all’estremo.
- Siete malata – le dissi tentando un sorriso. – Posso esservi utile in qualche cosa?
- Venite, venite, sorella. Non v’aspettavo. Ma siate la benvenuta. Non speravo che il mio biglietto
avesse raggiunto il suo scopo.
Grazie. Potete stare un quarto d’ora qui? Un quarto d’ora soltanto.
Entrai e mi sedetti vicino a lei che aveva ripreso il suo posto. Dai pomelli arrossati e dagli occhi un
po’ eccitati e brillanti mi accorsi che aveva la febbre. Ella, però si mostrava ilare e mi parlava con un
bel sorriso infantile.
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LA ZIA FRANCESCA
Sono molto malata, sorella, ho avuto la febbre tutta la notte e forse l’ho ancora. Ma non mi sento
abbattuta. Ho anche un po’ di danaro e per adesso non ho bisogno di niente. Quello che mi spaventa è
la solitudine, l’idea di non potermi più alzare e di rimanere qui abbandonata senza vedere nessuno.
Qui vicino a me non c’è che povera gente, sempre via di casa. Venite a vedermi, sorella, qualche
volta, e portatemi un giornale. Io ho bisogno di leggere quello che succede in città, altrimenti muoio. –
E sorrideva con una smorfia graziosa, come se avesse detto una birichinata.
- Quanto tempo è che siete malata? – le chiesi.
- È più di un anno, ma non mi sono mai curata. Ho continuato a star fuori, a fumare, a divertirmi, e
capirete, così la vita se ne va. Del resto io sono già rassegnata, sorella, quasi contenta. La mia era una
via senza uscita; è meglio che muoia presto.
E sorrideva senza malinconia, come se parlasse, non della morte, ma di un sonno, di un sonno dolce e
stanco dopo una festa.
Quel giorno la lasciai subito, promettendole di ritornarci. Difatti mi recai da lei tutte le settimane e per
qualche tempo la trovai ancora in casa. Stava meglio, non aveva più la febbre e cominciava anche a
fare qualche passeggiatina. La disgraziata si divertiva anche!
Ah, Signore, perché avete dato tanto potere di seduzione al peccato?
Verso i primi di dicembre non la trovai più in casa e sospesi le mie visite, ma non potevo ricordarla
senza una irragionevole passione. Mi sembrava di pensare ad una mia sorella, ma che!… Basta… Non
riesco ad esprimermi…
Ieri mattina non so per quale misteriosa ispirazione, mi venne un acuto desiderio di rivederla, e salii
alla sua soffitta.
La ritrovai in casa, difatti, ma ahimè! in quali condizioni! Non era che un’ombra tutta occhi e capelli.
Quando entrai nella sua stanzetta, questa era piena di un fumo acre e bianco: la povera figliuola aveva
esaurite tutte le sue risorse, impegnato o venduto tutto quanto aveva in casa, e solo si era tenuta la
pelliccia, perché, essendo senza fuoco, le serviva per scaldarsi.
Difatti la trovai con la pelliccia addosso davanti al caminetto.
Non aveva, in casa che una scopa e per vedere un po’ di fiamma, le aveva dato fuoco. La saggina
umida e sudicia, dopo una piccola vampata, bruciava lentamente, esalando un fumo spesso e fioccoso
come lana, che un po’ prendeva la via del camino, un po’ si spandeva nella stanza. Lei stava
raggomitolata in terra, avvolta nella pelliccia, con le mani tese verso quel misero fuoco, e tossiva
penosamente come un piccolo cane malato.
Quando mi vide entrare, mi tese le braccia con un lampo di quel suo bel sorriso di una volta.
- Il Signore vi ha mandata, sorella – mi disse. – È giunta l’ora. Forse oggi morirò. Giacché ho finito
tutto me ne vado anche io: me ne vado in tempo per non soffrire.
La vista di quella scopa che bruciava affumicando la stanza, mi diede un orribile spasimo al cuore.
- Dio mio… Dio mio – le dissi – perché non mi avete mandata a chiamare prima? Io non sapevo…
La feci sdraiare sul letto, ed essa, raggomitolata nella pelliccia, trasalendo di quando in quando, mi
narrò come aveva dato fondo a tutto quello che aveva: oro, gioielli, vestiti e perfino certi pastelli dei
suoi amici pittori che l’avevano ritratta quando era sana.
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LA ZIA FRANCESCA
La consigliai di mettersi sotto le lenzuola, andai a prendere un po’ di legna ed accesi un bel fuoco; e
quando la vidi tranquilla e quasi felice, con gli occhi sulla fiamma, le cominciai a parlare della cosa
che più premeva a me: la sua anima.
- Figliuola mia – le dissi – Iddio vi guarirà se vorrà, nulla a Lui è impossibile; ma la salute dell’anima
può preparare, non danneggiare quella del corpo. Avete pensato, mia cara, all’anima vostra? Da quanti
anni non fate la santa comunione?
- Da molti anni, sorella, da quando ero bambina.
- E allora? Nelle vostre condizioni la più elementare prudenza consiglia il ricorso ai santi sacramenti.
Fate un esame di coscienza, figliuola, ricordate i vostri torti: poi chiameremo un confessore e voi
chiederete il perdono dei vostri peccati. Lo farete, cara?
- Se voi lo desiderate – mi rispose con molta franchezza – io lo farò ma vi assicuro che non saprei che
cosa dire al confessore. Io non ho peccati.
- Come, non avete peccati? Figliuola, tutti ne abbiamo.
- Ebbene, sorella, io non ne ho. Non ricordo di avere fatto mai male ad anima viva, non so che cosa
sia l’invidia, l’odio; ho sempre amato i poveri, e quando potevo, facevo tanta elemosina. Di che cosa
mi dovrei accusare?
- Così dicevano i farisei – dissi io con severità – e il Signore non li amava. Voi, se avete fatto male ad
altri, l’avete fatto a voi stessa, avete sperperato la vostra gioventù, il bel dono che Dio vi aveva fatto,
l’avete sciupata innanzi tempo, procurandovi questa malattia, che è anche un ammonimento. Questo
dovrete dire al confessore, di questo dovete pentirvi per chiedere a Dio la saluta dell’anima prima, e
poi quella del corpo.
La poverina, quando mi ebbe ascoltato, chinò la testa e rimase un po’ pensierosa; poi rispose,
fissandomi intensamente negli occhi:
- No, sorella, non posso. Il Signore mi perdonerà se vorrà, ma io non posso pentirmi di quel poco di
gioia che ho goduto nel mondo. Comprendetemi: non è che non voglia, non posso. Direi una bugia a
me stessa e a Dio, e Lui, che legge nel fondo dei cuori, non accetterebbe il mio falso pentimento.
Tante volte l’ho ringraziato al mattino dopo una notte di amore, e con tanto abbandono, con tanta
sincera riconoscenza, che mi sembrerebbe di offenderlo se ora mi presentassi a Lui per dirgli che odio
quello che ho sempre considerato come un suo prezioso dono, una grazia della vita che Lui mi aveva
data. Pensateci anche voi, sorella. Che cosa sarebbe stata per me la vita senza quel poco d’amore che
ho goduto? Venti anni opachi di sofferenze, di dolori e di rinunzie. Solo l’amore mi aprì le porte della
gioia, solo per esso ho ringraziato Iddio e lo ringrazio di avermi fatta nascere.
Io non ho mai pensato di fare peccato amando, perché l’ho sempre fatto senza malizia, senza
ambizione e senza interesse. Ho amato per un bisogno del cuore e questo è rimasto sempre puro.
Per pochi anni soltanto conobbi la gioia di vivere che… Dio mio… è fatta di cose così piccole ed
effimere, ma che pure sono le sole cui siamo adatti. Breve tempo! La mia piccola vita si è consumata
rapidamente. Io non mi lagno, la benedico invece, perché la vita è un dono di Dio e va sempre
benedetta.
Parlava avidamente, con la voce rauca, gli occhi socchiusi, come se parlasse a se stessa e approvasse
le parole. Ma il suo respiro crepitante mi faceva rabbrividire.
A un tratto ebbe un colpo di tosse che parve dovesse soffocarla. S’interruppe portandosi le mani alla
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gola; poi mi pregò di aprire la finestra perché si sentiva mancare il respiro.
L’aprii. Fuori vi era un nebbione scuro che fumava sui tetti e su gli alberi del parco. Un fiotto d’aria
fredda entrò nella stanza.
Ella riprese: "Sento che muoio, sorella, guardate in quella cassetta – me ne indicò una piccola di
mogano sotto un tavolino, dentro vi sono delle lettere. Prendetele e buttatele sul fuoco".
Io, come intontita, andai a prendere la cassetta, l’aprii e gliela portai sul letto. Vi erano dentro un
quarantina di lettere, varie di buste e di scrittura. Ella le prese, le slegò, le rimestò un poco, come se
volesse carezzarle tutte, poi me le porse. Io mi avvicinai al caminetto e le lasciai cadere sulla fiamma.
La povera malata le guardava accartocciarsi e consumarsi lentamente, con un volto triste ma
rassegnato. Quando furono tutte consumate la fissai negli occhi: pareva avessero visto calare nella
tomba qualcuno.
- Adesso è proprio finita – disse la poverina – adesso pensiamo all’anima, sorella. Io non voglio il
confessore. Assolvetemi voi dei miei peccati, voi che siete come me una donna. Fatemi morire
tranquilla!
Suor Clementina sospende il suo racconto. Tira fuori ancora dalla manica la pezzuola e si asciuga il
naso.
- Dio mio, Dio mio… abbiate pietà di me!…
- E tu – chiede suor Benedetta – che cosa hai risposto?
- Io?… - fa, quasi atterrita, suor Clementina – io l’ho baciata sul volto e sui capelli e le ho mormorato:
in nome di Dio e per la potestà che è data ad un cuore di donna, io ti assolvo di tutti i tuoi peccati.
LA STRANIERA
Quando scesero in quella stazione di un paesello della riviera jonica, in terra era già il crepuscolo, ma
in alto e verso occidente era diffusa ancora una luminosità intensa.
Dal treno deserto non scesero che loro due, marito e moglie, e un ferroviere con una lanterna ad
occhio di bue e un fagotto sudicio sotto il braccio.
La fermata fu brevissima. Appena essi ebbero posate le valigie in terra, il capotreno si sporse dal
bagagliaio, emise un fischio, strano in quel silenzio melodioso della campagna, e tutto il convoglio si
mosse cigolando.
- È il mare? – chiese lei, udendo lo sciacquio dell’acqua dietro il muretto della ferrovia, e stupita di
vederlo tanto piccolo e tranquillo, come un lago.
- Sì, è il mare.
- Andiamo – disse lui, e si caricò sulle spalle la sua grossa valigia, che sembrava una cassa da
violoncello.
Lei prese in mano quella più piccola e continuava a guardare intorno, trasognata, ora il capostazione,
che seduto ad un tavolo del suo Ufficio continuava a battere il tasto di una macchina, ora il lume a
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petrolio.
- Che fai – disse ancora lui – non vedi che siamo giunti? Fra un quarto d’ora saremo a casa mia.
Andiamo che i miei ti aspettano.
- Aspettavano lei i parenti di suo marito? Ma se non la conoscevano neanche?
Si provò a sorridere, ma il suo sorriso fu smorzato da una misteriosa paura. Le sembrava di essere
giunta in un altro mondo, in uno di quei paesi coloniali di cui parlano i libri di viaggi, dove sotto un
cielo mirifico, nelle notti solenni, si attende da un momento all’altro di udire il ruggito del leone.
Veramente non vi era nulla di selvaggio intorno, ma le tracce del mondo civile, quella particolare cura
che mettono gli uomini intorno ai luoghi del loro vivere quotidiano, non si vedevan più. Le poche case
davanti alla stazione erano piccole, sbilenche, costruite senza alcuna tecnica, con delle porte anguste e
un aspetto di assoluta povertà. Le vie erano strette, polverose, sparse di escrementi di animali e di
rottami di vasi d’argilla. La campagna spoglia, arida, con rare selvette di ulivi e di roveti risuonava
tutta di uno stupito tri… tri… di grilli e del frinire delle cavallette.
- È questo il tuo paese? – chiese lei accostandosi al marito un po’ curva sopra un fianco per il peso
della valigia.
- No, rispose lui, il mio paese non è questo, ma noi non andiamo in paese, i miei parenti abitano in
campagna. Siamo arrivati sai, piccina mia. Non hai mica paura? – aggiunse vedendole il volto un po’
contratto e gli occhi ansiosi. – Vedrai come ti accoglieranno i miei, specialmente mia madre. Crederà
che sia venuta a vederla la Madonna.
- Perché la Madonna? – chiese lei ridendo.
- Perché di donne come te qui non ne hanno mai viste, neanche le figlie dei signori sono come te.
Lei sorrise ancora confortata e un po’ anche lusingata, ma nel suo profondo rimaneva malinconica e in
un certo senso anche sbigottita. "In che paese strano mi ha portato mio marito!".
Attraversarono un vialetto fiancheggiato da grandi querce, e allo svolto apparve loro davanti una casa
piccola col suo piano terreno e col tetto così basso, che un uomo di media statura, allungando la mano,
ne avrebbe raggiunta la gronda. Davanti alla casa era una siepe di fichidindia, dietro la quale si
vedevano, attraverso la porta aperta i riflessi di un fuoco acceso. – Siamo giunti – disse lui – ed emise
un lungo sospiro. Quella è la mia casa.
Lei ebbe una stretta al cuore. Quella? Com’era, piccola e misera, una catapecchia.
Le veniva voglia di piangere.
Lui chiamò da sulla strada.
Al suo richiamo un piccolo cane bastardo schizzò fuori dalla siepe e si mise ad abbaiare furiosamente.
Poi una figura nera, curva, mingherlina – sembrava un’ombra – si affacciò sulla soglia, rientrò e
ricomparve con un lume in mano. Allungò uno sguardo verso la straniera e discese in fretta
mormorando:
- Figlio, figlio mio! Sei tu?
Si avanzò verso di lui con le braccia tese.
Quello aveva già deposta la valigia e si strinsero a lungo baciandosi molte volte.
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LA ZIA FRANCESCA
La straniera assisteva stupita.
La mamma di suo marito era una donnetta secca e bruna come un baccello di veccia, con una testa
piccola e due occhi tristi, sofferenti, che facevano ricordare quelli delle vecchie testuggini. Era scalza
e con quel lume in mano, sembrava una di quelle figure di vecchine che si vedono nei libri delle
favole.
Dopo avere abbracciato il figlio, la vecchia si era rivolta a lei, ma con circospezione, come se avesse
paura di sbagliarsi, le aveva alzato il lume contro il viso e la guardava come incantata. Era quella la
sua nuora, la sconosciuta che suo figlio aveva sposata in quel paese lontano? Le sembrava
impossibile: suo figlio era un contadino e quella era tanto diversa.
Lei non aveva mai visto nulla di simile: alta, coi capelli color dell’oro, un cappellino così curioso sulla
testa, un soprabito color avana e un viso bianco, delicato, come in quei paesi non si vedeva che alle
statue nelle chiese.
La vecchia guardò suo figlio, poi ancora la nuora dalla testa ai piedi. Dio mio! Ai piedi portava un
paio di scarpette lucide e affusolate come la navicella del telaio.
- E questa chi è – domandò esitando.
- Come chi è? È mia moglie… - rispose lui tutto orgoglioso.
- Tua moglie? E dove sei andato a prenderla una giovane così? Sembra la Madonna, salvo peccato. E
ora noi dove la metteremo?
Si avvicinò timida, allungò la mano brulla e nodosa come quella di un uomo e, presa una mano della
straniera, si mise a guardarla come si guarda una cosa di vetro.
- Tò! Caro mio Dio, che mani! Sembrano fatte di sangue e latte.
Tentò di portarsi quella mano alle labbra, ma l’altra la prevenne e le porse il viso, che la vecchia baciò
avidamente.
- Venite, venite, figlia mia, la nostra casa è così povera! E si incamminò protendendo avanti il lume.
Quando furono dentro, i due posavano le valigie, la vecchia si fece sull’uscio e chiamò qualcuno.
Un minuto dopo apparve sulla soglia un contadino magro, brullo anche lui, con una faccia rugosa e
una specie di papalina in testa. Portava i calzoni corti di fustagno casalingo e grossi calzettoni di lana.
In mano teneva un secchiello pieno di latte. Anche lui aveva gli occhi tristi e buoni.
Depose il secchiello sulla tavola, abbracciò il figlio, poi si rivolse alla straniera e cominciò anche lui
ad esaminarla con quella espressione ferma e seria che era una… qualità del suo sguardo.
La vecchia teneva ancora il lume in mano e le stava davanti come si sta davanti ad una culla o a un
nido.
- Non vedete che ci ha portato nostro figlio? – disse lei – ha sposato una signora.
Il vecchio prese una mano della nuora e la strinse con una strana tenerezza.
- Figlia mia, siate la benvenuta. La casa è piccola e povera, ma da mangiare ce n’è e il cuore è grande.
Lei non capiva nulla di quello che dicevano, ma si sentiva palpitare il cuore di una misteriosa
inquietudine.
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LA ZIA FRANCESCA
Aveva sempre più l’impressione di aver fatto un viaggio nel paese delle favole.
L’unica persona che lei sentiva un po’ più vicina, con la quale poteva comunicare, suo marito, si era
tolta la giacca e muovendosi intorno, toccando gli oggetti di casa, chiacchierando coi suoi in quel loro
dialetto duro ed ieratico, sembrava allontanarsi anche lui da lei, per tuffarsi in quell’ambiente come in
un suo elemento naturale.
- Levati il cappello – le disse lui – e avvicinandosi la baciò forte sulla bocca.
Lei sorrise, si levò il cappellino e scosse la testa, scomponendo un po’ i suoi bei capelli ariosi.
La vecchia che la guardava sempre come un uccello strano, si avvicinò alla nuora e le palpò i capelli: Signore, Signore… sembrano di oro filato!… E poi, come parlando con se stessa.
- Dove la mettiamo, poveri noi, dove la mettiamo?
Intanto si mise a preparare la tavola.
Stese una tovaglia bianca di lino, tessuto sul telaio di casa, vi collocò sopra alcuni piatti di creta
smaltata con fiorellini pallidi, e delle forchette di ferro.
Il vecchio prese il secchiello del latte, un cucchiaio di legno e si avvicinò alla nuora.
- Non volete assaggiare un cucchiaio di schiuma? È buona, sapete: vi farà bene. È ancora calda. – Lei
lo fissava attonita: non capiva, ma poiché l’altro le avvicinò amorosamente il cucchiaio alla bocca, lo
prese.
Quella schiuma di latte morbida e soave, esalante un odore materno, aveva un sapore dolce e buono.
Lei ne prese un secondo cucchiaio e poi anche un terzo, con la golosità di una bambina; e il cuore le si
riempiva di una indefinibile emozione nel vedere quel vecchio imboccarla con quei suoi gesti solenni,
come se le desse la comunione. Il pranzo fu serio e quasi silenzioso: pareva una agape. Solo il marito
parlava domandando notizie dei parenti, di gente conosciuta, degli avvenimenti del paese, della vita
delle bestie a cui dava nomi umani. I due vecchi rispondevano misurati, mettendo nei loro rari
commenti quella serietà rassegnata dei contadini, per i quali tutto è sacro e necessario.
A un tratto il vecchio padre, vedendo che sulla pasta asciutta la nuora non aveva abbastanza
formaggio, gliene versò una manata di quello forte, salato. – Mangiate, figlia, mangiate. La pasta
senza formaggio non è buona. Questo l’ho fatto io con le mie mani.
E le mesceva un vinello pallido, aromatico, che le scaldò improvvisamente le viscere come un liquore.
Suo marito sembrava felice di rigustare, dopo tanto tempo, quei forti cibi casalinghi della sua terra, e
un po’ interrogava i genitori, un po’ parlava con lei, divertendosi al suo impaccio e al suo
smarrimento.
Finito il pranzo andarono a dormire.
La vecchia li accompagnò in una stanzetta a pian terreno che dava nell’orto. In un canto, sopra due
lunghi trespoli di legno, era issato un saccone monumentale pieno di foglie di granoturco.
La vecchia lo toccò con le mani, facendolo suonare stranamente.
- Questo è il letto, figlia. Spero dormirete bene. L’ho riempito apposta per voi… Santa notte…
aggiunse con una espressione timida e quasi pudica; e uscì.
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LA ZIA FRANCESCA
Quando rimase sola con suo marito la straniera ebbe la impressione che quella per lei fosse qualche
cosa come una prima notte di nozze, come se suo marito l’avesse conosciuto allora per la prima volta
e dovesse, per la prima volta, sottoporsi alla violazione del suo corpo da parte di un estraneo, che
doveva poi confondere la propria vita con quella di lei.
Suo marito l’abbracciò e la baciò avidamente, con un desiderio visibile e quasi impetuoso, ma lei,
prima di andare a letto, sentì il bisogno di ordinare un po’ di tumulto dei suoi nuovi pensieri, di
esaminarsi dopo la rivelazione di quel mondo povero e sacro dove suo marito era nato, e di cui lei fino
allora non aveva neppure sospettata la esistenza.
Sedette davanti a una finestra a petto d’uomo e si mise a guardare la campagna. Era sorta la luna, le
ombre intorno alla casa si allungavano verso occidente, come se si mettessero in cammino. Un assiolo
cantava sotto gli alberi poco discosto, e da lontano veniva il trillo malinconico e musicale dei rospi.
Per la prima volta, davanti a quel paesaggio, le veniva in mente questa inquietante domanda: "Come
mai io ho potuto sposare un uomo così diverso da me?".
Si sentiva a poco a poco invadere da una strana tristezza, e aveva paura della imminente intimità col
marito, perché temeva che anche da quella consuetudine così dolce le venisse qualche allarmante
rivelazione.
A un tratto si udì un bisbiglio fuori dell’aia.
I due vecchi si erano seduti sull’uscio della casa e parlavano tra loro sottovoce. Ma lei non capiva
nulla di quello che dicevano. Poiché pensò che il soggetto di quel colloquio potesse essere lei, chiamò
il marito perché le facesse da interprete.
- Avete visto – diceva la vecchia – avete visto che moglie è andato a prendere il mariolo? È bella più
di una signora, deve essere figlia di qualche medico o avvocato…
- È bella sì, osservò il vecchio ma… sai come dice il proverbio dell’antico: moglie e buoi dei paesi
tuoi. È bella… ma gli vorrà bene? È così diversa da noi…
Il marito spiegò e poi, prendendola fra le braccia, la strinse forte, baciandola sulla bocca: - Piccina, i
miei domandano se tu mi vuoi bene? Me ne vuoi, tesoro, colomba mia, me ne vuoi?
La straniera si arrovesciò inerte ed ebbe l’impressione che un terribile segreto la rivelasse a se stessa,
in quell’istante. Voleva lei bene a suo marito?… Certo glie ne voleva… aveva passato tante ore felici
con lui. Ma dentro, nell’angolo più remoto del cuore, perché sentiva ora un irresistibile bisogno di
piangere?
DONNA MARUZZA
Fra i ricordi preziosi, che stanno all’origine della mia conoscenza, io, accanto al volto di mia madre,
trovo nella memoria quello di un’altra donna, che per me fanciullo fu come una specie di madre
putativa: il volto di Donna Maruzza.
Donna Maruzza era figlia di signori. In paese la chiamavano anche col nome di sua madre, Donna
Loicia (Luigia) un nome che sa di Corte, del tutto insolito da noi fra le donne del popolo. Caduta la
sua famiglia in povertà, molti anni prima della mia nascita, Donna Maruzza si era rifugiata nel nostro
paese, ed era venuta ad abitare in una casupola, proprio sotto casa mia.
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LA ZIA FRANCESCA
Era alta, sottile, di ossatura delicata, con un viso ovale e bianco, che in gioventù doveva essere stato
bellissimo, e un neo dai pelucchi biondi su un angolo del mento. Sebbene fossi tanto bambino, io
sentii subito per istinto che Donna Maruzza non era una popolana.
Ricordo ancora l’impressione misteriosa, di piacere e insieme di sgomento, che provavo quando ella,
sola con me nella sua casupola, si scopriva l’omero, per farmi vedere un lipoma che aveva sulla
scapola sinistra: una cosa enorme quanto una scodella da latte, che formava una gobba.
Sotto la pelle candida, di una finezza di seta, che io toccavo esitando, il lipoma ondeggiava e cedeva,
come se contenesse del liquido.
Per quanto i bambini non facciano mai attenzione all’amore che li circonda, pure io vedevo che la più
grande felicità per Donna Maruzza, dopo quella di avermi vicino, era quella di vedermi mangiare.
Bambino nervoso ed estroso, disperatamente attaccato al giuoco, in casa mia mangiavo pochissimo,
con grande corruccio di mia madre. Donna Maruzza invece era orgogliosa del suo privilegio di
riuscire a farmi mangiare. Di quando in quando si chiudeva misteriosamente in casa, il suo tetto
fumava per qualche tempo, poi col volto acceso sporgeva il capo fuori dall’uscio e mi chiamava a
bassa voce, come se si trattasse di una congiura. Io accorrevo e trovavo su una cassa piccola un bel
piatto di maccheroni ben conditi e inalbati di formaggio.
Fosse quell’aria di sotterfugio o lo stimolo inconscio della cosa proibita, certo è che mi veniva una
fame da lupo, e mai in casa mia avevo trovato quel cibo tanto stranamente saporoso. Poi Donna
Maruzza andava a prendere un uovo da sotto la gallina, e prima di mettermelo in tasca, mi appoggiava
la punta nel cavo dell’occhio perché, diceva, quel caldo era propizio a mantenere sana la vista. Io
chiudevo le palpebre, e a quel tepore, dolce e intimo come quello di un grembo, mi sentivo inebriato,
come deve sentirsi un insetto nel calice di un fiore. Mia madre era gelosa di questa mia intimità con
Donna Maruzza, ma affannata dalle continue maternità ed occupata a curare i miei fratellini, ad un
dato momento parve contenta che qualcuno la sollevasse dalle sue cure verso di me. Quando poi morì
mio padre, la sua ostilità cadde del tutto, e le mie due madri, quella carnale e quella putativa, parve
ritrovassero in un comune dolore, un nuovo terreno d’intesa e di reciproca tolleranza.
Allora, specialmente d’inverno, nei giorni di scirocco, Donna Maruzza vicino a me sopra uno
sgabello, ed io seduto sulla cassa piccola, passavamo delle mezze giornate intere, io ad ascoltare e lei
a recitare rapsodie di Santi. Mai nessun libro in seguito aprì alla mia fantasia le magiche porte del
sogno e dell’emozione, come allora i racconti di Donna Maruzza.
Ma la fanciullezza passò senza che me ne accorgessi, io terminai le scuole in paese, partii per il
collegio, e Donna Maruzza non la vedevo che durante le vacanze. Attratto oramai da altre esperienze e
da altri desideri, sentivo che le sue sollecitudini materne non m’interessavano più. E poi lei era molto
invecchiata e di notte, a quanto mi riferiva mia madre, cominciava a vaneggiare. Le era nata in mente
la strana idea che qualcuno tentasse di forzare la sua porta a scopi peccaminosi.
Un anno – ero già all’università – mi recai a casa per trascorrere il Natale. Giunsi di sera avanzata, con
un tempo pessimo, e non feci caso se non vidi Donna Maruzza, ma all’indomani, col tempo che si era
rimesso al bello, mi parve strano di non vederla. Sebbene fosse rinsecchita e un po’ svanita, non
mancava mai di venirmi a trovare con tre o quattro uova nel grembiule. Mi affacciai al balcone,
guardai verso la sua casupola. Sul tetto, dove pigolavano alcuni passeri arruffati per il freddo, neppure
un indizio di fumo: le tegole erano ancora umide della pioggia notturna. La porta, a me tanto
familiare, tagliata in due battenti orizzontali e sovrapposti, era a metà chiusa, e tra il battente inferiore
e quello superiore sporgeva un bastone, evidentemente collocato per ottenere che quello superiore
rimanesse alquanto discosto e nel tugurio entrasse un po’ di luce.
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LA ZIA FRANCESCA
Quella vista mi strinse il cuore.
A mia madre, ch’era entrata per portarmi il caffè, domandai: come va, mamma, che Donna Maruzza
non si è fatta vedere?
- Eh, poveretta – mi rispose – se vedessi come si è ridotta! Sono tre mesi che non si alza più, è
un’ombra.
Io rimasi oppresso da queste notizie, e chiesi a mia madre se potevo andarla a vedere: - Mi
riconoscerà, spero – dissi…
Mia madre alzò su di me uno sguardo un po’ allarmato; poi disse, con una specie di risoluzione
improvvisa: - Va… va. Ti riconoscerà di sicuro, perché i suoi sensi sono ancora lucidi. Ma sarà una
pena!
Scesi nella strada, insinuai la mano fra i due battenti, feci scorrere nell’anello la piccola maniglia che
teneva chiuso quello inferiore ed entrai.
Da un giaciglio disteso sul pavimento vidi, in quel barlume, sollevarsi una testa secca incredibilmente
piccola come quella di una tartaruga, una mano ischeletrita e due occhi infossati pieni di una disperata
tristezza. Mi fissarono con una espressione dapprima di stupore e poi di ansia. Compresi subito che mi
avevano riconosciuto.
- Donna Maruzza, come va?… Vi siete ammalata, da molto tempo siete malata?…
Lei mi fissò a lungo, tremando poi disse con fil di voce, che mi parve venisse dal fondo del petto,
come quella di un ventriloquo: - Figlio… figlio mio… siete venuto a vedermi, per l’ultima volta?… E
in preda a un’ansia inesprimibile allungò la mano prese una delle mie, e tentò portarsela alle labbra.
Un senso di ribrezzo m’invase. Dal suo giaciglio saliva un tanfo nauseabondo, e le rughe spesse e
sottili del suo volto erano piene, in modo visibile, di lordura. Lei mi fissava sempre più ansiosa, e mi
attirava a sé, tremando e farfugliando con un fremito parole incomprensibili; ed io non sapevo che
cosa dire per rompere quel silenzio opprimente.
Rimasi qualche minuto accanto a lei in uno stato angoscioso, a guardarla, circondato e quasi assalito
dall’ansia di quel suo sguardo, pieno di una misteriosa disperazione.
Nella casupola il silenzio pareva piovesse a fiocchi, come una nevicata senza vento.
A un tratto, davanti a quel suo tendersi ansioso e al balbettio delle sue labbra, mi sentii correre per le
reni un brivido di sgomento: ebbi la impressione che Donna Maruzza volesse baciarmi.
A questo punto il ribrezzo mi vinse. Ah, come ci rende ingrati e vigliacchi la vita intellettuale! Liberai
la mia mano dalla sua, presi dalla tasca un biglietto da cinquanta lire, glie lo porsi ed uscì totalmente
sconvolto.
In casa trovai mia madre seduta davanti al fuoco.
- Ebbene – mi chiese – vedendo il mio turbamento, ti ha riconosciuto?
- Non me ne parlare, mamma – risposi. – Sono disperato. Pensa… ho avuto la impressione netta,
precisa che volesse baciarmi, e non ho avuto il coraggio di farlo… Non ci posso pensare… è orribile!
- Oh, poveretta – esclamò mia madre – perché non l’hai baciata? Avrebbe avuta la illusione di essere
baciata da suo figlio e sarebbe morta più tranquilla. Baciata e perdonata – soggiunse dopo una pausa –
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come parlando a se stessa.
- Che figlio, mamma, Donna Maruzza ha avuto un figlio?
Mia madre mi guardò di sfuggita e si chinò sul fuoco per attizzare. Fuori si udivano suonare le
ciaramelle natalizie. Rimanemmo così per qualche minuto in silenzio, poi mi madre disse: Bè, oramai
sei un uomo e puoi sapere tutto: Donna Maruzza, in gioventù, prima che io mi sposassi, ebbe un
bambino da tuo padre. Ma la sciagurata non lo volle. Si tormentò tanto durante la gravidanza, che il
bimbo nacque morto. Ora tu capisci…
- Oh, Dio – dissi in preda a una viva agitazione – e balzai in piedi. Per questo mi guardava… e voleva
baciarmi? Vado mamma… vado…
Raggiunsi la sua porta, sfilai ancora il paletto del battente di sotto e mi chinai sul suo giaciglio,
vincendo il ribrezzo di quel tanfo che mi assaliva alla gola. Ella giaceva con la testa riversa sul
guanciale sudicio, gli occhi stranamente spalancati, e nella mano protesa stringeva il mio biglietto da
cinquanta.
Povera Donna Maruzza! Se n’era andata senza perdono. Il suo volto, trasfigurato dalla morte, aveva
una espressione atterrita e sgomenta: pareva che con le pupille spente cercasse ancora il figlio che non
aveva voluto nel mondo.
KOSTIA NON RISPONDE
Kostia aveva sedici anni, faceva parte di un gruppo di partigiani, e siccome era studente, si piccava di
dare un indirizzo quasi scientifico alle sue imprese. Egli aveva notato, per esempio, che l’ora più
propizia per ingannare le sentinelle è quella che di poco precede l’alba. A fare attenzione, in quell’ora
anche le voci della notte, che poi sono le voci delle cose, il silenzio pare diventi più alto al canto dei
galli, e perfino gl’insonni entrano in quel particolare stato di dormiveglia, in cui la trama tenue dei
pensieri crepuscolari s’intreccia misteriosamente con l’apporto delle sensazioni esterne, in modo che
non si riesce a distinguere quali sono le cose reali e quali quelle sognate. Nelle sentinelle poi, costrette
a vegliare per ore all’aperto, in quel clima e nella solitudine ostile della campagna bianca, i nervi si
tendono all’estremo e verso l’alba sopraggiunse il collasso. Allora la sentinella si mette a sognare in
piedi, come fanno i cavalli, e la si può avvicinare e qualche volta anche pugnalare senza che se ne
accorga.
Uscito dall’isba verso le cinque, Kostia era giunto al limite del bosco poco prima che spuntasse l’alba.
A un duecento passi sulla pianura piatta e increspata dal vento, si vedevano luccicare debolmente i
binari della ferrovia. Alcuni ciuffi di betulle coi rami coperti da una peluria candida di brina,
sembravano piante subacquee nella tenuissima bruma del crepuscolo. Vicino ad uno di quei ciuffi si
scorgeva una specie di garitta a cono, fatta con tronchi di alberi, e sotto si vedeva una figura umana.
Sembrava un gigantesco spaventapasseri imbottito di paglia. Era la sentinella tedesca. Ogni tanto,
come mosso da un meccanismo interno, lo spaventapasseri batteva le mani e i piedi, e il rumore
ovattato moriva nell’aria gelida, immota, dietro cui pareva che il cielo s’incrinasse come vetro, per
lasciar trasparire il primo chiarore dell’alba.
- Accidenti – mormorò Kostia – è ben sveglia stamane. Le debbono aver dato il cambio di fresco.
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LA ZIA FRANCESCA
Rimase per qualche minuto a spiare da dietro un tronco un po’ la ferrovia e un po’ il massiccio
tedesco, che si agitava nella garitta, poi fece un passo avanti. La neve friabile, sotto la scarpa di feltro,
cedette producendo un rumore come di sabbia. A un tratto il tedesco ebbe un moto brusco, nell’aria
grigia si accese una rosa di fuoco, per un attimo, poi Kostia avvertì un urto che lo rovesciò a terra.
Sebbene quell’urto lo avesse sbalordito, Kostia si rialzò subito e di un balzo rientrò nel bosco ma
appena fu di nuovo sotto le betulle, che vibravano nell’aria come antenne di vetro, si accasciò sotto
uno spasimante dolore alla coscia. Avvertì qualche cosa di caldo che gli scendeva verso il ginocchio:
si portò la mano sul femore, dove aveva ricevuto l’urto, e la sentì inondata di una materia tiepida e
vischiosa. Era sangue. Una fucilata gli aveva attraversata la coscia. La sentinella tedesca era diventata
immobile, come pietrificata. Bisognava fuggire subito, prima che la ferita esacerbata dal freddo non lo
inchiodasse sotto quegli alberi.
Kostia si rialzò, si asciugò alla meglio la mano sulla tulupa e, nonostante il dolore atroce, si mise a
correre zoppicando verso il villaggio, e col suo tubo di gelatina sotto il braccio. Ora che correva
arrancando e soffiando, gli si era risvegliata la tosse che gli mangiava la gola, una tosse rabbiosa,
indomabile, che lo scuoteva tutto e gli riempiva gli occhi di lacrime. Tuttavia, facendo sforzi inauditi
per vincere il dolore acuto alla coscia, raggiunse il villaggio. L’isba dov’erano in attesa i suoi otto
compagni, era la prima, dal tetto usciva un tenue filo di fumo. Kostia stava per allungare la mano
verso la porta, ma un breve latrato lo riscosse. Si voltò e vide un grosso cane lupo che gli era quasi
addosso. Lo raggiunse di un balzo lo addentò alla tulupa, ringhiando sordamente e fissandolo
minaccioso coi suoi occhi gialli.
La porta dell’isba si aprì, due uomini vennero sull’uscio, ma contemporaneamente sul fondo del
sentiero spuntò un reparto di tedeschi coi mitra in mano, preceduti da un ufficiale gigantesco.
I tedeschi raggiunsero in un attimo l’isba, la circondarono e l’ufficiale afferrò Kostia per il bavero
della tulupa, scuotendolo violentemente. Il tubo di gelatina cadde sulla neve. L’ufficiale, ch’era un
maggiore, si chinò ansimando, lo prese in mano, lo esaminò, poi si rivolse a Kostia: che cosa è
questo?
Il ragazzo lo fissò con una specie di ansia fredda, e non rispose.
- Rispondi, canaglia, che cosa è questo? E poiché il ragazzo continuava a tacere, l’ufficiale gli vibrò
uno schiaffo tra il viso e il collo che lo rovesciò a terra.
- Fuori tutti – ordinò il maggiore tedesco.
Intanto Kostia si era rialzato e con le mani sulla bocca tossiva convulsamente.
- Fuori tutti – ripeté il maggiore – e rivolto ai suoi soldati diede ordine che si sgombrasse l’isba. Otto
uomini tutti in tulupa uscirono all’aperto e si allinearono sulla neve: sull’uscio dell’isba rimase una
vecchia donna, con uno scialletto sudicio intorno al collo. Kostia, tossendo sempre con gli occhi
gonfi, si mise in fila insieme con gli altri.
Il cane, con le orecchie dritte, guardava il maggiore scodinzolando. Seguì un attimo di silenzio rotto
solo dall’ansimare di Kostia, che continuava a tossire.
- Adesso parlerete, canaglie – disse il maggiore digrignando i denti – e impugnò una grossa pistola.
Dove sono i vostri compagni, dov’è il vostro rifugio?
Silenzio. I nove uomini si guardavano tra loro con una specie di solidarietà guardinga e continuavano
a tacere.
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LA ZIA FRANCESCA
- A te, mutter – chiese il maggiore alla vecchia donna – chi sono questi uomini, cosa facevano nella
tua isba?
- Sono russi, batiusca, rispose la donna – non li vedi? Sono russi e si scaldavano.
- E questo ragazzo? – e indicò Kostia.
- È un russo anche lui, non lo vedi? E veniva a scaldarsi.
- Non sai altro?
- Niente altro, batiusca.
- Bene – fece il maggiore – io comincio subito. Vedremo se parleranno.
Si portò davanti al primo della fila quello più vicino alla porta dell’isba, e gli puntò la pistola nel
mezzo della fronte. Parla, svinia d’un russo – (svinia significa porco) o ti brucio le cervella, dove sono
i tuoi compagni? Dov’è il vostro rifugio? Parla.
- Silenzio. Nell’aria gelida fumava il fiato agitato dei nove partigiani.
S’udì un colpo secco e il primo partigiano piombò a terra. Un filo di sangue dalla fronte cominciò a
colare sulla neve, solidificandosi subito.
- E uno – il maggiore pensò al secondo.
- A te, parla: dove sono i tuoi compagni?
- Silenzio. – Un secondo colpo secco ed anche il secondo partigiano piombò sulla neve con la fronte
spaccata.
Per otto volte la domanda fu ripetuta e per otto volte la risposta fu identica: silenzio.
La vecchia guardava da sull’uscio, impassibile, con le ruvide mani intrecciate sul grembo.
Non restava in piedi che Kostia, una tosse convulsa lo scuoteva tutto, e la sua faccia giovanile,
affilata, con qualche efelide sotto i pomelli, era livida.
- Adesso tu parlerai, figlio di una p… o farai la fine dei tuoi compagni. Dov’è il vostro rifugio? E il
maggiore puntò sulla fronte di Kostia la canna fredda della rivoltella.
Il ragazzo avvertì il contatto gelido del metallo, mentre un nuovo accesso di tosse lo assaliva,
soffocante. Si tese nello sforzo del petto e della gola, e fissando coi suoi occhi giallastri il maggiore
tese in alto la bocca e sputò. Il grosso tedesco fece un passo indietro e si portò la mano al viso con
ribrezzo. Uno sputo giallastro, già solidificato dal freddo intenso, gli rimase sulla palma.
Il maggiore lo scagliò via, avanzò ancora, puntò la pistola sulla fronte di Kostia e fece fuoco.
Il ragazzo rotolò nella neve a braccia spalancate. Allora la vecchia donna uscì all’aperto e si avvicinò
al maggiore tedesco.
- Ora puoi andare, batiusca – li seppellirò io.
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LA ZIA FRANCESCA
ODILIA – FANCIULLA NORDICA
Allora vuoi proprio partire?
Sì – rispose lei, sollevando appena le ciglia sui grandi occhi verdi come le foglie del limone.
Parto stasera col diretto delle 8,30 per Napoli.
E dove andrai?
Mi fermo a Roma due o tre giorni, per salutare un pastore del mio paese; poi mi recherò a Chézers, in
Svizzera, dove ho un caro amico che mi attende da parecchio tempo.
E poi?
Starò con lui una quindicina di giorni e dopo andrò ad Insbruck. Un mio compagno di scuola è medico
là. In una casa di salute, e mi ha scritto che desidera tanto vedermi. Anche lui mi aspetta da tanto.
E poi? Da Insbruck passerò a Monaco, dove ho un altro amico fabbricante di birra; e da Monaco
finalmente tornerò al mio paese. Vi troverò già la neve e con gli sport invernali riprenderò il mio
lavoro.
Sai che sono già stanca del tuo sole?
Il giovane abbassò la testa con un’espressione disperata, e continuò ad arrotolare meccanicamente
sulla tovaglia delle briciole di pane. Poi chiese ancora, ma timido: - Come va hai tutti codesti amici
sparsi per il mondo?
- Come va? – fece la donna.
È semplicissimo. Io viaggio sempre, e dovunque vado conosco delle persone, che diventano miei
amici.
Tu non sei uno di questi? Come ho conosciuto te…
- Ah come hai conosciuto me…
La fissò un istante negli occhi e poi abbassò il capo, perché l’altra non leggesse nei suoi occhi lo
smarrimento.
Quelli di lei, così grandi e belli, erano tranquilli, indifferenti come quel dolce cielo settembrino che si
stendeva sul loro capo.
Guardavano un po’ trasognati verso occidente dove la cima dell’Etna, fumava in una nebbiolina
d’opale, si profilava appena in lontananza come nel delicato disegno di una stampa giapponese.
I due giovani erano seduti sul terrazzo dell’albergo a Reggio Calabria, e avevano appena finito di fare
colazione. La giornata era bella, ma il cielo dietro la giogaia dei monti siciliani, aveva quella
trasparenza caratteristica dei cieli di settembre, in cui pare rispecchi già la malinconia dell’autunno
imminente.
Lungo i fili telegrafici, che si disegnavano sul mare sottostante alcune rondini meriggianti sembravano
note musicali tracciate sopra un gigantesco pentagramma, e di quando in quando, spollinando, fra i
beccucci le penne delle ali e della coda forcuta, pareva le affilassero a lungo il volo del ritorno. Invano
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LA ZIA FRANCESCA
gli alti oleandri ad ombrello di cui era ornata la terrazza, tutti cosparsi di una schiuma di petali rosei,
tentavano di fermare l’opulenta sensazione dell’estate. Lo scroscio del mare da dietro il bastione della
ferrovia si diffondeva troppo chiaro, nell’aria e troppo nitidi si scorgevano nastri brulli delle strade sui
monti.
L’autunno era alle porte e quella brava ragazza nordica sentiva che era giunto il tempo di ritornare alle
sue verdi foreste e ai fiordi del suo paese.
Erano belli e giovani tutti e due.
Lui bruno, tarchiato, la testa piccola e crespa, i denti bianchi come i petali delle zagare. Lei alta, coi
capelli di canapa lucente, gli occhi grandissimi, e la pelle su cui era leggera patina di bronzo, e vi
aveva diffuso il sole del mezzogiorno, non aveva potuto cancellare la bianchezza e la serica
delicatezza originaria. Anche lei aveva denti bianchi e regolari, ma alcuni di essi erano legati con un
filo d’oro che scoprendosi nel sorriso faceva un certo contrasto spiacevole con la freschezza del volto.
Egli la guardava sul collo, sulla bocca; sulle braccia nude fino al gomito, sulle ginocchia a cavalcioni
e si sentiva sconvolto.
Odilia, tesoro, non partire ancora! – disse il giovane e posò affettuosamente sul braccio di lei la sua
mano bruna, incordonata di vene. Resta con me almeno per tutto settembre. Se tu parti io muoio
divento pazzo!
La giovane scosse la testa: - No tu non farai questo, sarebbe stupido. Io parto perché sono già stanca
di tutta questa luce, di questa terra calda. Ho voglia di rotolarmi sopra la neve, di volare sugli sci sotto
gli abeti del mio paese. Ci rivedremo un altro anno. Se non mi sposo ritornerò da te, io non dimentico
facilmente i miei amici. Anzi li ricordo sempre.
- Non partire, Odilia! Fece lui con angoscia.
Ho deciso disse lei: e si alzò. – Ora vado in camera a riposare per un’ora. Poi tu verrai a trovarmi.
Vuoi? Sarà l’ultimo nostro addio, il più dolce.
S’incamminarono verso l’interno dell’albergo. Sull’uscio della camera di lei si baciarono, poi egli si
chiuse nella propria stanzetta, si buttò sul letto e col viso contro il guanciale si mise a singhiozzare
come un bambino. Si sentiva come schiantato.
S’erano conosciuti per caso sulla spiaggia, in uno dei primi giorni di agosto, ritornando col suo
motoscafo dalla parte di Lazzaro, egli aveva accostato a riva e, sceso a terra, si dirigeva verso un
canneto, quando in una insenatura, al riparo di una gigantesca pianta di agave vide seduta sulla sabbia
una donna con in testa un grande cappello di paglia.
Il giovane ebbe l’impressione di trovarsi davanti ad una di quelle nereidi di cui gli antichi avevano
popolato i mari del sud: Galatea o Aretusa! Quella pelle era di una bianchezza così abbagliante, che
sembrava impastata con la schiuma.
Nel vederlo ella aveva serrato rapidamente i ginocchi, ma lo aveva fissato arditamente da sotto la
larga tesa del cappello con la franchezza serena dei fanciulli. Siccome il giovane aveva balbettato
qualche parola di scusa lei era scappata ridendo nel canneto, aveva infilato in un attimo un costumino
azzurro e poi era sbucata fuori di nuovo.
- Oh prego signore – disse col suo accento esotico – sono venuta in un luogo solitario, per potermi
mettere in libertà. È così caldo il sole quaggiù! Caldo e stupendo.
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LA ZIA FRANCESCA
Di viso non era bella. La faccia un po’ larga, il mento a spatola, il naso all’insù, di primo acchito
davano alla sua fisionomia un’espressione alquanto goffa e sgradevole; ma il suo corpo sembrava
foggiato da un artista dell’altica Ellade per la statua di un cinedo. Lo sport e la vita all’aria libera
avevano dato alle sue membra la grazia inimitabile delle opere che la natura esprime perfette.
Sedettero accanto, al riparo della pianta di agave e cominciarono a discorrere, attratti ambedue dalla
doppia simpatia della gioventù e dell’ignoto.
Lei disse che veniva dal Nord, si chiamava Odilia, viaggiava sola e aveva pensato di passare l’estate
nella "Calabria dei briganti".
Ve ne sono ancora quaggiù? – chiese ridendo.
Sì signorina. Io sono un brigante per esempio.
Oh, allora i briganti sono molto simpatici!
Mezz’ora dopo salivano insieme sul motoscafo; e da quel giorno non si erano lasciati più. Partivano al
mattino con un cestino di colazione e si fermavano nei luoghi dove la spiaggia era più solitaria. Un
canneto, una siepe di fico d’india delle piccole vigne ai margini della sabbia, con casupole di pietra
abbandonate, e più in su gli speroni d’arenaria, sparsi di grandi lentischi e d’oleandri. Intorno non si
udiva che il cantare delle cicale e il fruscio del mare, ritmico, come di un mostro che lambisse la
spiaggia.
Si sdraiavano all’ombra dei canneti, inebriati dal profumo della salsedine da quello della menta e del
serpillo, che esalavano sotto i loro improvvisati giacigli.
Erano stati due mesi di sogno e di felicità perfetta.
E ora ella partiva per andare a trovare degli altri amici, come diceva lei che l’avevano conosciuta ed
amata come lui nelle soste della sua vita errabonda. Uno a Roma, un altro a Cheziers, un terzo a
Insbruck un quarto a Monaco. La felicità che ella aveva diviso con lui l’avrebbe ora goduta con altri
uomini, avrebbe detto ad altri le stesse parole appassionate che aveva detto a lui. Avrebbe prodigato
ad altri le stesse carezze.
E forse egli non l’avrebbe rivista più, sarebbe stata per lui come una di quelle visioni meravigliose che
appaiono in sogno; all’inizio della primavera e che nessuno riesce a rievocare dalle profondità del
subcosciente.
Oh – ripeteva lui serrando disperatamente il viso tra le mani – questi due mesi così nostri non hanno
lasciato nessuna traccia nella sua anima! Dopo essere stata per me la più deliziosa delle compagne,
ella parte tranquilla verso altri amori.
Come una rondine che lascia il nido sopra un campanile e va a fabbricarne un altro, sopra un
minareto. M’invita ad un ultimo convegno, come io potrei invitarla ad un’ultima corsa in motoscafo!
Erano già passate le quattro e faceva ancora molto caldo. I grandi oleandri e gli ombrelli aperti sui
tavoli, con le tovaglie a vivaci colori, gittavano ombre oblique sul pavimento e palpitavano sotto il
leggero soffio della brezza che veniva dai colli.
Sulla grande porta a vetri del salone, apparve Odilia. Era fresca, ilare. Vestiva di bianco. Lo
raggiunse. – Perché non sei venuto a trovarmi? – gli disse mettendogli un braccio al collo.
Lui non rispose e non ricambiò la carezza. Soffriva troppo. Ora guardava con una strana fissità il mare
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LA ZIA FRANCESCA
oltre la ringhiera della ferrovia.
L’acqua di un azzurro intenso fiorata dalla luce obliqua del vespero ondeggiava appena, senza un
fiocco di schiuma. Ad ovest un marezzo chiaro come il latte, partendo dalla spiaggia di Taormina, si
perdeva a zig-zag verso il centro dello stretto, dove si sporgevano come delle zone fosche.
Sei triste? Fece lei vedendolo così silenzioso. Oh bene, passerà.
Andiamo a fare un’ultima gita sul mare. Almeno da lui voglio essere abbracciata un’ultima volta! E
rise.
Il giovane si alzò come un automa e la seguì. Scesero sulla spiaggia, montarono sul motoscafo e
filarono verso il largo. A un buon chilometro dalla riva lei si svestì rapidamente tuffandosi in acqua.
Nuotò per un pezzo, e a grandi bracciate, con gioia frenetica, abbandonando a pause il suo corpo
resupino alla corrente; poi risalì nel motoscafo, e così com’era, tutta stillante, porse le mani e la bocca
all’amato. Lunghi rivoli le scendevano giù dai capelli sulla fronte e sulle labbra.
Vedi? Gli mormorò lei sulla bocca – il tuo mare è meno egoista di te.
Mi lascia partire senza rancore, mentre tu…?
- Oh, no, - fece lui con un’espressione indefinibile nello sguardo. – Se il mio mare ti amasse come ti
amo io, ti abbraccerebbe con una forza maggiore della mia e ti terrebbe prigioniera!
Mentre egli la fissava ansioso, il motoscafo scivolò nella zona chiara del marezzo e di colpo si spense
il motore.
Improvvisamente la fragile barca ebbe un urto sul fianco e fece un rapido giro su se stessa, poi, con la
prua rivolta al nord, si mise a correre verso il centro dello stretto come se fosse d’un tratto balzata sul
nastro di un tapis-roulant.
- Che succede? – fece Odilia staccandosi da lui e guardandosi intorno un po’ stupita.
Lui non rispose, guardava come stralunato davanti a sé, verso il luogo dove il motoscafo correva con
rapidità crescente. A qualche centinaio di metri il gridellino tenero e uguale dell’acqua diventava
fosco, e su quel nero si vedevano fiorire e scomparire in un attimo impetuose creste di schiuma. Il
motoscafo abbandonato ormai a se stesso, filava con la velocità di un bolide verso il campo dei
gorghi.
- Dio mio, dove andiamo? – disse la donna attaccandosi al giovanotto, perché non accendi?
Ma prima che finisse la domanda un’onda nera sibilante s’inarcò intorno a loro e scagliò la fragile
barca in un imbuto pieno di schiuma e di clamori. Risalirono sulla cresta di un’altra onda. Lei era
senza fiato. Accendi, accendi!, gridava in mezzo al clamore dell’acqua, e lo scuoteva per le braccia.
Lui era livido. Fece quattro o cinque volte il tentativo di accendere, ma il motore non rispose. Come
nelle favole antiche, erano entrati nei dominii paurosi di Scilla, e i gorghi si aprivano per inghiottirli.
Accendi, accendi!, gridava lei. Che fai? E come si accorse che lui la guardava disperato, gli si
aggrappò al collo e tutti e due, allacciati, scivolarono nel fondo del gorgo, sparirono in un rigurgito e
schiuma.
Tre giorni dopo, ai piedi di uno di quei canneti dove solevano riposare durante le ore della canicola, il
mare li depose, ancora abbracciati, sereni nel volto e pallidi come dopo un’intensa ora d’amore.
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LA ZIA FRANCESCA
ESCI, SOLE, A RISCA LDARCI
Nei paesi di campagna, dove tutto si accorda al ritmo casalingo della vita rurale, anche le creature più
libere ed indocili, come gli uccelli e i ragazzi, pare che diventino abitudinarie.
Anche per esse, come per gli uomini l’avventura quotidiana si riduce di proporzioni e perde il sapore
dell’imprevisto.
I passeri del villaggio, che scendono sulla strada o sui davanzali in cerca di briciole, sempre gli stessi
e alla stessa ora, come piccoli frati minori alla cerca; le rondini sul campanile o sulla tesa di fili
telegrafici, che si spollinano in fila pispigliando, come comari pettegole; i ragazzi che si radunano
sempre allo stesso luogo, per organizzare le loro razzie negli orti periferici: tutta questa minuscola
popolazione alata – perché i ragazzi, a loro modo, hanno anch’essi le ali – dà l’impressione che,
vivendo accanto a quel microcosmo più vicino alla Provvidenza e più lontano all’intelligenza
cittadina, ne acquisti le abitudini e i gusti, e ne riproduca i tipi.
Quasi direste che anche fra i passeri vi sia Rocco l’accattone e Pasquale il sacrestano, e tra le rondini
Nannetta la vedova, che cerca marito, e Rosina del macellaio, che si trascina dietro uno stormo di
mosconi.
Nel mio paese, per esempio, i passeri, le rondini e i ragazzi hanno, da tempo immemorabile, un luogo
di raduno fisso.
Per i passeri è un maestoso ulivo in fondo, tra le case e la campagna, lungo la strada carrozzabile. È
un albero gigante, alto quanto un campanile, dal fogliame cupo e lucente come il bronzo lavato. In
paese lo chiamano "l’ulivo del vescovo", perché il terreno su cui sorge appartiene alla mensa
vescovile.
Su quell’ulivo, quando il sole tramonta e nell’aria pare che ogni voce lasci una scia come una stella
cadente, reduci dai campi d’orzo e di grano, che hanno saccheggiato tutto il giorno, migliaia di passeri
si addensano fra i rami.
Il loro cicaleccio, che dura fino al crepuscolo, è così frenetico e melodioso che a me, tutte le volte che
l’odo, fa pensare a una cosa strana. Mi pare che l’ulivo si sia trasformato in un gigantesco sacco di
seta, e che in esso un numero incalcolabile di mani mestino e rimestino miriadi di anelli nuziali.
Le rondini, invece, tengono concilio sopra la tesa dei fili telegrafici che sta davanti al Municipio. Con
le testoline brune e gli sparati bianchi rivolti al sole nascente, emettono un pispolio così minuto e
indaffarato, che le direste uno stuolo di monacelle intente a sferruzzare intorno alla calza. Ma quelli
che sono l’anima del villaggio sono i ragazzi.
Per essere in carattere con gli uccelli, hanno scelto anch’essi un luogo aereo per i loro convegni. È un
sasso enorme a forma di un immenso cocomero interrato alla base, alto come una casa, che sorge
accanto alla chiesetta protopapale, nel bel mezzo di una delle vie di accesso al paese.
È di granito durissimo, liscio, screziato come l’uovo di un gigantesco uccello, e poiché si trova in quel
posto da chi sa quante migliaia di anni, è considerato come una specie di nume tutelare. La chiamano
la "Pietra di Febo".
Sulla sua piattaforma si danno convegno i ragazzi poveri, quelli che vivono non si sa di che, come gli
uccelli dell’aria.
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LA ZIA FRANCESCA
Sono scalzi, scapigliati, con le camicie a brandelli, i visetti all’erta tatuati dal sole ardente del Sud. I
loro occhi hanno quel colore strano, tra il giallo e il verde, che hanno gli occhi degli animali da preda,
in agguato tra i canneti. Quando si chiamano fra loro: Cicciarè, Petricè, Rocchicè, Peppinè –
sembrano galletti di primo canto. Nei loro discorsi passa la vita di tutto il paese. Accosciati sulla
piattaforma aerea della Pietra di Febo, quando il sole ascende verso la cima del campanile, iniziano il
loro cicaleccio. Sono in quattro.
Dice Cicciarè, che si è sdraiato con la pancia sul sasso: - Senti com’è caldo? Sembra un pane uscito
dal forno. Mi ristora lo stomaco ch’è vuoto.
- Non hai mangiato – chiede Petricè?
- Peuh!… un tozzo di pane stamattina, quando mia madre è partita per la campagna.
- Prendi. E Petricè gli porge una manata di drupe di mandorle ancora tenere.
Gli altri due tendono le mani: - E a noi niente?
- Oh… ragazzi! Non ne ho più; una ciascuno.
- Dove le hai rubate? Chiede abbassa voce Peppinè.
- Nell’orto di Don Mico Surino…
- Se ti coglie, quel lupo ti ammazza.
- Bravo! e io mi lascio cogliere!… Conosco le sue abitudini. È sempre nella bettola di Romeo. Ieri
giuocava a carte, vinceva e beveva, beveva, si metteva le dita in gola e vomitava, e riprendeva a bere.
Era pallido, con quella faccia da pane cotto sotto la cenere e balbettava sbavando. Che porco! Allora
sgusciai fuori dalla bettola, entrai nell’orto e mi arrampicai sul mandorlo. Non ho ancora allungata la
mano che quasi mi viene un accidente; una voce acutissima si leva dalla casa di fronte: "Assassino,
brigante… in galera a vita mi tiene, ahaa!".
"San Francesco di Paola diletto…".
Era la pazza di donna Marietta, la moglie di Don Micu, stavo per scappare. Ma poi mi ricordai ch’è
chiusa a catenaccio e che non poteva vedermi. Anche gli scuri delle sue finestre sono inchiodati.
- Poveretta, è al buio tutto il giorno. Delle volte canta, delle volte bestemmia come un giudeo.
L’immagine della pazza diffonde un senso d’angustia fra i ragazzi. Segue un breve silenzio. Grandi
nuvoloni bianchi passano nell’aria. Poi Rocchicè estrae dalla tasca una manata di bottoni e propone: Vogliamo giuocare?
Cicciarè fra i bottoni vede una specie di straccetto minuscolo, arrotolato su se stesso, di un colore
indefinibile. Allunga la mano.
- Che… briscola! Son due lire, sai?
- Chi te le ha date?
- Don Peppino…
I ragazzi si guardarono in silenzio; poi uno azzarda una domanda scabrosa: - Don Peppino tuo padre?
- E che ne so io… una volta mi minacciò di tagliarmi la testa se dicevo quello.
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- Ma… non va a letto con tua madre?
- Non lo so. Rocchicè si guarda i piedi, impacciato.
- Non lo sai! Sei scemo… non vedi?
- Non sono scemo. Quando lui viene la sera, mi dà due lire e mi manda a dormire con l’asino nel
fienile.
- Io non ci andrei!
- Si, non ci andresti! Sentiresti che calci. Però mi vuole bene. Delle volte mi porta un pezzo di pane
bianco e della ricotta salata.
- E a tua madre vuol bene?
- Ma, lo sa lui… Qualche volta la picchia, però sempre con le mani.
- E tu che fai quando la picchia?
- Io – risponde il ragazzo tra la vergogna e la rabbia – io esco fuori e mi metto a piangere.
- Io lo prenderei a sassi, quant’è vera la Madonna…
- Credi che non mi sia venuta la voglia più di una volta? Ma tutti dicono ch’è mio padre, e allora?
- Già, allora ha il diritto di picchiarvi, te e tua madre.
Su questa sentenza, piena della più antica saggezza, si rifà silenzio. Pare che tutti i ragazzi siano
intenti a risolvere degli enigmi.
Ecco, che un quinto si avanza dalla piazza. È un mingherlino, coi capelli di un biondo opaco, e
zoppica.
- Ohè, Micarè, come va la gamba?
Il ragazzo, si avvicina al sasso e tende le due mani senza rispondere:
- Tirami sù; da solo non ce la faccio ancora.
Cicciarè e Petricè, scivolano lungo il sasso come due lucertole, gli prendono le mani e lo issano sulla
piattaforma.
- Mi hanno levata ieri l’ingessatura – spiega Micarè – mostrando la gamba pallida e scarna, ma ancora
zoppico.
- Avete fatta la causa? Chiede Cicciarè.
- Quale causa?
- Tua madre non ha fatto querela a Don Savu? Ti ha rotto una gamba, ti deve dare dei soldi. Lo disse
Nicolino, quello che studia d’avvocato.
- Si, dei soldi… con quell’uomo! Lo possano ammazzare davanti a un calvario come Mastrantoni il
tabaccaio, sai cos’ha fatto? Ha chiamato mia madre e, con un nervo di bue in mano, l’ha costretta a
rimettere la querela. Ci ha dato mezzo tomolo di grano e due litri d’olio. Mia madre gli disse:
- Signorino, avete rotto una gamba al mio ragazzo per due arance, due sole… e ora non mi pagate
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neppure le medicine. Sapete cos’ha risposto? Che le sue arance valgono più della mia gamba. Pure
che ci vuoi fare? Loro sono i signori. Se vuoi mangiare!…
Per la terza volta i ragazzi tacciono, come oppressi da una invisibile minaccia. Si guardano intorno e
poi guardano in alto. Dall’abbraccio del sole con la terra a loro viene la provvidenza: le mandorle, le
lattughe, i gambi aspri dei cardi, il miele delle api selvatiche.
Siamo in aprile. L’aria è piena di densi odori vegetali. Sui poggi fioriti di ginestre si alternano ombre
di nuvole e isole di sole. L’erbe invadono tutto: nelle celle campanarie, ai piedi dei santi, nelle nicchie
esterne, su gli embrici: dovunque il vento ha accumulato un po’ di terriccio spuntano nepitelle e
soffioni. Affacciata sul cornicione della chiesa, una pianta di violacciocche, col suo saio di velluto
monacale, sembra una piccola suora che sporga la testa per spiare il mondo.
I ragazzi guardano il giuoco delle nuvole estatici e i loro volti si rasserenano. Gli uomini sono cattivi,
ma il cielo è buono.
Improvvisamente un brivido di freddo li circonda: un enorme nuvolone candido ha velato il sole. Si
levano in piedi e, come uno stormo di passeri, si mettono a cantare.
"Nesci suli, nesci suli,
pe’ lu Santu Salvaturi
pe’ lu cielu, pe’ li stilli,
pe’ nui poveri piccirilli:
N’uma nenti da mangiari,
nesci suli a caddiari.
"Esci, sole, esci sole – per il Santo Salvatore – per il cielo per le stelle – per noi poveri bambini – non
abbiamo nulla da mangiare – esci sole a riscaldarci".
IL DIAVOLO DELLE DOLOMITI
A Perra di Fassa, dove abitava e dove molto probabilmente conduceva ancora un albergo (io non lo
vedevo dal 1939), per una banale caduta dalla bicicletta, è morta il 6 agosto la guida più famosa
dell’Alto Adige, Tita Piaz, che tutti chiamavano "il diavolo delle Dolomiti".
La popolarità di Tita nel Trentino era unica ed aveva risonanza internazionale guida preferita ed
amico del defunto re Alberto del Belgio, che lo ebbe ospite più di una volta alla reggia di Bruxelles;
scalatore di incredibile audacia, autore di diecine di salvataggi nelle condizioni più difficili, le
maggiori avventure delle Dolomiti negli ultimi quarant’anni lo ebbero protagonista ed eroe. Nei casi
estremi non c’era che lui per risolvere le situazioni impossibili. Chi andava con lui era sicuro del fatto
suo, perché egli non solo conosceva ogni angolo ed ogni spigolo delle sue montagne come la palma
della propria mano, ma ad un coraggio temerario accoppiava l’acume di una viva intelligenza, che
faceva di lui un poeta dell’alpinismo.
Io ricordo ancora il modo bizzarro con cui lo conobbi nella estate di quell’anno, alla vigilia dello
scoppio della seconda guerra mondiale.
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L’editore Monanni, che aveva preso alloggio nel suo albergo di Perra, venne a trovarmi a Pozza di
Fassa, dove mi trovavo in vacanza e mi disse che aveva parlato di me al Piaz e che questi aveva
espresso il desiderio di conoscermi.
- Verrò io da lui – dissi al Monanni – perché vorrei pregarlo di un favore. Ho il mio ragazzo maggiore
che fa il pazzo per andare sulle Torri del Vaiolet: vorrei pregarlo di prenderlo con sé alla prima
occasione.
Vi andai di fatti la mattina dopo, non essendo Perra che una frazione di Pozza. Lo spiazzo davanti
all’albergo era deserto; le otto o dieci sedie a sdraio, che vi erano aperte, erano vuote meno una, sulla
quale stava sdraiato un uomo tarchiato, d’un color fulvo anche nelle brache di grosso fustagno e nei
peduli di stoffa e corda. Tutto sbarbato, la grossa testa grigia dai capelli corti, la pelle di una tinta
vigorosa ma arida, quasi calcinata, sembrava dormisse.
A un tratto venne fuori dall’albergo una magnifica ragazza tirolese, si avvicinò al dormente, l’osservò
un istante, poi afferrato con ambo le mani il piuolo di testa della sedia, gli puntò un piede nel centro
della schiena e d’un colpo lo sbalzò fuori come da una catapulta. Quell’uomo era Tita Piaz, e solo una
donna poteva permettersi quegli scherzi con lui, che non usava cerimonie neppure coi suoi regali
clienti.
Quella florida Valchiria, che come appresi dopo era la sua cameriera e un po’ anche la sua segretaria,
era stata abituata da lui a quelle ruvidezze, perché Tita sopportava più facilmente una sgarberia che
non una sdolcinatura.
Quando mi presentai, ridendo per la maniera spiccia con cui la giovane tirolese lo aveva destato,
prima si aggrondò, poi, ascoltata che ebbe la mia preghiera di portare con sé sul Vaiolet mio figlio alla
prima occasione, si rasserenò.
- Niente occasioni – mi disse col suo fare scontroso – mandamelo qui domattina all’alba; faremo le
Torri io, lui e il mio ragazzo.
La sera dopo mio figlio tornò dall’ascensione difficilissima felice ma sbalordito.
- Papà – mi disse – quell’uomo è veramente un diavolo. Ci cacciò su, me e suo figlio, più con gli
occhi che con le mani, poi ci piantò in cima e solo, senza corde, balzando e scivolando leggero come
l’acqua di una cascata, scomparve giù per la parete, con un: fate da voi, macachi! Io, a vederlo
scendere con quella rapidità, mi sentivo arricciare i capelli.
Seppi poi da lui, in gran segreto, che aveva fatto quello, perché si era accorto che i due ragazzi
andavano bene. Fu così che conobbi Tita Piaz e fu allora che mi parlò di un suo volume di memorie a
cui stava lavorando e che apparve solo nel 1947 per i tipi del Cappelli di Bologna: "Mezzo secolo
d’alpinismo".
Tita Piaz non era un rozzo montanaro, ma aveva frequentato le scuole magistrali di Bolzano in qualità
di "Bettel-student" (studente povero, a lettera mendicante) da dove fu scacciato a diciannove anni per
la vivacità eccessiva del suo carattere e perché non aveva ottemperato all’obbligo della confessione
pasquale. Aveva una cultura farraginosa, caotica, fatta attraverso le più disparate letture, e aveva
portato nell’alpinismo un qualche cosa di intellettualistico, di generoso e di religiosamente
consapevole, che non è facile trovare nelle guide comuni. Per lui la montagna era una liberazione, un
luogo immensamente aperto dove egli scaricava la tensione estrema del suo carattere un po’ strano,
dove la forte e quasi eroica bontà dell’anima faceva a pugni con un senso di ribellione permanente
contro tutti i legami, tutte le imposizioni e tutte le tirannidi. Amico devotissimo di Cesare Battisti e
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del povero conte Manci, durante la prima guerra mondiale fu condannato al capestro e si salvò con
una fuga rocambolesca, ma questo non lo salvò dalla persecuzione del fascismo, che lo ebbe sempre
irriducibile nemico.
Tita, come tutti gli uomini d’azione, parlava poco delle sue vicende politiche, ma qualche volta, tra
amici di cui si fidava, faceva qualche confessione.
Quell’anno che fui a Pozza, una sera ch’era insolitamente di buon umore, in un gruppo di intimi narrò
l’ultima, per allora, delle sue disavventure. Per il matrimonio della principessa Maria José egli era
sceso a Trento, con l’intenzione di recarsi a Roma a salutare la futura regina, che aveva conosciuta
bambina alla reggia di Bruxelles. Fu invece arrestato e chiuso in prigione. Allora pensò di scrivere alla
principessa esclusivamente per comunicarle l’impedimento che gli aveva tolto il piacere di riverirla in
terra italiana. Dopo qualche giorno venne scarcerato e a Perra gli giunse una fotografia con questa
dedica: "A Tita Piaz, la seconda vittima del mio matrimonio".
- Perché – gli chiesi io – la prima vittima chi era?
Tita sorrise scontroso:
- La prima vittima era stata lei, povera figlia.
Caro, indimenticabile Tita. Egli amava i cimiteri! La sua anima ardente socialista si riposava nei
luoghi dove tutti si diventa eguali. E nel cimitero della sua piccola Perra avrà riposo.
PRIMAVERA IN MONTAGNA
Da lungo tempo non assistevo al ritorno della primavera dimorando in campagna; quest’anno che vi
assisto, dalla quiete un po’ freddolosa di una valle alpina, mi accorgo che avevo smarrito quasi
interamente il senso sacro di questo ritorno.
Noi, gente di città, a furia di vederci attorno la foresta di pietra dei grandi palazzi, le strade asfaltate,
le piazze di marmo, le chiese, i monumenti e le ciminiere; circondati e quasi prigionieri come siamo
delle opere composite dell’uomo, destinate non tanto alla soddisfazione dei suoi bisogni naturali,
quanto alle esigenze di una vita complessa, arbitraria e artificiosa, finiamo col perdere il senso del
lavoro spontaneo della natura, e quindi anche il senso religioso che regola il ritmo delle stagioni.
Quasi si direbbe che ci accorgiamo del ritorno della primavera, più per quello che muta nelle nostri
abitudini quotidiane, che per quello che si rinnova nell’aspetto delle cose. Per noi la primavera
significa spegnere i termosifoni, cambiare i vestiti, ai colori gravi e alle lane pesanti sostituire colori
più chiari e abiti leggeri, usare cravatte più gaie.
In casa si riaprono i balconi, si ritorna in giacchetta sulle terrazze, si rimettono all’aperto i vasi di fiori
e delle piante ornamentali; la grasta con l’alberello di limone e di oleandro, l’odorosa cedrina e la
salvia, la violaciocca col suo velluto monacale e i gerani fiammeggianti, che pare debbano accendere
l’aria coi loro colori di fuoco…
Ma anche questa natura sana e addomesticata, le piante e i fiori che coltiviamo sui balconi, a vederli
così soli e timidi nella terra esule dei vasi, perdono quasi il loro carattere vegetale, la loro immemore
innocenza, per assumere un significato di simboli, di personificazioni magiche e demoniache di quelle
aspirazioni celebrali alla gioia, alla bellezza e al mistero, che in noi sostituiscono i bisogni spontanei
dell’anima.
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Anche quel poco di campagna che vediamo nei parchi e nei giardini pubblici non basta a suggerire il
sentimento reale e profondo del rinnovarsi della natura.
Quelle aiuole pettinate e regolari, coi fiori messi in ordinanza come le comparse sopra un
palcoscenico, e coltivati in forme geometriche – ad arabeschi, a circoli, a triangoli, simmetrici –
quegli alberi belli e inutili piantati lungo i viali come gli ombrelloni sulle spiagge, gli ippocastani coi
loro fiori a grappolo, eretti fra le grandi foglie e ordinati come le candele di un lampadario
ottocentesco, più che di un fenomeno spontaneo, danno l’idea di una primavera artificiale. Si direbbe
quasi che nella esposizione di verde e di fiori, sia uno spettacolo che ai cittadini prepara
l’amministrazione comunale, come la Fiera Campionaria e, una volta, la festa dello Statuto.
Non vi è nulla da meravigliarsi perciò, se a furia di allontanarci dalla vera natura, noi cittadini
abbiamo smarrito quel senso panico e sacro, che gli antichi attribuivano al ritorno della primavera e
che avvertono ancora solo gli uomini di campagna.
Di questo ritorno gioioso e improvviso io ebbi l’altro ieri quassù la sensazione quasi fisica.
Si sa che in montagna la primavera è tardiva, ma in questa dove io mi trovo, l’inverno appare ancora
più squallido, in quanto la vegetazione è di quella che perde interamente le foglie. Le pendici qui
intorno sono coperte quasi esclusivamente di larici e più in giù di betulle e di frassini.
Quando io vi giunsi, gli alberi tutti del color della ruggine, si profilavano coi loro rami spogli sul cielo
sereno, come nel disegno di una robusta acquaforte. I torrenti, i lotti delle cascatelle, che d’estate
riempiono con un chiacchiericcio così delizioso le pendici boscose, erano secchi e muti.
Il fiume nel fondo della valle, con le ossature scoperte del suo greto seminato di pietrosi enormi,
levigati e incavati a cotila, di un verdognolo funerario, era desolato e solitario come una via maledetta.
La terra sembrava proprio in lutto. Per ore e ore non si levava intorno una voce, non si udiva cantare
un uccello.
Verso i primi di Aprile cominciarono a spuntare sui prati ancora completamente gialli alcuni fiori
delicati. Era l’aconito quello stesso fiore velenoso, che avevo lasciato nello scorso autunno, con
questa differenza: che l’aconito dell’ottobre era violetto e questo è bianco come la zagara. Ha un
gruppetto di pistilli dorati in fondo al calice che, a guardarli dall’alto, danno l’immagine di un lumino
acceso, di uno di quei lumini senza fiamma, che ardono accanto a Gesù morto nel Santo Sepolcro.
La primavera pareva non dovesse venire mai.
Ma improvvisamente l’altra mattina un rombo diffuso si rovesciò dalle cime sulla valle, l’animò tutta
di un fremito enorme.
All’alba la mia casa vibrava come una campana percossa, le finestre e gli usci si misero a tremare e a
bisbigliare, con quelle curiose voci che sembrano un discorso premuroso e segreto degli spiriti
familiari.
Cigolavano sospiravano, mandandosi l’un l’altro attraverso gli anditi i loro misteriosi scricchiolii,
come se dovessero comunicarsi un annunzio festoso.
Destato da tutto quel clamore, balzai giù dal letto e, in vestaglia, mi affacciai sul balcone: un balcone
di legno, che cigolava anch’esso come il ponte di una barca assalita dalle onde.
Un vento fragoroso era sceso dalla parte del Tremoggia prima che apparisse il sole e, spettacolo
curioso, portava sulle ali, piccoli fiocchi di neve, che vagavano nell’aria mossa come delicati petali di
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fiori.
La voce dei boschi produceva una romba così gioiosa, che pareva quella di una sagra. Enormi nuvole
bianche, luminosissime venivano cacciate in fuga verso sud; dileguavano in un attimo dietro le cime,
dando una animazione mitica al cielo di una limpidezza divina. I larici, le betulle, i frassini e i due
noci che stanno sotto il mio balcone, coi nocchi già turgidi delle nuove gemme, cantavano, si
agitavano, come se la mano invisibile della primavera li scuotesse energicamente per svegliarli dal
loro lungo letargo. Quando sulle pendici del Pizzo Scalino si affacciò il sole, sulla valle ancora
animata dal vento, la sensazione della nuova stagione era nell’aria. Era come se le cose avessero
acquistato una levità nuova, e fossero meglio profilate nella luce.
In pochissimi giorni riapparve la delicata e varia famiglia dei fiori. Spuntarono le violette, certi
magnifici ranuncoli d’oro che sembravano battuti da un orefice, e delle delicate stelline blu, che danno
l’idea di occhi di fata, aperti in mezzo all’erba per spiare il lavoro diligente delle api.
Sui larici il verde riappare d’ora in ora più denso: si direbbe che sui loro rami si rapprenda l’azzurro
del cielo, come d’inverno l’umidità si rapprende nella fioritura della brina.
I noci davanti al mio balcone hanno messo fuori dai nocchi i mazzetti delle loro foglioline color
tabacco, così deliziosamente ripiegate e rugose, che sembra siano state strette per tutto l’inverno nel
cavo di una minuscola mano.
Anche gli uccelli sono ritornati. Nei boschi si ode durante le ore più calde del giorno il discorso
risentito del merlo, e la capinera posata sui rami delle betulle, pare affili dei minuscoli ferri da ricamo.
Il tappeto soffice dei fieni rinverdisce, riappaiono i rettangoli bruni per semine primaverili; e a vedere
le ragazze con le corbe in mano e i lunghi rastrelli sulle spalle, con quella loro strana forma di croce
greca, sembra di vedere delle sacerdotesse che si avviino per la celebrazione di un rito sacro.
L’alma mater riprende il suo provvidenziale lavoro della generazione sotto il cielo benigno:
infaticabile serena e indifferente.
MANGIA E PASSA
Rafele Chinè era arrivato alla soglia dei cinquant’anni esercitando il mestiere di compratore di
morchia. I suoi guadagni erano modesti e molta la fatica, ma Rafele apparteneva a quella categoria di
persone, che con linguaggio evangelico si potrebbero chiamare umili di cuore. Aveva la moglie, una
donnetta mite e faccendiera che lo curava, il suo commercio gli dava il sufficiente per vivere, e Rafele
si considerava un uomo felice.
All’inizio dell’annata olearia Rafele si metteva in giro, e quando il suo grido: "Oh!… li murghi!"
risuonava nel vento fra le case, le donne dicevano: È Mangia e Passa. In tutti i paesi intorno lo
chiamavano così per il fatto che dovunque andava, faceva il suo giro per raccogliere la morchia, poi
mangiava in fretta un boccone nella prima osteria che gli capitava davanti, e ripartiva con qualsiasi
tempo, in qualsiasi ora.
Io lo ricordo: piccoletto tutto angoli acuti, con un viso ridicolo da furetto, sudicio come un pidocchio,
cosa del resto inevitabile nel suo mestiere, portava su le spalle un sacco con dentro un otre, e sopra
quello, ben in vista un grosso imbuto di latta, un mestolo e un manipoletto di erba, flessibile e
fioccosa. Dopo avere col mestolo svuotato il fondo della giara, Rafele lo ripuliva con l’erba, ne
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spremeva energicamente nell’imbuto la coda fioccosa, poi ricaricava tutto su le spalle e ripigliava la
sua marcia e il suo grido: Ohi… li murghi!…
Ma quando Rafele toccò i cinquant’anni, parve che il figlio delle tenebre avesse acquistato sopra di lui
mano libera come su Giobbe. Il povero mercante di morchia prima perdette la moglie e poi perdette la
vista. Una specie di muco grigio, tenace, fibroso, gli coprì le iride e le pupille, e i suoi occhi, a vederli,
sembravano due acini d’uva schiacciati e rovesciati con la polpa in fuori. Mangia e passa non poté più
andare in giro a comprare la morchia.
Nelle prime settimane fu una cosa atroce. Rafele si sedeva nella sua casupola davanti al focolare, e
piangeva ad alta voce, con una trenodia sconcertante, che faceva rabbrividire tutto il paese. Poi
improvvisamente sospese la sua lamentazione. Al mattino si metteva seduto al sole davanti all’uscio
con un bastone in mezzo alle gambe, gli occhi spenti rivolti verso il vuoto, e rimaneva cosi delle intere
giornate, come se ascoltasse una musica lontana. Sembrava assorto in profondi pensieri e invece non
pensava a nulla. Ascoltava il coro immenso delle voci che passavano nell’aria, e che acquistavano ora
per lui una magica, insospettata risuonanza.
"Caro mio Dio – diceva tra sé – sorpreso e quasi rapito da quella improvvisa rivelazione dei suoi sensi
– quando le vedevo le cose, non avevo mai fatta attenzione alle loro voci; ora, che non le vedo più,
esse pare mi facciano ressa intorno e ciascuna dica la sua!".
Difatti aveva l’impressione che la sua esistenza si immergesse di ora in ora in una nuova, magica
realtà.
Pareva che la sua anima, rimasta fino allora nascosta dietro la cortina tenue della esperienza visibile,
si riversasse ora verso l’esterno e gli affiorasse sui polpastrelli, sui pori della pelle, alla radice dei
capelli, esaltando ed acuendo tutti i suoi sensi superstiti. Era come se nel suo corpo si fossero aperte
miriadi di finestre piccole, e un nuovo Rafele intavolasse un animato discorso con la brulicante realtà
di un nuovo mondo. Tutto gli dava una gioia insospettata.
Com’era seduto davanti all’uscio, allungava la mano: ecco la nepitella, cresciuta tra i sassi e il muro:
ecco il fragile stele le foglie con le loro nervature delicate. Ecco una vespa ch’entra nella casa, con le
gambe lunghe di un giallo d’uovo. Era come se la vedesse: volteggiava intorno al cestone del pane,
poi entrava nel pugno terroso attaccato alla trave. Ecco le pentole appese al muro, che gli parlavano
ora col suono, e per la prima volta assumevano per lui il significato amoroso e protettore di divinità
domestiche. Ecco la coperta di picchè, bianchi a fiorami e ad arabeschi. Egli la palpava a lungo, la
sera quando andava a letto, gli pareva che la sua buona moglie, trasformata in qualche cosa di
indefinibile e di puro, gli porgesse il suo volto trasfigurato, perché egli lo accarezzasse prima di
dormire.
Ma un giorno Rafele fece una constatazione paurosa: in casa le provviste erano completamente finite.
Finito il grano, finiti i pochi legumi che costituivano le sue scorte, e finito anche il gruzzolo che la
moglie, soldo su soldo, aveva messo da parte, e che gli aveva lasciato annodato in un fazzoletto da
testa in fondo alla cassa.
Quel giorno Rafele Chinè rimase chiuso in casa oppresso dalla più crudele disperazione. Per lui ormai
non vi erano che due vie da scegliere: adattarsi a fare il mendicante, o sprangare la porta, distendersi
sul letto e lasciarsi morire di fame. Ora nessuno, per disperato e coraggioso che sia, accetta la morte,
se l’accettazione non viene da un disordine dello spirito; e il suo spirito era candido e ordinato come
un altare. Immerso in quella sua nuova realtà magica, egli sentiva ora più reverenza verso la vita di
quando aveva gli occhi. Non gli rimaneva ormai che adattarsi a stendere la mano, vivere dell’altrui
carità.
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"In nome di Dio, amen – disse il giorno dopo segnandosi; giacché questo è il mio destino, bisogna
ubbidire".
Scese dal letto che il sole era alto, chiuse l’uscio a chiave e si mise in cammino verso la campagna. In
campagna c’è meno gente ed egli voleva abituarsi, fare – come si dice – la faccia alla sua nuova
condizione di mendicante. Silenzioso, col passo incerto, il viso proteso, una mano che annaspava ad
ogni rumore, e l’altra che impugnava il bastone, si mise a camminare diritto, senza una meta precisa,
come se partisse per una avventura. Era la prima volta che si spingeva fuori dal paese da quando era
diventato cieco, e non sapeva se e come sarebbe riuscito ad orientarsi. Procedette così per una
mezz’ora, tenendosi ai margini della strada e tendendo l’orecchio alle voci intorno. Udiva gli strilli
delle donne che chiamavano i bambini, lo starnazzare delle galline, il grugnito di qualche maiale; e
poi a poco a poco si accorse ch’era fuori dall’abitato, in aperta campagna.
Era primavera e l’aria scorreva intorno tiepida e soave, impregnata dell’odore delle acacie dei
sambuchi. Un fruscio immenso e carezzevole si levava dalla campagna.
"Dove sono?… si chiese Rafele ascoltando quel coro che lo circondava come la musica interminabile
di una danza. Improvvisamente si sentì invaso da una specie di ebbrezza mista allo stupore; si era
perfettamente orientato: era ad una decina di passi dalla fabbrica di mattoni Pulicanò.
A duecento passi da lì c’era un mulino, e poi una cava di sabbia. Tutta la campagna intorno si
disegnava nella sua mente, nitida, precisa come un obiettivo fotografico. Avrebbe potuto indicare tutto
intorno i cespugli, gli alberi ai margini della strada, i paracarri, i mucchi di breccio; le betulle che
tremolavano nel sole coi tronchi bianchi; e oltre la siepe le file dei gelsi, gli orti, i fossati, i campi
gialli di ravizzone, le antenne geometriche della luce elettrica. E tutto nella sua mente era immerso in
quell’aria riposante e nativa che dà il verde con tutte le sue varietà e le sue sfumature. Gli veniva da
piangere per la gioia. I suoi occhi non gli servivano più, ma la sua memoria visiva gli rappresentava il
mondo come se lo vedesse.
Pure ancora non aveva affrontati gli uomini. Quale accoglienza riservavano gli uomini al povero
Mangia e Passa? Quel pensiero lo sgomentava.
Fece ancora qualche centinaio di passi e finalmente udì venire da lì vicino scoccodare di galline. Nello
stesso tempo ebbe la sensazione che alla sua destra vi era un vano nella siepe che circondava la
campagna. Allungò il bastone: e si accorse che il vano c’era. Avanzò di qualche passo dopo avere
varcato il vano, verso un’aia, e dopo un minuto di esitazione alzò la voce: "O buona gente, il povero
cieco…". La sua voce lo sbigottì. Era la prima volta che chiedeva l’elemosina, ed ebbe l’impressione
che sulla sua testa dovesse scoppiare un tuono. Rispose invece una voce giovanile di donna: "Venite
poveretto, venite avanti".
E come Rafele era rimasto incerto per qualche istante in mezzo all’aia, udì uno schioccare rapido di
donna che gli andava incontro. Una mano ruvida ma fresca prese la sua mano "Venite avanti, sedete
qui, davanti all’uscio. Dietro di voi c’è un ceppo". "Iddio vi benedica, signora – disse Rafele, mentre
allungava la mano per trovare il ceppo".
"Non sono una signora, ma una ragazza – disse ridendo la donna; sto cucinando per i miei che
lavorano nella vigna. Attendete, fra un po’ vi porterò un bel piatto di fave fresche cotte col lardo".
Rafele rimase immobile sul ceppo in mezzo al brulichio dell’aia. Era sbalordito.
Ecco come cominciava la sua esperienza di mendicante! Si era immaginata una cosa triste e umiliante;
invece le veniva incontro un fresco riso di fanciulla e un’accoglienza festosa. La ragazza non l’aveva
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riconosciuto ed egli era felice. Sarebbe stato un mendicante qualunque, l’uomo che passa e stende la
mano, senza lasciare alcuna traccia del suo passaggio.
Per qualche minuto si udì la ragazza canticchiare nella casa, tra un acciottolio di piatti, poi lo
schioccare energico della sottana e si avvicinò di nuovo e la voce fresca gli risuonò ancora su la testa.
"Ecco, prendete e mangiate".
"Prendete e mangiate! Non erano quelle le parole di Gesù agli Apostoli nell’ultima cena?".
Rafele allungò le mani, toccò un piatto di creta e un pezzo di pane. Un profumo di vivanda calda, gli
passò come un soffio sul viso.
"Grazie, figlia cara, grazie!… Per l’anima dei nostri morti".
Appoggiò il piatto su le ginocchia e, scorrendo lungo l’orlo, trovò il cucchiaio di legno. Addentò il
pane e si mise a mangiare. Le fave fresche fresche, morbide, condite col lardo, avevano un sapore
buono di carne vegetale, e il pane, con la crosta screpolata ai margini e in mezzo liscio, era soave al
tocco come un volto umano.
Come era buono quel mangiare! Rafele non aveva mai gustato il sapore di un cibo come quel giorno.
Ancora qualche minuto e la ragazza ritornò. Dal suo respiro greve e da una specie di controllo nella
voce Rafele comprese che quella aveva qualche cosa di pesante su la testa: "State attento – disse – vi
metto qui su lo scalino dell’uscio un bicchiere di vino. Io vado a portare da mangiare ai miei nella
vigna.
Chiuse l’uscio a chiave e si allontanò a passi svelti.
Ora Rafele era solo sull’aia. Continuò a mangiare ascoltando il proprio respiro. Quando ebbe finito
allungò la mano verso lo scalino e trovò il bicchiere col vino e bevve.
Un piacevole calore gli inondò le viscere. Poi posò il piatto, vuoto su la soglia, e un po’ imbambolato
dal calore del pasto, si rimise in ascolto. Era il suo modo di ricominciare il colloquio col mondo.
Doveva essere mezzogiorno perché un gran silenzio era nell’aria.
Dalla gronda sopra la sua testa scendeva un pigolio minuto di passeri nidificanti, che sembravan il
gocciare melodioso di una fontana.
Rafele pensava tra sé: "Io ora sono solo al mondo, non ho più nessuno e non posseggo nulla. Sono più
misero del passero del tetto e del verme sotto il sasso: essi possono procurarsi il cibo ed io non lo
posso più. Eppure sono contento. Da oggi la mia esistenza dipenderà dalla carità degli uomini, eppure
io sono felice. Un piatto di fave e un bicchiere di vino bastano per rendermi così! Ah!, quanto poco ci
vuole per far felice un mendico!".
ZIA CHIARINA
Tutti gli anni, quando ragazzo ritornavo dal Collegio per le vacanze estive, la persona che, dopo i miei
genitori, io rivedevo con più piacere, era la zia Chiarina, una sorella di mia madre, rimasta nubile, che
viveva solitaria, con un corvo e una domestica, nella vecchia casa dei nonni, in fondo il paese.
La zia Chiarina non era bella ma neppure brutta: piccola, nervosa con gli occhi neri, aguzzi come due
spilli, tutti fuoco e volontà, il volto pallido, un po’ macerato dai quarant’anni, i capelli nerissimi,
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LA ZIA FRANCESCA
spartiti sulla fronte e raccolti in due bande sempre lisce ed eguali, come gli ornamenti di una divisa,
dava l’impressione di non essere mai stata veramente giovane, ma che non sarebbe invecchiata mai.
Di solito, quando andavo da lei, la trovavo sulla terrazza o nell’orto, seduta vicino la bocca di un
pozzo abbandonato, intenta a leggere dei libri di storia, o a fare la calza. Il corvo le stava sempre
vicino, guardandola coi suoi occhi scuri e misteriosi, ed emettendo a volte un cra… cra… così strano,
che pareva venisse dalle viscere della terra.
In casa mia aveva fama di donna bisbetica e intrattabile. Mia madre, che le voleva nonostante tutto un
gran bene, la chiamava la matta, testa dura, cervello a X; e quando si trattava di paragonare qualcuno
di noi ad una persona indocile e di spiriti ribelli, il paragone era lì bello e pronto: questo ha la testa
della zia Chiarina. Mio padre ne parlava come un essere anormale. Il fatto che teneva in casa un
corvo, mi ricordo, era una delle cose che più gli davano sui nervi. Un corvo, diceva, un animale
brutto, sozzo e di malaugurio! Capirei un merlo, una gazza, un passero, ma un corvo. Quella donna è
decisamente pazza, ed è una fortuna che non abbia preso marito.
Invece la zia Chiarina un giorno mi spiegò perché, fra tante bestie più graziose, utili e belle a vedere,
ella aveva scelto un corvo, che doveva essere, non solo vecchio, ma antico tanto erano lunghi i peli
che aveva intorno al becco, nodosi i piedi, e misteriosi gli occhi, rotondi e fissi come quelli
dell’incubo.
Vedi, figlio mio, disse un giorno che glielo chiesi, se ho scelto un corvo non è senza ragione. Il
canarino vive al massimo otto o dieci anni: così pure il cardellino, il passero, il merlo e via dicendo
tutti i cantatori. Il corvo invece vive duecento anni: questo che ho ha più di un secolo e, salvo
disgrazia, vivrà altrettanto: non avrò quindi, il dolore di vederlo partire prima di me. Io soffro molto a
staccarmi dalle cose che amo e poiché esse ormai sono pochissime ????? tra quelle che durano più di
me.
La zia Chiarina aveva una storia: eccola.
Era l’ultima delle figliuole di mio nonno, ed egli l’amava molto, anche perché gli era nata alla soglia
della vecchiezza, come un fiore sopra un vecchio tronco.
A vent’anni era una cutrettola mingherlina e secca come un fiammifero di legno, tutta moti e scatti
improvvisi, e un bel giorno, come tutte le ragazze, s’innamorò. Ma di chi? Quando si seppe di chi, in
casa si produsse uno spaventevole scompiglio. La zia Chiarina si era innamorata del figlio del fattore,
un bel giovanottone, molto intelligente che studiava giurisprudenza. Bisogna avere presente la
struttura delle vecchie famiglie della nobiltà meridionale per rendersi conto della cosa; tradizioni
rigide come il ferro, uno spirito di casta impenetrabile, qualche cosa di nobile e di stolido insieme, di
feroce e di sublime.
Il fattore fu scacciato ed il figlio consigliato a cambiare aria, se non voleva due pallottole di fucile
nella schiena. La zia Chiarina, caricata con mia nonna e due cameriere sopra una carrozza, venne
relegata a Santa Colomba, una bella casa di campagna che i nonni avevano a una diecina di chilometri
dal paese, con l’ordine perentorio di dimenticare a breve scadenza la sua passioncella.
Dimenticare? Non ci voleva che un ordine di quel genere perché la zia Chiarina diventasse più
innamorata che mai.
Ella non protestò, non pianse, non diede alcun segno esteriore del suo dolore, ma dentro mulinava le
cose più strane ed inaudite del mondo.
Intanto tentava tutti i mezzi per poter corrispondere col figlio del fattore. Difatti organizzò un piano
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LA ZIA FRANCESCA
audace di fuga e gli scrisse, mettendolo a parte del progetto. La lettera fu affidata ad un merciaio
passato davanti alla casina di Santa Colomba. Il piano era questo: il primo sabato, successivo alla data
della lettera, la zia Chiarina, poco prima dell’alba, avrebbe lasciata la casa e, a cavallo, si sarebbe
portata davanti la chiesa di un vecchio convento abbandonato, a metà via tra Santa Colomba e il
paese. Il giovane l’avrebbe attesa lì, ed insieme, avrebbero preso il volo per qualche luogo.
Un giorno di sabato, verso le quattro del mattino, zia Chiarina, silenziosa come un gatto, si alzò dal
letto, indossò abiti da viaggio, uscì sul terrazzo, e lungo il grosso fusto di una pergola, si calò proprio
davanti la scuderia. La notte era limpida, e dalle case di campagna intorno si cominciava a levare il
canto dei galli. La zia Chiarina, entrò nella scuderia, staccò un cavallo gli mise a tastoni una briglia, e
lo menò fuori avviandosi verso il cancello. Ma fosse la ora insolita e il fresco del mattino, o fosse uno
squillante chicchirichì che partì dal vicino pollaio, il cavallo levò la testa ed emise un gagliardo e
lungo nitrito. Il cocchiere, che dormiva nella rimessa, si svegliò di soprassalto, e infilate alla meglio le
brache, balzò fuori. La zia Chiarina, spaventata ma decisa a tutto, aveva aperto il cancello e stava per
attraversarlo quando si vide balzare davanti il cocchiere scalzo e scarruffato, che già aveva afferrate le
redini del cavallo e tentava strappargliele di mano.
Dove andate, signorina… a quest’ora?
La zia Chiarina aveva in mano un frustino di nervo di bue. Lo alzò minacciosa:
- Lascia il cavallo e non alzare la voce – disse al cocchiere – o ti do una frustata sulla faccia.
Ma non è possibile, signorina – mormorava il povero uomo – per l’amor di Dio! Se il signor Barone
sa che io vi ho lasciata scappare mi uccide!
- Lascia le briglie! – soffiò ancora inviperita la zia Chiarina, e poiché quello non la ubbidiva, mulinò il
frustino in aria, e glielo lasciò cadere sul viso con tutta la sua forza.
Il povero uomo, mezzo accecato dal colpo, gittò un grido e lasciò le briglie. La zia Chiarina si
aggrappò alla criniera del cavallo, ed agile e leggera come era, saltò in groppa e sparì galoppando tra
gli alberi verso il convento.
Vi giunse che schiariva l’alba, ma con suo grande spavento non ci trovò nessuno. Il sagrato erboso
davanti alla chiesa era deserto, e qualche allodola vi passava sopra con un volo radente, gittando il suo
"vid vid" spaurito.
L’idea che quivi presso, era della gente, che l’avrebbe potuta vedere, il pensiero di avere lasciato tanto
drammaticamente la casa paterna per andare incontro all’ignoto, la situazione impreveduta, il
disappunto, per la assenza del suo innamorato, la incertezza intorno alle cause che avevano così
rapidamente sconvolto il suo progetto, la misero in una tale angoscia, che si sentì morire. Lasciò
andare il cavallo per l’erba a brucare, e lei si nascose sotto il portico della chiesa, rimanendo in attesa
di qualche cosa di tremendo e di straordinario, di cui non sapeva rendersi ragione.
E giunse difatti. Sotto gli ulivi, improvvisamente si udì lo scalpito di un galoppo, e subito dopo sbucò
davanti alla chiesa il cocchiere cavalcando a bisdosso, e con un fazzoletto legato intorno alla faccia.
Appena vide il cavallo della zia Chiarina, che brucava sul sagrato, discese e si mise a cercare intorno.
Alla idea di essere vista in quelle condizioni dal cocchiere al quale ella aveva, qualche minuto prima,
lacerata la faccia col frustino, la vergogna di doversi presentare in casa umiliata, dopo una fuga
romantica e così vana, fece perdere addirittura la bussola alla zia Chiarina.
Prima che il cocchiere si avvicinasse al cantuccio dove essa si trovava rannicchiata si levò in piedi,
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LA ZIA FRANCESCA
prese la rincorsa, e si lanciò a capo basso, contro uno dei pilastri di pietra che circondavano il portico,
battendo la testa come un ariete.
Trasportata a casa tutta sanguinante, priva di sensi, la infelice innamorata stette alcune settimane tra la
vita e la morte. Il nonno che la adorava e non sapeva che pesci pigliare, e la nonna piagnucolava,
raccomandandosi perché si trovasse una via di uscita in quella intricata questione di cuore. E la
soluzione venne improvvisamente ed inaspettata, quale era da attendersi da un carattere originale
come quello della zia Chiarina. Appena si fu rimessa dalle ferite il nonno la prese con le buone, si
dimostrò disposto ad accontentarla, e le chiese quale fosse il suo desiderio più urgente.
- Vedere lui – disse la zia Chiarina risoluta – ho bisogno di chiarire una cosa.
Immediatamente fu disposto che il figlio del fattore, si recasse a Santa Colomba per visitarla.
Ella si alzava già, e lo ricevette sdraiata sopra una poltrona a braccioli.
Era pallidissima, emaciata, colla testa fasciata da un foulard di seta verde, e le gambe da un damasco
cremisino. Il colloquio si svolse alla presenza del nonno e fu brevissimo.
La zia chiese al giovane se aveva ricevuta la sua lettera e perché non si era fatto trovare quella tale
mattina davanti alla chiesa del convento.
Quello, fortemente turbato, commise la enorme sciocchezza di dire la verità: non era andato perché
temeva un inganno. Credeva che la zia Chiarina avesse scritto quella lettera sotto la minaccia dei
fratelli, che volevano tendergli un tranello ed infliggergli magari una solenne bastonatura.
Ah! – disse la zia Chiarina, fulminandolo coi suoi begli occhi neri, - tu mi hai creduta capace di
questo, sia pure per debolezza? – Stette un istante pensierosa a capo basso: le piccole mani pallide le
tremavano sul damasco cremisino. Poi si rivolse al nonno: "Papà – disse – mandate via questo lacchè;
non ho più niente da dirgli".
IL GIOGO
L’agonia durava ormai da tre giorni. Pareva che il vecchio si battesse con la morte come Giacobbe
con l’angelo di Dio e non volesse cedere.
Nei primi due giorni aveva ancora parlato, vaneggiava chiamando i familiari, chiedeva degli arnesi di
lavoro, sillabava pronostici sul tempo e sul raccolto.
Le sue mani brulle e nocchiute, che già stringevano i pollici nel palmo, come fanno gli agonizzanti, a
volte si contraevano nel gesto di quando afferravano la stiva, e il malato, con un borbottio reso
incomprensibile dal rantolo ripeteva: Oh… Massà oh… Livanè.
Nel suo delirio credeva ancora di arare e incitava i buoi. Ma quando venne l’alba del terzo giorno non
parlò più.
Supino nella capanna, sul letto di ginestre, dove lo aveva colto la febbre polmonare, ansimava. La
capanna era di un solo vano, senza finestra.
La luce entrava dalla porta e di tra le tegole del tetto; dal quale scendevano obliquamente liste sottili e
polverose di sole, che vibrano nell’aria come corde percosse.
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LA ZIA FRANCESCA
Alcune api selvatiche ronzavano presso i sostegni, intorno ai loro bugni terrosi e, attraversando le liste
luminose brillavano come faville.
Serafina, la figlia del vecchio Rocco, che lo vegliava davanti allo stramazzo, seguiva con una specie
di sgomento panico le vicende di quella interminabile agonia. A tratti pareva che la vita del povero
agonizzante si arrestasse.
Il suo petto si placava immobile; gli occhi inondati di un liquido sieroso si aprivano lentamente senza
sguardo; il naso affilato e reso trasparente dal riverbero intenso della luce, si ergeva in mezzo al viso
come un’appendice estranea e macabra, e la bocca fuligginosa, in cui apparivano tre o quattro
mozziconi di denti, prendeva quell’espressione di misterioso patimento, che caratterizza la maschera
dei trapassati.
"È morto?" – si chiedeva la Serafina sbigottita. E per assicurarsene, gl’insinuava la mano nell’apertura
della camicia, cercando il petto dalla parte del cuore. Sembrava proprio morto.
"O patri meu!" cominciava a piagnucolare la Serafina, con un incoercibile senso di liberazione; e si
alzava per andare a chiamare il marito, che vangava nell’orto. Ma ecco che il petto del vecchio si
sollevava come un’onda, e il rantolo riprendeva con un ritmo implacabile.
Allora la giovane si accasciava in preda a un vero terrore, e rompeva in una invocazione disperata: - O
Dio, Signore, perché lo fate soffrire tanto, così a lungo? San Giuseppe benedetto, protettore della
buona morte, aiutatelo voi a rendere l’anima in pace!
Verso mezzogiorno passò di lì il medico. Entrò nella capanna, si curvò sulle gambe e prese il polso
del vecchio, ascoltando il rantolo crepitante che gli usciva dalla gola. "Dottore – chiese la donna – con
una ingenuità quasi astiosa – sono quasi tre giorni ch’è in agonia e il Signore non se lo prende.
"Il Signore non ha fretta" – disse il medico. "Ma perché soffre tanto dottore?". Il medico accennò
appena un sorriso superficiale: "Non vedi che macchina?" e allargò l’apertura della camicia sul petto
del malato.
Quel petto coperto sullo sterno da un pelame grigio ed ispido come limatura di ferro, si sollevava e si
abbassava con un ritmo poderoso, mostrando la curva e l’annodatura delle costole forti come le
vertebre di un cavallo. Sulle clavicole dalle infossature profonde, il collo era incordonato da rughe
grosse come panneggi, sotto le quali si vedeva fluire, a pause regolari il ritmo del sangue. "Un
organismo come questo – continuò il medico – dà del filo da torcere anche alla morte. Ma la sua ora è
venuta. Non c’è niente da fare.
Inumidiscigli ogni tanto le labbra con acqua e aceto molto allungato, e lascialo tranquillo. Piuttosto
perché lo tenete in questa capanna? Portatelo fuori, all’aperto, sull’aia sotto quel carrubo. Morirà più
sereno, povero vecchio!
Appena il medico se ne fu andato, il malato venne trasportato sull’aia e adagiato all’ombra di un
maestoso carrubo, sopra una duna di paglia, che, sotto la luce intensa del giorno estivo, brillava come
un letto d’oro.
Appena all’aperto il vecchio aprì gli occhi, e le sue labbra si rimisero a farfugliare parole
incomprensibili. Pareva che ascoltasse e parlasse col coro immenso della campagna circostante.
Il caldo era soffocante. Dai campi intorno, screpolati dall’arsura sparsi di cardi, di cicute, di silique,
vaporava un alito afoso che velava le lontananze; e tutti gli alberi, dagli arbusti, dai peri, dai ciliegi in
mezzo alle vigne, dai lentischi e dai ginepri sparsi per le terre, si levava un canto interminabile.
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Migliaia di cicale frinivano a distesa, riempiendo l’aria di una musica così vasta che finiva col non
avvertirsi più, come non si avverte nelle officine il rombo delle macchine, quando gli orecchi vi si
sono assuefatti. Sotto quel coro maestoso il vecchio parve rianimarsi e diventare inquieto.
Le sue grandi mani incominciavano a contrarsi, e dalla gola gli usciva ancora, a pause, con forza il
grido che incitava i buoi: "Oh… Massà… oh Livanè.
Nel suo delirio egli si vedeva ora davanti una pianura sterminata come il cielo, tutta sparsa di cicute,
di cardi e di silique che cantavano nel vento. Oh come cantavano, con la voce di tutte le cicale, di tutti
gli uccelli, quelle siliquie, quei baccelli di lupini a punta, che foravano le mani e portavano dentro il
seme bianco e amaro!… Egli, il vecchio Rocco, ottantenne, era sul limitare di quella pianura, nel
paese misterioso della morte. Erano tre giorni che si era messo in cammino per raggiungerla, perché la
sua ora era venuta; ed ora che l’aveva raggiunta stanco, trafelato, con la bocca arsa e le gambe rotte,
ora doveva afferrare in mano la stiva e ararla tutta quella pianura, con solchi interminabili fino al
confine del cielo, fin laggiù dove il mare appariva come immenso campo di lino fiorito.
Aveva tanto lavorato nel mondo, povero vecchio! Da quando aveva quindici anni non aveva fatto altro
che rivoltare la terra, con la vanga e con l’aratro, rompere le zolle in tutte le stagioni. – Mi riposerò
quando sarò morto – diceva tra sé, la sera lasciando il lavoro, mentre si faceva il segno della croce con
le mani intrise di terra.
Ed ecco invece che anche nel mondo di là gli toccava arare, curvarsi sul solco in eterno, aprire con
l’aratro la pianura che gli stava davanti senza fine.
Oppresse dalla luce intensa le sue pupille semispente vedevano sulla sua testa come una grande
nuvola scura, e oltre quella nuvola un cielo uguale, grigio come il cielo di ottobre, quando tra le siepi
spittinisce il pettirosso e la lumaca esce sul sasso a cercare l’ultimo sole. Egli doveva arare, ma i buoi,
dove erano i buoi? Non aveva buoi e non si vedevano in nessun luogo su quella pianura grigia e
interminabile, tutta sonora di silique e di cardi che cantavano al vento.
- O Massà!… O Livanè!… - Le sue labbra con ira ed angoscia bisbigliavano l’incitamento consueto e
le sue grandi mani si contraevano nell’atto di afferrare la stiva.
La figlia Serafina lo vegliava terrorizzata. Quell’agonia interminabile le appariva adesso come un
castigo divino. Tutti i terrori delle credenze popolari le venivano in mente, le argomentazioni speciose
delle fattucchiere, quelle degli isterici che presumono di parlare coi morti e si spacciano come
interpreti del loro mondo misterioso.
Nella sua fanciullezza ella aveva sentito parlare di codeste lunghe agonie, di peccati che legavano
l’anima al corpo con vincoli che non potevano essere sciolti, se non da formule magiche o da
espiazioni rituali.
Che a suo padre pesasse sull’anima un simile peccato, una di quelle infrazioni al corso maestoso
dell’ordine naturale, i cui effetti sono inesorabili come quelli delle leggi meccaniche? O non piuttosto
il vecchio aveva contravvenuto ad uno di quei riti casalinghi che santificano le stagioni, il ritmo
ineffabile della fioritura e della fruttificazione, a cui presiede una specie di mitologia tra angelica e
demoniaca, che ricorda quella degli antichi lari? E se così fosse chi avrebbe liberato il morente dal
castigo divino?
A un tratto le balenò alla mente un dubbio. Forse il vecchio, durante la sua vita, aveva bruciato un
giogo, l’arnese sacro dell’aratura, quello che nell’aratro rappresenta ciò che sono le braccia della
croce.
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LA ZIA FRANCESCA
Più di una volta ella aveva sentito dire che colui il quale commette un simile peccato, quando giunge
all’agonia non può morire, se prima non gli pongono un giogo sotto il collo.
Con un brivido di terrore fissò il padre. Ecco, il vecchio peccatore legato alla vita dal suo peccato
come da un maleficio, che ansimava lottando con l’angelo della morte, e credeva ancora di arare.
Bisognava liberarlo.
Si alzò, entrò nella casa attigua all’aia e, dopo qualche minuto, venne fuori portando sulle braccia un
giogo. Era di legno di olmo e il lungo uso, specie nelle incavature, dove esso poggiava sul collo dei
buoi, lo aveva reso liscio e lucente come l’osso. Si avvicinò al moribondo e con un brivido gli sollevò
la testa, mentre col ginocchio gli spingeva il giogo tra il collo e le spalle.
Il vecchio aprì gli occhi e fissò la figlia con una specie di spavento.
Sotto il riverbero intenso della luce la vedeva appena come un’ombra, una lunga ombra bianca
indistinta e sinistra. Nel suo delirio quella era la morte. Eccola ch’era giunta, la sua nuova padrona.
Gli si avvicinava e lo legava all’aratro.
Con un sospiro angoscioso il vecchio, si mise a brancicare, cercando con la mano, l’arnese sacro sotto
il collo. Era proprio così. Ecco l’anello, il chiovolo, ecco i fori per le giuntoie e finalmente il liscio
dell’accollatura, su cui avrebbe posato il suo povero collo in eterno.
Oh la pianura immensa, desolata che aveva davanti, e come squillavano le silique sotto il vento della
morte! Egli doveva ora arare quella pianura, sotto quel cielo grigio, e il suo lavoro sarebbe durato per
l’eternità.
- Oh Massà!… Oh Livanè!…
I buoi non c’erano ed era lui che doveva tirare l’aratro.
In nome di Dio, avanti.
Ebbe come un singulto, strinse i pollici nei pugni ed emise un sospiro lungo, profondo dietro cui parve
distaccarsi l’anima. Poi il suo volto assunse una espressione di pianto, la espressione d’un bimbo
battuto, e rimase immobile sulla paglia, lucente come un letto d’oro.
IL PRIMO AMORE
Non la rivedevo da oltre vent’anni, e di lei mi rimaneva, nelle più remote regioni della memoria, un
ricordo squisito e tenero, come di un suono di flauto, udito di notte, durante un’ora di meditazione
amorosa. Il ricordo di tutte le donne che io ho amate, è legato in me ad un motivo musicale. Il suo, che
era il primo, mi ritornava sempre col vecchio motivo di una canzone napoletana, udita quando ero
ragazzo, accanto a lei, mentre sul terrazzino ammiravamo i fuochi d’artifizio, che chiudevano una
rumorosa festa al nostro paese. Si chiamava Clotilde. Io avevo allora sedici anni ed ella due mesi più
di me; eravamo cugini e si può dire che eravamo cresciuti insieme.
Il nostro amore era nato come un seme sull’angolo di una via campestre ed era stato una cosa così
spirituale ed innocente che, se non fosse stato il primo per me e per lei, non l’avremmo neppure
registrato nel libro della memoria. Era nato col primo crepuscolo dei sensi, in quel divino e pericoloso
momento della pubertà, durante il quale nel ragazzo improvvisamente si desta l’uomo, e noi ci
eravamo innamorati, l’uno dell’altra, senza dirci nulla, comunicandoci con gli sguardi soltanto il
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LA ZIA FRANCESCA
desiderio dell’anima.
Quel qualche cosa di sensuale che fermentava in fondo a questa aerea musica di sentimenti, veniva
soffocato e purificato in me dalla inesperienza, dalla soggezione che mi mettevano addosso certi
torbidi pensieri fugaci e soprattutto dal suo candore. Clotilde era tanto limpida e verginale, che io mi
spaventavo all’idea di una carezza ardita, di un atto in cui ella avesse potuto indovinare un mio
desiderio impuro. Perché un tal desiderio l’avrebbe allontanata da me ed io mi sarei sentito come
Adamo scacciato dal Paradiso.
Pensando a quello che io godevo allora solamente a guardarla e a starle vicino, mi faccio un’idea di
quello che può essere la beatitudine, così come è concepita nel paradiso cristiano. Contemplare
l’oggetto amato con una specie di esaltazione che mi portava fuori dal mondo, questo era per me in
quel tempo il paradiso. Noi sedevamo sul davanzale di una finestra. Dalla strada piena dell’ombra
vespertina veniva il cicaleccio dei ragazzi che giocavano a rincorrersi, e di quando in quando il canto
di un gallo. Io guardavo le sue braccia, la sua fronte china, i suoi capelli; e poi i fiori di garofano
vicini, la pergola, e lontano il mare; e l’universo mi sembrava il capolavoro di un dio felice, tratto dal
nulla per la gioia delle sue creature.
Pure quell’amore non ebbe seguito; fu tra i miei numerosi amori il più squisito, ma anche il più sterile
di tutti.
L’anno dopo io rimasi orfano, morì mio padre, i miei studi proseguirono in modo affannoso e
irregolare: presto dovetti provvedere a guadagnarmi da vivere. Mi impiegai, lasciai il mio paese per
quattro o cinque anni e ritornando, dopo tanto tempo, la seppi sposa. Aveva sposato un buon ragazzo
di una provincia vicina, che pareva fosse abbastanza ricco e le volesse bene.
Io ebbi allora un poco d’amarezza, poi mi dimenticai di tutto e questo primo amore lo relegai nelle
reliquie del passato, quasi direi senza rimpianto. Di lei ebbi qualche notizia di quando in quando,
attraverso i suoi fratelli: seppi che aveva avuto dei figli, che gli affari della sua famiglia andavano
bene e che era felice. La sua immagine si affievolì nella mia memoria e non ci pensai più.
Ma ecco che a Roma, l’anno scorso, incontrai in casa di un fratello di Clotilde, il marito di lei. Era un
ometto basso, tarchiato, con qualche traccia di rachitismo nelle spalle incassate, ma
straordinariamente affabile ed espansivo. Io ero diventato quasi celebre, i miei lavori letterari avevano
avuto una certa fortuna e quindi l’accoglienza che mi fece quel mio ignoto cugino, fu non solo festosa,
ma piena di rispetto e quasi direi di reverenza. Egli, il buon provinciale che accudiva alle sue terre, era
orgoglioso di avere acquistato per parte di sua moglie un parente, il cui nome e il cui ritratto
correvano su per i giornali, un letterato che scriveva dei libri. Mi strinse la mano con tutte e due le
sue, mi disse che Clotilde aveva voluto subito acquistare i miei romanzi, che li aveva letti e che
certamente mi avrebbe rivisto volentieri dopo tanto tempo. Mi pregò di passare una settimana a casa
sua; egli mi sarebbe stato eternamente grato di questo onore.
Non avrei mai creduto che la possibilità di rivedere dopo venti anni – e quali anni! – l’oggetto della
mia prima passione, potesse turbarmi, eppure quell’invito mi mise addosso, insieme ad una certa
curiosità, una sottile inquietudine. Nondimeno accettai. Sarei andato da Clotilde al ritorno dal mio
paese e mi sarei fermato due o tre giorni in casa sua.
Andai di fatti a rivedere mia madre, sistemai alcuni affari e al ritorno, alla stazione di X, trovai un
carrozzino che il marito di Clotilde mi aveva mandato per portarmi al suo paese, un grosso borgo
dell’interno, ad otto chilometri dal mare.
Eccomi in viaggio in una limpida sera di settembre. Il cielo è terso, il sole è caduto, gli olivi
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conservano sulle cime il bagliore del tramonto. Il paesaggio è misero e nudo. Davanti alle rare case di
campagna stanno seduti dei contadini scalzi; qualche cane abbaia dietro le siepi di fichi d’India. Il
cavallino nero trotta davanti a me con la testa e le orecchie aguzze profilate nel sereno colore dell’aria
ed io penso: fra un’ora rivedrò la prima creatura che ho amata d’amore nel mondo, l’oggetto della mia
più pura passione, la sola fra le mie passioni che rimase pura, incontaminata come una speranza.
Il cuore mi batte un poco. Come la ritroverò? L’immagine che di lei rimane nella mia memoria è un
po’ confusa e poi è quella giovanile, che invano io mi sforzo a sfrondare del suo fascino. Ora sono
passati vent’anni e Clotilde non sarà più quella, come io non sono più quello di allora. I miei bei
capelli inanellati, neri, quasi azzurri, si sono ridotti a pochi cernecchi grigi, che invano contendono il
sommo del capo alla calvizie. Intorno alla mia bocca gli anni e le amarezze hanno chiuso il sorriso in
due parentesi profonde come ferite; l’anima è delusa, il corpo è minacciato dalla placida pinguedine.
E lei, la cara giovinetta, pallida, dagli occhi di colomba, che baciai sul davanzale di una finestra più di
venti anni fa, come sarà ridotta dal tempo, dalle cure domestiche e dalla maternità? Che cosa mi dirà
vedendomi, si ricorderà del passato, perché ha voluto rivedermi?
Ho l’impressione di andare incontro a delle emozioni penose, ad una specie di tormento segreto. I
miei pensieri mi danno fastidio; certe pure, aeree sensazioni del passato mi sono estranee. Ho paura
che qualche rievocazione o qualche allusione turbino la serena felicità di quella donna che fu per me
un angiolo, ed ora mi è quasi ignota e lontana. Quando, svoltando la strada, sul rovescio di un poggio,
vedo le prime case del paese dove abita Clotilde, mi sento preso da un brivido. Ecco, ella è qui, fra un
quarto d’ora la rivedrò, le stringerò la mano; e penso con tristezza al suo volto che non so immaginare,
ai suoi occhi, ai suoi capelli. Sotto una casa a due piani il carrozzino si ferma e davanti al portone
vedo il mio cugino che mi attende sorridendo. Mi stringe la mano con effusione, dà un breve ordine al
cocchiere e noi imbocchiamo una scala un po’ buia, fresca come una grotta.
- Andiamo – dice il mio bravo parente. – Clotilde ti aspetta.
Mi aspetta? Dio mio, io non so che cosa le dirò quando me la vedrò comparire davanti. Mi sento
confuso ed emozionato come un ragazzo.
Da una parte e dall’altra della scala vedo dei magazzini chiusi con cancelli di legno, attraverso i quali
mi giunge l’odore caratteristico del grano custodito negli alti cannicci, e un forte odore di botti e di
vino. In quella casa sento l’abbondanza e la ricchezza tranquilla. Entriamo in un corridoio, a destra vi
è una specie di lavabo con delle brocche e delle gorgolette in terra cotta, roride di acqua freschissima.
Passiamo in una stanza con mobili di vimini, poi in un salotto.
- Siedi – mi dice il mio parente – vado a chiamare Clotilde.
Egli esce, ed io, rimasto solo, guardo alcune fotografie appese al muro. Una mi colpisce subito. Sopra
uno sfondo di cielo nuvoloso, nel quale si profila debolmente una palma, si avanzano due figure
rigide: un uomo e una donna. Lui più basso di lei, piccolo, con le spalle incassate e i baffi ravviati: è
vestito di nero e tiene in una mano un paio di guanti. È il marito di Clotilde. La donna è lei. Porta in
testa un enorme cappello carico di penne di struzzo e di fiori finti. È vestita da nozze, con un abito
goffo come quello che si fa indossare alle madonne di legno nei villaggi; al collo porta una catenella
con appeso un ventaglio che le pende fra le ginocchia. È questo il mio primo amore, la dolce creatura
che mi ha fatto palpitare a sedici anni? Dio come è goffa! La sola cosa che mi dà una certa emozione è
il suo viso ovale, dolce, un po’ spaurito e rigido nell’atteggiamento assunto davanti all’obiettivo. Con
quel vestito, le mani penzoloni, una grossa borsa come quella per fare la spesa, gli occhi intenti e quel
cestone sulla testa mi pare un idolo, l’idolo di una religione ridicola e primitiva.
Il mio cuore si vuota; sento dentro una profonda amarezza, mi sembra di aver perduto qualche cosa di
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intimo e di prezioso, e non so che cosa sia. Odo dei passi, uno pesante, un altro leggero. Mi volto:
dietro il marito entra una donnetta grassa, vestita alla casalinga, con le mani sul seno, i capelli arruffati
come un nido, con qualche filo grigio e un viso appassito.
È lei, Clotilde!
- Benvenuto il nostro illustre cugino – mi dice, e mi tende una mano grassoccia, non eccessivamente
pulita che porta le tracce di un diuturno lavoro domestico. – Come stai, caro Giovanni, quanto è che
non ci vediamo?
- Sono venti anni, cugina, venti anni. E tu come stai?
- La salute c’è, il pane anche, e ringraziamo Iddio! – Nel dire queste parole rivolge un’occhiata al
marito con un senso di gratitudine. Poi riprende a parlare.
- Accomodati, quanto tempo starai con noi… tre giorni?… troppo poco. Noi abbiamo appreso i tuoi
trionfi, sappiamo che sei diventato un uomo celebre. Io non leggo mai, non ho tempo, caro cugino; ma
i tuoi libri li ho presi tutti e ne tengo sempre qualcuno sul tavolino da notte.
Io la guardo, sorpreso, malinconico, deluso. Della Clotilde di un tempo non ha che il sorriso, un
sorriso sfiorito, reso più dolce da una attitudine pietosa e materna. Il suo corpo è sformato, il suo volto
senza splendore e gli occhi sono tristi, con uno sguardo angusto, da animale domestico. Il neo sulla
pinna del suo naso un po’ lungo, è diventato grosso come una lenticchia e dà alla sua fisionomia un
non so che di grossolano e di volgare.
Invano io cerco su quel viso, in quegli occhi tristi e buoni un qualche ricordo, una emozione del
passato. Clotilde mi sorride, parla, risponde e la sua anima mi si rivela tutta ad un solo sguardo come
la palma della mano.
Marito e moglie mi parlano del raccolto, delle tasse, dei figliuoli. Uno dopo l’altro questi entrano nella
stanza, me li presentano: Enrichetto, Pietro, Rachelina e il maggiore Giovanni, un ragazzo sui diciotto
che fa il liceo.
- Si chiama come te, mi dice Clotilde.
- Ah!… come me? – dico io con una breve emozione. Penso che al suo primo figlio, in ricordo del
nostro amore, abbia dato il mio nome. Ma lei soggiunge: è il nome del padre di mio marito. E tu non
hai preso moglie, perché? Non ti è piaciuta nessuna di coteste donne eleganti della città?
- Non ci ho pensato, Clotilde, non ci ho pensato.
Ella mi guarda con una certa pietà. Io le ricerco gli occhi, ma il suo sguardo non ha una emozione.
Andiamo a tavola: lei ordina, comanda, fa le parti, ammonisce i bambini, sorveglia amorevolmente il
marito e per me ha le speciali premure che si hanno per un ospite di riguardo. La cena è abbondante,
festosa.
- Questo vino è della nostra vigna – dice Clotilde. I formaggi, la ricotta, i polli, le verdure: tutto hanno
in casa, stanno bene, sono ricchi ed ho l’impressione che siano felici. Un’aurora di benessere mi pare
vapori dalle vivande, dalle bocce di vino rosso allineate sulla tavola, dalla frutta profumata e dal cibo
rubicondo dei bambini. Uno di essi, la Rachelina, somiglia a sua madre: il suo visino ovale delicato e
fresco come un fiore di magnolia è segnato da piccoli nei bruni. Anche i suoi occhi neri hanno lo
sguardo soave della colomba. Io lo contemplo, quel visino che viene verso la vita, lo fisso a lungo
inquadrato tra due bottiglie, sotto la luce giallastra dei candelieri ad olio, a quattro becchi, e mi pare di
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essere fuori dal mondo, in un paese dolce e triste, dove i ricordi delle passate felicità si raccolgono in
una specie di agape religiosa.
Dopo la cena i ragazzi vanno a letto. Clotilde, suo marito ed io ci sediamo sopra una loggetta che
guarda verso il mare e ci mettiamo a discorrere. Parliamo del nostro paese, dei nostri parenti morti,
rievochiamo ricordi di giovinezza e a un tratto Clotilde diventa silenziosa.
Io la vedo sotto il debole chiarore delle stelle restare come assorta, con la testa china, ed ho la
sensazione inquietante che pensi al nostro amore lontano.
Mi sembra che i suoi pensieri giungano a me sensibili come un profumo, che una specie di fluido
passi dal suo cervello al mio e che tutti e due vaporino un rimpianto verso il passato, come due
incensieri nella navata di un tempio solitario. Essa rimpiange forse di non essere stata mia, di non
avermi seguito nella mia via dolorosa e combattuta e di non avere dato a me il fiore della sua vita. Mi
sento preso da uno strano disagio.
La notte solenne è sopra di noi come la corrente di un fiume. Vedo il moto appena percettibile degli
astri che si spostano in stormi immensi come per una divina migrazione, e mi pare di udire il rombo
del tempo che cade, la cascata misteriosa che porta con sé le cose del mondo. Clotilde tace. La sua
testa si china a poco a poco, il mento si appoggia sul petto e, il respiro si ingrossa, calmo, sonoro nella
tranquillità, del sonno. La sua vita è conchiusa, essa dorme.
PREVITELLU
Nessuna stagione in Calabria ha il fascino dell’autunno.
Dopo le grandi siccità estive, l’aria bianca, opaca, tramoggiata per mesi dall’interminabile coro delle
cicale, col settembre, a poco a poco, ridiventa diafana. Il cielo si sfilaccia come un maestoso
padiglione di seta ragnata e si decompone in trame tenui di vapori a tinte sfumate e finalmente, verso
la fine del mese, sulla linea d’indaco del mare, si ripresentano quei grandi cumuli di nuvole bianche,
che i contadini chiamano "i castelli". Stagnano, si gonfiano con un moto invisibile, per qualche giorno
assediano l’orizzonte, spostandosi come in una manovra e disegnando fantastici scenari omerici.
Credo che solo guardando quelle nuvole si può capire come sui mari del sud siano nate le più
affascinanti fantasia dell’antichità.
A sera il cielo prende un colore di porpora sfatta, sotto i cui riflessi i boschi si disegnano ariosi, in una
magica prospettiva, come nell’obiettivo di un cosmorama. Finalmente un pomeriggio all’improvviso,
quelle nuvole s’addensano, s’infoscano; il tuono rompe la pesante inerzia dell’aria, e come una manna
di antiche divinità cadono le prime piogge.
Allora la terra si trasfigura con una rapidità da prodigio. Sembra debba ritornare la primavera. Le
macee, i sentieri, le bassure dove il vento ha mulinati i semi della grande estate, si coprono di verde e
di piante grasse, le siepi di sambuco intorno buttano miriadi di polloni carnosi, e a guardare la
campagna, quel verde improvviso ed impetuoso, fa il più strano contrasto col croco carico delle vigne
che si spogliano, e il rosso dei ciliegi che, in mezzo a gli orti, sembrano alberi ornamentali.
Quando io ero ragazzo per me quello era il periodo dell’anno più emozionante, perché segnava il mio
ritorno a gli studi.
Le vacanze erano finite e dovevo rientrare in seminario.
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Sull’epoca di quel ritorno mia madre era inesorabile. Lo faceva, com’essa diceva, per gli occhi del
mondo.
Rimasta vedova ancora giovane, con cinque figli, non voleva si dicesse che, per la morte di mio padre,
il suo chierichetto, "u previtellu", non continuasse gli studi con la stretta regolarità. Con poca terra e
poche bestie, la rendita era assai modesta; ma era amministrata con rigore spartano e per me, ch’ero il
maggiore, si dovevano fare tutti i sacrifizi.
Poiché il seminario si riapriva alla metà di ottobre, coi primi del mese mia madre cominciava i
preparativi. Rifaceva i materassi, metteva in ordine il mio piccolo corredo e il giorno quattordici mi
chiamava:
- ‘Ntonuzzu, figlio, bisogna partire.
- Quando, mamma?
- Domani. Prepara i tuoi libri, io ho tutto pronto.
- Va bene, mamma, come volete…
La notte avanti la partenza io dormivo pochissimo e al cantare dei galli prima dell’alba, udivo nella
casa silenziosa mia madre che sfaccendava. Faceva arrostire un pollastrino, che chiudeva in un grosso
pane spaccato a metà, vi univa due uova sode, delle pere, e aggruppava tutto in un tovagliolo per la
colazione. Sotto la casa una mula e un’asina scalciavano, soffiando nelle froge. Poi la mamma entrava
nella mia cameretta e mi chiamava. Io mi alzavo e quando scendevo in strada, vedevo i due materassi
già caricati sulla mula e una grossa bisaccia d’orbace sul basto dell’asina.
Allora mia madre, per antica consuetudine, prima mi porgeva la mano da baciare, facendomi le ultime
esortazioni, poi mi abbracciava, serrando a lungo il suo viso contro il mio, e me lo lasciava bagnato di
lacrime che io non vedevo. Il nostro garzone, Pietro Carabetto, mi issava sulla mula, in mezzo ai due
materassi, dove era stato legato un cuscino, ed io partivo con un nodo in gola, che mi durava fino a
che non si arrivava in aperta campagna.
Che albe stupende vedevo dall’alto della mia mula! Nel cielo lavato dalle piogge, di una lucentezza
mirifica, splendevano delle grosse stelle e Marte, più grossa di tutte, sembrava un faro.
Non so perché, ma quei ritorni mi mettevano in quello stato d’animo fantasioso e di ansia segreta, che
provavo alla lettura dei libri cavallereschi. Forse perché il seminario, vicino alla grande cattedrale
normanna, sorgeva sui bastioni di una fortezza, a trovarmi in viaggio avanti l’alba, con tutto quel
cantare di galli che venivano dalla campagna e quegli astri in cielo meravigliosi e strani come i
segnali di un castello incantato, mi pareva d’essere anch’io in viaggio verso una misteriosa avventura.
E l’avventura c’era e c’era anche il pericolo.
La paurosa avventura di quel viaggio era il passaggio obbligato di quattro fiumi che, in quell’epoca di
prime piogge, erano sempre in piena. Di ponti o passerelle neppure l’ombra; bisognava attraversarli a
guado. Al pensiero di quelle distese d’acqua torbida, nella quale la mula s’immergeva fino alla pancia
e avanzava peritosa, guidata dal picchiare degli zoccoli sui sassi del greto, come un cielo dal rumore
del suo bastone, io mi rannicchiavo tremando in mezzo ai materassi e chiudevo gli occhi.
Col mio enorme cappello a tegola dal pelo ravviato, la sottana azzurra coi bottoni rossi, mi pareva di
udire già il fragore della corrente che riempiva il greto immenso, prima di vedere il luccichio
dell’acqua sopra le solvette di oleandri.
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Un anno, l’estate era finita con una serie di uragani, che avevano devastati gli uliveti, e il mio ritorno
era particolarmente malinconico. Nel luglio avevo compiuti i tredici anni e cominciavo ad avvertire
quei malesseri strani e inebrianti che annunziavano la pubertà. Quello era il mio primo anno in cui il
seminario mi appariva come una clausura, e per la prima volta i pericoli di quel viaggio mi si
presentavano come argomenti validi per deprecarlo; tanto più che questa volta si annunziavano
particolarmente paurosi.
Già i piccoli torrenti, tra le innumerevoli accidentalità di quella terra anarchica, schiumavano gonfi fra
pietroni enormi; figurarsi i grossi, quelli che raccoglievano gli emissari di una intera vallata. Tuttavia,
come Dio volle, i primi due li attraversammo senza incidenti. Ma quando, verso le dieci, ci trovammo
davanti al fiume Ciminà un terribile sgomento mi invase.
Già prima di affacciarmi sull’immenso greto, ci venne incontro nell’aria un clamore enorme, come di
un esercito in marcia.
- È il fiume, Pietro? – chiesi io atterrito al mio garzone.
- Sì, è il fiume!
Un brivido acuto mi balenò per la schiena. Di fatti, quando ebbimo attraversate alcune solvette
d’oleandri, ci trovammo davanti ad una piena mai vista. L’acqua torbida, copriva il letto da un capo
all’altro e passava veloce sotto i nostri occhi come il nastro di un tapis-roulant. Ad accrescere il mio
terrore contribuì l’atteggiamento delle due bestie della nostra piccola carovana. La mula e l’asina,
giunte davanti alla corrente, si erano arrestate, avevano sfiorata l’acqua col muso e si erano piantate lì,
emettendo un lungo fremito, come per dire: "Qui non si passa".
Io ricordavo quello che tutti gli anni mi diceva il Carabetto il quelle occasioni: "Allentate la cavezza e
lasciate andare la mula dove vuole; essa sa meglio di noi dove deve andare".
- Ecco – avevo concluso io tra me – le bestie col loro istinto, hanno già valutato il pericolo e non
vogliono andare avanti. Speriamo che Pietro… Ma Pietro, con la rassegnata fatalità dei contadini che
lasciano ogni decisione alla Provvidenza, si era già seduto sul greto e si scalzava, canticchiando non
so più che specie di filastrocca propiziatoria. Quando si ebbe levate le scarpe e le ebbe appese al basto
dell’asina, si rimboccò i pantaloni fino alla coscia e impugnato il bastone, che sembrava un litro e si
accostò alla mula per fare a me le raccomandazioni di rito: "Non guardate nell’acqua, per l’amor di
Dio! E lasciate andare la mula dove vuole. Aoh… Ciccia… con la buona di Dio!… Aoh!…
Le bestie, dopo un istante d’esitazione, entrarono nell’acqua e cominciarono ad avanzare lentamente,
con le orecchie ritte e una impassibilità quasi religiosa. Sembravano donne che portano la croce il
Venerdì Santo. Io, aggrappato ai materassi, con la carne che non mi toccava più la camicia, ascoltavo
atterrito il rotolio dell’acqua, il picchiare quasi cadenzato degli zoccoli della mula contro i sassi del
greto, e di quando in quando, come attratto da una vertigine, socchiudevo gli occhi per vedere a che
punto ci trovavamo. Non vedevo che le orecchie aguzze della mula, e poi acqua torbida, tutta a creste,
in fondo alla quale emergeva un filare di betulle dal tronco di un bianco sepolcrale.
Quanto tempo durasse questa specie di marcia alla cieca non saprei dirlo; certo è che ad un dato
momento io fui invaso da un orribile panico: mi parve che la mula si fosse arrestata e che l’acqua mi
sfiorasse i piedi. Spalancai gli occhi e mi misi a guardare come uno spiritato la corrente. Ad un tratto
le orecchie della mula, le creste dell’acqua, le betulle della riva, il cielo si misero a turbinare intorno a
me vertiginosamente, una strana contrazione mi serrò le mascelle. Emisi un piccolo grido soffocato e
scivolai giù. Da quel momento i miei ricordi sono come brandelli scuciti di un sogno: una sensazione
acutissima di freddo fino al petto che mi fa annaspare senza fiato per due minuti, la mula che si
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arresta, qualcuno che mi afferra e, grondante mi arrovescia bocconi contro i materassi, il mio pianto
silenzioso sulla riva opposta mentre l’acqua gelida, dalla sottana, mi scende ancora dentro le scarpe.
Livido per il freddo, con i vestiti marci fino al petto, io mi ero seduto sopra un sasso, vinco ad un
ciuffo di oleandri, e piagnucolavo in uno stato di abbattimento indescrivibile. Il mio cappello a tegola
navigava felicemente verso il mare. Del pericolo corso non mi rendevo esattamente conto; quello che
mi atterriva ora era l’idea di dover proseguire il viaggio in quelle condizioni. L’aria dell’ottobre era
frizzante ed io, dal petto in giù, grondavo come una lontra. Non riuscivo a muovere un passo tanto i
vestiti e la sottanella erano appiccicati tra loro. E poi… come presentarsi in seminario bagnato come
un pulcino e senza cappello?
L’unico che non avesse perduta la calma era Pietro Carabetto.
Accorso vicino a me, appena toccammo la riva, si era messo a strizzare a settori la mia sottanella
azzurra, borbottando, ma senza acredine: - Ah! santodianni, ve l’avevo detto di non guardare
nell’acqua.
- Pietro – chiesi io disfatto – ed ora che facciamo?
- Quello che fecero gli antichi…
- Quali antichi?… Non scherzare, Pietro…
- Io non scherzo… Non sapete come fecero gli antichi? Camparono, camparono e poi morirono…
Mi veniva la voglia di scagliargli un sasso sulla testa!
Ma Pietro, mentre strizzava la mia sottanella, aveva adocchiata sopra un pendio di fronte una casa
colonica, dal cui tetto usciva un bel pennacchio di fumo.
- Via – disse ad un tratto. Tenete su la sottanella con le mani e seguitemi.
- Dove andiamo, Pietro?
- Vedete lassù quella casa? Lì c’è del fuoco, ci potremo asciugare. Senza neppur darmi tempo di
pensarci, diede una voce alle bestie e imboccammo un sentiero fiancheggiato da due alti siepi di
roveto.
LA MAESTRINA DI CAMPAGNA
(MUTAS)
L’ordine del Provveditore diceva: "La insegnante Signorina Nella Dores è destinata alla Scuola rurale
di Albonato, Sezione Cascina Gallarda"; e la signorina Dores raggiunse coi primi di ottobre la sua
residenza, facendosi coraggio come un soldato sul fronte di battaglia.
Nel treno, in quella malinconica mattina d’autunno, trovandosi sola in uno scompartimento di seconda
classe, e guardando dal finestrino l’ampia campagna che si destava a fatica sotto il chiarore dell’alba,
appoggiò il gomito sopra la valigia, la bruna testina sulla mano e pianse.
Come cominciava male la sua carriera d’insegnante, e quale anno malinconico sarebbe stato il suo!
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Le stavano davanti dieci mesi da trascorrere in una campagna come quella che le passava sotto gli
occhi, attraverso il finestrino della vettura: distesa di prati malinconici di fieno, risaie rigate di canali,
lunghe file di pioppi canadesi giovani, con le foglie larghe come quelle del cavolo, teorie di gelsi e di
salci sui margini dei fossi, dai quali saliva una nebbia bianca, spessa come fumo, che radeva la terra e
dava al paesaggio un aspetto fantastico, come di una cosa velata da un incantesimo.
E poi gli scolari, ragazzini di campagna sudici, grossolani, duri di comprendonio, che l’avrebbero fatta
diventar matta a richiamarli, a spiegare, a tenerli a dovere.
Il brivido dell’alba le serpeggiava per le ossa come il rezzo di una febbre, e le sue belle mani bianche,
distese su le ginocchia con le unghie rosee, e un piccolo anellino d’oro all’anulare, pareva chiedessero
pietà anch’esse, come due uccellini catturati e portati verso la gabbia.
- Bene, disse la signorina Dores, il buon Gesù mi aiuterà – e tuffata la faccina fino al naso nel colletto
di martora del suo mantello, chiuse gli occhi e si mise a fantasticare.
Quando li riaprì, dopo una mezz’ora di viaggio, il treno si era fermato davanti ad una stazioncina
rurale, e la campagna fumante brillava tutta come d’argento.
Dietro una fila d’albero il sole nascente sembrava, tra la nebbia, uno sfolgorante incendio lontano, e
delle allodole salivano come carrucola melodiose nello splendore dell’aria.
Discesa dal treno, con la sua valigia in mano, vide dietro il cancelletto della stazione un uomo pallido,
secco ma robusto, di quella robustezza essenziale dei contadini, che la salutava come se la
riconoscesse.
- Lei è la signorina della Scuola?
- Sì, disse la maestrina, e lei chi è?
- Io sono il custode. Venga venga signorina, tutti l’aspettano.
A Nella Dores si allargò il cuore. Tutti l’aspettavano? Meno male! Forse la gente in campagna è più
buona ed ospitale che altrove. Poi chiese al custode: - È molto lontana da qui la cascina Gallarda?
- No, signorina, rispose quello; un paio di chilometri. Ho qui il biroccio per lei; glielo ha mandato il
signor Guarenti.
- E chi è il signor Guarenti?
- Il padrone della cascina Gallarda. Un uomo molto ricco, e buono come il pane.
- Oh, grazie! – disse la signorina Dores, meravigliata di tanta bontà.
Non sapeva capacitarsi come e perché uno sconosciuto mandasse a lei, che non aveva mai vista, il
carrozzino. Si vede pensò, che lo fanno con tutte le maestre.
La Cascina Gallarda era costituita da un gruppo di case sperdute nella risaia, attorno ad un edificio
colonico, immenso come un convento. Vi era anche una osteria con vendita di generi privativa, una
cappella per la messa domenicale, la buca delle lettere, ed un edificio scolastico nuovo, piccolo, bello,
con una cancellata di ferro, ed un giardinetto, nel quale delle magnifiche spighe di amaranto si
maceravano grondanti di rugiada.
In quell’edificio scolastico la maestrina aveva l’alloggio: due stanzette con una graziosissima alcova,
una cucina linda, con la macchina economica, e alcune casseruole di alluminio.
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Quando il biroccio si arrestò davanti alla cappella, molte donne si fecero su gli usci lì attorno, e poi da
ogni casa saltarono fuori frotte di ragazzini, con grossi zoccoli ai piedi e il visino vispo e sudicio.
- Oh, ben venuta la nuova maestrina. Guarda come è graziosa!…
- E le si fecero tutti intorno: le donne con le grosse mani screpolate sul ventre, i bambini tutti ansiosi,
tendendo le braccia come per prenderne possesso attraverso le loro carezze.
La signorina, sebbene fosse meravigliata di quella accoglienza, era raggiante, e un po’ prendeva la
mano di una mamma, un po’ toccava la testa di un bimbo, sorridendo a tutti col suo bel sorriso che
sembrava un fiore sulla bocca.
Poi venne fuori il signor Guarenti, un omone grosso, dalla faccia sanguigna e due buoni occhi paterni.
Le tese una mano pesante come un mattone, e mentre le serrava la sua con vigore, disse al custode,
che poi era un famiglio: - Provvedete la signorina di legna, verdura, uova e burro -. Poi ritornò nella
grande casa colonica, solenne e soddisfatto come un bove che torna alla greppia.
Intanto la signorina Dores, accompagnata dalla moglie del custode, si recò nel suo alloggetto. Aprì la
valigia, mise a posto le sue robe nell’armadio, alcuni libri sopra un tavolino, gli oggetti della sua
toeletta davanti allo specchio, e poi volle scendere giù ancora tra le donne e i bimbi, che non si
stancavano mai di guardarla.
Volle anche visitare le stalle del Guarenti. Che meraviglia! Settanta vacche da latte ruminavano in
fila, alcune in piedi, altre sdraiate su lo strame, dal quale si avventava al naso una esalazione potente e
calda come quella di un forno. In un chiuso, con le narici umide e fumanti attaccate al cancello di
legno, rugliavano alcuni vitelli, grassi, rosei, coi dolci occhi lacrimosi. E poi i buoi da lavoro, grandi
come nuvole, e i cavalli che scalpitavano sul selciato della stalla, con uno sfregiare frequente e
gagliardo. Le sembrava di essere entrata in un mondo nuovo, fantastico, che viveva di una vita
formidabile e benigna, una vita tanto lontana e tanto più feconda di quella nella quale era vissuta lei
fino allora, e che adesso le appariva tanta angusta e artificiale.
Forse l’anno, diceva tra sé, la signorina Dores, non sarà così triste e così solitario come me lo sono
immaginato. È questione di adattarsi. Anche in campagna vi è del bello.
I primi giorni furono alacri, e volarono via come un soffio: il lavoro d’installazione, l’inizio delle
lezioni, la conoscenza dei bambini, i primi lavori scolastici l’assorbirono completamente, senza
lasciarle il tempo neppure di guardarsi intorno. Dopo, la campagna fu stretta dall’autunno, i lavori
rurali incalzarono. La popolazione della cascina era tutto il giorno via per le semine, e la signorina
Dores si trovò come sperduta in quella immensa plaga solitaria, che diventava ogni giorno più
malinconica e più austera nella sua faticosa tristezza.
I campi nericavano dell’aratura recente, i salci e i pioppi perdevano lentamente le foglie, il bosco
vicino aveva preso il colore del croco, e si spogliava lentamente nell’umidore della nebbia che saliva
dai canali. Spesso pioveva col vento, e allora la scuola e la casa della signorina Dores sembravano una
nave che scricchiolasse e grondasse nella tempesta. La signorina Dores, per distrarsi un po’ cominciò
a scendere qualche volta nell’osteria, dove non di rado capitavano turisti di passaggio, per bere un
bicchiere di vin bianco ed acquistare del tabacco; e finalmente si accordò con la padrona per
consumare quivi i pasti cotidiani. Lei si annoiava a farsi da mangiare, e poi non era pratica, mentre la
padrona dell’osteria, che era stata cameriera un tempo in città, cucinava molto bene.
Tutti i giorni così, dopo la lezione, scendeva nella bettola, mangiava rapidamente al tavolo coi
padroni, e poi si metteva a giocare col gatto, o più volentieri col piccino dell’oste, un bimbo grosso e
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ricciuto, con le gambette e guance bleu come un budello di sanguinaccio.
Ma l’essere che più interessava la signorina Dores in quella bettola era un ragazzo di circa sedici anni,
un povero scemo che non si sapeva di chi fosse figlio, e viveva in giro per le cascine, di carità e del
provento di piccoli lavori, che faceva pei contadini nelle campagne e nei cortili. Cambiava lo strame
alle bestie, spaccava la legna, trasportava carichi di verdure, caricava e sparpagliava il concime.
Nella cantina della bettola lavava le bottiglie, travasava il vino, e aiutava in tante piccole faccenduole
il padrone per una minestra e un bicchiere di vino. Vestiva gli abiti smessi e le scarpe rotte che gli
davano per carità, e dormiva nei fienili. La Cascina Gallarda era la sua residenza abituale: tutti lo
conoscevano e tutti lo aiutavano, come una bestia innocua ed utile nello stesso tempo, che non dava
neppure la noia di essere curata.
Lo chiamavano Mutas perché così egli pronunciava il suo nome, che era Tommaso.
Da principio la Dores aveva paura del povero scemo, perché egli era tanto brutto. La sua fronte era
così angusta, che la linea dei capelli quasi toccava le sopracciglia; i suoi occhi erano infossati come
quelli dei vecchi, e la faccia grossa da mastino, aveva una espressione di misteriosa sofferenza che
suscitava, a guardarla, una specie di inquietudine panica, simile a quella che si prova davanti alle
bestie malefiche. Il povero ragazzo, che quasi tutti i giorni, per l’ora del pranzo era nell’osteria,
guardava la signorina Dores come si guarda una statua nella chiesa, e i suoi poveri occhi dolorosi e
innocenti di diseredato pareva si riempissero di luce.
Dio mio, diceva la Signorina Dores guardandolo, mentre con una specie di singulto, vibrava la scure
sulle grosse radici di gelso nell’atrio della bettola, sembra appartenere ad una razza maledetta; ha
l’espressione e gli occhi di una bestia, ma di una bestia sacra, che abbia il volto a somiglianza di Dio.
Perciò una singolare pietà, e quasi una tenerezza profonda e misteriosa la piegava verso di lui, quella
specie di carità che ha l’ardore dell’amore, di un amore senza residui, che si consumi interamente
nella propria purità e dolcezza. E tanto maggiore e più intensa diventava quella tenerezza, quanto più
grossolano e violento era il modo con cui tutti trattavano il povero Mutas. Il padrone della bettola,
spesso – solo per far ridere i passeggeri che bevevano – gli faceva delle domande scurrili, o gli dava
dei calci, come li avrebbe dati ad una tartaruga, per vederle ritirare la testa.
La signorina Dores si sentiva stringere il cuore davanti a quelle scene; non voleva veder soffrire la
povera bestia che aveva il volto a somiglianza di Dio, e gli andava vicino, gli sollevava il viso, lo
accarezzava sui capelli, e gli diceva scherzosamente: - Povero Mutas, nessuno ti vuole bene, solo la
maestrina vuol bene al povero Mutas!
Per uno di quei singolari segreti del cuore umano, per cui l’uomo trova una gioia sempre quando gli è
dato di contemplare un mistero, la signorina Dores si era abituata a considerare come una piccola
gioia per lei l’affettuosa contemplazione di quell’anima ignara; ed era come se avesse in una gabbia
una bestia affettuosa, una di quelle bestie inutili e dolci, che si fanno amare per la loro misteriosa
bruttezza.
Un giorno però avvenne un fatto che mise in allarme tutta la cascina Gallarda.
Mutas, nelle prime ore del pomeriggio, stava sdraiato lungo un fosso a prendere il sole, e guardava
verso una buca mascherata dall’erba, donde una volta aveva vista saltare in acqua una lontra.
Una ragazzetta di circa dieci anni, figlia di un contadino chiamato Pedrin, venne a passare vicino a
Mutas, e pare che questi, per celia l’abbia rincorsa a carponi tra l’erba, simulando un grugnito
animalesco. La bambina spaventata si mise a correre urlando e giunta a casa trafelata, piangente, disse
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che Mutas la voleva prendere.
In un istante la cascina fu in allarme. Lo scemo, il trovatello randagio che viveva della carità di loro
tutti, era un mostro, un degenerato che aggrediva le bambine come un caprone libidinoso.
Un giorno o l’altro avrebbero ritrovata qualcuna strangolata e violentata su l’orlo di un fosso; e non vi
era modo di guardarsi da lui, che era lì sempre tra i piedi. Bisognava scacciarlo via, non dargli né pane
né ricetto, rincorrerlo con le forche e coi cani.
Il padre della bambina, che apprese il fatto mentre lavorava in un campo, si armò di una roncola, e si
diresse di corsa lungo il fosso dove era sdraiato Mutas. Questi, quando lo scorse da lontano che
avanzava urlando e minacciando, senza rendersi ragione del perché, si mise a fuggire verso il bosco; e
quella fuga fu interpretata come una conferma della colpa di Mutas. E Mutas fu bandito dalla cascina
Gallarda e dai dintorni.
Quando la signorina Dores ebbe notizia di questo fatto, ebbe un moto d’indignazione verso Mutas.
Dio mio! Era possibile? Avrebbe potuto fare violenza anche a lei! Ma subito le si presentarono
davanti alla memoria gli occhi del povero scemo, così tristi, di una misteriosa tristezza, così angusti, e
la pietà vinse in lei ogni altro sentimento. Se l’aveva fatto era stato senza rendersi conto di quel che
faceva; quel ragazzo era come una bestia, a cui Dio aveva concesso un volto a sua immagine, per
attirare verso di lui la pietà degli uomini. E cosa avrebbe fatto ora quello sciagurato solo per il mondo,
senza pane, senza vesti, senza ricovero, scacciato da tutti, sotto un’accusa che lo rendeva
particolarmente odioso?
La signorina Dores non sapeva staccare il pensiero dal povero scemo, e sempre che lo pensava, le si
riempivano gli occhi di lacrime.
Intanto Mutas errava per il bosco come un lupo braccato dai cani. Si era provato ad uscire, ad
accostarci ad un’altra cascina, per chiedere un po’ di pane, un cantuccio per dormire tra il fieno, ma la
notizia del suo tentativo delittuoso si era sparsa intorno con una incredibile rapidità. Tutti sapevano
che lo scemo, alla cascina Gallarda, aveva tentato di violentare una bambina, e non appena lo
scorgevano da lontano lo rincorrevano coi badili branditi, e gli scagliavano dietro dei sassi, dando
l’allarme, come per annunziare la presenza di un cane rabbioso, o di una bestia selvaggia.
Scacciato da ogni angolo, minacciato di morte, Mutas spaventato, assiderato, affamato ritornò nel
bosco.
La prima notte dormì in un cespuglio, sotto una volta di tralci selvatici e di roveti, ricoprendosi di
frasche e di foglie secche. Poi venne la fame terribile. Per sedare gli spasmi dello stomaco cominciò a
scavare la terra in cerca di lumache, che divorava crude avidamente.
Uccise coi sassi qualche uccelletto. Ma al secondo giorno anche questi mezzi di nutrimento si
esaurirono, e il povero Mutas, divorato da una fame spasmodica, si aggirava tutto il giorno pei
margini del bosco, andando a carponi tra i cespugli, e spiava le case di cascina Gallarda come una
bestia in agguato. Ma quando veniva la sera, e il bosco rombava sotto il vento, e gli uccelli si
raccoglievano a frotte sui rami spogli dei pioppi, gittando al sole già caduto quei loro pigolii corali, e
dai tetti delle case saliva il fumo violetto che faceva ricordare il focolare e le vivande, allora il povero
Mutas s’internava nel folto degli alberi e preso da una specie di terrore panico, gittava degli urli
disperati, finché non annottava.
La signorina Dores una sera, stando alla finestra della sua cameretta, vide sul margine del bosco una
figura umana che si moveva carponi, e quando per l’ombra sopravveniente non la vide più, udì levarsi
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nella notte un urlo umano lungo, disperato, angoscioso, e poi un altro, e un altro ancora, fino a che
non fu buio profondo.
Il cuore le diventò come un pizzico di cenere. Era il povero Mutas che urlava per la fame.
La notte era cupa e fredda, gli alberi stormivano nel silenzio, con quella voce singolare, inquieta, che
preannuncia il temporale.
La signorina Dores, si mise a letto tremando d’angoscia. L’urlo di Mutas, della povera bestia col volto
a somiglianza di Dio, le risuonava nell’orecchio senza requie. Intanto si era messo a piovere col vento.
Si udiva nell’aria, con lo scrosciar dell’acqua, il rombo del bosco, ed una specie di ululo lungo, a
onde, con l’avvicinarsi delle raffiche, che il vento produceva soffiando nei fili del telegrafo e della
luce elettrica.
La signorina Dores non poteva chiudere occhio; le sembrava di udire ad ogni istante l’urlo del povero
Mutas, e lo vedeva al buio entro il bosco grondante di pioggia, intirizzito, spaventato, cercare un
ricovero nei cespugli e tremare, e chiamare.
Il dolore di quella creatura umana abbandonata da tutti, le suscitò in cuore una specie di ribellione,
essa non credeva alla colpa di Mutas, ma se anche fosse stata vera, la maestrina non riusciva a
concepire per lui un sentimento di odio. Anzi ricordava gli occhi tristi del povero scemo quando
fissavano lei, così strani, così pieni di una misteriosa tristezza; ed al pensiero che in quella tristezza, in
quella sofferenza, potesse esservi un desiderio, un anelito amoroso, si sentiva sbigottita e sconvolta da
una specie di attrazione istintiva.
Così pensando tutta la notte a quell’infelice, concepì un disegno temerario. L’indomani era giovedì, e
non aveva lezione. Per poco che il tempo l’avesse permesso, ella sarebbe andata nel bosco, avrebbe
cercato Mutas e l’avrebbe interrogato.
Come fu giorno balzò in piedi ed aprì gli scurini. Il cielo, dopo il temporale notturno, era stato
spazzato dal vento, e la giornata si annunziava serena e fredda.
La maestrina si vestì, fece la sua toeletta, prese una tazza di caffè, ed attese che il sole un po’ alto
rassodasse i sentieri, che dovevano essere fangosi per la pioggia notturna.
Verso le dieci mise nella borsetta due pezzi di pane, due mele e partì. Prese anche con sé un coltello di
cucina acuminato, che nascose sotto le vesti. Ella andava ad affrontare un essere bestiale, esasperato,
accusato di avere voluto usare violenza ad una ragazzina. Poteva darsi che vedendo lei, più adatta a
suscitargli il furore dei sensi, e nella solitudine di un bosco, l’avesse assalita. In tal caso si sarebbe
difesa con quel coltello.
Attraversò le case, e percorse per qualche tratto lo stradone provinciale, per dar l’impressione che
andasse a passeggio, poi ad un certo punto imboccò un vialetto di pioppi, costeggiò, tenendosi sulla
ripa, un fosso d’acqua, attraversò un canale passando, non senza paura e pericolo, sopra un tubo di
cemento, sospeso sulla corrente ed arrivò così sul limitare del bosco. Intorno era un grande silenzio,
rotto appena dallo zirlare dei tordi, e dal frullo di qualche volo. Di quando in quando si udivano
cadere sulle foglie morte delle grosse gocce d’acqua che stillavano dai rami, e quel brusio attonito che
fanno gli alberi nel sole.
La signorina Dores si fermò col cuore che le saltava in gola, e guardò intorno smarrita, pronta a
gridare al primo rumore sospetto. Poi chiamò: - Mutas… - Udì a qualche centinaio di passi una specie
di mugolio di spavento, e poi vide Mutas pallido, stralunato che fuggiva verso l’interno del bosco.
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- Mutas, Mutas… - chiamò ancora amorevolmente la signorina Dores – non fuggire.
Mutas si arrestò un istante, afferrandosi con le mani alle verghe di un cespuglio, e guardò esterrefatto
la ragazza, pronto a riprendere la corsa.
- Non mi riconosci, povero Mutas, sono la maestrina, non fuggire. Hai paura di me? No, poverino,
avvicinati, ti ho portato un po’ di pane.
Quando udì la parola pane Mutas le corse incontro come un cane a cui si faccia vedere un pezzo di
carne, e tremante, battendo i denti, livido, con le labbra verdi come l’erba, le tese le mani:
- Pane… un po’ di pane. Ho fame… tanta fame!…
I suoi poveri vestiti carichi di toppe erano marci d’acqua, e poiché si era messo al sole per asciugarsi,
fumavano ora sotto l’ombra azzurra degli alberi spogli.
La signorina Nella aprì la borsetta e gli buttò uno dopo l’altro i due pezzi di pane e le mele, che quello
si mise a divorare con una avidità paurosa.
- Mutas… benedetto Mutas… - disse la signorina Dores, avvicinandosi a lui un po’ guardinga, e
sorvegliando ogni suo movimento – cosa hai fatto disgraziato?
- Io… - chiese il ragazzo spaurito e col pianto in gola… - cosa ho fatto? Mutas non ha fatto niente.
Perché mi vogliono ammazzare?
- Non è vero, dunque che tu hai voluto prendere la bambina di Pedrin per farle del male?
- Del male! Io?… che male? Io non volevo picchiarla, io non picchio i bambini, io…
- So bene che non volevi picchiarla, ma volevi farle dell’altro male più brutto. Non è vero? Dillo a me.
Ti porterò ancora del pane.
La signorina Dores nel dir quelle parole era diventata rossa come il cinabro, e spiava Mutas negli
occhi per scorgervi un lampo d’intelligenza, un guizzo di simulazione. Ma i poveri occhi spaventati
restavano inerti, pieni di una così ingenua e bestiale ottusità che stringeva il cuore. Lo scemo guardava
smarrito senza comprendere.
- Io non volevo batterla, non avevo niente in mano – continuava a borbottare Mutas.
- Cerca di capirmi, poveretto – diceva la Dores, e dimmi la verità. – Non è vero, dunque che tu volevi
prendere quella bambina per farle delle cose brutte, quelle cose che dispiacciono al Signore?
Mutas la guardava stralunato ma non un lampo di comprensione balenava nei suoi occhi tristi.
- Dio mio, - disse la signorina Dores tra sé – questo povero essere è meno che una bestia, meno che un
fanciullo. Iddio gli ha negato tutto, anche il senso del peccato, ed ha voluto mettere su quella tremenda
inferiorità la sua immagine santa, come monito alla pietà degli uomini.
Un’angosciosa tenerezza la invase per quell’essere che era nato dall’amore e non comprendeva
l’amore: lo attirò a sé e cominciò a carezzarlo come una povera bestia tremante, dicendogli le più
tenere parole, mentre grosse lacrime le scendevano dagli occhi.
- Mutas, mio povero Mutas… hai avuto tanto freddo questa notte? Dove hai dormito? Eri tu che urlavi
ieri sera mentre annottava?
Il povero scemo tremava battendo i denti, e la guardava incantato smarrito, con quei suoi poveri occhi
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tristi che si riempivano di lacrime e di luce.
Ah, per Bacco, - disse la Signorina Dores – questo infelice è innocente, e non deve morire nel bosco
come una bestia senza padrone. Iddio mi assista ma io lo salverò.
Si levò in piedi, fece ancora una carezza a Mutas, e dopo avergli promesso di ritornare il giorno dopo,
lo lasciò.
Lungo la strada di ritorno pensò che l’unico a cui potesse parlare del fatto, senza incontrare una
preconcetta e bestiale ostilità, era il signor Guarenti. I contadini sono di natura testardi, e quando si
ficcano una cosa in testa è difficilissimo modificare le loro opinioni.
Giunta alla cascina domandò del signor Guarienti, ma quello era andato in città al mercato.
Quando, sull’imbrunire, fu di ritorno, la signorina Dores andò a parlargli. Gli narrò della sua visita a
Mutas, piangendo, e lo persuase che quel poveretto non era affatto colpevole del fatto di cui lo
accusavano. Il signor Guarienti rimase impressionato dell’audacia della maestrina, ma si commosse
anche davanti al senso di verità della sua narrazione.
- Eh, perbacco – disse s’è così, sarebbe un delitto lasciarlo morire di fame e freddo nel bosco. È una
creatura di Dio. Domani manderò con lei uno dei miei famigli: lo ricercherete nel bosco, e me lo
condurrete qui.
Nella notte limpida e stellata fece una gelata terribile.
All’indomani, tutti i campi e gli alberi e le siepi erano bianchi di brina, le pozze d’acqua coperte da un
sottilissimo velo, il fango duro come marmo.
La signorina Dores, senza curarsi della Scuola, partì di buon’ora col custode e si recò nel bosco. Gli
alberi erano tutti fioriti di merletti candidi, e le numerose tele di ragno sembravano raggiere.
Chiamarono Mutas ma nessuno rispose. Lo cercarono nei cespugli, e lo rinvennero sotto un mucchio
di foglie, stecchito, con una grossa lumaca sul volto color di terra.
IDILLIO MUTO
TERZA C
L’entrata del nuovo professore d’italiano nell’aula di terza C superiore, in quella grigia mattina di
ottobre, era stata una cosa veramente emozionante.
Le alunne – ormai tutte signorine sui diciotto anni – balzarono in piedi e dopo qualche bisbiglio e
qualche tocco alla toilette, rimasero silenziose in attesa. Coi grembiuli neri, uniformi, e il colletto
bianco, sembravano una tribù di rondini allineate sopra una gronda.
Quel giovane vestito di nero, con grossi occhiali neri, era il nuovo professore d’italiano ed era cieco.
Poteva avere una trentina d’anni. Il suo viso era pallido, affilato ma aveva una armoniosa testa
dolicocefala, con lunghi capelli biondi divisi da una scriminatura sul lato sinistro: ricordava alla
lontana qualche vecchia stampa di lord Byron.
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LA ZIA FRANCESCA
Vestiva di nero in modo inappuntabile e aveva delle mani bellissime, lunghe e bianche, da giovane
prelato.
- Vi presento il nuovo insegnante d’italiano – aveva detto il signor Preside – e voi del resto
conoscerete di fama, poiché il suo nome è in tutte le antologie: il prof. Giacinto Fiorini. L’Istituto è
orgoglioso di annoverarlo fra i suoi insegnanti e la scolaresca deve esserlo pure.
Qui il Preside si arrestò un istante, come incerto poi riprese: - Credo inutile raccomandarvi di essere
particolarmente rispettose verso il prof. Fiorini. Altra pausa. Anzi sono sicuro che non solo sarete
disciplinate con lui ma che lo amerete anche, quando avrete sperimentata la sua bontà e la sua valentia
di maestro.
Signor preside – aveva detto il nuovo professore – vuol farmi il piacere di far fare l’appello? Banco
per banco da sinistra a destra che io conosca il posto che ha ciascuna delle alunne, il nome e la voce:
non mi sfuggiranno più.
- Signorina Dores – disse il preside – faccia l’appello.
Seguì un breve silenzio, poi una voce limpida, metallica e simpatica cominciò a scandire i nomi: I°
banco: Anneri Rosita, Cefaly, Garisenda, Polly Ada, Serutti Palmira.
Il nuovo professore ascoltava assorto, dietro i suoi grossi occhiali neri, e appena finito l’appello, egli
ripeté ad uno ad uno i nomi, nello stesso ordine, senza sbagliarsi di un filo. Poi salutò il preside
sedette alla cattedra e nel silenzio stupefatto delle alunne cominciò la lezione.
Ma quel grigio giorno di ottobre adesso era lontano. Il Professore Fiorini insegnava da sei mesi nella
terza C e nessun altro insegnante aveva mai interessato tanto le scolare, quanto era quel giovane poeta
cieco, che tutte le volte che entrava nell’aula, sembrava giungere da un suo lontano mondo misterioso,
portando con se il segreto di una vita interiore oscura, piena di fascini sconosciuti.
Parlava piano, con una voce grave, un po’ velata, e la spiegazione delle poesie e della letteratura sulle
sue labbra sembrava la rivelazione di un segreto amoroso.
Le scolare lo ascoltavano estatiche. Egli le chiamava per nome riconosceva in modo infallibile la loro
voce, e con una sensibilità che le faceva sbalordire, quando qualcuna si muoveva nel banco o
bisbigliava, egli era in grado di dire chi si era mossa e chi aveva bisbigliato.
Ma quello che le ragazze attendevano con una particolare emozione era di essere chiamate a recitare
la lezione.
Poiché il Professore era cieco, faceva andare l’alunna presso di sé, la faceva salire accanto a lui sulla
cattedra, e per rassicurarsi che non si servisse di appunti e di annotazioni, le faceva mettere le mani sul
tavolo e gliele copriva con le proprie.
Per i primi giorni la cosa aveva messo le alunne in una specie di orgasmo; poi non solo vi si erano
abituate, ma quel contatto aveva finito con l’acquistare per loro tutto il fascino di una gioia segreta.
Le ragazze col cuore che pulsava forte, la voce vibrante per l’emozione, recitavano Dante, Leopardi,
Pascoli e guardavano il volto pallido del giovane professore, mentre il calore delle loro mani si
confondeva ed il ritmo accelerato delle piccole vene azzurre acquistava, nella loro fantasia eccitata, i
caratteri di un segreto dialogo amoroso.
Ma da parte del professore non un moto mai, e un indugio che tradisse in lui un’emozione, un
sentimento particolare durante quei contatti.
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Egli era assorto, impassibile, e le sue mani si tendevano verso quelle delle sue alunne, come quelle di
un sacerdote che dona la pace.
L’unica delle ragazze che credeva di avvertire qualche cosa di speciale in quei contatti era la signorina
Nella Dores, colei che era un po’ la guida del giovane cieco.
Era una cosa dolcissima. Ora che era venuta la primavera e che gli esami si avvicinavano, le lezioni
del professore Fiorini diventavano sempre più nutrite e interessanti, e le interrogazioni delle alunne
più frequenti. La signorina Dores quando veniva chiamata a recitare la lezione, aveva l’impressione di
andare ad un convegno amoroso. Arrivava davanti al professore, saliva sullo zoccolo della cattedra e
accostandosi a lui fino a toccarlo, tendeva le mani.
Quello le prendeva nelle sue e il dialogo muto incominciava.
Il tempo era tiepido, dai grandi finestroni esposti al levante il sole stendeva sul pavimento dei
rettangoli di luce color miele; fuori, sulle gronde e sugli alberi garrivano i passeri. La recitazione
aveva delle vibrazioni di canto.
"Piango e le dico, come ho potuto, dolce mio bene, partir da te".
"Piange e mi dice d’un cenno muto: come hai potuto?".
Le mani morbide e calde del giovane professore stringevano le sue e pareva risuonassero come di
metallo alle sue parole. Il suo viso assorto, rivolto verso la luce, con le labbra semiaperte, i grossi
occhiali neri che nascondevano gli occhi, aveva un’espressione di dolcezza indefinibile.
In mancanza dello specchio, degli occhi, pareva che il bel volto giovanile di lei si riflettesse sulla
pallida fronte dell’insegnante.
Poiché le mani della signorina Dores, presa da una soave inquietudine, si muovevano, il professore le
stringeva e le attirava a sé; e allora la signorina vedeva sotto le vene del collo di lui il sangue pulsare,
con un ritmo più ampio e il respiro diventava sensibile.
Così era venuto il giugno e di settimana in settimana si era arrivati alla fine dell’anno scolastico.
Per l’ultimo giorno di lezione il professore aveva trovato la cattedra ingombra di fiori. Egli li aveva
messi da parte sul tavolo; poi più pallido del solito, col volto stanco, dopo un vago riepilogo della
materia svolta nell’anno, aveva rivolto alle scolare delle raccomandazioni riguardo gli esami: che
fossero coraggiose, che distribuissero bene le ore di lavoro, senza gravare la mente, e soprattutto
badassero a rispondere con franchezza. Poi, come se provasse pena sentirsele lì davanti, sui banchi, le
aveva licenziate venti minuti prima dell’orario.
Le ragazze emozionate, ma più preoccupate dell’esame che d’altro, erano scappate via come uno
stormo di passeri.
La signorina Dores era uscita anche lei, ma nell’atto di scendere l’ultima rampa della scala si arrestò.
Non riusciva ad andarsene senza dire una parola a tu per tu col professore, senza chiarire un po’
qualche cosa intorno a quell’idillio muto che durava da sei mesi.
Fece finta di avere una scarpa slacciata e quando udì allontanarsi giù per il corridoio lo schiamazzo
delle sue compagne, rapida come una rondine risalì le scale rientrò nell’aula. Il professore era solo con
la testa arrovesciata, il viso rivolto verso l’alto, nel gesto vago dei ciechi, le mani sul tavolo accanto ai
fiori, sembrava profondamente assorto.
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Quando udì il passo di lei che si avvicinava si volse, e poiché la Dores giunta davanti alla cattedra
rimase muta per qualche tempo, egli la chiamò per nome:
- Signorina Nella… - sì sono io, signor professore – fece la ragazza soffocata dalla emozione, - sono
venuta per… sì … per vedere se ha bisogno di qualche cosa se ha ancora bisogno di me…
Il professore sorrise, con un visibile sforzo di mostrarsi disinvolto.
- Venga qua – disse – mi dia le mani come quando recitavamo la lezione.
La signorina Dores porse le mani. Il cuore le si divincolava nel petto come una piccola bestia
catturata.
- La ringrazio, figliola, la ringrazio proprio di cuore delle affettuose premure che ha sempre avuto per
me. Veda di far bene gli esami e fatemi conoscere l’esito. Che cosa pensa di fare, conseguito il
diploma, la insegnante? – Non so professore – rispose la ragazza – forse sì.
- Bene. Se farà l’insegnante si ricordi che quella è una missione alta e nobile.
Si arrestò un istante pensieroso, poi serrandole le mani più forti, aggiunse : - Che se voi invece foste
chiamata ad una missione : - più dolce e più dolce, quella della madre! Arrovesciò ancora la testa con
un sospiro profondo e rimase come assorto in un tormentoso pensiero. Seguì un silenzio lungo,
inesplicabile. Nell’aula entravano per i finestroni i garriti dei passeri e il rombo sordo della strada.
La signorina Dores, sbigottita, ansante sentiva un tremenda voglia di scappare. Avrebbe voluto essere
lontana mille miglia, e per tutto l’oro del mondo non avrebbe data quella emozione che la
sconvolgeva tutta.
Ruppe il silenzio lei per uscire da quell’orgasmo, ed anche per togliere lui dalla pena, perché vedeva
che soffriva.
- Professore – disse – quale che sia il mio avvenire, io mi ricorderò sempre di lei, e avrei tanto caro
che lei si ricordasse di me qualche volta.
Il professore si riscosse come da un sogno: "Sì, cara, io mi ricorderò sempre di lei. La ricorderò come
posso. Ricorderò la sua voce, le sue manine, il rumore dei vostri passi, che mi era diventato familiare,
e certo amerei tanto ricordare il suo viso. Oh, si tanto! Ma come fare?".
Rimase un istante perplesso, poi lasciò andare le mani di lei e, brancolando con le sue cercò il viso.
- Lasci disse con voce alterata – lasci che io la veda col toccare delle mani. Oh, sa, le mie mani sono
fedeli, più fedeli degli occhi. Non dimenticheranno più.
Dopo averle stretto il bel viso ovale fra le palme, cominciò a scorrervi sopra con le dita ansiose: - Così
– mormorava come estatico – così vi avevo immaginato, così bella e soave. Con quanta gioia la
ricorderò.
La signorina Dores credeva di soffocare. Ora mi bacia – diceva tra sé – mi bacerà sulla bocca, ed io
gli cadrò fra le braccia. Ma il professore, dopo essere rimasto per qualche istante col viso di lei fra le
mani, come assorto, la congedò bruscamente.
- Vada, figliola, addio. Sia felice.
- Addio – pronunciò senza voce la signorina Dores – e uscì a precipizio.
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LA ZIA FRANCESCA
Scese le scale quasi senza vedere. Aveva il volto in fiamme. Il sangue le batteva alla tempia come un
pugno e la sua gola era stretta da un prepotente, incontenibile bisogno di piangere. Afferrò la borsetta
di cuoio, che stava appesa nel corridoio, ed evitando le sue compagne, uscì sul piazzale. Imboccò di
corsa il viale.
- Perché non mi ha baciata – diceva tra sé, oppressa da un sentimento inesprimibile – perché non mi
ha baciata? E come si accorse di essere sola sotto gli ippocastani, sedette sopra una panca, e si mise a
singhiozzare silenziosamente, come se avesse perduta una persona cara, la più cara cosa della vita
LE DUE MADRI
Quando il direttissimo Milano-Sarzano-Roma, in viaggio da oltre 10 ore entrava negli acquitrini della
campagna romana, spuntava l’alba.
Angelica, che nello scompartimento di seconda occupava un posto d’angolo dal lato del mare,
vedendo il barlume del giorno che trapelava attraverso le tendine, stropicciò col lembo di una di esse
la lastra del finestrino tutta opaca di vapore e guardò fuori sulla campagna.
Oltre la linea ferrata, vide una serie di minuscoli stagni in cui si specchiava l’ultimo crepuscolo, poi il
mare grigio, immobile al largo, che rotolava verso la riva con calma onde lunghe e fievoli senza
schiuma. Più lontano ancora l’acqua razzava accesa dai riflessi di un fascio di nuvole rosse, che si
sgretolavano alla base in un arcipelago di piccole isole abbaglianti come oro fuso. Riabbassò la tenda
e richiuse gli occhi come ascoltare dentro di sé il ritmo agitato del suo sangue.
Era vicina a Roma ormai, fra un’ora o poco più sarebbe scesa alla stazione, avrebbe presa una
carrozzella e col suo bambino in braccio si sarebbe presentata a lui. Una specie di sgomento che aveva
il sapore della speranza, e questa speranza le veniva dal bambino.
Ella credeva ciecamente nell’influenza irresistibile del figlio in quella faccenda. "Potrebbe darsi che
per me non si commuova – diceva tra sé – noi povere donne per gli uomini non siamo che capriccio
del momento: ma di fronte al figlio nato dal suo sangue, che gli somiglia in modo così impressionante,
perfino nel modo di muovere le mani e nell’atteggiare le labbra al sorriso, di fronte a lui non è
possibile che egli resista e la pace sarà fatta. Io potrò stringermi al petto il mio uomo interamente
riconquistato alla mia vita e al mio amore".
Il bambino, raccolto in uno scialle di lana dai disegni scozzesi, le dormiva sulle ginocchia di quel
sonno pesante ed immemore, che è proprio degli innocenti. Le gambette un po’ divaricate, un braccio
penzoloni, bianco come un grappolo di fiori d’acacia, le lunghe ciglia calate sugli occhi e la boccuccia
semiaperta.
I bambini sono quasi tutti belli, ma quello lo era in un modo singolare. Aveva le guance rotonde,
leggermente animate di roseo e l’espressione del viso un po’ corrucciata; quell’espressione misteriosa
di serietà che hanno certi volti infantili e che dà alla loro fisionomia una significazione illogica e
l’attrazione particolare che hanno le cose incomprensibili.
Angelica lo guardava e il suo cuore si gonfiava di speranza.
Il tepore fine di quel corpicciolo fragrante le inondava il grembo, le saliva alla gola simile ad una
corrente di latte, come se il suo piccino ridonasse a lei, ridiffondendolo, il calore che da lei aveva
succhiato e che aveva formato la sua rosea carne.
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LA ZIA FRANCESCA
Quell’esserino così fragile, che non avrebbe potuto vivere un giorno senza le cure della sua mamma,
diventava ora per lei una forza protettrice, il presidio del suo avvenire.
Si erano conosciuti durante l’altra guerra.
Lui era ufficiale di fanteria e aveva preso una camera nella sua casa dove da alcuni anni, da quando
era morto suo padre, una camera era sempre subaffittata o a militari o a studenti.
Angelica in quel tempo andava a fare scuola in una frazione vicina a Milano, dove si recava tutti i
giorni in tranvai o, quando il tempo lo permetteva, in bicicletta.
I due giovani si vedevano poco, ma fin dal primo giorno si erano piaciuti reciprocamente. Lui era
bruno, alto come un granatiere, coi capelli neri e lisci, due baffetti fini e gli occhi intelligenti.
Parlava bene, con l’accento romano che è nello stesso tempo maschio e gentile, e quando rideva
mostrava una magnifica dentatura da lupo. Era anche compito, serio, affabile nel trattare, non dava la
minima noia per la camera, e qualche volta, invitato dalla mamma, veniva in tinello a fare quattro
chiacchiere e a prendere una tazza di caffè.
L’Angelica, quando quel giovane era con loro, non aveva mai voglia di andare a letto. Anche lui ci
stava volentieri, e di quando in quando le allungava uno sguardo morbido, significativo, che sembrava
un braccio teso per cingerla alla vita.
Finirono con l’innamorarsi e diventarono amanti. Poi lui era partito e mentre si trovava sul Piave, era
nato il bambino.
Le prime amarezze e i primi dubbi incominciarono quando, alla fine della guerra, egli era stato
congedato ed era ritornato a Roma senza neppur venire a vedere il figlio che non conosceva ancora.
Questo aveva molto impressionato lei e la madre, ma la corrispondenza epistolare era continuata tra i
due affettuosa e frequente. Le lettere di lui erano preoccupate, perché diceva di essere alla ricerca di
un impiego, senza il quale non si sentiva di crearsi una nuova famiglia.
Finalmente, dopo circa un anno, fece sapere che era stato assunto come straordinario in un Ministero
in via del Seminario.
Dopo quella lettera scrisse ancora per qualche mese, lettere sempre più rare e meno espansive, poi
bruscamente si era taciuto, e lei non aveva più avuto notizie di lui.
Che cosa era avvenuto? Per spiegare quell’improvviso silenzio, Angelica e sua madre avevano
formulato le ipotesi più pietose. Avevano scritto, riscritto, telegrafato. Tutto inutile, nessuno
rispondeva più. Allora, dopo lunghe discussioni, avevano deciso che la giovane si recasse
personalmente a Roma, portando con sé il bambino.
- Voglio vedere – aveva detto Angelica – se quando vedrà suo figlio, avrà il coraggio di lasciarmi. Ma
non lo farà, mamma vedrai. È troppo buono e un pochino di bene lo vuole anche a me.
La mamma l’aveva lasciata partire con il cuore nero, ed ora Angelica era alle porte di Roma. Intanto si
era fatto giorno chiaro.
I quattro passeggeri rimasti con Angelica nello scompartimento si erano alzati sbadigliando, avevano
tirate le tendine, abbassato uno spiraglio dei vetri e l’aria frizzante del mattino aveva cominciato a
circolare, mescolando all’odore del fumo e del rinchiuso un sentore buono di erbe nuove e di piante in
fiore.
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LA ZIA FRANCESCA
Angelica si sentì allargare il cuore. Quella bella giornata pareva fosse di buon auspicio. Fece una
carezza al suo bambino e si mise a guardare la campagna.
Finalmente si giunse a Roma.
Alla stazione Termini, Angelica lasciò al deposito una valigia, poi col bimbo uscì sul piazzale, e salì
in botticella dando l’indicazione di via del Seminario.
Il vetturino la squadrò con uno sguardo imperiale, perché a Roma tutto diventa solenne, anche lo
sguardo dei vetturini, poi abbassò il tassametro e si mise in moto.
Angelica si guardò intorno come trasognata.
Il rudere di una torre a destra. La fontana delle Naiadi col suo tritone verdognolo nell’aria d’oro, i
palazzi, le vetrine, tutto le sembrava la fantasmagoria di un sogno. Anche il piccino sbarrava ora i
grandi occhi svagati, e sembrava un po’ atterrito da tutte quelle novità.
Finalmente attraverso piazze, strade e vicoli giunsero in via del Seminario.
- Ecco – disse il vetturino – "ce semo arivati" – e arrestò il cavallo davanti ad un enorme portone.
Angelica pagò, poi col bimbo in braccio imboccò il portone.
A sinistra, in una specie di atrio, un uomo in livrea stava seduto davanti ad un tavolo, sul quale si
vedeva aperto un registro grosso come un messale.
- Scusate – disse Angelica – cercavo un impiegato che è mio parente e deve essere qui: - Camillo
Minici…
- Vediamo subito -. Il portiere si portò un dito alle labbra per inumidirlo e si mise a sfogliare il
registro, nel quale era scritta a mano una infinità di nomi.
- Minici, avete detto… Minici: ecco Minici Camillo, trasferito a Piazza Termini. Alla ferrovia lo
troverete – disse con un sorriso amabile.
Delusa salutò e uscì.
"E adesso dove vado da sola?".
Nella via solitaria non si vedevano che scarsi passanti e qualche impiegato ritardatario che
raggiungeva in fretta il portone del Ministero. Angelica si rivolse ad uno di quelli. – Per piacere
signore, dove potrei trovare una carrozzella?
- Andate avanti, in Piazza del Pantheon ne troverete di sicuro.
In piazza del Pantheon infatti ne trovò una e si fece ricondurre alla Ferrovia. Dopo lunga difficoltà
riuscì a trovare l’ufficio dove il Minici prestava servizio: un ufficio postale.
Fu ricevuta da un capo-ufficio a cui tutti davano del cavaliere.
- Desidererei parlare all’impiegato Camillo Minici.
- Minici? Sì è qui, ma oggi è di riposo. Andatelo a cercare a casa, se credete; piazza Santa Croce in
Gerusalemme n. 49.
E Angelica ritornò sulla piazza.
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LA ZIA FRANCESCA
Dio, come era stanca, come l’abbattevano tutte quelle emozioni! Sentiva una specie di nausea e le
girava un po’ la testa. Tuttavia prese un’altra carrozzella e si fece portare in piazza S. Croce.
La casa era una di quelle costruzioni cooperative, che assomigliano a caserme. Angelica, avute le
necessarie indicazioni dalla portinaia, imboccò una scala al centro del fabbricato.
Il cuore le batteva così violentemente, che dopo la prima rampa, dovette arrestarsi per prendere fiato.
Era in casa di lui ormai, a due passi dal suo appartamento, che era al quinto piano. Con chi abitava?
Con la mamma, con le sorelle o solo? Che cosa avrebbero detto i suoi parenti quando avessero visto
lei col figlio? Lo sapevano già o sarebbe stata una sorpresa?
Tutti questi interrogativi, l’incertezza e le emozioni le avevano fatto perdere il coraggio. Gli occhi le
si annebbiavano, la lingua le era diventata arida e le gambe si rifiutavano di sostenerla. Anche il
bambino in quella casa enorme e sconosciuta sembrava atterrito, e di quando in quando allungava il
labbro nell’atto di piangere.
Angelica se lo strinse al petto, facendosi forza, e si rimise a salire. Giunta sul pianerottolo del quinto
piano vide sopra un uscio una targhetta di ferro smaltato col nome: Camillo Minici. Dall’interno
veniva uno strusciare di scopa, proprio dietro l’uscio, e la voce di una donna che canticchiava.
"Sarà la sorella o la persona di servizio" disse tra sé Angelica e, con una decisione disperata suonò il
campanello.
La voce si spense, seguì un ciabattare di pianelle, un muovere di sedie, poi la porta si aprì e una donna
sui venticinque anni, forte e bianca come il latte, una vera romana, si fece sull’uscio. Dal volume del
seno e dei fianchi, dal viso leggermente appannato sui pomelli e dall’espressione di placida sofferenza
degli occhi, Angelica capì che quella donna era in stato di avanzata gravidanza. Un misterioso brivido
la scosse tutta.
- Buon giorno – disse con la voce alterata – è qui che abita il signor Minici?
- Qui appunto – rispose la donna – è mio marito…
- Vostro marito? Ah!…
Sentendosi mancare, Angelica buttò in braccio alla donna il bambino come se avesse ricevuto una
pugnalata in mezzo alla schiena.
Quando riprese i sensi e mentre ancora teneva gli occhi chiusi, udì un cicaleccio intorno a sé di voci
femminili, e il piagnucolio intermittente del suo bambino.
- Mangia, tesoro, mangia! – diceva amorosamente una voce – la tua mammina si sveglia subito.
- Ma chi è? – chiedeva quasi con ira un’altra voce cauta. – Come diavolo v’è capitata in casa?
- Non lo so, signora mia, non lo so, quanto è vero Gesù. Me la son vista capitare qui così di botto. Ha
domandato di mio marito e paf… è andata giù come un sacco.
- "Ve doveva capità proprio a voi", in quello stato in cui vi trovate. Dio liberi, è un momento.
- Ah, vi dico io! Mi sento la schiena che mi si apre e mi si chiude come una porta.
Angelica aprì gli occhi. La sposa teneva in braccio il suo bambino e lo accarezzava con passione. Il
piccolo sgranocchiava il biscotto e ad ogni minuto allungava il labbro per piangere. Davanti a lei, che
si trovava sdraiata sopra una poltrona di pelle, stava una donna enorme con due braccia poderose,
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LA ZIA FRANCESCA
nude fino al gomito ed un paio di baffi neri da adolescente. Aveva in mano un bicchiere con del
marsala. Quando vide che Angelica aveva aperti gli occhi le si precipitò addosso e le accostò il
bicchiere alle labbra.
- Neh, sora sposina, che cosa è stato? Bevete un sorso.
Angelica, disfatta, respinse il bicchiere, si ravviò i capelli sulla fronte madida e gelida e si guardò
intorno.
Si trovava in un salotto ben messo, ordinato, con quadri, fotografie stampe e ninnoli di un gusto
piuttosto dubbio. Sopra un mobile, in una cornice d’argento, vide una fotografia di lui vestito da
ufficiale.
Un orribile nodo di pianto le serrò la gola. Si sentiva soffocare. Avrebbe voluto urlare, spaventar tutti,
gettare in allarme la casa intera. Poi i suoi occhi si posarono sulla sua rivale, la giovane sposa.
Spaventata anche lei, inconsapevole, alle soglie della maternità, la spiava smarrita, con qualche
sospetto forse del suo segreto. Allora una sconsolata pietà la vinse. Perché fare dello scandalo, perché
mettere in angoscia quella giovane madre che non aveva alcuna colpa? Ormai lei si trovava davanti
all’irreparabile. Quell’altro era dell’altra di fronte alla legge, ogni reazione non avrebbe approdato a
nulla. Non avrebbe fatto che amareggiare quella donna che preparava nel suo seno, con una divina
serenità, il fiore di una nuova vita, un fratellino della sua creatura diseredata.
La fissò negli occhi con un misto di pietà e di rancore e balzò in piedi.
Scusatemi tanto tutti – disse. Non è colpa mia. Datemi il mio bambino.
- Ma no, signora, dove volete andare? – si oppose la sposa. – Non state ancora bene e potreste cadere.
Attendete un minuto.
- Ma che avete adesso? – strillava la donna grassa coi baffi – che vi piglia, sora sposa?
- Datemi il mio bambino, debbo andar via! – ripeteva Angelica con voce sorda.
La sposa, sempre più smarrita le restituì il piccolo e mentre l’altra stava per uscire l’afferrò per il
braccio: - Ma voi – le chiese risoluta – che cosa volevate da mio marito?…
Angelica la fissò come se volesse fulminarla, soffocò la risposta e si precipitò giù per le scale con gli
occhi accecati dal pianto.
IL CHICHIBIO CALABRESE
Tutti gli anni per la festa di San Nicola, il notaro Pantaleo mandava al canonico Sansalone un dono:
ora un capretto, ora una mezza dozzina di pernici, ora un tacchino.
Quell’anno gli aveva preparati tre capponi che erano una meraviglia.
Il canonico don Nicola Sansalone e il notaio Pantaleo erano, fra le altre cose, legati da una antica
amicizia letteraria. Il notaro si dilettava anche a scrivere in versi latini, che il canonico gli correggeva,
postillandoli con la citazione delle regole grammaticali del Portoreale.
Prima ognun sia persuaso
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LA ZIA FRANCESCA
d’accordare l’aggettivo
col suo nome sostantivo
in genere numero e caso.
Ragione per cui il notaro aveva per il canonico una venerazione di discepolo più che di amico.
Quell’anno, dunque, alla vigilia di San Nicola il notaro aveva preparata una bella lettera in stile
fiorito, con diversi e svariati conciossiacché, poi aveva chiamato il suo garzone Bastiano, denominato
anche Carabetto, e gli aveva detto: - Prendi questa lettera e i capponi che ti darà la Domenica, e recati
alla magione del mio molto reverendo amico, il canonico Sansalone, porgendogli i miei saluti e gli
auguri "ad multos annos".
- Va bene signor padrone, - aveva detto il Carabetto, e presa la lettera era entrato in cucina, dove la
Domenica, la serva-padrone del notaro, aveva già legato i tre capponi per le zampe e li aveva appesi
alla spalliera di una sedia. A lui per il viaggio quella strega aveva preparato in un piatto un pane e un
pugno di ulive in salamoia. Il Carabetto aveva intascato malinconicamente il pane e le ulive, si era
caricati i capponi sulla spalla e si era messo in viaggio.
- Pare che ci rimetta del suo – diceva Bastiano mentre andava per la strada nuova.
- Vecchia strega! Se fosse per lei meriterebbe che a questi capponi io tirassi il collo e li mangiassi
anziché portarli al canonico. Chissà come saranno buoni! – A questo pensiero gli venne voglia di
esaminarli e, giacché si era già abbastanza dilungato dal paese, si fermò, calò da su la spalla il
bastone, al quale le tre bestie erano appese, e cominciò a palparle.
Erano veramente magnifici, grossi come paperi, col collo lungo e le piume sottili, irridate intorno alla
testa minuscola. La cresta avevano piccola e pallida, un po’ dentellata, ma il petto e le cosce erano
grassi e morbidi che facevano venire l’acquolina in bocca.
Così sospesi per le zampe con le ali un po’ allargate e ondeggianti, tenevano la testa rialzata e
guardavano intorno con i loro occhi rotondi, che brillavano di una specie di riso stralunato. – Dio che
buon mangiare faranno questi capponi! – diceva Carabetto, e ricordava di averne qualche volta sentito
l’odore nella cucina del notaro, ritornando dalla campagna. La Domenica, seduta davanti alla graticola
con una mano agitava un ventaglio di legno per tener viva la brace, e con l’altra intingeva un
ramoscello di origano selvatico in un piatto dove era una miscela d’olio, acqua sale e qualche spicchio
di aglio; e come il grasso colava sul fuoco, si spandeva intorno un odore appetitoso da risuscitare un
morto. Quando avrebbe mangiato un pezzo di cappone anche lui, povero Carabetto? Forse mai. "Certa
buonagrazia di Dio pare non sia stata creata per i poveri", pensò il Carabetto, e ricaricatisi i capponi
sulla spalla, continuò il suo cammino.
Quando giunse a Paganica, un paesello a mezza strada tra quello che abitava il notaro e quello del
canonico Sansalone, gli venne fame, e pensò di andare da un oste di sua conoscenza, per annaffiare
con un bicchiere di vino il pane e le ulive che gli aveva dato la Domenica. L’oste, appena vide quei
capponi, mise loro subito le mani addosso.
- Dove li porti?
- Dal canonico Sansalone.
- Da parte di chi?
- Del mio padrone, il notaro Pantaleo.
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LA ZIA FRANCESCA
- Ah, che Dio ti benedica, perché non me ne vendi uno?
Ho qui in casa oggi il verificatore dei pesi e misure e non so che cosa dargli da mangiare.
- E come faccio? – rispose il Carabetto.
- Ho qui una lettera di accompagnamento dove è detto quanti sono i capponi. Conosco il mio padrone:
è preciso.
- E tu dirai che uno ti è scappato, - fece l’oste – che te lo hanno rubato; insomma inventerai qualche
frottola. Per uno io ti do venti lire e un’ala arrosto.
All’idea di mangiare un pezzo di quei bei capponi, il Carabetto si sentì venire come una specie di
vertigine.
- Bell’affare, - disse – un’ala! La parte più magra.
- Una coscia allora, - fece l’oste; e prima che il Carabetto potesse intervenire slegò i capponi, prese
quello nero che era il più grosso, e lo afferrò per il collo.
- Cosa fai? Che il diavolo ti porti! – gridò il Carabetto levandosi in piedi; e intanto si chinò per
afferrare gli altri due capponi che, posati in terra e mal rilegati, starnazzavano, minacciando di
scappare. Li afferrò difatti brancicando, e poi si lanciò per riprendersi l’altro; ma quello con le ali
abbandonate e il collo rotto, penzolava già morto tra le mani dell’oste.
- E adesso?… - fece il Carabetto con gli occhi sbarrati.
- Adesso lo faccio cuocere – rispose l’oste – e ti darò una coscia più venti lire, sei contento?
Il Carabetto stette un istante a pensare alquanto disorientato; poi disse: - Bene, dammi le venti lire e la
coscia quando sarà cotta: al canonico ci penso io.
Dopo un’oretta il cappone era cotto. Il Carabetto ebbe una coscia, venti lire e un bicchiere di vino.
Mangiò, bevve, intascò il denaro e ripartì.
Quando giunse in casa del canonico era il vespero. Quello si era appena alzato dal suo pisolino
quotidiano, e ora, sdraiato nell’orto sopra una sedia di vimini, fumava la pipa, guardando le rondini
che passavano a stormi; garrendo sulla cima di un nero eucalipto.
Il Carabetto fu ricevuto dalla serva, alla quale consegnò la lettera e i due capponi superstiti, con la
preghiera di portare tanti auguri al signor canonico da parte del notaio Pantaleo.
La serva, dopo avergli mesciuto un bicchiere di vino, andò nell’orto e porse al canonico la lettera: - Il
garzone del notaro Pantaleo ha portato due capponi.
Il canonico aprì la busta, inforcò gli occhiali e si mise a leggere.
- Due o tre? – chiese dopo aver finito la lettera.
- Due, signor canonico.
- Come due? La lettera dice tre: "Molto reverendo amico e maestro colendissimo, vi mando tre floridi
capponi dal mio domestico pollaio ecc. ecc. Devono essere tre".
- Il notaio si sarà sbagliato, - fece la serva – i capponi sono due, venite voi stesso a vedere.
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LA ZIA FRANCESCA
Il canonico posò la pipa sopra un tavolo di pietra lì vicino, ed entrò in cucina.
- Ebbene? – disse al Carabetto con fare gioviale. – Come sta il mio amico notaro Pantaleo?
- Bene, signor Canonico, vi manda questi capponi e tanti auguri "ad murtosano".
- Grazie, grazie – fece il canonico sorridendo. – Ma come va che sono due? La lettera mi parla di tre.
- Signor canonico, quello che mi ha dato il mio padrone io ve l’ho portato.
- Vediamo – disse il canonico, prendendo i capponi in mano.
- Quanto tu dici non è esatto, perché la lettera mi annunzia tre e tu me ne hai portati due. Guarda bene:
uno e uno due.
E presi i due capponi ciascuno in una mano, li alzò in aria.
- Ebbene, signor canonico, - fece il Carabetto – uno e due non fanno tre?
Il canonico guardò il Carabetto con gli occhi piccoli piccoli:
- Ah! Ho capito! Tu sei una specie di Bertoldo, figlio mio, - disse aggrottando le ciglia – ma a me non
la farai. Stai bene attento. Qui siamo in tre: io, tu e la serva. Se i capponi fossero tre, come dice la
lettera, ce ne spetterebbe uno ciascuno; uno a me, uno a te e uno alla serva. È giusto sì o no? Rispondi.
- Giusto, signor canonico, - fece il Carabetto – ma guardate che le parti le avete fatte voi. Io accetto.
- Allora vediamo – riprese il canonico trionfante, senza badare molto a quello che diceva il Carabetto.
– Ora facciamo la distribuzione delle parti. Questo è il mio – e prese in una mano per le zampe uno
dei capponi.
- Quest’altro è della serva, - e porse il secondo alla domestica – e il tuo dov’è?
- È vero, - rispose dopo un momento di esitazione Bastiano – manca proprio il mio.
- E allora – domandò il canonico – il tuo dov’è?
- Vi spiego io tutto, signor canonico – disse il Carabetto.
Ricordatevi che le parti le avete fatte voi. Il vostro l’avete, la serva ha il suo, va bene? Manca il mio.
Per il mio ecco… per il mio, signor canonico, non datevi pensiero. Io l’ho mangiato alla vostra salute.
NINO MARTINO
Nino Martino era un celebre brigante, la cui fama volava da un capo all’altro della terra Calabra.
Egli viveva nei boschi, a capo di una banda numerosa ed agguerrita che, giusto l’espressione della
leggenda, egli trattava "alla riale", e cioè, colla magnificenza di un re. I suoi compagni vestiti di
splendidi velluti, avevano armi sopraffine, mangiavano robustamente, e vivevano come i lupi della
montagna, magnifici, temuti a cento miglia d’intorno.
I giovani animosi che avevano un sopruso da vendicare, o una giustizia da rendere, accorrevano a lui,
e volentieri si assoggettavano alla sua cavalleresca ma inflessibile autorità.
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LA ZIA FRANCESCA
Perché Nino Martino non commetteva mai un’ingiustizia, non agiva mai per suo personale interesse, o
per volgare malvagità, ma sempre per riparare dei torti, e per deprimere l’arroganza dei signorotti, che
angariavano i poveri, ed opprimevano i deboli e i diseredati.
Tutto il denaro che egli portava via ai ricchi lo distribuiva ai poverelli, alle vedove e agli ordini,
cosicché il brigantaggio con lui diventava una specie di cavalleria a vantaggio degli umili. Ma era
sempre brigantaggio, e il cuore generoso di Nino Martino ne soffriva.
Un giorno Nino Martino, che era abituato a beffarsi dei gendarmi e ad affrontare i pericoli, scese in
città da solo vestito da montanaro, e poiché era di quaresima, entrò in una chiesa per ascoltare la
predica di un monaco che, durante quel periodo di penitenza, aveva convertiti parecchi peccatori.
La chiesa rigurgitava di gente, di ogni condizione e di ogni età, e l’organo in fondo al coro, rombava
come una foresta al vento, mentre delle voci bianche di chierici cantavano il Benedictus. Ad un tratto
la musica si tacque, i canonici occuparono gli stalli, e sul pergamo, nella penombra austera della
chiesa, apparve una figura maestosa di francescano, con una bella barba fluente sul petto, ed una
faccia serafica. Con voce tonante il frate si mise a predicare, tra il religioso silenzio dell’auditorio. Il
tema trattato era quello della morte.
- "Io verrò come un ladro – tuonava il frate, ricordando le parole di Gesù – e voi non saprete della mia
venuta".
Il pubblico dei fedeli ascoltava in silenzio e per la vasta chiesa la voce del frate passava come un
vento in tempesta.
Nino Martino, passò in rapida rassegna le sue terribili colpe, e pensò che per lui, più che per gli altri,
la morte poteva arrivare come un ladro notturno. Il suo cuore intimamente buono e generoso, si
ribellava a quella vita di lotte e di agguato, di vendette furibonde e di tempestose libertà.
Gli venne alla mente sua madre, la sua vecchia madre, che lo ammoniva sempre, e girando gli occhi
intorno, la vide inginocchiata vicino ad una colonna che pregava per lui, col volto inondato di lacrime.
Lasciò sconvolto la chiesa e si diresse verso la montagna.
Appena uscito fuori dal paese, vide venirgli incontro un povero cencioso, emaciato, che basiva per il
freddo, perché non aveva che una povera camicia sulle spalle e quella era anche tutta a brandelli.
- Mi dai qualche cosa per l’amore di Dio? – disse il povero a Martino; e batteva i denti che era una
pietà.
Il brigante mise la mano nella cintura di cuoio e trasse fuori una manata di monete che porse al
poverello; poi pensando allo stato miserando del vestito che lo ricopriva, si levò dalle spalle il suo
ampio mantello di panno, e sfilato un coltellaccio dalla cintola, lo tagliò in due: una metà la diede al
poverello, con l’altra metà si ravvolse le spalle alla meglio, e proseguì verso la montagna.
Quando entrò nella caverna dove i suoi compagni erano raccolti, davanti alla mensa imbandita, tutti
s’accorsero, dall’espressione del suo volto, che egli era agitato da tempestosi pensieri. Vedendo poi
che non aveva se non la metà del mantello, cedettero senz’altro che fosse stato vittima di una qualche
aggressione. Gli furono tutti intorno ansiosi, tempestandolo di domande. Nino Martino li calmò: Nessuno mi ha aggredito – rispose – ma io ho combattuto un’aspra lotta con la mia coscienza e questa
mi ha vinto. Ecco che io gitto ai vostri piedi le mie armi, i miei vestiti e i miei denari, lascio il
comando della banda, e con questo mezzo mantello mi ritiro in solitudine a pregare Iddio per il
perdono dei miei peccati.
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LA ZIA FRANCESCA
Così dicendo, si sfilò la casacca di fine velluto ornata di bottoni d’argento e la buttò a terra,
similmente fece delle sue armi e della sua cintura di cuoio, tutta piena di grosse monete d’oro; poi si
ravvolse nel suo mezzo mantello, e dopo aver abbracciato tutti i compagni, uscì dalla grotta e
s’incamminò verso il folto della foresta.
I briganti, dopo un minuto di sbalordimento, si misero a discutere violentemente sul gesto del loro
capo. Senza di lui, che era il più animoso e il più accorto, essi si sentivano isolati e spaventati, e già si
vedevano aggrediti dai gendarmi, arrestati e condotti al patibolo per i loro numerosi delitti. Ben presto
le grida contro Nino Martino si alzarono furibonde, lo si chiamò vile traditore, e al colmo dell’ira i
banditi, presi i fucili, balzarono tutti fuori dalla caverna, e si misero dietro le tracce del fuggiasco per
ucciderlo.
Lo raggiunsero in luogo della montagna detto l’Arma del Conte, un passo stretto tra due ripe boscose.
Nino Martino andava curvo, rattristato, quando i suoi compagni gli balzarono intorno come una muta
di lupi affamati, e dopo averlo insultato e malmenato, dato di piglio alle armi, lo uccisero
crivellandolo di ferite. Quando lo videro in terra disteso nel suo sangue, per segno d’infamia,
pensarono di innalzare sul suo corpo una piramide di sassi, che servisse d’ammonimento contro i
traditori, e perché ogni viandante, nel tempo avvenire, passando davanti a quel mucchio, potesse
aggiungere il suo sasso alla greve mora che copriva il corpo del trasfuga. Detto fatto ammucchiarono
sul cadavere del morto quanti sassi e macigni trovarono intorno, e quando lo ebbero totalmente
ricoperto, lo abbandonarono e si dispersero per la montagna.
All’indomani la notizia della morte di Nino Martino si sparse fulminea per tutti i paesi d’intorno, e di
bocca in bocca arrivò alla vecchia madre del brigante. Egli era stato ucciso all’Arma del Conte, e il
suo corpo era seppellito sotto un mucchio di sassi.
La povera vecchia pianse a lungo disperatamente, poi partì verso la montagna. Quando giunse al
passo dove era stato ucciso suo figlio, vide la terra ancora bagnata di sangue, e la piramide enorme di
sassi che nascondeva il suo povero corpo. Si mise in ginocchio davanti al mucchio, e piangendo si
accinse a rimuoverlo. Ben presto le sue povere vecchie braccia si sentirono rotte dalla fatica, le mani
le sanguinavano, ma la passione del figlio le sosteneva le forze. Per tutto il giorno durò in quella aspra
fatica, e come fu sera la povera salma le apparve. Il gran corpo atletico di Nino Martino, sebbene
avesse il petto spezzato da cento ferite, era ancor bello e sorridente come se dormisse, ed i sassi
numerosi e pesanti ammucchiati su di esso, non lo avevano ne rotto ne deformato. La vecchia madre
lo coperse di baci e delle sue lacrime e poi, come fosse stato un bambino dormente, se lo prese in
braccio e lo portò nella sua casa. Nessuno l’aveva vista, mentre scendeva dalla montagna, e i nemici
di Nino avrebbero ancora creduto che egli fosse sepolto sotto il mucchio di sassi all’Arma del Conte.
Ella invece avrebbe dato amorosa sepoltura al suo povero figliolo nella sua casa, per averlo sempre
vicino, e per potergli parlare quando la passione la prendeva.
Giunta a casa lo nascose in cantina, gli lavò le ferite con acqua e vino, e non avendo il coraggio di
metterlo sotto terra, lo coprì con una vecchia botte sfondata.
Di tanto in tanto rimoveva la botte, lo guardava, lo baciava, e lo trovava sempre bello e fresco come se
dormisse.
Dopo alcuni mesi di questa pia comunione col suo morto, un giorno, avendo tentato di rimuovere la
botte, non vi riuscì: essa era diventata pesante come di piombo. La batté con le nocche ed essa diede
un suono opaco, come quello che rendono i recipienti quando sono pieni.
- Povera me, - disse la vecchia madre – che io mi sia ingannata, che io abbia sognato quando ho
creduto in questi mesi passati di rimuovere la botte, e rivedere il corpo del mio povero figliolo?
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LA ZIA FRANCESCA
Poiché sui fianchi della botte vi era una spina, la vecchia donna la staccò e con sua grande meraviglia
dal buco di quella spina zampillò un vino rosso come sangue. Lo gustò ed esso era eccellente, il
miglior vino che mai avesse bevuto in vita sua. Per quel giorno ne spillò una damigiana, poi richiuse
la spina, e chiamò alcuni poveri perché ne bevessero.
Tutti rimasero meravigliati per la bontà di quel liquore.
Bevuta quella damigiana, ne spillò un’altra, e poi ancora un’altra, e seguitò a spillare e a distribuire
senza risparmio ai poveri, agli amici, ai passeggeri; la botte restava sempre piena, e il vino zampillava
inesauribile come l’acqua da una fonte viva.
La povera donna non sapeva come spiegare questo fenomeno e le doleva il cuore di non poter
rimuovere più la botte e rivedere il volto del suo figliolo. Finalmente un giorno chiamò un bottaio e
gli disse:
- Da oltre un anno io spillo vino da questa vecchia botte, ed essa è sempre piena; volete levarmi il
coperchio e vedere quanto vino ancora contiene?
Il bottaio si mise all’opera, e quando ebbe levato il coperchio, uno spettacolo meraviglioso si presentò
ai suoi occhi e a quelli della vecchia madre. In fondo alla botte era disteso, ancora fresco e intatto
come se dormisse, il corpo di Nino Martino; da una delle sue ferite vicino al cuore era nata una pianta
di vite, che, sebbene al buio, era mirabilmente cresciuta, e portata, e portava sui tralci una miriadi di
grappoli sempre maturi. Questi grappoli, che si rinnovavano incessantemente, a mano a mano che la
vecchia spillava, si convertivano in vino, e il cuore di Nino alimentava col suo sangue la pianta
miracolosa.
NOTTE IN ALTA MONTAGNA
Si era progettato, un mio amico valdostano ed io, di fare una cima a tremila entro agosto. Questo
normalmente è il mese in cui il tempo è più costante e noi, tutte le mattine, spiavamo la conca su cui si
ergeva la piramide che avevamo deciso di scalare osservavamo la densità, il corso dei vapori e la
direzione del vento, ma la giornata veramente bella, limpida e con promessa di durata tardava a
venire.
Difficilmente, anche nella più serena estate, le alte cime rimangono tutto il giorno sgombre. Verso il
pomeriggio, per un fenomeno naturale a certe altezze, si formava attorno alla nostra piramide una
fascia di vapori chiari, soffici come fiocchi di lana. Erravano, si piegavano, si deformavano, parevamo
dileguare: poi improvvisamente risalivano dalla valle, riabbracciavano i contrafforti della montagna,
la velavano tutta come spiriti gelosi della loro solitudine.
Il mio amico esitava anche perché nella escursione non saremmo stati soli: avremmo avute con noi
due donne: la sua signora ed una signorina che avevamo conosciuta da poco in quella stazione
climatica.
L’escursione doveva essere compiuta in due tappe. Il primo giorno, partendo all’alba, saremmo giunti
ai piedi della piramide, dove avremmo pernottato in una baita di mandriani. All’indomani, freschi di
forze e col tempo propizio, che avremmo potuto esaminare da vicino, avremmo tentata la scalata, che
si prevedeva circa tre ore.
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LA ZIA FRANCESCA
Finalmente la giornata propizia venne e partimmo. Dato che l’altra coppia – marito e moglie – era
perfetta, la signorina sarebbe stata la mia compagna.
Essa non era bella. Aveva trent’anni e già si avvertiva sul suo volto e in tutta la sua persona quella
specie di languore, che a quell’età, somiglia un po’ al languore dei fiori che soffrono per mancanza di
umore.
Ma era assai simpatica e aveva un modo di trattare tra il gentile e il riservato: il segreto di quelle
femminilità ardenti e insieme pudiche, che covano in certi caratteri come un fuoco nascosto. Io la
accettai volentieri come compagna. Mi lusingava un poco la curiosità di esplorare il suo intimo, quasi
direi di tentare la sua scoperta.
La salita fino alla baita fu piacevolissima. La mia compagna parlò con me a lungo, ilare, spigliata e
con una insospettata libertà. Si fece sorreggere nei passi difficili; durante la sosta per la colazione
mangiò il pane che io le spalmai di burro e marmellata e volle che bevessi l’acqua freschissima nel
cavo delle sue mani. Ripresa la marcia, dopo un pisolino sull’erba, giungemmo davanti alla baita che
il sole scompariva dietro gli scheggioni della montagna. Le mucche affluivano scampanando alla
stalla, e due giovani sull’uscio sorvegliavano con in mano i secchi per la mungitura.
Noi ci arrestammo trafelati davanti ad una specie di lago scuro, denso, che stagnava in una conca di
sassi davanti alla stalla, e il mio amico salutò il padrone in quella specie di patois tedesco, che in
quell’alta valle valdostana è il linguaggio familiare dei valligiani.
Fummo accolti festosamente, ma la mia compagna guadagnava con una certa apprensione il lago
graveolente, dal quale si sprigionava un acre e potente fetore. Era la concimaia…
- È questo il rifugio dove dormiremo questa notte? – mi chiese.
- Questo… perché?
- Perché non so come faremo a dormire con questa puzza orrenda.
- Vedrete che dentro la baita non l’avvertiremo più.
Di fatti, come vi entrammo, fummo assaliti da un nuovo forte odore, quello della zangola, e da quello
nativo del latte, che si mischiava con l’odore della resina esalante dal camino acceso.
Ci fu offerto del latte tiepido, appena munto, tutto profumato di erbe aromatiche; noi mettemmo fuori
le nostre provviste e la cena fu deliziosa. Poi fumammo delle sigarette, davanti a un bel fuoco, e
quando il padrone e i figli ci lasciarono per manipolare il latte, il mio amico disse: "Adesso, ragazzi,
vi offro il più straordinario spettacolo che sia al mondo: una notte in alta montagna. È uno spettacolo
che bisogna vedere e godere da soli.
- Ah… no – fece la mia compagna allarmata – e si attaccò al mio braccio – io da sola non ci sto, ho
paura.
Il mio amico rise: - Signorina… la donna non è che la metà dell’uomo. Quando un uomo e una donna
sono insieme, non formano che una persona sola. Arrivederci a dopo lo spettacolo…
Prese la moglie sottobraccio e uscì all’aperto. Io e la signorina lo seguimmo ma, giunti sul prato
davanti alla baita, ci arrestammo smarriti.
Il buio era denso, quasi palpabile…
- Dove andiamo – chiese la giovane – stringendosi a me senza esitanza. – Qui vicino c’è l’odore della
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LA ZIA FRANCESCA
concimaia che appesta.
- Adesso troveremo un posticino – risposi un po’ turbato – e le passai metà della mia mantellina sulle
spalle. Lei si attaccò al mio braccio tremando. Avanzammo così attraverso il prato, la cui erba sotto i
passi si piegava cedevole e forte come un pelo vegetale. Dopo un centinaio di metri ci si parò davanti
una grossa ombra nera, come una specie di enorme ippopotamo accovacciato. Era un macigno. Ci
accostammo, lo palpammo e ci sedemmo ai suoi piedi.
- Avete freddo? – chiesi alla mia compagna, sentendola tutta in un tremito.
- No, ho paura. Non so di che, ma ho paura. Non vedete che spettacolo?
Difatti la notte, che pure era bellissima, aveva qualche cosa di quasi minaccioso. Intorno a noi il
profilo delle rupi e delle cime si disegnava nettamente nell’azzurro d’ardesia del cielo come un
immenso anfiteatro di ferro. Alcuni di quegli scheggioni somigliavano a nasi, altri a crani, altri a
schiene curvate sotto pesi invisibili; e pareva animassero l’ombra della loro presenza misteriosa.
Davanti a noi, lungo la groppa di una montagna nera di abeti, si elevava una specie di obelisco di
granito alto un centinaio di metri. Isolato come un campanile, la sua punta superando il profilo della
montagna, somigliava stranamente alla mitria di un vescovo o alla corona di un re barbaro. Non so
come, guardando quella punta, mi ricorsero alla mente certe figure di grandi papi o di conquistatori
medievali e mi parve di vedere Carlo Magno o il Barbarossa o papa Adriano I in viaggio, dalle remote
solitudini del tempo, che ritentassero di superare le Alpi.
Intorno a noi era un silenzio strano, come generato da una presenza panica, e in mezzo a quel silenzio
saliva da ogni angolo delle valli un borbottio monotono, scroscio di acque lontanissime. Pareva che
delle moltitudini nascoste dietro quei macigni, nei meandri delle rocce, recitassero in una strana
favella runica, delle preghiere misteriose o dei sortilegi. Sopra di noi, nell’azzurro remoto, la
geometrica regolarità delle costellazioni dava l’idea di una immensa pagina di un libro, in cui fosse
scritta, con strani geroglifici, la storia del tempo.
A un tratto udimmo un fischio acutissimo; un secondo rispose un po’ più lontano e un terzo ancora.
Seguì uno scroscio formidabile, come di una cascata di sassi, e tutta la montagna rispose con un boato.
La mia compagna ebbe un moto di spavento. – Dio mio… che rumore è questo? – E nello
smarrimento, attaccandosi a me, istintivamente appoggiò la sua guancia sulla mia.
- Non vi spaventate… sono dei sassi che rotolano.
- E chi li fa rotolare?
- Gli spiriti della montagna.
- Ma voi credete agli spiriti?
- E perché no? Il mondo è pieno di forze occulte che si manifestano specialmente nella solitudine. La
sfera incomparabilmente più vasta è quella che spazia oltre la nostra esperienza ed è appunto quando
siamo soli, quando di fronte all’infinito il nostro intelletto avverte più chiaramente i suoi limiti, che
noi sentiamo dietro di essi brulicare il mondo delle forze occulte.
Seguì una lunga pausa di silenzio. Poi la mia compagna disse: - Sentite, parliamo… diciamo qualche
cosa. Io ho una paura folle. Mi par che la montagna viva, che sia una specie di mostro enorme che
respiri…
- State tranquilla, cara – le dissi; e la baciai sulla guancia, con un moto più che di tenerezza, di
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LA ZIA FRANCESCA
solidarietà.
- Guardate le stelle – dissi io – come sono lontane e come palpitano! Sembrano tanti cuori, miliardi di
cuori dell’universo.
- Perché sono di diverso colore? – mi chiese lei. – Guardate… alcune sono bianche, altre sono azzurre
ed altre hanno riflessi d’oro… Perché?…
- Credo sia per la loro età. Alcune sono vecchie di miliardi di anni e sono vicine a spegnersi; altre si
potrebbe dire comincino adesso la loro corsa. Non ricordo bene se le più vecchie sono quelle bianche
o quelle azzurre…
- Dio mio – gemé la mia compagna – voi state dicendo delle cose terribili!
- Perché?
- Dite che le stelle sono vecchie. Ma è spaventoso! La sola idea che esse abbiano avuto un principio,
che la loro vita ha un rapporto col tempo sconvolge tutte le categorie del nostro pensiero. Se
pensassimo a quello durante il giorno, io credo non sapremmo più trovare la ragione di vivere.
Pensate! La vita dell’universo precaria! Da quando siamo nati, abbiamo considerato come immutabile
almeno quello ch’è sopra di noi… Se pensiamo che l’universo è provvisorio, lo sgomento ci strozza. E
che cosa c’è prima e dopo di esso?
- Cara, c’è quello che, dal tempo dei pastori caldei ad oggi, tutti chiamiamo Dio!
- E noi che cosa siamo, che cosa rappresentiamo nel mondo?
- Nulla… il palpito di un istante!…
- Nulla – stava per ripetere sbigottita la mia compagna; ma la sua voce si spense in un singulto di
spavento.
Una grossa stella sopra la nostra testa parve staccarsi e precipitarci addosso. Segnò il cielo di una
striscia luminosa e dileguò dietro le rocce come un razzo. Seguì uno scoppio a cui risposero gli echi
della montagna.
- È un bolide? – chiese la mia amica.
- Sì, un bolide, il frammento di una stella.
- Dov’è caduto?
- In qualche valle vicina.
Rimanemmo silenziosi. Intorno a noi la montagna pareva vivere di una vita formidabile. Di quando in
quando il silenzio era rotto da voci strane, da rombi, da lamenti misteriosi. La fantasia si eccitava, la
sensibilità era acuita fino allo spasimo. Ad ogni ronzio, ad ogni sibilo, ad ogni fruscio trasalivamo
smarriti. Il passaggio di un insetto nell’aria ci atterriva. Provavamo un senso di annientamento e
guardavamo sopra di noi la sterminata pagina aperta, sulla quale tentavamo invano di leggere qualche
cosa di preciso e d’intelligibile.
Rimanemmo a lungo così, stretti l’uno all’altra come due bimbi smarriti, con la sua guancia sulla mia.
E mai la vicinanza di una donna mi era parsa tanto solidale e tanto pura quanto in quella notte, col
cuore e la mente occupati e attratti da una così misteriosa ansia e da una così intensa elevazione
spirituale.
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LA ZIA FRANCESCA
Ad un tratto mi provai a rompere quel silenzio opprimente, e vedendo la mia compagna guardare in
alto il turbinio delle stelle, e la via lattea che, come un immenso marezzo, attraversava il cielo da
sud-ovest a nord-est, le mormorai:
- A che pensate?
- A nulla – rispose. – Sono troppo sbigottita. Ho l’impressione di trovarmi a faccia a faccia con Dio.
- È vero – risposi – lo sento anch’io. – E, guardando in alto, mi parve che veramente una divina
presenza riempisse il mondo.
L’AMICO LONTANO
Si scrivevano da circa un anno, ma non si erano mai visti. Lei era insegnante in un paesello di
montagna, a circa mille metri e si chiamava Lisa. E lui? Di lui la signorina Lisa non sapeva quasi
nulla. Sapeva che abitava a Milano, che scriveva libri e che alle sue lettere rispondeva puntualmente
con altre lettere alquanto riservate ma tenerissime, che rivelavano il carattere estremamente buono di
un uomo che non era felice.
Perché non era felice? La signorina Lisa non era riuscita a strappargli nessuna notizia su questo
argomento. Pareva che quel suo misterioso amico lontano evitasse, con una specie di orrore, di parlare
della sua persona e della sua condizione familiare e sociale: e si studiasse invece di mantenere quella
innocente relazione epistolare in un’atmosfera di pura e squisita idealità, dalla quale si proponeva di
non uscire a nessun costo. L’unica cosa che era riuscita a sapere era questa: che egli non era sposato e
viveva solo. La prima a scrivere era stata lei, dopo aver letto uno dei libri più belli dell’ignoto autore,
dal titolo: "Le beatitudini".
In un giorno di malinconia si era fatta coraggio e aveva scritto: A Roberto Marozzi, indirizzando
presso la Casa editrice. Entro la settimana le era pervenuta la risposta, che l’aveva tenuta in una specie
di esaltazione per tre giorni. L’ignoto autore la ringraziava delle sue parole gentili, accettava con gioia
l’amicizia e prometteva di risponderle ancora.
Si era così iniziata una corrispondenza che aveva un po’ mitigato la sua solitudine e riempita la sua
anima di una nuova, ignota felicità. Si scrivevano regolarmente una volta la settimana. La signorina
Lisa scriveva di domenica, lo sconosciuto rispondeva il giovedì.
Le lettere di lui erano tanto belle e affettuose, ma riservate: pareva che il suo amico lontano,
scrivendole, si preoccupasse di non illuderla soverchiamente, di non far sconfinare quella soave
amicizia sul terreno pericoloso e tormentoso dell’amore. Soprattutto non parlava mai di sé: la sua
persona rimaneva relegata in una atmosfera misteriosa, della quale invano ella cercava di squarciare il
velo. Come era quell’uomo, che faceva, come viveva in quella città tumultuosa, in mezzo a tante belle
donne, ai teatri, ai ritrovi mondani? Lisa non riusciva a indovinare nulla, e questo non faceva che
accrescere la sua curiosità di conoscerlo, il desiderio di vederlo e di parlargli. In fondo a questo
desiderio vi era anche un pochino di vanità, una segreta illusione di conquistarlo, di innamorarlo coi
suoi begli occhi azzurri di miosotide, con quel suo viso soave di fata delle Alpi.
A poco a poco questo pensiero diventò tormentoso, occupò tutto il suo spirito, ed allora ella decise
senz’altro di tentare il colpo. Per andare in città aveva bisogno di qualche giorno di vacanza, e poiché
la Pasqua era imminente, decise di farlo durante le vacanze pasquali.
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LA ZIA FRANCESCA
Il mercoledì santo, con un tempo magnifico, si vestì coi suoi abiti migliori, infilò il suo mantello
azzurro col colletto di volpe, si aggiustò sul nasetto affilato le lenti di oro e partì.
Quando scese a Milano davanti alla stazione centrale, ebbe l’impressione che la città l’aspettasse con
gioia, tanto gaio le parve il rullio delle vetture e tanto luminoso il cielo sopra i comignoli delle case.
Egli abitava lì, in quella città; in una casa di Porta Vercellina al primo piano. Erano le dieci e mezzo.
Verso le undici sarebbe andata a trovarlo. Forse egli a quell’ora era nel suo studio a scrivere qualche
bella pagina di romanzo, e forse pensava a lei, alla piccola amica sconosciuta.
La signorina Lisa prese un tram e poco dopo scendeva in piazzale Baracca. La casa dello scrittore era
lì; al numero quattro.
Risoluta si affacciò in portineria e chiese: - È qui che abita lo scrittore Roberto Marozzi?
La portinaia, una donnetta giovane ma brutta, che sfaccendava con uno straccio in mano, rispose
senza guardarla: - Scala in fondo a sinistra, primo piano.
La signorina entrò nel cortile, attraversò un portico col pavimento lucidissimo a mosaico e in fondo
alla scala, vicino all’ascensore, vide un soldato di fanteria, che collocava in un angolo una specie di
carrozzella da infermo.
- Per piacere – chiese la signorina – sapete dirmi dove abita lo scrittore Roberto Marozzi?
Il soldato alzò la testa e la fissò un istante, curioso. Poi riprese: - Accomodatevi, signora, è il mio
capitano. – La signorina Lisa ebbe la impressione che le mancasse la terra sorto i piedi. Il suo ignoto
corrispondente era dunque un ufficiale in attività di servizio? Eh già… se aveva l’attendente. Il cuore
le si disfece nel petto e seguì il soldato come una sonnambula senza rendersi conto di quello che
faceva. Un ufficiale, un uomo sano, giovane, vigoroso! E che cosa avrebbe pensato di lei, di quel suo
gesto temerario e sconsiderato?
Entrarono. L’anticamera era silenziosa come la corsia di un cimitero, tutta la casa era piena di quel
silenzio che vi è negli appartamenti dove non sono né donne né bambini. Le pareti erano piene di
acqueforti e di ritratti inquadrati all’inglese. Le porte a vetri erano tutte chiuse. In fondo, una appariva
più chiara delle altre, dietro le lastre smerigliate.
Il soldato aprì una di quelle porte, introdusse la giovane in un salottino elegantissimo, poi le chiese: Chi debbo annunziare, signora?
La maestrina riuscì appena a rispondere con un fil di voce:
- La signorina Lisa Grimaud.
Il soldato uscì e dopo qualche minuto ritornò tutto premuroso: - Prego, signorina, accomodatevi.
La porta più illuminata era aperta a metà. Il soldato l’accompagnò fino all’uscio, la introdusse con un
inchino e richiuse.
Lisa rimase come pietrificata: davanti a lei, sopra una poltrona a braccioli carica di cuscini, era seduto
un uomo sui trentacinque anni. Indossava una giacca di panno violetto coi risvolti grigio-ferro e gli
alamari neri, e attorno alle gambe e fino al petto aveva una grossa coperta di lana cammello a scacchi,
sulla quale spiccavano in modo singolare le sue mani nervose, lunghe e delicate come quelle di una
donna. Il suo viso magro ma energico aveva una espressione di rassegnata amarezza, e gli occhi
bellissimi, pieni di un ardore febbrile, fissavano la visitatrice con ansia e insieme con un senso di
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LA ZIA FRANCESCA
dolce rimprovero.
- Avete voluto conoscermi – le disse tendendole la mano con un sorriso un po’ forzato, - ed ecco che
mi conoscete, ora. Avete distrutto la vostra illusione e un po’ anche la mia. Sedete, prego. Quando
siete arrivata? Oh, che graziosa figliuola siete! Non mi ero dunque ingannato; vi avevo immaginata
così.
La sua voce era calda, semplice e comunicava un’impressione di affabilità. Si vedeva che si sforzava
di apparire disinvolto e contento di quella visita. Per qualche istante la maestrina fu tanto smarrita,
tanto confusa, che non riuscì a dire una parola. Ma subito comprese che a quello smarrimento
bisognava reagire energicamente. Se ella avesse fatto indovinare il suo stato d’animo, la sua dolorosa
sorpresa per aver trovato il suo ignoto corrispondente in quelle condizioni non avrebbe fatto che
amareggiarlo di più. Si fece coraggio.
- Vi chiedo perdono – disse – di avere osato questo senza chiedervi il permesso, ma avevo tanto
desiderio di conoscervi di persona. Volevo anche ringraziarvi della pazienza che avete avuto
rispondendo sempre ad una povera figliuola relegata fuori del mondo. Le vostre lettere e qualche libro
erano la mia sola compagnia in quell’angolo di montagna. Voi non potete immaginare di quanto
conforto siano state per me le vostre parole.
- E le vostre! – fece lui – Anche le vostre sono state per me una cara compagnia. – Poi aggiunse con
un sorriso triste: - Ora che mi avete visto, non mi scriverete più.
E la fissava con gli occhi ansiosi, per leggere in quelli di lei il sentimento che avrebbero suscitato le
sue parole.
La maestrina, sbigottita, da quello sguardo più che dalle parole, protestò energicamente.
- Ma non è assolutamente vero, signore. Io vi scriverò adesso più di prima. Perché non dovrei
scrivervi? Sento che adesso… sì, voglio dire… adesso che vi ho conosciuto… Ma… voi siete un
ufficiale? Il soldato che mi ha introdotta mi ha detto che siete il suo capitano.
- Sono grande mutilato – rispose il giovane con una leggera punta di orgoglio – e siccome sono
ufficiale di carriera, e son solo, mi si concede l’attendente.
La giovane avrebbe voluto dire qualche cosa, ma non riuscì a balbettare nulla, perché la sua gola era
chiusa da un nodo di pianto. Era un senso di pietà e insieme un impeto di tenerezza verso quell’uomo
giovane, bello e intelligente. Oh, perché ella non era la sorella, una parente per potergli stare sempre
vicino, per portare il sorriso soave di una donna intorno a quella vita triste e solitaria? Sentiva che lo
avrebbe curato e carezzato come un bambino, che avrebbe trovato nel suo cuore le più riposte
dolcezze della femminilità, per farlo sorridere ancora un poco alla vita!
Nella stanza tutta tappezzata di scaffali pieni di libri, di quadri e di fotografie si era fatto un grande
silenzio. La signorina non osava parlare, il giovane le guardava intenerito i capelli, il viso bianco e
delicato la cui purezza virginale rendeva in lui più acuto il bisogno di affetto e di rimpianto, e le ciglia
bionde abbassate sugli occhi così dolci e riposanti come il paesaggio di un lago tranquillo.
Per rompere quel silenzio penoso e per il piacere di sentirla parlare, cominciò ad interrogarla sulla vita
che conduceva in montagna, sui suoi scolari, sulla compagnia che aveva lassù. Poi parlarono di libri,
del conforto che egli aveva trovato nell’arte e… sì, anche nella corrispondenza coi suoi lettori.
- Sono state una grande gioia per me le vostre lettere – disse – ed anche di questa visita vi ringrazio.
Ho l’impressione che con voi sia entrata nel mio studio la primavera ed anche un po’ della mia
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LA ZIA FRANCESCA
giovinezza.
- Oh, sono anch’io molto contenta! – disse la maestrina, ma senza persuasione, tanto confusi erano i
suoi pensieri.
- Quando partite?
- Questo pomeriggio – rispose la ragazza. – Scrivetemi ancora, vi prego… Io scriverò di certo. E voi?
Egli non rispose ma le prese una mano tra le sue e si mise a carezzarla. Allora ella non riuscì più a
dominare né l’impeto del pianto, né il terribile bisogno che la teneva. Cadde in ginocchio davanti alla
poltrona, prese fra le sue le mani di lui, si mise a baciarle singhiozzando: - Caro… caro, addio!
Scrivetemi sempre, ricordatemi, io vi scriverò.
Poi si alzò, e cercando di evitare lo sguardo di lui, uscì nel corridoio come un colpo di vento.
Quando fu in strada, sotto il sole caldo del cielo primaverile, si sentì presa da un tal bisogno di
lacrime, che se non avesse trovato subito un luogo per sfogarsi si sarebbe messa a urlare per la strada.
Imboccato corso Magenta, presto si trovò davanti alla chiesa delle Grazie.
Entrò si cacciò in un angolo sopra una panca, e pianse a lungo come se le fosse morta una persona
cara.
MIO ZIO BARONE
Quando frequentavo il terzo anno di legge, abitavo, nella vecchia Messina; in via S. Paolo dei
Disciplinati, una stanzetta al terzo piano, di una casa silenziosa, molto propizia agli studi e alle
meditazioni. Tutto ciò che avrebbe potuto distrarmi era bandito da quella casa e soprattutto le donne
giovani. Tutte le donne che incontravo o vedevo affacciarsi erano vecchie o spose sciupate e
indaffarate che rifacevano i letti battendo di gran colpi con le mani sui materassi o lavavano in cucina
o stendevano su certi fili distesi attraverso il balcone, lunghe teorie di vecchie calze e di fazzoletti.
Difatti tutta la contrada era piena di un odore bucato e di quel caratteristico odore di vivande
piccolo-borghese che mette addosso una strana malinconia, una malinconia di operazione destinata a
sostentare una vita grama che pare non valga la pena di essere vissuta.
La mia stanzetta era anch’essa molto modesta, rettangolare, con le pareti nude a intonaco, su una delle
quali si apriva, con la sua luce argentea, come unico ornamento, uno specchio dalla cornice di legno
nero, sospeso sopra un cassettone di ciliegio.
Di fronte allo specchio era una finestra a davanzale che dava sulla via; in un angolo, il lettuccio
miserino come quello di un frate, e accanto un tavolinetto con i libri, le dispense di diritto civile e di
procedura.
Dirimpetto a me, nella casa di fronte, abitava una vecchia signora, alta, magra e fantastica, che io
vedevo qualche volta nel pomeriggio passare attraverso alla sua stanza, con un fazzoletto bianco in
testa ed un lungo sigaro virginia in bocca. Quella vecchia signora aveva una figlia che doveva essere
molto graziosa quando era giovane; ora sulla soglia della quarantina, era tutta appassita e illanguida,
sebbene, nel corpo alto e ben costrutto, serbasse un residuo della tramontata grazia giovanile.
Questa signorina che era la persona più giovane della via, conduceva con la madre una vita modesta e
alquanto misteriosa. Si vedeva che vivevano di piccoli risparmi e di quelle risorse provvidenziali che
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LA ZIA FRANCESCA
capitano alle vecchie famiglie decadute. Ciononostante la signorina conservava nel vestire un decoro
dignitoso; indossava sempre abiti belli, magari di seconda mano, ma bene adattati alla sua persona e
non tralasciava mai dopo pranzo di farsi vedere sul suo balconcino a prendere il caffè, tenendo nelle
mani, con grande delicatezza, come un artista sulla scena una bella tazzina di vecchia porcellana.
In casa io in quel tempo ci stavo poco, ma quando mi ci trovavo mi capitava inesorabilmente, specie
nel pomeriggio, la visita di un mio paesano; il quale con la scusa di far quattro chiacchiere e di
narrarmi le sue avventure amorose, mi scroccava tutti i giorni un mezzo pacchetto di sigarette.
Era costui uno di quegli spostati della piccola borghesia, che dopo una giovinezza sciupata a crearsi
una posizione, in piccole carriere di natura provvisorie, si trovava ora a quarant’anni suonati, senza
posizione, senza impiego, con un’ottima salute, un desiderio intenso di godere, senza avere i mezzi
per farlo. Per tirare avanti in quel tempo aveva accettato un posto di istitutore in un convitto privato e
si agitava tutto il giorno dietro una specie di idea fissa: trovare una moglie con danari, di qualunque
età, di qualunque moralità, purché avesse alcune diecine di biglietti da mille.
Affaticato in questa ricerca, un po’ perseguiva realmente, un po’ inventava le più strabilianti
avventure. Per riuscire nel suo intento quel poco di denaro che guadagnava, lo spendeva a vestirsi in
modo eccentrico: pantaloni alla scudiero, stivali, giacca di velluto, frustino col manico d’osso, guanti
bianchi e un immancabile fiore all’occhiello. Così vestito e con due grandi baffi sparpagliati, in su,
contro le guance, si presentava in casa mia tutti i pomeriggi, mi salutava con voce tonante, che
rimbombava nella strada solitaria come un colpo di trombone, caracollava un po’ davanti alla finestra
poi si sedeva e, sfilandole dal pacchetto uno dopo l’altra, fumava le mie sigarette con un’aria così
compiaciuta come se mi facesse un favore.
Alla mia padrona di casa aveva detto che era mio zio il barone di Capo Passero ed io ero stato
incaricato di confermare questa referenza.
Fumando appoggiato al davanzale della mia piccola finestra, un pomeriggio di primavera, il barone di
Capo Passero, vide la Signorina che abitava nella casa di fronte, mentre ella sorbiva con la solita
grazia contegnosa il caffè sul balcone. La signorina indossava una vestaglia di seta a fiorami che le
modellava splendidamente la persona ben formata e ancora alquanto fresca.
La signorina, quando vide quel fiero cavallerizzo che la fissava in modo così guerriero e aggressivo
rispose con due o tre di quelle occhiate oblique e languide, che di alcune donne meridionali sono una
straordinaria specialità: vogliono essere pudiche e sono sfacciate, vogliono significare timidezza e
riserbo e sono tutta audacia e abbandono.
- Perbacco – esclamò il barone di Capo Passero battendo il manico del frustino sulla coscia. Chi è
quella bella castellana che abita qui di fronte?
- Non saprei – risposi io, - quel che posso dirti è questo: che è signorina, e che ha una mamma che
fuma sigari Virginia, e che piglia il caffè tutti i giorni: dunque vive di rendita.
Queste brevi notizie e l’aspetto distinto della signorina eccitarono la fantasia del mio amico, che in
ogni donna vedeva una possibile moglie con danari. Cominciò a frequentare la mia stanza anche
quando io ero via di casa, e iniziò rapidamente con la signorina di fronte una regolare corrispondenza
amorosa in base di baci mandati sulle punte delle dita, di sospiri e di ogni specie di gesti per farsi
capire.
La strada era così stretta, e la finestra disposta in modo tale, che il barone, stando a due passi dalla
mia, e la signorina, a due passi dal suo balcone, potevano farsi tutti i segni che volevano, senza essere
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visti da alcuno, il barone, dritto in mezzo alla mia stanza, con l’enfasi di un tenero sul palcoscenico si
sbracciava, si metteva le mani al cuore, chiamandola a mezza voce coi più dolci nomi, e mandava
innumerevoli baci, che depositava sul palmo della mano e poi soffiava via come fossero farfalle, la
signorina, non meno drammatica rispondeva con sospiri che avrebbero fatto muovere un mulino a
vento e faceva con le mani l’atto di accarezzarlo, di lisciargli i capelli di stringerlo sul cuore.
Quando qualche volta, durante queste scene mute, mi trovavo in casa io dovevo dissimulare la mia
presenza sdraiandomi sul letto, e di lì, vedendo la signorina nello specchio smaniare e sbarrare i suoi
grandi occhi ansiosi di zitellona quarantenne, mi dovevo mordere le mani per non scoppiare in una
violenta risata.
- Taci, macaco! – brontolava fra i denti il barone tra un’invocazione amorosa e un bacio: - Quella
donna deve avere danaro. Non mi guastare l’affare.
Ma quella corrispondenza, ristretta ai soli segni appena intelligibili e ai baci mandati sul palmo della
mano, ben presto non fu più sufficiente all’espansivo cuore del barone; il quale propose, naturalmente
a furia di segni, di scrivere qualche lettera. Apriti cielo! La signorina rispose con una mimica così
disperata, che l’altro si ritrasse atterrito.
E allora scrivesse lei. Meno che mai: né scrivere né ricevere lettere era possibile, la signorina aveva di
ciò un folle terrore.
Come risolvere l’intrigato problema?
Allora il barone ebbe una trovata straordinaria.
Un giorno si presentò a casa mia con un pennellino da gomma e un rotolo di carta protocollo. Ordinò
a me di non farmi vedere; poi prese il mio calamaio e, intingendovi il pennello, cominciò a scrivere
sulla carta, a caratteri di scatola, le sue generalità.
Egli era ex capitano di cavalleria, era barone di Capo Passero, aveva avuto diciassette duelli, si
chiamava Ruggero, era innamorato perdutamente, era pronto a presentarsi in famiglia; anzi era pronto
a rapire la signorina in automobile, per poi sposarla. Scrisse tutto questo su tre o quattro fogli che
distese sul letto, e poi spiegò per ordine davanti agli occhi ansiosi e meravigliati della signorina.
Questa leggeva smaniando melodrammaticamente, mandava baci a decina, ma alla proposta di
scappare da casa, implorava con le mani giunte, facendo capire che ciò era impossibile.
Intanto da parte sua, sempre con segni, comunicò al barone le sue referenze, lei si chiamava Sofronia,
apparteneva a ricca famiglia decaduta ma, ciò nonostante aveva una dote di trentamila lire.
Il barone quando comprese questa cifra fece un salto nella stanza come un cavallo che adombri. –
Perbacco – esclamò, trentamila lire sono quelle che mi ci vogliono!
Ora bisognava persuadere la signorina Sofronia a scappare. La cosa non fu facile. Ella si difendeva
accanitamente, mandando baci per calmare il furore del barone, e cadendo perfino in ginocchio con le
mani sul petto.
Ma il barone insistette affettuoso, insinuando, drammatico, e finalmente un giorno, estratta una
elegante rivoltella scarica, se la puntò sull’orecchio minacciando di uccidersi, se la signorina non
avesse acconsentito al suo progetto di fuga.
Il gesto melodrammatico produsse il suo effetto. La signorina si arrese, e così si stabilì che la
domenica dopo la messa mattutina, il barone l’avrebbe attesa in un determinato punto della città con
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LA ZIA FRANCESCA
un automobile. E insieme avrebbero preso il volo.
Il barone di Capo Passero era contento come un generale che ha vinto una difficile battaglia. Sono a
posto, - mi disse confidandomi la cosa – trentamila lirette e una donna ancora ben conservata, di
aspetto distinto e di buona famiglia.
Egli era felice. Quello che cominciava a non essere più tranquillo ero io; quel progetto di fuga,
combinato nella mia casa, con la mia acquiescenza se non addirittura con la mia complicità, l’inganno
teso a quella povera zitellona di quarant’anni che smaniava davanti al falso barone, all’ex capitano,
all’eroe di diciassette duelli, mi mettevano addosso un malessere insopportabile. Era una canagliata
che avrebbe avuto conseguenze disastrose per quella povera donna.
Immaginavo, con una strana inquietudine, la scena della fuga, il risveglio doloroso, la disperazione
della vecchia madre, la fumatrice di sigari Virginia e mi pareva di essere un pochino responsabile
anche io, come chi prenda parte ad un furto. La signorina, nell’attesa del giorno stabilito della fuga, si
affacciava al balcone spaventata, guardava con occhi inquieti la mia finestra, spiava la via e mi dava
l’impressione che preparasse le sue cose, e si sforzasse a lasciare un’atmosfera di conforto per la sua
vecchia mamma.
Per due giorni durai una fatica enorme a combattere contro il desiderio di impedire in qualche modo
quella fuga. Era una specie di sofferenza fisica la mia, quella sofferenza che si impossessa dei timidi
quando, anche involontariamente, partecipano ad una cattiva azione.
Al terzo giorno finalmente deliberai di parlare e di servirmi perciò dello stesso mezzo di cui si era
servito il barone di Capo Passero. Presi alcuni fogli di protocollo vi scrissi sopra col pennello quello
che desideravo dire e poi attesi che la signorina si facesse vedere nella sua camera.
Verso le quattro difatti la signorina apparve sul balcone, io mi allontanai due passi dalla mia finestra e
le feci segno che desideravo comunicarle qualche cosa.
La poverina, che non si aspettava da me un gesto simile, si ritrasse spaurita in mezzo alla stanza,
spalancando i suoi occhi ansiosi. Io presi i fogli ad uno ad uno e li allargai davanti a lei perché
leggesse. Sui fogli avevo scritto: "Signorina, non fugga col barone di Capo Passero. Egli non è barone,
non è ex capitano, è uno spostato che tira il colpo alle sue trentamila lire".
La signorina lesse pallidissima, e portandosi le mani al viso, con un gesto adunco come per ferirsi, si
curvò su se stessa, affranta inebetita. Poi improvvisamente si rizzò con un gesto rabbioso mi fece
cenno d’attendere e scomparve.
Dopo qualche minuto ritornò e, postasi in mezzo alla stanza con un gran foglio di carta nelle mani me
lo spiegò davanti. Sul foglio era scritto: "Io le trentamila lire manco le tengo".
Quando s’accorse che avevo letto, abbatuffolò con furore la carta chiuse violentemente la finestra e
sul balcone non si fece più vedere.
Io rimasi di stucco, credevo che il Barone di Capo Passero avesse ordito un inganno ad una povera
signorina di buona famiglia, mentre l’inganno più caratteristico lo aveva tentato proprio lei.
Mi ricordai allora di quel che dice delle donne il Maupassant: "In amore noi siamo sempre apprendisti
e le donne consumati commercianti".
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GHITINETTA
Guarda, dicevo a Ghitinetta, accarezzandole le belle gambe brune e nervose, che sembravano levigate
dal sole e dal mare, guarda, piccina, che tu dai un calcio alla fortuna.
Quell’imbecille ti sposa se tu smetti di civettare con tutti noi. Ghitinetta, che aveva finito di sbucciare
un cioccolatino, se lo mise in bocca golosamente.
- Lo so che mi sposerebbe, ma io non posso, vedi, è più forte di me. Quando egli mi parla della sua
passione, le sue parole mi fanno l’impressione di un coperchio di cassa che stia per calarmi sulla testa.
È necessario persuaderlo, quel povero ragazzo, che io non sono nata per fare la baronessa, mettere al
mondo una dozzina di figli, sopraintendere ai granai baronali e ricevere gli omaggi dai massari col
berretto lungo. Tu, che non sei uno sciocco come lui dovresti capirlo e farglielo capire.
Pretendere di fare di me una buona moglie borghese è come prendere una rondine e costringerla a fare
la gallina in un pollaio. Non è possibile, caro sull’anima mia.
Io ora, vedi, sto volentieri su questa spiaggia barbaresca a cuocermi al sole e a mangiare le pesche
squisite del baronetto di Santa Gudula perché ci siete voialtri studenti che rallegrate un po’ la
compagnia, e portate qualche eco di vita cittadina, ma tra venti giorni, se non andassi via, mi piglierei
un accidente. Io sono nata per essere libera come l’aria. Non te l’ho mai raccontata la mia storia?
Te la voglio raccontare, anzi sarebbe bene che l’udisse anche lui, così si metterebbe il cuore in pace.
Si arrovesciò sulla sabbia e, riparandosi il volto con le braccia contro il sole che folgorava dal centro
del cielo, chiamò: Riccardo. La spiaggia dove noi eravamo sdraiati era quasi deserta; dalla sabbia
giallastra vaporava nell’afa meridiana una specie di respiro tremolante, come quello che sale dalle
fornaci. Ai piedi delle dune si vedeva disteso qua e là qualche bagnante tutto nascosto
nell’accappatoio bianco, immobile come un morto del deserto avvolto nel suo barracano. Due barche
in secco, scricchiolavano come argani sotto l’azione del calore cocente, e il mare d’un azzurro intenso,
che tendeva al violetto, allungava calmo e metodico sulla sabbia finissima la sua frangia di schiuma,
come un mostro che metta fuori la lingua e la ritragga continuamente.
Al richiamo di Ghitinetta un giovanottone alto e grosso che stava sdraiato ad una cinquantina di passi
da noi, alzò la testa e ci guardò con una faccia rabbuffata.
- Che vuoi?
- Vieni qua, Otello, fece la Ghitinetta ridendo, ti voglio raccontare una bella storia.
Il giovanottone annoiato si arrovesciò supino ancora sulla sabbia, coprendosi il volto con una delle
larghe maniche dell’accappatoio.
- Lasciamolo perdere, fece la ragazza con un gesto d’impazienza; poi appoggiato il capo sulle mie
ginocchia cominciò a parlare.
- Ascoltami, disse, tu narro la mia storia. Non è allegra certamente, anzi quando ci penso una grande
malinconia mi prende, per quello che fu e specialmente per quello che sarà di me nell’avvenire. Ma
sento che nulla io posso fare per modificarla. In questo mondo ognuno di noi nasce col proprio destino
e con la propria vocazione. Uno nasce poeta, un alto guerriero, un altro uomo d’affari, e ognuno è
costretto a seguire inesorabilmente la sua via. Io per esempio, sono nata per far la ragazza di piacere, e
mi facessero regina, lascerei il trono e scenderei ancora sulla strada per ritrovare la mia fame e le mie
avventure. Credi che non abbia avuti dei dispiaceri da questa vita randagia? Oh, sì che ne ho avuti e
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LA ZIA FRANCESCA
quanti! Ho saltato i pasti per delle settimane, ho impegnato i vestiti, ho dormito in soffitta d’inverno
senza fuoco con una tazza di caffè e latte nello stomaco, e un panino integrale; e dieci giorni dopo ho
giocato e perduto in una sera cinquanta biglietti da mille, dopo avere sciupato lo champagne come
l’acqua d’una fontana. Ho portato gioielli da principessa e li ho venduti per il capriccio d’un uomo che
mi piacque. Amare, di quell’amore esplosivo, irragionevole che rende infelici, forse non ho mai
amato, perché difficilmente amano le donne come me. Io ho questa felicità al mondo, che non mi
attacco a nulla; non ho che una passione: quella di girare e cambiare. Uomini, vestiti, paesi, amici;
tutto deve essere sempre nuovo per me, fino al giorno in cui, esclusivamente per fare un viaggio
nuovissimo ingoierò dieci pastiglie di Veronal e passerò nel paese del mistero.
Ascolta, dunque, la mia storia, anzi quella della mia vocazione. Nacqui a Torino ventitré anni fa, mio
padre era sarto ed abitavamo in una portineria in via Ormea. Ricordo quando ero ragazzetta che vicino
a casa mia era una fabbrica di specchi, ed io, quando potevo mi ci ficcavo dentro a quella fabbrica, per
il gusto di guardare lungamente in quegli specchi profondi, che mi davano l’impressione di abolire le
pareti e portare le cose intorno all’infinito. Poiché ero fin da bambina molto vispa e sveglia di mente,
mio papà, poveretto, aveva concepito l’ambizioso disegno di fare di me una ragioneria. Ma io mi
accorsi subito che non ero fatta per incolonnare dei numeri; non avevo che una sola passione: quella
degli uomini. Portavo ancora la treccina sulle spalle, e guardavo i miei compagni della scuola tecnica
con certi occhi spiritati come se volessi divorarli.
La metà di essi erano innamorati di me, mi scrivevano delle lettere incandescenti, e facevano per me
delle terribili partite di pugilato davanti alla scuola, offrendomi eroicamente, un po’ per ciascuno, il
sangue del loro naso. Scrivendo più lettere d’amore che componimenti scolastici era naturale che
profittassi pochissimo, tanto che mio padre, perduta la speranza di diplomarmi ragioniera, mi mandò a
fare la sarta in un laboratorio in piazza S. Carlo.
Eravamo una ventina di ragazze e in quel laboratorio posso dire che veramente la mia vocazione si
determinò in modo preciso. Lì mi preparai spiritualmente a spiccare il volo.
Avevo sedici anni ed ero già sviluppata come adesso. Il giorno quando udivo le mie compagne parlare
dei loro amanti, mi s’intorbidivano gli occhi e il cuore mi batteva forte come quando si ha paura.
Avevo bisogno anch’io di un amico e, carina com’ero, non stentai a procurarmelo. Il mio primo amico
fu un polacco impetuoso e appassionato che aveva un cognome con tutte le consonanti dell’alfabeto
messo in fila, e che finì poi in prigione per ragioni politiche, al suo paese. Assaporato che ebbi
l’amore mi buttai allo sbaraglio; mi sentivo dentro un desiderio di godere così vivace e inesauribile,
che a mortificarlo mi dava una specie di angoscia fisica.
La portineria di mio padre mi pareva brutta e angusta come una prigione senza luce, con quell’aria di
povertà e di provvisorietà che mi stringeva il cuore. Mio padre, curvo su vecchi vestiti da rivoltare,
mia madre un po’ malaticcia, tutta preoccupata di me, che non rincasavo mai per tempo mi venne in
uggia, sentivo che li amavo tanto, ma sentivo anche che per amarli dovevo averli lontani, non vederli
tutto il giorno in quello sgabuzzino pieno di ritagli di stoffa e di odore di carbone. Io avevo voglia di
muovermi, di girare il mondo, di lanciarmi, come si dice nel nostro gergo, e di fatti alla prima
occasione scappai da Torino così, come si scappa quando si è ragazzi, senza una meta, per sola
vaghezza di conoscere il mondo. Me ne andai a Roma con un nordico che dopo quindici giorni mi
lasciò per andare in Egitto, regalandomi cinquanta sterline. Da Roma scrissi subito a mia madre e mi
ricordo che le scrissi piangendo; chiedevo perdono a lei e a mio padre di avere lasciata la famiglia, ma
li assicuravo che ciò non era avvenuto per mancanza di affetto verso loro. Ormai essi conoscevano le
mie scappate, io non ero più una ragazza idonea a formarmi una famiglia, dovevo cercare la mia via
altrove. Siccome avevo una bella voce e ballavo benissimo, col gruzzolo che mi aveva dato il nordico
mi sarei comperati dei costumi e mi sarei lanciata sul teatro di varietà. Comunque li avrei tenuti al
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LA ZIA FRANCESCA
corrente di tutto.
Alla lettera per addolcire mio padre, e per dimostrare loro che guadagnavo avevo unito un assegno di
500 lire. Mia madre mi rispose rapidamente restituendomi il denaro e scongiurandomi di ritornare a
casa. Le mie avventure e anche la mia fuga, in una grande città come Torino, non potevano essere
note che a poche persone. Mio padre, dopo la mia partenza, aveva disposto di lasciare la portineria e
aveva già cambiato casa. Io avrei aiutato a lavorare, e con un po’ di buona condotta, così carina
com’ero, mi sarei sposata. Essi mi aspettavano a braccia aperte e mi avevano già perdonata.
Questa lettera mi strinse il cuore, ma siccome in quel tempo io avevo di denari, e Roma era così bella,
non produsse il suo effetto. Continuai a gironzolare, a divertirmi e a spendere fino a che mi trovai da lì
a due mesi senza un soldo e con molte delusioni.
L’ambiente del teatro era impenetrabile, e soprattutto mancava di quello che era il principale obietto
della mia vaghezza: la gioia spensierata, la spontaneità, il sorriso del peccato. Vi regnava l’intrigo, il
vizio abbietto e la rapacità. Vedi il denaro io non l’ho mai contato. È la cosa più necessaria ma anche
la più ignobile della terra, ed io lo disprezzo. In quanto al vizio non lo conosco; amo per un bisogno
naturale, come? Come respiro, come mangio e sempre senza malizia e venalità. Rimasi così tre o
quattro mesi ancora a zonzo, un po’ divertendomi fino al delirio, un po’ stentando; sempre allegra
però con la speranza di arrivare presto ad una ipotetica felicità che non sapevo rappresentarmi in
concreto.
Una lettera di mia madre, pervenutami in un momento particolarmente difficile, mi indusse a ritornare
in famiglia. Fui accolta con gioia e con indulgenza. Mio padre, poveretto, non mi disse una parola sul
mio passato m’indicò il mio posto di lavoro vicino a lui e si rimise ad agucchiare. L’appartamentino
che abitavano allora i miei era al quarto piano di una grande casa in via Madama Cristina, a qualche
passo del corso Valentino. Dal balcone di casa mia io vedevo gli ippocastani del viale, e più in là,
dopo i tetti, le cime dei pini e degli abeti del parco lungo il Po.
Ma non tardai ad accorgermi che quella calma era illusoria. Il giorno lavoravo e non pensavo ad altro,
ma la sera, quando dopo cena mi mettevo curva sul mio balconcino ad osservare la città, provavo dei
sentimenti che non potrei in nessun modo descriverli. Le lampade accese a rosari lungo le vie, i tram
che passavano rullando pieni di gente, i taxi con le tendine celate che infilavano di corsa i viali, mi
mettevano nel cuore una specie di angoscia. Sotto i miei occhi passavano incessantemente ragazze
eleganti che si avviavano verso il centro, belle signore al braccio di uomini incaramellati, sartine
seguite da presso da giovani intraprendenti.
Sopra i tetti, verso piazza San Carlo e piazza Castello dove la città ha i suoi ritrovi mondani, i teatri, i
caffè, il cielo era torbido, giallastro, pieno di bagliori e di rombi che mi facevano venire la vertigine.
Io non uscivo perché ero sicura che non sarei più rientrata in casa. La città mi avrebbe ripresa
inesorabilmente ed era con un senso di spasimo e di paura che io la immaginavo nei suoi ritrovi più
pericolosi. Vedevo le piazze, i portici pieni di giovani eleganti che attendono alla posta, le vie corse da
donne che vanno ai convegni, i teatri, i caffè dove le coppie si eccitano al suono del jazz per
prepararsi al godimento notturno. E tutto questo su onde di musiche, di profumi intensi che mi
facevano aprire le nari con una voracità da bestia feroce. Dopo le dieci spesso guardando sotto i viali
del corso Valentino, vedevo delle coppie che vagavano lentamente, si fermavano in un angolo
d’ombra, si stringevano con la bocca sulla bocca, a lungo, come piccioni che s’imbeccavano, poi
riprendevano la loro marcia, lenti, beati.
Ogni tanto mia madre mi chiamava: Ghitin, cosa fai?
- Oh, niente, rispondevo io con la voce strana, prendo un po’ d’aria. E continuavo a guardare le coppie
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LA ZIA FRANCESCA
degli innamorati, con uno struggimento senza fine.
Ma una sera avvenne l’irreparabile. Era una sera bellissima d’estate, calda, eccitante, calata dopo una
giornata d’afa e di polvere, una di quelle sere che cacciano fuori anche i vecchi, non fosse altro sulle
terrazze per vedere il cielo, e respirare l’aria refrigerante delle ore notturne. Io ero da due ore al mio
balcone e non mi risolvevo a rientrare, pareva che un sortilegio speciale mi tenesse lì curva sulla
piccola ringhiera di ferro a guardare gli alberi del Valentino, e dietro il cielo tutto incoronato di grosse
stelle. Via Madama Cristina quella sera era insolitamente deserta, e i tram continuavano a passare
quasi vuoti. Anche la coppia che di consueto veniva a passeggiare sotto gli ippocastani del corso non
si era fatta vedere quella sera. Io ero triste fino alle lacrime, e la mia tristezza era accresciuta da un
pianoforte che in una casa di fronte suonava una romanza del Ballo in Maschera:
che ti resta perduto l’amore
che ti resta mio povero cor.
Quella musica a quell’ora, in quella sera solitaria, mi produceva sul cuore l’effetto di una mano ruvida
sopra una ferita. Sentivo un terribile bisogno di piangere, ma non potevo, un nodo mi si era stretto
nella gola e non mi lasciava quasi respirare. A un tratto da Corso Valentino sbucò barcollando un
ubriaco, cantava una canzone lubrica, una di quelle canzonacce che compongono i facchini
avvinazzati, e i viaggiatori di commercio. All’udire quella canzone brutale mi sentii presa da una
specie di delirio. Un desiderio pazzo di fuggire mi prese, una frenesia di andare non sapevo dove,
purché andassi fuori da quella casa angusta, da quella vita metodica, virtuosa, lontano dagli occhi di
mio padre e di mia madre, che mi sembravano due carcerieri. Sentivo che se non fossi scappata, mi
sarei buttata giù dal balcone e mi sarei sfracellata sul selciato. I miei erano a letto. Io rientrai nella
stanza, afferrai il mio cappellino, e senza mettermelo neppure in testa, aprii cautamente la porta. In
due minuti fui sulla strada, dove mi misi a correre come una pazza verso il centro.
Da quella sera non sono rientrata in casa mia e forse non vi rientrerò più. Ai miei genitori, scrivo, ma
senza mandare il mio indirizzo per paura che le lettere di mia madre mi raggiungano, e
sorprendendomi ancora in un momento difficile, m’inducano di nuovo a ritornare.
Dopo quello che ti ho detto, dunque, tu pensi che io possa diventare la baronessa di Santa Gudula?
No, povera me, non posso, e sono troppo onesta per ingannare la gente. Ho accettato di passare
l’estate qui su questa spiaggia con quel ragazzo, e mi pare che gli tengo una eccellente compagnia. Fra
un mesetto al massimo me ne andrò via e forse non rivedrò più nessuno di voialtri al mondo. Voi
quando sarete, da qui a qualche anno, dei pacifici professionisti, e avrete sposata regolarmente
qualcuna di questa goffe donne del vostro paese, che non osano guardare in faccia gli uomini per
paura di fare peccato, sdraiati su questa spiaggia, vi ricorderete della Ghitinetta come di una
mattacchiona graziosa che vi tenne allegri per circa due mesi e poi sparì.
- E la Ghitinetta allora dove sarà? – chiesi io commosso, mettendogli le mani sotto la gola e fissandola
negli occhi.
- Chi sa, mi rispose, forse all’ospedale, forse sarà morta.
Si cacciò in bocca, ridendo, un altro cioccolatino.
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LA ZIA FRANCESCA
LOTTA COL DEMONE
Quella notte, per quanti sforzi facessi, non riuscivo a prendere sonno. Fosse il caldo che incombeva
come una nube temporalesca sulla città, fosse il lavoro estenuante della giornata (avevo fatto quindici
visite tra cui due di malati gravissimi) fosse uno di quei particolari squilibri del sistema nervoso che
qualche volta si manifestano con l’insonnia; certo è che mi sentivo come una bussola in mezzo alla
tempesta e continuavo a girarmi e rigirarmi nel letto, senza riuscire a chiudere occhio.
Fantasticavo e, chissà perché, udendo il fischio di un treno, mi venne in mente il diavolo, il demone
notturno dal pie’ di caprone; e tutte le fantasticherie paurose di quando ero ragazzo mi ritornarono in
mente. A volte spalancavo gli occhi e, vedendo nel vano della finestra la vetta del pino dell’aiuola
sottostante ondeggiare con un sibilo diffuso, mi pareva che da un momento all’altro la lunga ombra di
un demone dovesse apparirmi in quel vano, propormi un enigma spaventoso.
Misteriosi fenomeni dell’irrazionale; strane sensibilità che preannunciano le tempeste dell’anima.
Poi, a poco a poco, i miei nervi eccitati si distesero, un sopore inquieto scese, mi avvolse molesto
come la schiuma di un lavatoio, e dalla fantasticheria passai insensibilmente al sonno.
Mi pareva di viaggiare solo, sopra un carro, per una via di montagna. Intorno non un indizio di anima
viva. Il carro saliva per una gola di rocce in mezzo ai boschi, e nell’aria fresca ed energica si
diffondeva, con una sonorità sconcertante, lo squillo del campanello che il mio mulo portava appeso
sotto l’orecchio. Oh, come il vento della notte diffondeva intorno quel suono, come se esso diventava
sempre più acuto, insistente, quasi collerico! Tutta la valle ne era piena.
Ad un tratto mi parve che diventasse così forte, così lacerante che, preso da una paura folle, balzai giù
dal carro e corsi verso la testa del mulo per strappargli il campanello e farlo tacere.
Mi trovai seduto in mezzo al letto, tutto in un bagno di sudore, mentre nel corridoio il telefono trillava
disperatamente.
Mi precipitai all’apparecchio, col cuore che pareva dovesse saltarmi in gola e afferrai il ricevitore.
- Pronto. Parlo col professore Pussini?
- Sì, voi parlate col professore Pussini; e io?
- Professore, sono la signora Molesini. Per carità, venga subito da me. Mio marito è moribondo.
- Oh Dio, signora, mi dispiace! Un minuto che mi vesta e vengo subito – balbettai con voce rauca
ancora tre o quattro volte frasi incoerenti e rimasi nel buio del corridoio con gli occhi sbarrati,
respirando forte, come uno a cui si appiombato sul dorso un getto d’acqua gelata.
I miei pensieri ondeggiavano come quelli di un ubriaco.
La signora Molesini era una donna che avevo conosciuto in campagna, un anno avanti, e della quale
mi ero perdutamente innamorato. Le avevo fatto una corte assidua e appassionata, ma non ero venuto
a capo di nulla, sebbene ella avesse il marito di venti anni più vecchio di lei. I suoi sentimenti religiosi
le impedivano di avere un amico. Me lo aveva detto un giorno fra le lacrime, fissandomi coi suoi begli
occhi funebri di mistica voluttuosa:
- Io vi amo, vorrei essere vostra moglie, ma non sarò mai la vostra amante, specialmente finché sarà
vivo mio marito.
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LA ZIA FRANCESCA
Ora quello che mi dava un tremito per tutta la persona era la considerazione che io non ero il medico
di casa Molesini e non avevo mai curato nessuno di quella famiglia. Perché, dunque, la signora
chiamava me in quella drammatica contingenza? Brancolando accesi il lume, mi vestii e, sceso in
istrada, presi un tassì e mi feci portare a casa della signora.
Due minuti dopo una cameriera scaruffata e spaventata mi introduceva nell’appartamento.
- Oh dottore, venite; mio marito muore!
- Che cosa è stato signora, - dissi chinandomi a baciarle la mano – una indigestione, uno strapazzo?
Un’onda del suo profumo mi assalì come un colpo di vento e mi diede un brivido fino alla radice dei
capelli.
- Pare si tratti di un attacco di angina pectoris – mi rispose la signora, attirandomi a sé con un gesto
insolitamente affettuoso. Appena ebbe i primi sintomi, chiamammo il nostro medico curante ed è lì
che lo assiste. Venite. La seguii nella camera da letto, barcollando come un ubriaco.
Il malato giaceva supino con il largo viso carnoso quasi cianotico, abbandonato sul cuscino, le
occhiaie gonfie sotto il flusso anormale del sangue e le labbra livide, da cui usciva un respiro greve,
affannoso, pause irregolari. Il petto gli si alzava e abbassava come un mantice.
Seduto al capezzale era un ometto calvo con un paio di occhiali a stanghetta da vecchio notaio, e una
coroncina di capelli neri intorno al cranio che parevano quelli di un tonsurato. Come mi vide entrare,
mi venne incontro con un inchino cerimonioso e un po’ servile:
- Sono il medico curante, dottor Monaci.
- Piacere – feci io tendendogli la mano. Voi lo avete già visitato, collega?
- Sì, l’ho visitato, professore. Purtroppo mi pare che si tratti di una forma piuttosto grave.
Ci appartammo nel vano di un balcone e il mio collega mi espose in succinto il risultato delle sue
osservazioni.
Tornammo verso il letto. Dopo aver osservato il malato per qualche minuto, mi accorsi che il medico
curante non aveva capito nulla.
L’indisposizione del signor Molesini era una banalissima congestione: con un buon salasso da lì a
un’ora il malato si sarebbe addormentato placidamente. Ma senza il salasso sarebbe morto.
E allora, mentre chino sul petto del malato, ascoltavo il suo respiro anfanante, fui afferrato da un
pensiero infame. Quando mi rialzai, sul volto non avevo più una goccia di sangue. La mia fronte era
imperlata di sudore freddo e avevo l’impressione che una mano terribile mi avesse afferrato i capelli,
annullando completamente la mia volontà. Dovevo fare il salasso?
Sotto l’imperativo categorico di quella domanda, il mio cuore si gonfiava come la gola di un naja.
Vicino a me era la signora che io avevo tanto desiderata, coi capelli nerissimi un po’ scomposti, la
faccia pallida, i grandi occhi funebri; ed io non vedevo che lei. Aspiravo a narici spalancate il
profumo che veniva dalle sue vesti, dal suo corpo giovane, guardavo le sue braccia bianche aperte fino
al gomito, e la mia volontà si inalberava come un cavallo selvaggio.
No, io non avrei fatto il salasso!
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LA ZIA FRANCESCA
I miei pensieri acquistavano immediatamente una lucidità spaventosa; il ragionamento diventò
preciso, freddo, tagliente come una lama. La lotta col demone cominciava? Dopo un periodo di
sgomento, la mia decisione parve irrevocabile.
Mi trovavo nelle migliori condizioni per liberare la donna che amavo senza alcun rischio, lasciando a
un accidente il suo libero corso.
Un altro medico era lì a giustificare il mio operato. E se la sua diagnosi fosse stata giusta e la mia
sbagliata? Con una vile condiscenza, arrivavo a legittimare l’errore del mio collega, e a dubitare delle
mie capacità professionali, di cui pure ero tanto orgoglioso. Di fronte al malato, con un cinismo
terribile, in un attimo che parve durasse un’eternità, mi rappresentai mentalmente quello che sarebbe
avvenuto in quella casa se il demone avesse definitivamente vinto.
Di lì a un’ora al massimo quell’uomo sarebbe morto. Intorno vi sarebbe stato un grande scompiglio, la
signora avrebbe pianto, io l’avrei confortata rubandole fra le lacrime qualche carezza. Poi lei avrebbe
vestito il lutto che l’avrebbe resa straordinariamente più bella e più interessante, e io le avrei ancora
una volta, presentate le mie profferte d’amore. E l’avrei fatta mia.
Questi pensieri mi davano un’ebbrezza frenetica, una specie di gioia selvaggia, simile forse a quella
degli animali da preda in agguato.
Il malato ansimava, il medico curante, col suo sguardo da miope intellettuale guardava un po’ me un
po’ quello, e attendeva che io mi pronunziassi. Io rimanevo impassibile, la mia lingua pareva attaccata
al palato, gli occhi giravano inquieti sotto il riflesso molesto della lampadina elettrica, che pareva
illuminare agli altri i miei torbidi pensieri.
- Ebbene, professore – mi chiese la signora venendomi più vicina e avviluppandomi tutto col suo
profumo – è proprio tanto grave? Non possiamo tentare nulla?
Con una voce, che non mi parve neppure la mia, risposi:
- Sì signora, è grave, se la natura non aiuta…
Ad un tratto il malato ansimando si levò in mezzo al letto e chiamò la moglie.
- Lina, mi sento proprio morire… portami qui la bambina… voglio vederla.
- Oh, Dio, Dio! Fece la signora, e uscì singhiozzando per rientrare subito dopo con la sua piccola in
braccio. Disturbata dal sonno la bimba frignava, stropicciandosi con le manine gli occhi ancora chiusi.
Quando la vide entrare abbiosciata sulle braccia materne, rosea come un fiore tutta avvolta in una
camiciola di batista azzurra spumosa di trine, un senso violento di liberazione parve spalancarmi il
petto. Non resistetti all’orrore dei miei pensieri.
- Allontanate la bimba – dissi in tono perentorio e, portatemi immediatamente una catinella di acqua,
dell’alcool e del cotone idrofilo.
La signora arretrò, stringendosi la bimba sul petto il medico curante incerto, disorientato, mi
domandò:
- Che cosa facciamo, professore?
Io ero tanto turbato che non gli diedi neppure risposta.
- Subito una catinella!
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LA ZIA FRANCESCA
Intanto avevo tirato fuori la piccola busta dei ferri chirurgici che portavo sempre con me e, allargatale
sopra il canterano, avevo sfilato dalla guaina di cuoio il bisturi.
- Cosa facciamo, professore? – mi chiese ancora il medico curante sempre più disorientato.
- Facciamo un salasso – risposi. – Presto un catino, con l’acqua.
Il catino venne, mi avvicinai al letto dove il malato, ricaduto sul guanciale, rantolava. Gli presi un
braccio, glielo denudai fino all’omero, lo distesi in modo da far emergere il rilievo delle vene, e
avvicinato il bisturi, ne punsi una.
Un getto di sangue nero, come uno zampillo di una fontana, sprizzò lungo il petto e lo attraversò tutto,
tanto che qualche spruzzo bagnò il pavimento poi attenuatosi l’impeto, il getto inondò il braccio, e in
un attimo arrossò l’acqua del catino. Un po’ spaventato, il malato emise un profondo sospiro e
lentamente, languidamente, chiuse gli occhi.
A poco a poco il cerchio che gli serrava la testa parve allargarsi, il respiro prese un ritmo più calmo e
regolare, e un velo di sudore fresco gli imperlò la fronte. A un tratto aprì gli occhi. Il suo sguardo era
più calmo e regolare, il viso aveva perduto la tinta congestionata e aveva l’espressione di sofferenza
quasi infantile, come quella di un bimbo che esce da una terribile paura.
- Professore – mormorò a un tratto – grazie… Ho l’impressione che lei mi abbia salvato con questo
salasso.
Il medico curante mi guardava stralunato, persuaso ormai di avere sbagliato la diagnosi e si
rannicchiava intorno a me come se volesse dissimulare la propria presenza. Io fasciai in fretta il
braccio del malato, assicurai la signora che ogni pericolo era scomparso, e mi congedai.
Avevo bisogno di essere solo con me stesso, di guardare dentro di me, direi quasi di palparmi, come
chi è caduto da una grande altezza e si meraviglia di essere incolume.
Quando fui fuori dal portone, avvertii sul viso quel fresco particolare dell’aria che precede l’alba. Le
vie intorno al viale laterale che andava verso Monza erano assolutamente deserte. Avevo bisogno di
fuggire gli uomini. Come avanzavo, ogni fruscio mi dava un brivido, mi faceva trasalire. Procedevo
spedito, leggero, col viso contro il vento mattutino e avevo una strana voglia di gridare, di gesticolare,
di abbracciare gli alberi, come la prima volta che ero ritornato da un convegno amoroso. Avevo vinto
il mio demone. Qualche cosa di brutto e di osceno che era in me stato soggiogato, e andavo come se
dovessero crescermi le ali.
Mi trovavo fuori della città, in campagna. Qua e là vedevo delle case coloniche, da cui cominciavano
a levarsi i canti dei galli. Dietro gli alberi il cielo prendeva una tinta di porfido. Da un viottolo sbucò
un carretto tirato da un cavalluccio bastardo. Un fruttivendolo che portava in città delle pesche, me ne
accorsi del profumo quando mi passò vicino.
Mi venne una voglia strana mi mordere qualche cosa di fresco, d’innocente, di comunicarmi con un
puro prodotto della terra, di riconciliarmi con la vita. Fermai il carrettiere e gli chiesi:
- Porti delle pesche? Dammene una.
- Prendete, signore – mi disse quello scoperchiando un cestino – sono fresche come le rose.
Ne afferrai una e mentre gli tendevo una moneta, l’addentai. Il succo dolce e un po’ agretto mi scese
nella gola come un lavacro. Mi si rischiararono i pensieri e il cuore riprese il suo ritmo pieno e sereno.
Ero salvo.
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LA ZIA FRANCESCA
DA PARTE DEL NUDAR
A tavola normalmente eravamo in quattro, e siccome mettevamo in subbuglio tutto il salone
dell’albergo con la nostra allegria, ci chiamavano la compagnia della Scarampola.
Prima di tutto bisogna che io vi presenti i miei compagni: ne vale la pena. Il presidente perpetuo della
Scarampola era un maggiore di fanteria a riposo: bellissimo uomo, alto, aitante e decorativo come il
portiere di un principe romano. Somigliava un poco all’attore Andrea Maggi buonanima, ed aveva
come lui, una bella voce sonora ed autoritaria, a cui egli sapeva dare delle modulazioni da vecchio e
impenitente amatore. Rimasto scapolo, col fascino della persona e della divisa e con una galante
aggressività da moschettiere egli aveva in tutta la sua vita conosciuto un numero straordinario di
donne di ogni condizione e di ogni paese, di modo che la sua testa era un casellario di ricordi, di fatti,
e di avventure noi stavamo ad ascoltarlo estatici, perché, fra le altre cose, narrava bene, con foga
immaginosa e con un certo gusto letterario, che gli veniva dalla lettura di innumerevoli romanzi.
Magari una buona metà delle sue prodezze amatorie erano inventate ma egli le viveva talmente
narrandole, che noi trovavamo gusto considerarle come vere, e ci tenevamo a farglielo credere. Solo
uno di noi, un certo Segre, professore di scuole medie qualche volta, dopo uno di questi spettacolosi
racconti di seduzione, diceva al maggiore con tutta serietà: "Ecco noi ci crediamo, purché tu non vada
a dire in giro che ci abbiamo creduto". E la cosa finiva in una risata cordiale alla quale il maggiore
prendeva viva parte.
Altro tipo meraviglioso era Segre. Piccolo, mingherlino, secco e giallo come un ficuzzo colpito dallo
scirocco, con una grossa testa, un naso aquilino, era uno degli uomini più arguti e bizzarri che io abbia
conosciuti. In lui pareva si fossero dati convegno, per fondersi, lo spirito di Voltaire e quello di Enrico
Heine. La sua conversazione era irresistibile: egli trovava il lato ridicolo di ogni cosa con una abilità
sorprendente, ed era assolutamente impossibile stare un quarto d’ora con lui senza lasciarsi prendere
dal giuoco di artifizio delle sue freddure, delle sue arguzie taglienti e pittoresche. Era il brillante della
compagnia e lo tenevano prezioso come un impareggiabile dispensatore di buon umore che egli era.
Il terzo non era, nel suo genere, meno interessante degli altri due. Era uno di quei meridionali che
vengono dalla piccola borghesia, si laureano ordinariamente in legge, e poi entrano in un impiego
governativo, mortificando nella malinconia della carriera burocratica i più ambiziosi sogni letterari.
Ne ho conosciuto più d’uno di questi giovani. Ordinariamente sono dei malinconici, timidi con le
donne, nonostante i loro arroventati desideri, scrivono delle poesie, e invecchiano emarginando
pratiche e sospirando alla gloria, una povera gloria di cartone. Vestono con ricercatezza, quando sono
scapoli fanno cena con caffè e latte, vanno di sera nei viali solitari per smaltire un cartoccio di
caldarroste e fanno credere che ci vanno ad un convegno amoroso; e quando escono a passeggio
corrono dietro a tutte le donne che incontrano, come certi cani randagi senza padrone. Il nostro
compagno di tavola, aveva tutte queste qualità ed altre ancora. Era giovane sui trenta anni, portava
una folta barbetta nera e crespa come un cespo d’insalata, vestiva in modo eccentrico, con calzoni
stretti, ghette bianche, gilet fantasia e un tubino color cammello, per il quale il nostro Segre gli aveva
affibbiato il nome di Don Portogallino. Ma la sua specialità, erano le cravatte. Credo ne avesse una
cinquantina tra le più eccentriche e bizzarre del mondo.
Se il maggiore si accendeva e diventava eloquente quando parlava di donne, il nostro Monga, così si
chiamava, si trasformava in un Bossuet quando parlava di cravatte; anzi intorno a questo accessorio
ornamentale aveva costruita una sua propria teoria dell’eleganza. Per lui la cravatta era il solo
indumento che denunziava l’uomo fine. Il buon gusto, la spiritualità, la distinzione di una persona si
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LA ZIA FRANCESCA
desumevano esclusivamente dalla sua cravatta. Insomma per lui, la cravatta era tutto. Se il maggiore
era l’eroe e Segre il brillante, Monga era il bersaglio della compagnia. Su di lui Segre aveva coniate le
più straordinarie trappole verbali per farci ridere, e il povero Monga sosteneva il fuoco di fila dei
nostri lazzi, come una palla di gomma sostiene i calci dei ragazzi in un giardino pubblico.
Un giorno Segre disse: - Adesso starete a vedere che cosa gli combino. Eravamo a tavola e si
mangiava, mi ricordo, la fonduta con i tartufi, per festeggiare l’onomastico del maggiore. Segre
portava quella mattina una meravigliosa cravatta blu-elettrico, con dei disegnini fantasia assai
indovinati.
Monga naturalmente se ne accorse subito e domandò: - Dove l’hai comprata?
- A Torino – rispose Segre tranquillo, poi aggiunse: - Senza offenderti, ma una cravatta come questa
non l’hai mai posseduta.
- Questo mi pare un po’ esagerato – disse Monga – in ogni modo è molto bella – e ripeté la domanda:
- Dove l’hai comprata?
- A Torino ti dico!
- Diamine, Torino è grande, in che via, in che negozio?
- Inutile che io ti dica dove – rispose Segre, perché se anche ci vai di queste cravatte non ne trovi
esposte al pubblico.
- Non le faranno mica per portarle in famiglia – fece Monga ridendo.
- No, caro – ribatté Segre, ma le fanno per un gran magazzino di Londra, e in Italia per averne ci vuole
la mano di Dio.
- Insomma tu come l’hai avuta? L’ho avuta perché conosco la padrona.
- E non potresti farla conoscere anche a me?
- Dio mio, potrei – fece Segre allungando il suo labbro inferiore come quello di un asino che abbocca
un cardo, - ma bisogna essere discreti. Se tu non farai parola con altri, io t’insegnerò il segreto per
averne di queste meravigliose cravatte.
- Diamine – fece Monga – è mio interesse non parlarne ad altri. Capirai benissimo, più uomini
eleganti vi sono in giro, più sono i concorrenti alle conquiste femminili.
Segre ebbe un lampo d’arguzia negli occhietti da topo.
- Allora sta bene attento. Il negozio dove si fabbricano queste cravatte è a Torino in via Lagrange n…
Niente di straordinario all’esterno un negozietto modesto, dove si vendono cravatte e guanti. Tu entri
e troverai al banco una commessa piuttosto appassita. Le dici che vuoi comperare una cravatta e poi,
molto discretamente, in modo confidenziale, aggiungerai: Mi vegni da parte del Nudar. Vedrai che
quella immediatamente ti farà passare nel retrobottega, dove troverai la padrona, che ti tratterà con
molta cortesia.
- E che significa quest’affare del Nudar? – chiese Monga.
- A quante cose vuoi sapere! – fece Segre irritato. Fa come ti dico io, e vedrai che ti troverai
contento…
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LA ZIA FRANCESCA
Il nostro Monga attese il sabato, e nel pomeriggio partì per Torino alla ricerca delle cravatte
meravigliose. Appena scese in città comprò delle sigarette uso egiziano, seguì per via Roma una bella
sartina, poi per via Arcivescovado scese in via Lagrange, e si presentò al negozietto indicatogli dal
Segre. Era proprio una vetrinetta modesta, dipinta in noce scura, con degli scaffali coperti di carta in
cui erano esposte delle scatole di cartone bianco piene di cravatte, di bretelle, di guanti e di altri
oggetti di abbigliamento maschile. Le cravatte erano sbiadite, e tutto aveva un aspetto vecchio e
polveroso. Monga entrò a malincuore. Il negozio era deserto e una commessa, magra, alta, brutta, ma
molto dipinta guardava verso i possibili avventori con gli occhi e il portamento aggressivo di una
mantide religiosa che vada alla caccia.
Appena vide entrare Monga la commessa si alzò in piedi e con un sorriso ammaestrato domandò: - Il
signore desidera?
- Vorrei comperare delle cravatte – fece Monga – e poiché quella con sveltezza sorprendente, aveva
tratte giù da uno scaffale quattro o cinque scatole e le aveva scoperchiate, aggiunse chinandosi
discretamente sul banco e in tono tutto confidenziale: - Sa… mi vegni da parte del Nudar.
Ah!… - fece, con un sorrisetto significativo la commessa – allora aspetti un minuto, avverto la
Signora.
Scostò una tendina, entrò nel retrobottega, e dopo un minuto uscì fuori con l’aria di chi porta una
buona notizia.
- S’accomodi, signore – e lo fece entrare.
Dietro la tenda era un piccolo corridoio scuro e poi una stanza piena di scaffali di legno e di scatole di
cartone. Siccome era senza luce, quella stanza era illuminata da un modesto lampadario di cristallo,
come quelli che si vedono in certe chiese di paese. In terra era disteso un tappeto e ai margini del
tappeto, addossato al muro, un divano e due poltroncine di velluto rosso.
Ritta davanti al divano era una donna sui cinquant’anni con un’enorme cresta di capelli biondi che
diventavano grigi, un petto monumentale stretto in un busto a stecche, che le dava l’aria di un salame
ben confezionato, ed una faccia larga apoplettica, rossa come un mattone, su cui brillavano due occhi
avidi e accesi. La donna col più invitante dei sorrisi porse al nuovo venuto una mano piccola, grassa,
viscida, come un cotechino, e lo invitò a sedere.
S’accomodi signore, sono felicissima di fare la sua conoscenza. Intanto lo guardava avidamente.
Monga sconcertato si sedette sopra una delle poltroncine e non sapeva capacitarsi del perché di quella
accoglienza straordinaria e alquanto strana.
- Mi hanno detto che lei vende delle cravatte molto belle – disse Monga – e vorrei comprarne
qualcuna.
La donna lo fissò un poco incerta, poi disse: - Quand’è che l’ha visto il signor notaio?
Monga rimase male. E chi ne sa niente del notaio, disse tra sé. Poi rispondendo così a casaccio: - Ah,
l’ho visto oggi, stamattina.
- Di dov’è lei? – chiese ancora la donna e gli si avvicinò con una mossa ardita e confidenziale.
Sono napoletano – rispose Monga – di un paese della provincia di Salerno.
Simpatici i napoletani – disse la donna – e dove abita ora?
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LA ZIA FRANCESCA
In provincia, sono segretario di amministrazione in una casa penale, a Fezzano.
- È un buon impiego, sicuro – disse la donna. Io come vede ho questo negozietto modesto, ma ho
anche alcune migliaia di lire alla banca, ed ho la casa completamente arredata. Non mi manca niente.
E lo fissava eloquentemente negli occhi. Monga cominciava a sentirsi a disagio. Non capiva dove
volessero andare a parare quegli strani discorsi… Soprattutto gli occhi di quella donna gli mettevano
in corpo una specie di terrore.
- Scusi signora, - disse seccato, io sono venuto per comprare delle cravatte, vuole farmene vedere
qualcuna?
La donna aggrottò le ciglia un po’ delusa, ma poi riprese il suo atteggiamento mellifluo: - Ma scusi
disse… lei non viene fa parte del Nudar?
Va bene – rispose Monga impacciato – ma vorrei comprare delle cravatte.
Adesso gliene faccio vedere – disse la donna quasi mortificata. Si avviò ad uno scaffale, prese una
grossa scatola e la depose sul divano accanto alla poltroncina dov’era seduto Monga. La scoperchiò e
sciorinò cravatte di seta.
Non erano brutte, ma neppure eccessivamente belle. In ogni modo, Monga, tanto per tagliar corto, e
mandando una dozzina di accidenti a quel diavolo di Segre, ne prese una e disse: - Quanto costa?
Le piace? – fece la donna tutta accesa nel suo faccione rosso, - mi permetta di regalargliela; e,
allungando una mano fece l’atto d’accarezzarlo.
Monga ebbe l’impressione come se un elefante lo avesse accarezzato con la sua proboscide. Fece un
salto indietro, e si buttò verso il corridoio. La donna gli corse dietro ansando: - Scusi, signore, senta…
lei non viene da parte del Nudar?
E raggiuntolo al principio del corridoio lo afferrò per un lembo della giacca.
Ma che Nudar d’Egitto! – borbottava Monga spaventato, mentre a tentoni cercava la via. Quando
giunse alla tenda l’aprì, cacciò fuori la testa spiritata, e superato il banco d’un salto, fu nella strada.
Mentre usciva a precipizio udì la commessa domandare smarrita alla padrona:
- Dio mio, signora, cos’è successo? Chi era?… E la donna apoplettica rispondere: Ma!… uno stupido.
Mi è impossibile descrivervi la faccia di Monga quando ritornò la sera da noi. Era verde e rimuginava
contro il piccolo terribile Segre i più radicali propositi di vendetta. Voleva ucciderlo, sfidarlo a duello
e tante altre cose ancora. Il maggiore rideva fino alle lacrime, io ero scivolato sotto il tavolo, Segre
taceva.
A duello sono pronto a battermi, disse questi infine con una mimica irresistibile, - ma l’arma la scelgo
io. Ebbene, ci battiamo con una mascella d’asino: così l’ammazzerò con l’osso di un suo antenato.
LA SIGNORINA PANELLA
Molti anni fa, ahimè! più di trenta, in una mattina dei primi di luglio, col mio vocabolario sotto il
braccio, pochi fogli di protocollo ed una asticciola col pennino nuovo, mi presentavo all’esame di
licenza ginnasiale.
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LA ZIA FRANCESCA
Quando giunsi davanti al severo edificio del liceo Campanella a Reggio Calabria, vi trovai
un’animazione insolitamente rumorosa: una quarantina di miei compagni esaminandi si erano raccolti
attorno a un candidato, che per diverse ragioni aveva attratta la loro curiosità. Era un seminarista alto
e forte e roseo, proprio un bel ragazzone, con una sottana azzurra dai bottoni rossi, un largo mantello a
ruota ed un cappello di pelo così bel ravviato, che luccicava come l’ala di un corvo. Ma quello che
soprattutto aveva dato la stura alle risa ed ai motteggi arguti dei miei compagni era un enorme
vocabolario, che il seminarista si portava trionfalmente sotto il braccio, come per spaventare l’esame e
gli esaminatori.
Il seminarista rosso, in volto, un po’ impacciato, si guardava intorno e rispondeva con monosillabi ai
motteggi che gli fioccavano addosso da ogni parte. La gazzarra fu tale che il giorno dopo quel povero
figliolo pensò bene di smettere l’abito talare e si presentò vestito in borghese. Non l’avesse mai fatto!
A vederlo apparire sulla piazzetta davanti al ginnasio, con un vestito marrone tagliato alla brava, una
svolazzante cravatta nera, e un largo cappello da rivoluzionario, sollevammo un tale clamore di
motteggi e di risa, che se non fosse intervenuta immediatamente la campana, che ci chiamava alla
prova di latino, la gazzarra sarebbe andata a finire in un pugilato.
Quando fummo nell’aula il seminarista me lo trovai seduto vicino; e poiché l’orgasmo dell’esame
imminente mi aveva tolta la voglia di scherzare, gli domandai: - Sei ben preparato?
- Abbastanza – mi rispose.
E lo era di fatti: almeno più di me che un po’ per paura, un po’ per un vecchio fatto personale che
avevo sempre avuto con la lingua di Cicerone, copiando sotto dettatura un brano di Quinto Curzio,
invece di "penuria" mi accingevo a scrivere "pecunia aquarum". Poi ci facemmo delle confidenze.
Seppi così che si chiamava Palumbo, che non aveva altri al mondo che uno zio che lo amava
svisceratamente, e che si proponeva, dopo l’esame, di fargli smettere l’abito talare e mandarlo a
proseguire gli studi fino all’Università di medicina. Almeno questi erano i propositi di suo zio,
poveretto!
L’esame andò bene, fummo promossi ambedue e ci ritrovammo coi primi di ottobre al liceo.
Palumbo era diventato più disinvolto, più snodato e chiassoso, e del seminarista non gli rimanevano
che le cravatte, certe grosse cravatte inverosimili, tutte a ramaglie e fiori vistosi, che sembravano
ricavate da un vecchio piviale. Aveva diciotto anni, era sano e forte come un torello e voleva
vendicarsi delle mortificazioni e delle privazioni subite in tanti anni di seminario: voleva divertirsi.
Naturalmente divertirsi a quell’età significa soprattutto avvicinare delle donne; e quello era il tema
principale dei suoi discorsi.
Il mio amico Palumbo pensò che per avvicinare delle donne bisognava frequentare delle feste, e per
frequentare delle feste bisognava prima di tutto saper ballare, perciò si fece presentare ad un maestro
di ballo, un suonatore di bombardino, che dirigeva una banda rionale, insegnava all’orfanotrofio,
suonava l’organo nella chiesa del Carmine, e per utilizzare le ore serali e guadagnare ancora qualche
scudo, teneva nella sua casa una specie di sala da ballo per studenti, dove con cinque lire s’imparava
perfino la quadriglia.
Ma la vera attrattiva di quella sala da ballo era costituita da una figlia del maestro, una lucertolina
magra, secca e nera come un baccello di veccia che faceva da ballerina per tutti i frequentatori.
Non aveva di bello che due occhi neri come il pepe che sembravano due candele accese su una faccia
magra e sottile, sparsa qua e là di qualche piccolino quanto un grano di sabbia; ma era vivacissima,
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parlava vertiginosamente, si muoveva tutta, e quando ballava quel suo corpicciolo esile e snodato
acquistava la grazia e la leggerezza di un uccello. Si chiamava Concettina, ma gli studenti la
chiamavano Nerina, anzi suo padre la chiamava il merlo, per via delle gambette esili e sempre calzate
di nero.
Entrare in quella sala da ballo, vedere la signorina Panella (così si chiamava il maestro) ed
innamorarsene a fuoco, fu per il mio amico Palumbo tutt’uno. Pensate! Avvicinare una donna, tenerla
fra le braccia, muoversi con lei in ritmo di danza! Ma queste erano le ardenti fantasie del seminario,
che salivano in cielo coi canti del mese mariano, i sogni deliziosi della prima pubertà, o una realtà
vivente?
Insomma i due ragazzi finirono con l’intendersela a dovere, e quando potevano nella sala, attraverso
le porte, su per la scala, si davano dei baci che sembravano morsi. Ma era così poco! I contatti erano
così brevi e spauriti, che lasciavano un desiderio più ardente e divorante di prima. Come fare per
trovarsi insieme una mezz’ora soli, senza fretta, per potersi dire qualche parolina di più, stringersi
forte a lungo? Sarebbe stato così bello e perché no? Anche innocente. Non vi è nulla di più innocente
che l’amore.
Un giorno il mio amico Palumbo, tra un giro di valzer e una quadriglia, lasciò scivolar nella mano
ardente della signorina Panella un bigliettino, nel quale le esprimeva questo acceso desiderio. Il giorno
dopo Nerina gli consegnò nelle stesse condizioni un altro biglietto su cui erano scritte queste terribili
parole: "Cuore mio, non è possibile!…".
Palumbo più che mai inebriato da quel "cuore mio", tornò alla carica e finalmente venne fissato un
convegno strabiliante.
L’ultimo bigliettino della signorina Panella diceva: "Ti attendo domenica (era venerdì) a mezzanotte,
nella mia stanza. Per salire darai cinque lire a Zumbo, quello che accende i lampioni, perché lasci la
scala nel cortile. Ti bacio. Nerina".
La signorina Panella, con quella adorabile preveggenza che hanno le donne, aveva pensato a tutto.
Palumbo si stropicciò un po’ gli occhi leggendo quel biglietto, perché in un primo tempo credette di
non aver compreso bene. Poi si precipitò per il corso in cerca di Zumbo.
Zumbo era un povero diavolo d’età indefinita che il giorno vendeva giornali, e la sera trottava per le
strade, con in collo una scala per accendere i lampioni a gas della città. Lo incontrò con un mazzo di
copie del "Mattino" che gridava come un energumeno: "U Mattino… u Mattino… un articolo di
Tartarin".
Zumbo era un bravo ragazzo anche lui che conosceva il mondo e non si fece pregare a lungo. Fece
aggiungere un altro scudo a quello che gli era stato offerto e lasciò la scala nel cortile.
Il mio amico Palumbo attese la mezzanotte di domenica, come una giovane sposa attende la prima
notte nuziale.
Si recò al concerto della musica cittadina ai giardini pubblici, poi scese in via Marina e mangiò, così,
tanto per fare qualche cosa, due dozzine di fichi d’india, una fetta d’anguria e dello zibibbo: poi si
mise a passeggiare sopra una di quelle soggette che davano sul mare, sospirando, recitando versi e
spiando di quando in quando il cielo, come fosse stato un quadrante d’orologio. – Oh, Dio degli
innamorati, la mezzanotte, fate suonare la mezzanotte!
Finalmente anche la mezzanotte scoccò dall’orologio del duomo, aggrondata, solenne, come il grido
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di un muezzino misterioso, il muezzino dell’azzurro.
Il mio amico Palumbo si premette una mano sul cuore, sospirò, si scompigliò i capelli, e come l’eroe
di un antico poema d’amore s’avviò anelante verso il desiderato convegno.
La via era deserta. Là dove essa sboccava in corso Garibaldi due uomini stavano ritti e fumavano,
rivolgendo la schiena alla marina.
Qualche carrozzella lontana rotolava pel lastricato con un rombo che pareva venisse da sotto terra.
Il mio amico Palumbo col cuore in gola, leggero come un gatto, felice come un Dio, entrò nel cortile
al N… diede una occhiata intorno, e poi fissò il balcone della signorina Panella.
Santa Vergine!… Il balcone era socchiuso. Una pianta di cedronella entro un gran vaso a coppa,
sembrava una piccola graziosa vedetta davanti all’uscio del paradiso.
Forse Nerina era dietro le lastre che attendeva, palpitante anche lei come un uccellino.
Con le mani tremanti afferrò la scala che stava addossata ad un angolo del cortile, la sollevò e, con
precauzione, l’appoggiò al poggiolo. Origliò, si guardò intorno, nessun rumore! La notte era
melodiosa come una musica. Posò il piede sul primo scalino, esitando tanto era l’orgasmo, e si accinse
a salire.
Aveva già raggiunta la ringhiera del balcone, ed un’onda di profumo gli era venuta dalla cedronella,
come una prima carezza, quando udì nel cortile un doppio passo affrettato, e subito dopo una voce:
- Ohè! Voi… dove andate?…
Si voltò spaventato. Due uomini erano ai piedi della scala.
- Dove andate, voi?… gl’intimò ancora uno di essi.
Il mio amico Palumbo ebbe un impeto di collera terribile.
- Ma lei cosa vuole, chi è lei?…
- Te lo do io chi sono, pezzo di ladruncolo, - fece l’uomo più risoluto che mai, scendi giù…
Palumbo, a sentirsi dare del ladro, si rinfrancò alquanto.
Meno male!, disse fra sé, non hanno capito la ragione della mia scalata notturna.
- Prego… prego, disse, moderate le parole. Io non sono un ladro. Ma voi chi siete?
- Agenti della forza pubblica.
- Ah! Scusate… vi siete sbagliati… io non sono un ladro: sono uno studente. Qua ci sono i documenti.
E si mise, con una certa spavalderia, a cercare nelle tasche, dove non aveva che qualche lettera dello
zio col proprio indirizzo.
- Storie – disse il questurino dopo avere preso in mano distrattamente le lettere di Palumbo – ditemi
piuttosto cosa andavate a fare a quest’ora su per quella scala?
- Ma veramente… andavo… andavo a trovare un amico.
- Mi avete preso per un imbecille?, urlò il questurino afferrandolo per il braccio e scuotendolo con
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violenza… Via, via, seguiteci in Questura.
Quando il mio amico Palumbo giunse in questura, era più morto che vivo, e davanti al Commissario
scoppiò in un pianto disperato e rabbioso insieme, che lo faceva sussultare come una caldaia in
ebollizione.
Il Commissario un uomo sui quarant’anni, bruno, con due baffi in aria come quelli di un vecchio
sergente di cavalleria, ed una voce cavernosa, sebbene avesse capito di che cosa si trattasse, lo investì
con un cipiglio terribile.
- Vergogna! Alla vostra età, rubare! Scalare di notte i balconi.
- Ma signor Commissario, - faceva Palumbo piangendo come un vitello, a mani giunte – non andavo a
rubare.
- Che cosa andavate a fare allora in quella casa, a quell’ora salendo per un balcone, con un mezzo
appositamente predisposto?
- Ah, signor Commissario… non posso dirvelo… sull’onor vostro… Voi siete cavaliere… e…
capirete… in certe condizioni.
- Avete dei complici forse?
- No, signor Commissario, non ho nessun complice… ma non posso parlare… non mi torturate… voi
siete cavaliere.
- E dagli con la cavalleria… - fece il Commissario con una gran voglia di ridere in corpo. Se voi non
mi dite immediatamente quello che andavate a fare su per quella scala, di notte… con un mezzo
appositamente predisposto, io vi denunzio per tentativo di furto… e poi direte al magistrato
pubblicamente quello che non volete dire a me.
All’idea di un processo e di una pubblica confessione della sua avventura notturna, Palumbo diventò
bianco come un pagliaccio da circo equestre e tra pianti e reticenze e giuramenti, confessò tutto.
Ma quando ebbe rivelato il nome della signorina Panella, si alzò in piedi di scatto, e con l’aria di un
creditore intimò al Commissario: - Giurate… giurate che non rivelerete questo nome a nessuno.
Il Commissario, sganasciandosi dalle risa, rassicurò il povero mio amico sulla sua assoluta discrezione
e lo mandò a casa.
L’indomani, non si sa come, tutta la città conosceva l’avventura del seminarista, compreso il maestro
di bombardino.
Il povero Palumbo, pieno di tragiche risoluzioni, si presentò in casa Panella, e fu ricevuto da Nerina in
lacrime.
- Ah! che sventura, mio adorato, siamo perduti, mio padre sa tutto…
- Sa tutto?, fece Palumbo come uno stralunato, e allora?
- Allora non c’è che una risoluzione da prendere.
- Quale? – domandò ancora il mio amico…
- Fuggire – rispose la Nerina con una calma tragica e accorata, e lo fissava coi suoi occhietti neri, che
sembravano quelli di una serpe.
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LA ZIA FRANCESCA
- Fuggire?… e dove?… chiese ancora smarrito Palumbo.
Dove tu vuoi, caro, tanto ormai non ci resta che sposarci.
Già, hai ragione… fece Palumbo vibrandosi un pugno sulla testa, quasi adirato contro se stesso per
non aver avuto quella felice idea.
Un’ora dopo i due ragazzi erano sul treno, e poi erano soli in uno scompartimento di terza, si
abbracciavano finalmente senza soggezione, smarriti come fuori dal mondo, tutti presi da
quell’ebbrezza dei venti anni ch’è una delle più divine cose della vita.
INDICE
La zia Francesca
La straniera
Il primo amore
Previtellu
Una notte d’amore
La raganella di San Pasquale
La Pasqua di Veccia
Una notte d’amore
Donna Maruzza
Esci, sole a riscaldarci
Mangia e passa
Il giogo
La maestrina di campagna
Idillio muto - Terza C
Odilia – fanciulla nordica
Le due madri
Il Chichibio calabrese
Nino Martino
Primavera in montagna
Zia Chiarina
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LA ZIA FRANCESCA
Assoluzione
Notte in alta montagna
Il diavolo delle Dolomiti
L’amico lontano
Mio zio barone
Ghitinetta
Piccola madre
Kostia non risponde (Resistenza)
Lotta col demone
Da parte del Nudar
La signorina Panella
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LA ZIA FRANCESCA
I racconti riuniti in questo volume sono apparsi su quotidiani e periodici.
Di alcuni racconti non abbiamo potuto dare notizie complete perché mancanti
nei fogli sgualciti da cui li abbiamo recuperati.
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