03 libri sulla scuola.pub

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03 libri sulla scuola.pub
Registro di classe
Scuola da leggere
Sandro Onofri
22 marzo. Parecchi miei alunni (ma credo che sia un fatto abbastanza generalizzato) considerano la scrittura come una galera seicentesca, e la lingua che convenzionalmente si usa
è la classica palla al piede che fa muovere a fatica, impedisce salti e velocità. Le regole che si devono rispettare nello scrivere sono le sbarre, io sono il secondino che non li fa respirare, e la «parlata naturale», quella del conversare quotidiano, è invece il cielo
azzurro che splende lontano là fuori dalla cella. Le regole ortografiche soprattutto sono le meno digerite, da sempre, perché vengono avvertite come puri e semplici arbitri, visto che l’errore non arriva mai a condizionare la comprensione: se scrivo
«immaginazione», oppure «immagginazione», sempre quello è! Ma anche tutto il resto risulta impacciato, inadeguato come un
vestito dalla taglia sbagliata: i periodi sono troppo lunghi, pieni di subordinate che si aggrovigliano e non se ne esce più, le scelte
lessicali o sono sempre le stesse oppure sono fuori luogo. I ragazzi stanno nella lingua scritta come in un paio di scarpe troppo
grosso: camminano in modo innaturale, smettono di usare il passato prossimo, che pure è frequente nel nostro parlato, e usano
più passati remoti di quanti se ne trovino nei testi di Amedeo Minghi. Insomma, sono imbranati.
Così, per farli sentire di più a casa loro e non in cella, e in definitiva per fargli scoprire che ci si può divertire anche con una penna
in mano, ogni tanto decido di aprire i cancelli e li lascio liberi di scrivere senza regole, così come si sentono, con una traccia molto
labile, e con una lingua il più possibile vicina a quella che usano parlando.
Fuori registro
Domenico Starnone
La collega Majello afferra gli anni scolastici per il bavero e li scuote con disperata energia. E una donna minuta, timida, appena
sopra i quaranta. A scuola ha un incarico di rilievo: ogni anno, tra settembre e ottobre, mette a punto l’orario delle lezioni. In quei
mesi, appena ho un’ora vuota, corro in biblioteca, dove so che si rintana, per farle compagnia mentre lavora. È una vecchia abitudine: mi metto seduto in un angolo e sto lì a guardarla. Lei passa il tempo in piedi, solo un ginocchio appoggiato a una sedia. S’è
tolta l’orologio e l’ha messo sul tavolo. Con lo scotch ha fissato davanti a sé certi tabelloni bianchi su cui sono segnati i nostri cognomi, le classi, i giorni della settimana. Consulta elenchi, fogli, foglietti. Parla ad alta voce, da sola, come se non ci fossi.
“Ti do fastidio?” le chiedo.
Risponde: no.
Ha qualche filo bianco nei capelli, che non si tinge. E truccata in modo che sembra senza trucco e si veste nascondendo fianchi e
seno. Mentre sistema le nostre ore di lavoro secondo la gabbia che ci imprigionerà per tutto l’anno (prima ora quarta B, seconda
ora: buco, terza e quarta ora quinta B, quinta ora terza B), mi immagino certe divinità delle stagioni, sempre giovani, velate, danzanti tra fiori e vinchi. Ma lei non è più giovane, non si copre con veli, forse non sa nemmeno ballare. Ha solo la matita in una mano, la gomma nell’altra. Ogni tanto tempera la matita, ogni tanto lecca la gomma per cancellare meglio.
Certe volte provo a scherzare. Le dico: sei una delle Ore; e la chiamo coi nomi di quelle signore mitologiche. Majello sorride e continua a lavorare. “Mi chiamo Rosaria,” ribatte, ma con mitezza.
In genere cominciano con tono supplice.
“Majello, mi dai il sabato libero?”
I professori e altri professori
Marco Lodoli
La rovina cominciò con un gioco.
Mancavano dieci minuti alla fine della lezione, gli alberi nel cortile erano fioriti e i ragazzi parevano distratti, allora la professore ssa
Roberta chiuse il libro di letteratura italiana e disse: - Facciamo un gioco.
Roberta sapeva bene quando allentare le briglie, vent’anni d’insegnamento le avevano formato nella mente un organo nuovo, capace di percepire il livello dell’attenzione.
Si rivolse a Caterina, la sua allieva preferita. La ragazza non era certo la prima della classe, navigava tra il cinque e il sei, ma aveva negli occhi una luce bella che le rischiarava il volto piccolo e rotondo, da gattina. E aveva le mani intelligenti, così pensava Roberta, che sapevano come muoversi, cosa afferrare e cosa lasciare.
- Scegli un numero da uno a nove, - le disse.
- Fatto.
- Bene. Adesso moltiplicalo per nove.
- Fatto.
Roberta dava le indicazioni come se le inventasse sul momento, con il tono casuale di chi avanza un passo alla volta.
- Allora adesso avrai un numero di due cifre. Sommale tra di loro e sottrai cinque.
Il m aestro Atom i
Maur izio Salabelle
Una mattina, in un periodo qualsiasi dell’anno scolastico, invece del nostro solito maestro arrivò in classe un giovanotto che né io
né i miei compagni avevamo mai visto prima. Era talmente giovanile (nonostante i modi autoritari e la valigia di pelle dal grande
manico) che sulle sue guance rosa chiaro non si vedevano rughe né tracce di barba. Al posto del lungo spolverino che indossava
il nostro insegnante, l’uomo portava un abito strettissimo di un delicato grigio da impresario edile. Entrò dalla porta in fondo all’aula, percorse con passo misurato i dieci metri e mezzo che lo separavano dalla cattedra nera e si levò dalla testa un cappello rigido.
Aveva il cranio tutto rasato ed una smisurata ecchimosi sulla fronte. Le sue scarpe a punta di pelle scura (sulle cui suole si poteva
leggere l’etichetta col numero e la scritta «CUOIO») scricchiolavano in modo così forte che pensammo nascondessero un meccanismo interno. Appena ebbe raggiunto la grande cattedra guardò ad una ad una tutte le facce che spuntavano dai banchi di fronte
(e che ammontavano al numero di trentanove), tossicchiò con gravita e tirò fuori una scatola da una tasca interna.
- Il vostro maestro Gennaro Atomi si è ammalato di «grave depressione» l’altro ieri sera alle nove e un quarto, - annunciò ad alta
voce muovendo un piede. - Secondo il medico che l’ha in cura, la causa dell’affezione è da ricercarsi nella fatica che gli provoca il
suo lavoro di insegnante e nelle continue preoccupazioni che gli date voi alunni. La Presidenza di questo Istituto - fece gettando
una breve occhiata alla porta a vetri della vasta stanza - mi ha chiamato a sostituirlo conferendomi per questo motivo la qualifica di
«Supplente per 20 giorni» -. Smise di parlare per un po’ ed osservò un ripetente del secondo banco.
- Rispondi a questa domanda, - disse puntandolo col dito indice. - Cos’è successo al maestro Atomi? Dov’è ora? E chi sono io?
La gallina volante
Paola Mastrocola
Arrivo che la Rita sta facendo fotocopie, le strizzo l’occhio e lei mi rende la strizzata. Mai che faccia le pulizie, la Rita, o almeno io
non l’ho mai vista farle: sempre e solo fotocopie.
Corridoi un deserto.
Mi concedo un caffé alla macchinetta, scelgo: espresso lungo con zucchero. O è espresso o è lungo, penso. Ultimi fuochi del pensiero, prima del sottovuoto estivo. Credo che andremo al mare. E mi cade l’occhio sulle scarpe: di vernice gialla, già marine, troppo marine per venire a scuola?
Vado a compilare i registri, poi l’ultima lezione: detto i compiti delle vacanze, recito il pezzo standard sulla giovinezza che va presa
per il verso giusto, il mondo che si aspetta molto da loro, il fatto che è bene fare le cose col gusto di farle.
Fine. Consegno: i registri, i programmi, la domanda ferie, la relazione finale, i compiti con la fascetta, le fascette avanzate, il nastro adesivo, le schede di valutazione, il verbale del consiglio di classe, l’elenco degli insufficienti, dei quasi sufficienti, la pinzatrice, le clip, i libri non miei, le prove extra, la dichiarazione di reperibilità estiva.
Consegno queste quattro cose, cassetto vuoto. Sporco: osservo quanta barba di lanugine grigia stava sul fondo. Mai accorta in
tutto l’anno.
Maggio 2007
Vucumprà
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