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Corte di Cassazione, Sezione U civile
Sentenza 24 luglio 2013, n. 17931
Integrale
IMPUGNAZIONI CIVILI - RICORSO PER CASSAZIONE
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio - Primo Presidente f.f.
Dott. RORDORF Renato - Presidente di sez.
Dott. PICCIALLI Luigi - rel. Consigliere
Dott. CECCHERINI Aldo - Consigliere
Dott. PICCININNI Carlo - Consigliere
Dott. DI CERBO Vincenzo - Consigliere
Dott. SPIRITO Angelo - Consigliere
Dott. D'ALESSANDRO Paolo - Consigliere
Dott. PETITTI Stefano - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 34913/2006 proposto da:
(OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell'avvocato (OMISSIS), rappresentato e difeso dall'avvocato (OMISSIS), per delega in calce
al ricorso;
- ricorrente contro
(OMISSIS), (OMISSIS), elettivamente domiciliati in (OMISSIS), presso lo studio dell'avvocato (OMISSIS), che li rappresenta e difende unitamente all'avvocato
(OMISSIS), per delega in calce al controricorso;
- controricorrenti avverso la sentenza n. 1752/2005 della CORTE D'APPELLO di TORINO, depositata il 07/11/2005;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 25/06/2013 dal Consigliere Dott. LUIGI PICCIALLI;
uditi gli avvocati (OMISSIS), (OMISSIS) per delega dell'avvocato (OMISSIS);
udito il P.M., in persona dell'Avvocato Generale Dott. CICCOLO Pasquale Paolo Maria, che ha concluso per l'accoglimento del primo motivo del ricorso, assorbiti gli
altri.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
(OMISSIS) ha proposto ricorso per cassazione contro la sentenza n. 1752/05, pubblicata in data 7.11.2005, della Corte d'Appello di Torino, con la quale, in riforma
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di quella n. 281/2001 del Tribunale di Vercelli, era stato condannato al pagamento della somma di euro 21.427,02 in favore dei coeredi (OMISSIS) e (OMISSIS), a
titolo di indennizzo per l'occupazione dei loro terreni,con rigetto dell'appello incidentale.
La citata sentenza del Tribunale di Vercelli aveva concluso,dopo la pronunzia di due sentenze non definitive, un annoso giudizio, iniziato nel 1968 dai (OMISSIS), figli
ed eredi della premorta (OMISSIS), nei confronti degli zii (OMISSIS) e (OMISSIS), per sentir dividere, previa reintegrazione della loro quota di legittima, i beni
lasciati in eredita' del nonno (OMISSIS), deceduto il (OMISSIS), dopo averne disposto con un testamento olografo.
Con la prima, non impugnata, sentenza non definitiva del 29.11.1978, il tribunale suddetto aveva accertato il diritto degli attori alla reintegrazione della quota di legittima
in misura di due noni del patrimonio ereditario; a tale pronunzia fece seguito l'ordinanza del 22.1.85 che, all'esito di consulenza tecnica, dichiaro' l'esecutivita' del
progetto di divisione.
Con la successiva sentenza non definitiva, del 19.3.1993, fu ordinato ai convenuti il rilascio dei beni assegnati agli attori, con condanna al pagamento della somma di lire
200.000, oltre rivalutazione ed interessi, a titolo di integrazione della quota di legittima, disponendosi con separata ordinanza la redazione del rendiconto secondo i
criteri fissati dalla Legge n. 203 del 1982, articoli 49 e 53; ma a seguito di impugnazione degli attori la Corte d'Appello di Torino, con sentenza n. 493/1995 dichiaro'
l'inapplicabilita' al caso di specie, costituito da una comunione ereditaria,in assenza di un rapporto di rilevanza agraria, dell'articolo 49 citato ai fini della determinazione
del risarcimento dovuto dai convenuti per l'occupazione dei beni assegnati agli attori, annullando altresi', in accoglimento del gravame incidentale di (OMISSIS), per
inammissibilita' della relativa richiesta (siccome preclusa dal giudicato della prima sentenza non definitiva), la condanna dei convenuti al pagamento della somma di lire
200.000.
A seguito di tale pronunzia il tribunale dispose una nuova consulenza tecnica per la determinazione del ristoro dovuto per l'occupazione dei terreni assegnati ai
(OMISSIS) ed, all'esito, con la sentenza definitiva n. 281 del 26.6.2001, condanno' (OMISSIS), previa compensazione con il credito derivatogli dalla mancata
corresponsione del conguaglio, al pagamento della somma di lire 95.479.309, oltre interessi dalla data della sentenza, nonche' al pagamento di quella di lire 6.734.624,
oltre interessi dal 1.1.1982, (OMISSIS), quale erede sia di (OMISSIS), nelle more decedutola di (OMISSIS) che, costituitosi quale erede del predettola anche
deceduto (l'altra erede (OMISSIS) non si era costituita). Tale decisione venne impugnata, in via principale da (OMISSIS) e (OMISSIS), in via incidentale da
(OMISSIS) e, dopo l'integrazione del contraddittorio nei confronti di (OMISSIS), in accoglimento del primo motivo del gravame principale, riformata con sentenza
non definitiva del 5.2.2004 della Corte di Torino, che, respinta l'eccezione di improcedibilita', dispose con separata ordinanza nuova c.t.u. per la determinazione
dell'indennizzo dovuto da (OMISSIS), sulla base del canone corrente di mercato,per l'occupazione di tutti i terreni assegnati agli appellanti, dal (OMISSIS) alla data di
rilascio, con detrazione anno per anno degli importi effettivamente corrisposti, con rivalutazione quindi degli importi ottenuti ed incremento degli stessi, cosi' come
rivalutati, con gli interessi nelle misura media annua del 5%. In esito alla successiva consulenza tecnica, infine, la corte subalpina emise la gia' citata sentenza definitiva,
oggetto del presente ricorso,con la quale, ritenuta preclusa, dal giudicato di cui alla propria precedente sentenza n. 493/1995, la questione dedotta nell'appello
incidentale relativa all'assunta conclusione per facta concludentia di un contratto di affitto agrario, quantificava l'indennizzo sulla base del corrente canone di mercato dei
beni.
Al ricorso del (OMISSIS) contro tale sentenza, affidato a due motivi, hanno resistito i (OMISSIS) con rituale controricorso.
All'esito della pubblica udienza svoltasi davanti alla seconda sezione di questa Corte, con ordinanza interlocutoria del 27.11.2012, depositata il 10.1.2013, rilevata la
sussistenza di un contrasto di giurisprudenza sulla questione di cui si dira' in parte motivagli atti sono stati rimessi al Primo Presidente, che ha assegnato il giudizio a
queste Sezioni Unite.
E' stata infine depositata una memoria illustrativa per i controricorrenti.
MOTIVI DELLA DECISIONE
p. 1. Il primo motivo di ricorso e' stato formulato nei seguenti testuali termini: "omessa pronuncia su un punto decisivo della controversia in relazione al dedotto
contratto di affittanza agraria avvenuto per fatti concludenti (articolo 360 c.p.c., n. 5)".
Si lamenta che la Corte d'Appello avrebbe omesso di decidere sul punto, avendo erroneamente ritenuto che la relativa questione fosse preclusa da un giudicato
formatosi sulla precedente sentenza n. 493 del 30.3.1995, emessa dalla medesima corte, che in realta' si sarebbe limitata a dichiarare l'inapplicabilita' al caso di specie
(ritenuta una mera comunione ereditaria, in assenza di alcuna relazione intersoggettiva di rilevanza agraria) della Legge n. 203 del 1982, articolo 49, senza in alcun
modo affrontare la questione della costituzione, per facta concludentia, di un rapporto di affitto agrario tra le parti. Tale particolare modalita' di contrazione negoziale
sarebbe stata eccepita da (OMISSIS) soltanto nel successivo giudizio, ma non consideratale decisa (cosi' come dal Tribunale di Vercelli nella sentenza non definitiva n.
493/1995) dalla corte territoriale, conseguentemente incorsa in omissione di pronunzia sul relativo capo di appello incidentale.
Il mezzo d'impugnazione prosegue citando alcuni scritti difensivi della controparte (memorie del 13.9.1988,7.10.1988 e 5.7.1993), dal cui contenuto avrebbero dovuto
desumersi ammissioni in ordine alla prospettata tacita instaurazione del rapporto di affitto.
p. 2. Nel controricorso e' stata eccepita l'inammissibilita' del sopra riferito mezzo d'impugnazione, per essere stata erroneamente denunciata l'omessa pronuncia su un
motivo di gravame ai sensi dell'articolo 360, comma 1, n. 5, anziche' ai sensi dell'articolo 360, comma 1, n. 4, in relazione all'articolo 112 c.p.c., citando al riguardo
alcune pronunzie di questa Corte (nn. 11034/03, 12475/04, 13785/05, 22897/05, 11844/06).
p. 3. La seconda sezione, rilevato che sulla questione anzidetta si era determinato un contrasto giurisprudenziale di legittimita' tra una serie di pronunzie che, come quelle
sopra citate,sulla premessa che l'omessa pronunzia da parte del giudice di merito su un capo di domanda o di gravame debba essere dedotta ex articolo 360 c.p.c.,
comma 1, n. 4, come violazione dell'articolo 112 c.p.c., e non gia' quale violazione di una norma di diritto o vizio di motivazione ex articolo 360 c.p.c., comma 1, nn. 3
o 5, hanno ritenuto che l'erronea formulazione del motivo ne comporti l'inammissibilita', ed altre (nn. 4349/00, 4853/01, 7981/07, 12929/07, 23794/11, 14026/12)
secondo cui, in siffatti casi di impropria intestazione del denunciato vizio di legittimita', ove la Corte possa tuttavia agevolmente procedere, sulla base delle
argomentazioni esposte a sostegno del motivo, alla corretta qualificazione dello stesso, deve escludersi l'inammissibilita' del mezzo d'impugnazione, con l'ordinanza
interlocutoria di cui in narrativa, ha sollecitato una pronunzia chiarificatrice di queste sezioni unite.
p. 4. Il contrasto denunciato dalla sezione rimettente, da oltre un decennio delineatosi nella oscillante giurisprudenza di questa Corte ed accentuatosi nell'ultimo triennio,
riguarda due indirizzi, cui di massima possono ricondursi i gruppi di pronunzie sopra rispettivamente citate (cui se ne aggiungono diverse altre, dell'uno o dell'altro
segno), che muovono da due diverse concezioni del giudizio di legittimita'.
p. 4.1. Quello piu' rigoroso e formalistico,partendo dall'onere della specificita' dei motivi di ricorso,fissato dall'articolo 366, n. 4, sottolineando il carattere di mezzo
d'impugnazione privo di effetto devolutivo ed "a critica vincolata" connotante il ricorso per cassazione e traendo spunto anche dalle finalita' deflattive perseguite dal
legislatore negli interventi avvicendatisi negli ultimi anni, che detto carattere avrebbero accentuato, sostiene che il ricorrente abbia l'onere di indicare con assoluta
precisione, non solo sostanziale, ma anche formale, gli assunti errori contenuti della decisione impugnata, assolvendo il singolo motivo alla funzione condizionante il
devolutimi della sentenza censurata; con la conseguenza che il mezzo d'impugnazione debba non solo esporre in modo chiaro ed inequivoco le ragioni della doglianza,
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ma anche indicare esattamente le norme, sostanziali o processuali, che si ritengano essere state violate o falsamente applicate, e, soprattutto, centrare la tipologia di
vizio di legittimita', nell'ambito della tassativa previsione di cui all'articolo 360 c.p.c., comma 1, in ravvisata presenza del quale si chiede la cassazione della sentenza di
merito.
In tal senso, tra le piu' recenti pronunzie,si segnalano l'ordinanza Sez. 6-3 n. 8565 del 2012,che ha ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione con il quale era stato
denunciata ex articolo 360, comma 1, n. 3, quale violazione delle norme sulla confessione, la mancata considerazione, da parte del giudice di merito di una
dichiarazione di asserito tenore confessorio reso dalla controparte, anziche' quale vizio di motivazione, deducibile ai sensi dell' articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Analogamente e, piu' diffusamente, con la sentenza n. 5207 del 2010 della Sez. 3, sulle premesse che il controllo di legittimita' sulle pronunce dei giudici di merito non si
configuri come terzo grado di giudizio, bensi' quale "strumento preordinato all'annullamento delle pronunzie viziate da violazione di norme, ovvero da omessa o
insufficiente o contraddittoria motivazione", integrando un "giudizio a critica vincolata, delimitato e vincolato dai motivi di ricorso", e' stato ritenuto che "il singolo motivo,
sia prima che dopo la riforma, introdotta con il Decreto Legislativo n. 40 del 2006, assume una funzione identificativa condizionata dalla sua formulazione tecnica con
riferimento alle ipotesi tassative di censura formalizzate con una limitata elasticita' dal legislatore", con la conseguente inammissibilita' di quei ricorsi inficiati da erronei
riferimenti all'articolo 360 c.p.c., comma 1 (in senso analogo v. ordinanza n. 18202/08 e sentenze n. 7268 e 18202 della terza sezione).
p. 4.2. In senso opposto,con la sentenza n. 23794/11,la sezione prima ha ritenuto che l'ammissibilita' del ricorso per cassazione non sia preclusa dal fatto che il vizio
della sentenza impugnata fosse stato qualificato erroneamente dalla parte come violazione di legge e ricondotto all'articolo 360 c.p.c., n. 3, anziche' al vizio di
motivazione di cui al n. 5, in una fattispecie in cui la sostanziale doglianza atteneva ad una erronea interpretazione della domanda da parte del giudice a quo. Dello
stesso segno e' la recente sentenza n. 1370/13 della sezione secondarne ha negato che costituisca una condizione necessaria di ammissibilita' del ricorso di legittimita' la
corretta menzione dell'ipotesi appropriatala quelle previste dall'articolo 360 c.p.c., comma 1, purche' nel contenuto dell'impugnazione si faccia chiaramente ed
inequivocamente valere un vizio della decisione astrattamente idoneo ad inficiare la decisione ai sensi della citata norma, traendone, nella fattispecie, la conseguenza
dell'ammissibilita' di un ricorso per cassazione, che pur prospettando il vizio sotto il profilo dell'articolo 360, comma 1, n. 3, aveva in realta' lamentato un error in
procedendoci sensi del n. 4 cit..
p. 4.3. Particolare attenzione e' stata, da altre pronunzie, dedicata alla questione dei motivi c.d. "misti", molto frequenti nella pratica (soprattutto con riferimento alle
ipotesi di cui ai nn. 3 e 5 dell'articolo 360 c.p.c., comma 1), con i quali vengano in un unico mezzo d'impugnazione, cumulate due o piu' censure sussumibili sotto
diverse categorie di vizi di legittimita'.
L'orientamento prevalente ritiene, del tutto condivisibilmente, che tale modalita' di formulazione risulti irrispettosa del canone della specificita' del motivo d'impugnazione
nei casi in cui, nell'ambito della parte argomentativa del mezzo d'impugnazione non risulti possibile scindere le ragioni poste a sostegno dell'uno o dell'altro
vizio,determinando una situazione di inestricabile promiscuita', tale da rendere impossibile l'operazione di interpretazione e sussunzione delle censure (v., in particolare,
nn.7394/10, 20355/08, 9470/08). Ove, invece, tale scindibilita' sia possibile, deve ritenersi ammissibile la formulazione di unico articolato motivo, nell'ambito del quale
le censure (cosi' come i quesiti di diritto ex articolo 380 bis, ove ratione temporis prescritti) siano tenute distinte (v. sent. n 7770/09 S.U. e n. 976/08 della 1 sezione).
p. 5. Premesso quanto precede,ritengono queste Sezioni Unite che il contrasto debba essere risolto ritenendo preferibile, sia pure nei limiti che di seguito saranno
precisati, il secondo dei sopra riferiti indirizzane risulta, rispetto a quello piu' drasticamente formalistico, piu' conforme a principi fondamentali dell'ordinamento
processuale, segnatamente a quello, tradizionale e millenario, iura novit curia, recepito dall'odierna disposizione di cui all'articolo 113 c.p.c., ed a quello,di derivazione
sovranazionale, della c.d. "effettivita'" della tutela giurisdizionale, da ritenersi insito nel diritto al "giusto processo" di cui all'articolo 111 Cost., elaborato dalla
giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo ed inteso quale esigenza che alla domanda di giustizia dei consociati debba, per quanto possibile e
segnatamente nell'attivita' di interpretazione delle norme processuali,corrispondere una effettiva ed esauriente risposta da parte degli organi statuali preposti all'esercizio
della funzione giurisdizionale.
p. 5.1. In tale ultimo senso la Corte di Strasburgo ha avuto piu' volte modo di precisare che nell'interpretazione ed applicazione della legge, in particolare di quella
processuale, gli stati aderenti, e per essi i massimi consessi giudiziari, devono evitare gli "eccessi di formalismo", segnatamente in punto di ammissibilita' o ricevibilita' dei
ricorsi,consentendo per quanto possibile, la concreta esplicazione di quel "diritto di accesso ad un tribunale" previsto e garantito dall'articolo 61 della Convenzione
Europea per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Liberta' Fondamentali del 1950 (ratificata dall'Italia con la Legge 4 agosto 1955, n. 848). Tra le piu'
significative pronunzie in tal senso si segnalano le sentenze dell'8.6.2005 in proc. n. 74328/01, del 21.2.2008 in proc. n. 2602/06, del 24.4.2008 in proc. n. 17140/08,
nell'ultima delle quali, in particolare e con riferimento ad una questione connotata da evidenti analogie con quella su cui e' chiamata oggi a pronunziarsi questa Corte, e'
stato censurato il Granducato del Lussemburgo, la cui Corte di Cassazione aveva dichiarato irricevibile un ricorso, per non essere stati articolati con sufficiente
precisione i motivi di impugnazione, ritenendosi la relativa limitazione "non proporzionata" al fine di garantire la "certezza del diritto e la buona amministrazione della
giustizia".
Tale principio,pur non vietando agli stati aderenti la facolta' di circoscrivere, per evidenti esigenze di opportunita' selettiva,a casistiche tassative,in relazione alle ipotesi
ritenute astrattamente meritevoli di essere esaminate ai massimi livelli della giurisdizione, le relative facolta' di impugnazione, con la conseguenza che non si ravvisa
contrasto allorquando le disposizioni risultino di chiara evidenza senza lasciare adito a dubbi, costituisce tuttavia, nei diversi casi in cui le norme si prestino a diverse
accezioni ed applicazioni, un canone direttivo nella relativa interpretazione, che deve in siffatti ultimi casi propendere per la tesi meno formalistica e restrittiva. Nel caso
di specie, la stessa circostanza che sulla questione devoluta a queste Sezioni Unite si sia manifestato nel corso degli anni un crescente contrasto interpretativo, denota
una evidente situazione di non sufficiente chiarezza del dato normativo, con la conseguenza che nella relativa risoluzione non possa prescindersi dall'adozione del criterio
anzidetto.
p. 5.1. Quanto al principio iura novit curia, va evidenziato come lo stesso,per quanto attiene al giudizio di cassazione, sia significativamente recepito dalla disposizione
contenuta nell'articolo 384 c.p.c., u.c., secondo cui le sentenze erroneamente motivate in diritto,quando il dispositivo sia comunque conforme allo stesso, non sono
soggette a cassazione, dovendo la Corte in tali casi limitarsi a correggere la motivazione, norma la cui conservazione da parte del legislatore mal si concilia con la tesi,
propugnata dall'indirizzo formalistico, che enfatizzando il carattere di impugnazione "a critica vincolata" del ricorso per cassazione, ed esasperando l'onere della
specificita' ex articolo 366 c.p.c., n. 4, ritiene inammissibili i mezzi impugnatori caratterizzati da erroneo riferimento al tipo di vizio effettivamente riscontrabile nella
fattispecie, o, addirittura, nei casi di deduzione della violazione o falsa applicazione di una norma di diritto, della non pertinenza dei relativi dati normativi. Anche in tali
casi, infatti ove il compito della Corte fosse limitato a pronunziarsi in ordine alle censure formalmente dedotte con i motivi dedotti, avverso una statuizione di merito che
sarebbe stata giustificabile sulla base di altre norme o principi di diritto, lo stesso si esaurirebbe nel mero rigetto, senza alcuna necessita' di ulteriori precisazione.
L'immanenza costante ed imprescindibile nel sistema del sopra richiamato principio regolatore del processo risulta, del resto e su altri versanti, confermata dalla univoca
giurisprudenza di questa Corte, secondo cui nell'interpretazione della domanda o eccezione il giudice non e' vincolato dal nomen iuris indicato dalla parte e dalle norme
giuridiche al riguardo citate, dovendo invece egli procedere alla relativa qualificazione,con particolare riferimento alla causa petendi (o excipiendi), desumendola, al di la'
dalla terminologia piu' o meno appropriata adoperata dal petente o eccipiente,dal sostanziale contenuto del fatto o della situazione, giuridicamente rilevante, esposti a
sostegno della stesse (ex plurimis, v. nn. 5848/13, 13945/12, 12943/12, 15925/07).
Orbene,se il giudice di merito ha sempre il compito di interpretare e qualificare correttamente le domande o eccezioni a lui proposte, non si vede perche' a tanto non
dovrebbe anche, ed a fortiori, procedere, nell'ambito della propria funzione "nomofilattica", in un sistema nel quale alla stessa e' attribuito il compito di massimo organo
preposto a tutela della corretta applicazione della legge, la Corte Suprema di Cassazione, relativamente ai ricorsi ad essa proposti, nei quali il motivo, vale a dire la
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deduzione del vizio giuridico o logico in cui si lamenta sia incorso il giudice di merito, integra la causa petendi della domanda processuale di impugnazione, posta a base
della richiesta caducatoria della decisione (petitum).
p. 6. Traendo le fila del discorso, puo' dunque concludersi affermando che l'onere della specificita' ex articolo 366 c.p.c., n. 4, secondo cui il ricorso deve indicare "i
motivi per i quali si chiede la cassazione,con l'indicazione delle norme di diritto su cui si fondano", non debba essere inteso quale assoluta necessita' di formale ed esatta
indicazione della ipotesi, tra quelle elencate nell'articolo 360 c.p.c., comma 1, cui si ritenga di ascrivere il vizio,ne' di precisa individuazione, nei casi di deduzione di
violazione o falsa applicazione di norme sostanziali o processuali, degli articoli, codicistici o di alti testi normativi, comportando invece l'esigenza di una chiara
esposizione, nell'ambito del motivo,delle ragioni per le quali la censura sia stata formulata e del tenore della pronunzia caducatoria richiesta, che consentano al giudice di
legittimita' di individuare la volonta' dell'impugnante e stabilire se la stessa, cosi' come esposta nel mezzo di impugnazione, abbia dedotto un vizio di legittimita'
sostanzialmente,ma inequivocamente, riconducibile ad alcuna delle tassative ipotesi di cui all'articolo 360 citato.
Il principio di diritto che, pertanto,si formula e' il seguente: "Nel giudizio per cassazione - che ha ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste
dall'articolo 360 c.p.c., comma 1 - il ricorso deve essere articolato in specifici motivi immediatamente ed inequivocabilmente riconducibili ad una delle cinque ragioni di
impugnazione previste dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l'esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi.
Pertanto, nel caso in cui il ricorrente lamenti l'omessa pronunziala parte della impugnata sentenza,in ordine ad una delle domande o eccezioni formulate non e'
necessario che faccia espressa menzione della ricorrenza dell'ipotesi di cui all'articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 4 (con riferimento all'articolo 112 c.p.c.), purche' nel
motivo su faccia inequivocabilmente riferimento alla nullita' della decisione derivante dalla relativa omissione. Va invece dichiarato inammissibile il motivo allorquando, in
ordine alla suddetta doglianza, il ricorrente sostenga che la motivazione sia stata omessa o insufficiente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge".
p. 7. Calando il suddetto principio nella fattispecie in esame, deve ritenersi che il motivo di ricorso, in precedenza riportato sub 1, sia ammissibile e, tuttavia,
concretamente infondato.
p. 7.1. Sotto il primo profilo, e' sufficiente evidenziare come, gia' nella rubrica del mezzo d'impugnazione, al di la' dell'improprio riferimento numerico all'articolo 360
c.p.c., comma 1, si lamenti l'"omessa pronunzia" da parte del giudice di secondo grado su una espressa richiesta formulata dal (OMISSIS), cosi' gia' fornendo un primo
significativo indice dell'intenzione dell'impugnante. Nella parte motiva, poi, ripetutamente si sostiene che la corte di merito, del tutto ignorando le ragioni esposte dal
suddetto in un capo del proprio appello incidentale, sarebbe venuta meno al suo compito di esaminare il merito della relativa richiesta, sottraendosi alla stessa, sulla
base di una ravvisata (erroneamente) preclusione derivante da un giudicato.
Pur contenendo il mezzo d'impugnazione censure - infondate per quanto si dira' oltre - in ordine alla ravvisata preclusivita' della precedente pronunzia, risulta comunque
evidente come, nella prospettazione e nelle richieste della parte ricorrente, il vizio principalmente ed espressamente denunciato non attenga tanto e direttamente alla
sufficienza o logicita' della motivazione, e dunque alla, pur impropriamente richiamata in rubrica, ipotesi di cui al n. 5 dell'articolo 360, comma 1, n. 4, bensi' alla
omissione di pronunzia, intesa quale conseguenza della inamrnissibilita', erroneamente ravvisata, della richiesta sottoposta al giudice e non decisa; donde, la concreta e
sostanziale riconducibilita' della censura all'articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 4, in relazione all'articolo 112 c.p.c..
p. 7.2. Sotto il secondo profilo, tuttavia, la doglianza si rivela manifestamente infondata, non avendo in concreto il giudice di appello omesso di pronunciarsi sul capo del
gravame incidentale, con il quale si era chiesto di non liquidare ai condividenti, assegnatari dei beni ancora materialmente goduti dal (OMISSIS), alcun indennizzo o,
comunque, di parametrarlo al canone legale di affitto a coltivatore diretto, bensi' ravvisato la preclusione all'esame nel merito di siffatta tesi, sulla base di una corretta
valutazione della portata del giudicato interno,costituito dalla propria sentenza n. 493/1995, che rendeva inammissibile la reiterata deduzione di un rapporto di affittanza
agraria inter partes, essendo stata con quella pronunzia espressamente deciso, come in narrativa si e' riferito, che nel caso di specie, di mera comunione ereditaria, in
assenza di alcuna relazione intersoggettiva di rilevanza agraria,non avrebbe potuto trovare applicazione, ai fini del ristoro dovuto agli appellanti (OMISSIS) dagli
appellati (OMISSIS) per l'occupazione dei terreni assegnati ai primi, della Legge 3 maggio 1982, n. 203, articolo 49, circa la determinazione a titolo di equo canone di
affitto".
La chiara ed inequivoca esclusione di un rapporto di affitto agrario, comunque instauratola le parti, rendeva palesemente inammissibile la successiva deduzione, a parte
di una delle stesserei confronti delle altre, della avvenuta contrazione di un rapporto del genere per facta concludentia, ancorche' siffatta modalita' non fosse stata
espressamente dedotta nella precedente fase definita con la citata sentenza,coprendo il giudicato formatosi sulla relativa decisione contenuta "il dedotto ed il deducibile";
sicche' nessuna omissione di pronunzia vi e' stata nell'impugnata sentenza della corte territoriale..
p. 8. Con il secondo motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli articoli 535, 757, 820 e 821 c.c., lamentando che la corte di merito, anziche' determinare
quale fosse il valore dei frutti naturali da restituire al momento della loro liquidazione, ne avrebbe erroneamente rivalutato, secondo gli "indici valutari", di anno in anno il
corrrispettivo, risultante per ogni annata agraria sino alla liquidazione, applicando sugli importi cosi' rivalutati gli interessi legali con decorrenza dalla data di maturazione
dei singoli importi, cosi' "confondendo i frutti naturali (debito di valore), di cui all'articolo 820 c.c., comma 1, con i frutti civili (debito di valuta) di cui al comma 2 e
regolando altresi' la fattispecie come si trattasse di un danno da illecito extracontrattuale, senza peraltro adottare alcuna motivazione al riguardo ed in assenza di
specifiche allegazioni di parte (OMISSIS) ex articolo 2043 c.c. e, comunque, senza che ne fosse dimostrata dai (OMISSIS), cui incombeva il relativo onere, la
ricorrenza".
Il motivo, cosi' come riportato e sintetizzato nel conclusivo quesito ex articolo 366 bis c.p.c., e' inammissibile.
Il Tribunale di Vercelli, con la sentenza appellata, aveva determinato l'importo dell'indennizzo dovuto dal (OMISSIS) ai (OMISSIS) in virtu' non dell'articolo 2043 c.c.,
bensi' del principio della retroattivita' degli effetti dell'assegnazione dei beni a seguito dello scioglimento della comunione ereditaria e della connessa spettanza del
relativo reddito, sulla base del virtuale canone di mercato ricavabile dai terreni assegnati a questi ultimi e di fatto goduti, fin dall'epoca dell'apertura della successione,
dal primo, e non anche dei frutti naturali concretamente dal medesimo percepiti. Sull'esattezza o meno di tale criterio, segnatamente nella parte in cui aveva
implicitamente considerato alla stregua di frutti civili il reddito ricavabile dai beni, le parti non avevano formulato censure nei rispettivi atti di gravame, dei quali, quello
degli appellanti principali (OMISSIS) era diretto avverso la concreta determinazione del suddetto canone di mercato da parte del primo giudice, sulla scorta della
confutata consulenza tecnica in tale grado espletata, mentre con quello incidentale del (OMISSIS) si era sostenuto che, in considerazione della sussistenza di un
rapporto di affitto tra le parti, nulla fosse dovuto o, comunque, il reddito in questione, non percepito dai (OMISSIS), avrebbe dovuto essere ragguagliato non al virtuale
canone di affitto ricavabile in regime di libera contrattazione, bensi' a quello determinato secondo i criteri legali contenuti nella normativa vincolistica regolante siffatti
rapporti, prospettazione quest'ultima implicitamente adesiva alla qualificazione quali "civili" dei frutti in questione.
Tanto premesso, risulta evidente la novita' della censura in questa sede sollevata, con la quale si lamenta, peraltro confusamente, l'impropria parificazione dei frutti in
questione a quelli civili, pur trattandosi di frutti naturali,per poi,del tutto incoerentemente, sostenere che sotto quest'ultimo profilo ne sarebbe stata illegittimamente
statuita la rivalutazione con riferimento al momento della relativa maturazione.
Quel che e' certo, quale che sia l'esattezza della qualificazione di tali frutti,confermata dalla corte di merito, e non smentita dal criterio del c.t. officiato in secondo grado,
in concreto seguito per la determinazione di tale canone (desunto dalla presunta capacita' produttiva del fondo), e' che le doglianze formulate dal ricorrente con il
motivo in esame risultano del tutto diverse rispetto a quelle esposte nell'appello incidentale avverso la sentenza di primo grado,e pertanto non esaminabili nella presente
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sede.
p. 9. Il ricorso va, conclusivamente, respinto.
p. 10. Le spese, infine,seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese del giudizio in favore dei controricorrenti, liquidando le stesse nella complessiva misura di
euro 3.500,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge.
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