RICCARDO LATTUADA

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RICCARDO LATTUADA
RICCARDO LATTUADA
PROFESSORE ASSOCIATO
SECONDA UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI
DIPARTIMENTO DI LETTERE E BENI CULTURALI
Maestro degli annunci ai pastori (Juan Do)
Filosofo stoico (fig. 1)
Olio su tela, cm 71 x 58.
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Fig. 1.
Piazza San Francesco 1 – 81055 Santa Maria Capua Vetere (CE) – e-mail: [email protected]
Bibliografia:
G. De Vito, Juan Do riconfermato, in ‘Ricerche sul ‘600 napoletano’, 2003-2004, p. 89, tav. a col.
III; p. 91.
N. Spinosa in Ritorno al Barocco, catalogo della mostra, Napoli, vol. I, Napoli, 2009, p. 101, n.
1.30.
Il dipinto è stato reso noto da Giuseppe De Vito, al quale si deve l’identificazione – non ancora
accolta unanimemente, ma per chi scrive credibile – dell’anonimo Maestro degli annunci ai pastori
con Juan Do (o Dò, o Dose), nato a Jativa nel 1604 e morto a Napoli presumibilmente nel 1656 (cf.
G. De Vito, Variazioni sul nome del Maestro dell’Annuncio ai pastori, in ‘Ricerche sul ‘600
napoletano’, 1996-1997, pp. 7-62). Il gruppo stilistico aggregato intorno al nome d’intesa del
Maestro degli annunci ai pastori fu per la prima volta raccolto da F. Bologna, Opere d’arte nel
Salernitano dal XV al XVII secolo, catalogo della mostra, Salerno, 1955, p. 55, nota 1, sulla scorta
di un contributo di Roberto Longhi del 1935. La denominazione prende corpo da un ‘Annuncio ai
pastori della nascita di Cristo’ oggi a Birmingham, Art Gallery, la cui attribuzione fu a lungo
contesa tra Diego Velázquez e Jusepe de Ribera, e poi spostata verso la cerchia di quest’ultimo
pittore, inizialmente in direzione di Bartolomeo Bassante (o Passante), per approdare poi al nome di
Do dopo l’individuazione da parte di De Vito di una sigla sul ‘Filosofo che legge’ già a New York,
Christie’s, 29-I-1999, lotto 127 (fig. 2) (in quella occasione ascritto al Maestro degli annunci da chi
scrive sulla base di fotografie; il che non apparve in catalogo a causa di un refuso).
L’attribuzione del presente dipinto è stata confermata da Nicola Spinosa, che ha proposto di datarlo
alla fine del quarto decennio del Seicento e ha dissentito sull’ipotesi avanzata da De Vito – motivata
con argomenti esili, ma meritevole d’attenzione - che Do potesse essere di origini ebree. Infatti, già
chi scrive ha puntualizzato anni fa che Do, nato presumibilmente a Valencia in Spagna intorno al
1604, vi trascorse certamente gli anni dell’infanzia e della prima adolescenza. Scarse sono le notizie
sulla sua vita e sulla sua attività artistica. Nel 1616 fu ammesso al Colegio de pintores di Valencia,
dove il suo nome è registrato dai documenti come “Juan Dose” (D. L. Tramoyeres Blasco, Un
colegio de pintores en Valencia, in ‘Archivo de investigaciones historicas’, II, 1911, 6, p. 521);
l’allievo dovette pagare un supplemento di retta "per ser de reyne strany", forse perché figlio di uno
scalpellino francese. Nell’ambito di questa sorta di scuola-corporazione il pittore Jeronimo de
Espinosa ebbe l’incarico della sua formazione (A. E. Pérez Sanchez, Pintura napolitana de
Caravaggio a Giordano, catalogo della mostra, Madrid, 1985, p. 120 e ss.).
Il 3 maggio 1626 Juan Do sposò a Napoli Grazia De Rosa, sorella del pittore Giovan Francesco,
detto Pacecco; in questa occasione dichiarò l’età di 22 anni e sostenne di risiedere a Napoli già da
tre anni (quindi all’incirca dal 1623). Qualificato in quest’occasione come “spagnolo”, ebbe a
testimone Filippo Vitale al momento di dare parola per il matrimonio, e scelse poi come testimoni
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di nozze Giovanni Battista Caracciolo e Jusepe de Ribera, detto lo Spagnoletto: ciò dimostra che a
quella data egli era ormai pienamente inserito nell'ambiente dei pittori napoletani [per una voce
biografica sulla documentazione tutt’ora disponibile cf. R. Lattuada, voce DO (Dose), Juan
(Giovanni), in Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 40, Roma, 1991].
Di fatto il presente dipinto, al pari di un numero piuttosto cospicuo di opere di tema analogo, mostra
un pittore la cui cultura figurativa si situa a latere di quella di Jusepe di Ribera. Quest’ultimo
produsse nella prima metà degli anni Trenta del Seicento varie serie di ritratti ideali di filosofi e
poeti dell’antichità classica, con una preferenza per figure storiche o mitologiche di poeti e filosofi
stoici e cinici, ma anche di Platone, Archimede, Anassimandro, Pitagora, Esopo, etc. Questa parte
della produzione di Ribera è stata ricondotta a una moda filosofica neo-stoica e neo-cinica che si
sarebbe diffusa in molti ambienti della cultura napoletana, e che avrebbe portato ad arredare molte
biblioteche di eruditi con immagini di personaggi considerati esempi perenni di moralità e di statura
intellettuale (cf. O. Ferrari, L’iconografia dei filosofi antichi nella pitture del sec. XVII in Italia, in
‘Storia dell’arte’, n.57, 1986, pp. 103-181).
Una prima differenza tra Ribera e Juan Do è nel fatto che mentre il primo dei due mostra questo
tipo di personaggi sia di profilo sia rivolti verso lo spettatore – come nel famoso ‘Archimede’ a
Madrid, Prado, firmato e datato 1630 (fig. 3) - Do sembra costantemente raffigurarli nell’atto di
ignorarlo, poiché intenti ad una meditazione così intensa da non poter tollerare distrazioni (fig. 2).
Fig. 2.
Fig. 3.
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Secondo De Vito il presente dipinto raffigura “un personaggio qualunque, un pastore di quelli
raffigurati nelle Natività, stupito, sorpreso più che riflessivo sul simbolo che costituisce l’omega
dell’alfabeto della vita terrena. Lo stesso stupore provato dinanzi alla nascita, l’altro estremo del
polarismo, uno stupore pio e devoto formulato con tenera partecipazione. Una Vanitas nello spirito
qoheletiano?” (cf. Juan Do riconfermato, cit., p. 91).
In merito a tali asserzioni va osservato che gli abiti laceri del personaggio sono praticamente
l’uniforme del filosofo stoico, il quale disprezza ogni forma di dipendenza dagli agi materiali. Lo
stesso Ribera ha fatto ricorso pressoché sempre a tale convenzione iconografica per raffigurare
personaggi che non fossero santi o persone effigiate (fig. 4), e altrettanto ha fatto Juan Do in varie
altre immagini di questo tipo (fig. 5).
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Fig. 4.
Fig. 5.
Non si vede dunque perché l’uomo raffigurato nel dipinto qui in discussione, colto nella posa di
tormentata interazione con il teschio, debba essere un “personaggio qualunque”. Il radicale realismo
di Do (in cui risiedono tutta la potenza e il fascino del suo discorso figurativo) fece sì che egli con
tutta probabilità usasse come modelli persone del suo entourage domestico o sociale: molte di
queste fisionomie ricorrono in più di un suo dipinto. Non è questa la sede per poter andare a fondo
in questa analisi; se però è vero che Do ha attinto all’esperienza sensibile per rendere credibili
immagini storiche ma idealizzate di personaggi conosciuti solo attraverso pochi testi, non c’è
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dubbio che la sola ragione per la quale non riusciamo a dare un titolo credibile a gran parte di tali
opere è nella carenza di metodo e di informazioni con cui è stato affrontato il problema.
Non a caso, in quello che è considerato il suo autoritratto allegorico già a Monaco, Sotheby’s (fig.
6), Do raffigura la stessa persona impiegata nel dipinto qui alla fig. 2 (secondo alcuni autori si
tratterebbe del padre del pittore). Il metodo da lui seguito è dunque chiaro: si impiega un modello
dal vero e lo si adatta al soggetto da rappresentare, di volta in volta trasformandolo – e
idealizzandolo - a seconda delle esigenze della rappresentazione.
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Fig. 6.
Resta da compiere un’ultima osservazione su alcuni aspetti stilistici relativi al dipinto qui in
discussione: l’impiego del carminio negli impasti degli incarnati, e dunque il conseguimento di un
effetto di maggior luminosità in queste parti del dipinto, mostra un uso di tali soluzioni tecniche per
conferire l’effetto di abbronzatura dell’uomo. Tenendo a mente il fatto che esiste un piccolo
pendant già a Napoli, Collezione Gualtieri–De Biase, in cui un ‘Annuncio ai pastori’ è di colui che
oggi consideriamo Do, mentre l’altro elemento è di Bernardo Cavallino (un maestro nato nel 1616,
ben più giovane di Do, e che lumeggia costantemente le epidermidi dei suoi personaggi mediante il
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carminio o altre lacche), è forse necessario postulare che il presente dipinto vada datato nella
seconda metà degli anni Trenta del Seicento, forse anche sul 1640, per l’accentuarsi della
luminosità dell’immagine, in accordo non solo con gli apporti recati da Cavallino all’ambiente
napoletano, ma con la stessa svolta neo-veneta di Ribera, il cui percorso restò un riferimento
costante per tutto quanto possiamo oggi conoscere di Juan Do.
Roma, 28 Febbraio 2014
Riccardo Lattuada
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