Capitolo 3 Regime, Sistema Politico, Stato

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Capitolo 3 Regime, Sistema Politico, Stato
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Capitolo 3
Regime, Sistema Politico, Stato
Alla fine del 1992, le Nazioni Unite inviarono in Somalia una missione umanitaria, nota con il nome promettente di Restore Hope. Alla missione partecipò anche un contingente italiano. Dopo appena due anni, all’inizio del 1995, le forze internazionali di pace si erano completamente ritirate dal
paese lasciandolo preda della guerra civile e delle lotte intestine tra i «signori
della guerra». Il fallimento o collasso
dello stato somalo produsse ingenti costi
umani; è stato stimato che a partire dal
1991 un milione di somali siano morti a
causa delle guerre e delle loro drammatiche conseguenze (carestie, malattie, emigrazioni di massa). Uno studioso e osservatore americano che aveva preso
Regime politico
Regime, comunità e autorità
Le dimensioni fondamentali dei regimi
Sistema politico
I modelli di Easton e di Almond e Powell
Stato
Stato moderno
La formazione dello Stato
Costruzione della nazione
Prime democratizzazioni
Trasformazioni e sfide dello stato contemporaneo
Stati falliti
parte ad una missione di soccorso in
Somalia nel corso del 1993 così descriveva la sua esperienza:
Era un periodo in cui lo stato somalo era veramente crollato: non c’era nessuno esercito, nessuna burocrazia
statale, nessuna forza di polizia, nessuna magistratura e nessuno stato a fornire l’energia elettrica, l’acqua, la
manutenzione delle strade, delle scuole o dei servizi sanitari, il mio passaporto era pieno di timbri d’uscita e
d’ingresso […] ma non vi era alcuna prova che io fossi mai stato in Somalia, perché non c’era alcun controllo all’immigrazione che potesse timbrare il mio passaporto. Scendevo dall’aereo e, semplicemente, superavo
i cancelli dell’aeroporto per andare in città. [… In] Somalia durante questo periodo […] i pozzi d’acqua erano sorvegliati da bande armate, il gasolio era il bene più prezioso e i technicals – gli onnipresenti veicoli
pick-up con pesanti mitragliatrici sui vani posteriori – girovagavano per le strade in cerca di guai [Nest cit. in
Clark, Golder e Golder 2009, trad. it. 2011, 70-71].
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1. I regimi politici
L’attività politica non si risolve nella dimensione processuale, vale a dire nell’incessante fluire di
azioni intenzionali e di conflitti, al limite, una tale situazione finirebbe per assomigliare a quella
guerra di tutti contro tutti che secondo Thomas Hobbes [1651] caratterizzava lo «Stato di natura».
In tale condizione estrema non è possibile nessuna forma di organizzazione sociale e di progresso
civile e «ciò che è peggio di tutto», chiosava il filosofo inglese, prevale un perenne timore e il pericolo di morte violenza. Una situazione di totale incertezza e insicurezza riguardo al futuro. Per contro, la politica comporta la canalizzazione e istituzionalizzazione delle azioni e comportamenti e ciò
richiede delle istituzioni in grado di dare «stabilità e significato al comportamento sociale [e politico]» [Scott 1995, trad. it. 1998, 55]. Oggetto di questo capitolo è proprio il particolare complesso di
istituzioni politiche o, meglio, l’insieme di apparati, regole e procedure che definiscono ciò che potremmo chiamare un ordine o, come preferiamo, un regime politico [Easton 1953].
Nello specifico tale nozione costituisce uno strumento analitico generale valido a indicare un qualunque assetto strutturale che dà forma e organizza la lotta per il potere. Altrettanto generale e di
uso analitico è il concetto di sistema politico, il secondo tema di questo capitolo. Tra i due concetti
c’è una stretta parentela, mentre il primo, come si è detto, rimanda dimensione strutturale e organizzativa della politica, il secondo coglie la dimensione relazionale, le interazioni che intercorrono tra
specifiche unità. Dopo esserci soffermati su entrambi i concetti, guarderemo anche ad un tipo specifico di regime che ha contraddistinto «l’ambiente politico moderno» [Poggi 2008, trad. it. 2013,
40]: lo Stato.
In senso lato, dunque, regime è sinonimo di ordinamento, di insieme di norme volte a organizzare in
modo stabile e regolare qualche aspetto ritenuto rilevante della nostra esistenza. In questo senso
l’uso del termine è alquanto generale. Cosi, per esempio, nella vita quotidiana parliamo spesso di
regime dietetico o alimentare e diciamo che “il motore è a regime” per indicare il buon funzionamento di una macchina. Nel diritto amministrativo incontriamo l’espressione regime delle acque o
dei suoli e simili. Mentre nelle relazioni internazionali si è soliti definire il «regime internazionale
[come] un insieme di regole, norme e procedure condivise che emergono da elevati livelli di cooperazione a prescindere dalla volontà di negoziare e di coordinare le politiche su base periodica»
[Mingst e Arreguin-Toft 2011, trad. it. 2012, 171]. Un esempio dei quali potrebbe essere il regime
internazionale del libero commercio (GATT) o delle acque del mare. In tutte queste accezioni, sia di
senso comune che specialistiche, regime non assume una valenza derogatoria o negativa, come accade invece quando con tale termine ci si riferisce un sistema di regole autoritarie, un “regime poliziesco”. Questo uso è diffuso nel dibattito politico italiano, quale eredità culturale del ventennio fa-
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scista e capita ancora spesso di incapparvi nella pubblicistica corrente quando una forza politica, in
genere di opposizione, avverte che il governo si sta comportando come un “regime” o quando, in
occasione delle elezioni, una parte avverte con veemenza che qualora vincesse l’altra parte l’esito
sarebbe inevitabilmente l’instaurazione di un “regime”, il sottinteso è liberticida.
Da quanto detto segue un’ulteriore domanda: come possiamo riconoscere e classificare i tipi di regime politico, sulla base di quali aspetti? Rimandiamo al cap. 4 [↓] per una più puntuale ricostruzione della distinzione tra regimi democratici e non democratici (chiamati antagonisti rispetto ai
primi), qui ci interessa invece soffermarci su un livello di analisi più generale. In prima approssimazione, per regime politico intendiamo la struttura dei rapporti che legano assieme le autorità e la
comunità politica. L’insieme di questi tre elementi costituisce per David Easton [1953, tra. It. 1963]
un «sistema politico» – che quindi per il nostro autore è concetto più comprensivo di regime – si
veda il Box 1.
Al fine di proseguire oltre nella discussione occorre evidenziare gli elementi che contraddistinguono
il regime politico, a tal fine prendiamo spunto dal lavoro di Samuel Finer [1997], queste sono: il territorio; l’organizzazione o «strutture di governo»; la classe politica (inclusione, selezione, compiti);
il tipo di legittimazione su cui si fonda il sistema politico. Nel corso del paragrafo non ci soffermeremo sulla classe politica che sarà trattata nei prossimi capitoli, mentre affronteremo le altre. Inoltre, aggiungeremo in apertura una dimensione costitutiva della stessa esperienza politica, già incontrata [↑1], che vale la pena di esplicitare meglio. Ci si riferisce alla forza o violenza istituzionalizzata. Vediamo quindi le quattro dimensioni richiamate.
BOX 1 CIRCA QUI
Il controllo esclusivo della coercizione.
In un certo senso, un regime politico costituisce una forma di potere (politico) stabilizzato, cioè un
sistema strutturato di relazioni volto a produrre decisioni, comandi al fine di modificare il comportamento altrui nella direzione desiderata (dalla autorità o governanti). Tale possibilità implica il ricorso, sia pure come estrema ratio o come mezzo di ultima istanza, alla forza fisica. Per R. Dahl
[1963] l’azione politica rimanda sempre al «potere, norma e autorità», mentre per G. Almond e
G.B. Powell [1966], che riprendono Weber, la politica ha a che fare con «l’esercizio della coercizione fisica legittima». Il riferimento a grande sociologo tedesco è più che opportuno: «lo Stato è
quella comunità umana che all’interno di un dato territorio – questa componente del “territorio” è
caratteristica – pretende per sé (con successo) il monopolio del legittimo uso della forza fisica»
[1919, trad. it. 1998, 178]. In questa celebre definizione troviamo, tra gli altri, due aspetti centrali
per il discorso che stiamo svolgendo. Un regime (in questo caso uno Stato) intanto persiste nella
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misura in cui è in grado di ricorrere alla forza organizzata per imporre le proprie decisioni, ma ciò
avviene finché di quell’esercizio si detiene il controllo esclusivo sul territorio e finché tale ricorso è
giustificato da parte di chi lo subisce (legittimità). In questo modo un dato ordinamento è riconosciuto come vincolante, non solo per paura o per convenienza, ma perché le sue decisioni sono credute giuste e quindi vengono accettate [Popitz 1986; Mann 1986]. Monopolio della forza (condizione di effettività) e legittimità (condizione di validità) danno ai regimi politici la massima capacità
obbligante poiché nessun individuo o gruppo che ricade entro la loro giurisdizione (territorio) si può
sottrarre alle decisioni che prodotte delle autorità.
Il territorio.
I regimi politici sono entità territoriali la cui appartenenza è definita da confini geograficamente
(spazialmente) identificabili [Bartolini 2000]. Del resto, è normale sfogliando dei testi di diritto
pubblico imbatterci nell’elenco degli elementi costituivi dello Stato: la sovranità, il popolo e, appunto, il territorio [Mortati 1975, I tomo]. Dalla rivoluzione neolitica, ovvero dalla fuoriuscita del
genere umano dall’età delle comunità nomadi di cacciatori e raccoglitori e dall’ingresso nell’era
delle comunità rurali stanziali e organizzate, il territorio ha costituito uno degli elementi fondamentali della vita politica [North, Wallis e Weingast 2009]. Per contrasto, il carattere della territorialità
sembra talmente connaturato all’esistenza stessa dello Stato moderno che oggi la deterritorializzazione, vale a dire la perdita di rilevanza verso l’esterno (globalizzazione, europeizzazione) e/o verso l’interno (regionalizzazione, federalizzazione), viene considerata uno dei sintomi
più evidenti e macroscopici della stessa crisi della forma-stato occidentale. La perdita dei confini
costituisce, dunque, il segno evidente della chiusura di quel un ciclo storico secolare che ha rappresentato il modo normale attraverso il quale è stata percepita l’esperienza politica.
Per Finer [1997] i principali tipi di format territoriale che storicamente hanno assunto i regimi politici sono quattro, ai quali ne aggiungeremo un quinto, si possono presentare in base alla loro estensione e complessità organizzativa:
1) le città-stato (le polis), si tratta di città autonome e sovrane che controllano un territorio in genere
non molto ampio, talvolta sono organizzate in una lega di città autonome; possono essere organizzate e governate secondo modalità chiuse e gerarchiche (come nelle città mesopotamiche o a Sparta) o
in forme più aperte e, per lo più, democratico-repubblicane (come Atene, la Repubblica di Roma, i
comuni medievali); talvolta sviluppano sensibilmente i loro possedimenti e così finiscono per assumere le caratteristiche di altri tipi di regimi politici (signorie); la formazione dello Stato moderno
in Europa portò alla progressiva esautorazione di queste realtà comunali [Reinhard 1999];
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2) gli stati in senso stretto, che potremmo definire secondo l’uso storiografico europeo “moderni” e
sui quali ritorneremo più avanti; Finer li distingue in Stati territoriali, che preferisce chiamare «generici», nei quali esiste il controllo amministrativo (e militare) di un certo territorio questa volta, però, ben più ampio di quello delle città-stato ma che non è necessariamente accompagnato dalla diffusione tra gli abitanti della coscienza di costituire una “comunità” (le lealtà prevalenti sono dinastiche o di tipo personale), e gli Stati nazionali dove invece è centrale la consapevolezza di far parte di
una stessa comunità politica (vedi Box 1), un tale sentimento è rafforzato dall’omogeneizzazione
culturale dei sudditi sulla base di criteri linguistici, religiosi, storici, etc.;
4) gli imperi, associati all’esistenza di «un potere sterminato su qualcosa o qualcuno» [Cardini
2009, 33], sono caratterizzati dall’estensione territoriale su larga scala e da una logica espansiva illimitata che non necessariamente richiede solo la forza; i loro confini sono flessibili e aperti; hanno
una composizione plurale sotto il profilo culturale, etnico, linguistico, religioso il che spesso comporta delle asimmetrie nelle forme di cittadinanza e dei diritti; possono presentare forme di decentramento, di autonomia territoriale e istituzionale; in termini genetici sono il frutto della crisi di precedenti situazioni di «equilibrio di potenza» o costituiscono un momento di unificazione rispetto a
unità statali di livello inferire gelose delle propria indipendenza;
5) le federazioni, e in genere i «legami federativi» [Louven 2001], costituiscono delle modalità di
coesistenza e di associazione tra entità politiche (stati, città) autonome e sovrane sulla base di rapporti contrattuali piuttosto che di una sottomissione imposta dall’alto come negli imperi e negli Stati
territoriali [Elazar 1987]; le forme di unione tra Stati possono assumere gradazioni diverse, dalle alleanze inter-statuali alle confederazioni fino ad arrivare ai sistemi federali, dove, pur nel rispetto
dell’autonomia degli Stati membri, il processo di integrazione si è spinto molto oltre nella costruzione di organi deputati alla produzione di decisioni vincolanti – in questo quadro l’Unione Europea
dopo le riforme costituzionali dell’ultimo ventennio rimane un’entità ibrida: non è più una semplice
confederazione di Stati ma non è ancora uno Stato federale, o come è stato detto forse è semplicemente un «impero post-imperiale» [Beck e Grande 2007].
L’organizzazione specializzata.
Almond e Powell [1966; 1978] hanno individuato tre tipi di «regole decisionali» che assicurano il
funzionamento di un qualunque sistema politico relative:
1) alla separazione e alla distribuzione (o, per contro, alla concentrazione) della capacità decisionale
tra diverse istituzioni e attori («forma di governo» in senso stretto);
2) alla limitazione del potere del governo e a fissare i meccanismi di controllo e di equilibrio reciproco tra istituzioni («istituzioni di garanzia»);
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3) alla distribuzione territoriale delle competenze decisionali, cioè la ripartizione dell’autorità sovrana tra il livello statale e sub-statale e sovrastatale («forma di Stato»).
I primi due tipi di regole attengono alla cosiddetta «divisione orizzontale» dei poteri [Finer 1997],
cioè alla ripartizione delle funzioni tra organi o istituzioni che in un dato sistema politico detengono
la sovranità, ovvero il potere autonomo e stabile di prendere decisioni vincolanti e di farle applicare.
Tali norme richiedono di valutare quanto concentrato e/o limitato sia (o dovrebbe essere) il potere
decisionale di un’istituzione o organo (tipicamente il governo). In genere, nelle democrazie queste
regole hanno a che fare con i rapporti tra governo e Parlamento, ma anche con altri organi di controllo, come il capo dello Stato o la Corte costituzionale; nei regimi autoritari, invece, assistiamo alla concentrazione dei poteri decisionali in capo al governo o più esattamente al leader e alla sua
coalizione dominante, con ruoli molto limitati se non di pura facciata tanto del legislativo che delle
altre magistrature. Il terzo insieme di regole fa riferimento, invece, alla «divisione verticale» [Finer
1997] dei poteri che dà alle architetture istituzionali una configurazione più o meno centralizzata o
decentralizzata rispetto alle istanze che emanano dai territori.
In questo modo, però, un regime non è più solo sinonimo di mera organizzazione delle attività decisionali ma piuttosto di un modo di organizzare che vincola e limita l’esercizio del potere, di un bilanciamento tra poteri e limiti giuridici, tra azione di governo e responsabilità. In altri termini, questi tre insieme di regole definiscono i vincoli (procedurali, sostanziali e territoriali) all’esercizio del
potere e alle attività del governo e, in quanto tali, ne costituiscono dei limiti di fatto [Tsebelis 2002].
Come direbbe Matteucci [1993], queste regole costituiscono delle «tecniche di libertà» (costituzionalismo), o come chiosa Sartori degli strumenti di «demo-protezione», cioè di salvaguardia dei cittadini contro i detentori del potere, fossero questi anche scelti democraticamente. Altrettanti modi di
sottoporre la politica al diritto [Panebianco 2004]. O, da un diverso punto di vista, per impedire al
governo di fare troppo male gli è impedito di fare troppo bene [McIlwain 1947].
La legittimità
Dalla lezione di Weber abbiamo appreso che ogni regime politico implica due elementi: il primo, un
insieme di apparati più o meno presenti a seconda del grado di strutturazione delle relazioni di dominio; il secondo, la legittimità necessaria affinché le forme di dominio si stabilizzino e durino nel
tempo. L’analisi dei regimi politici riguarda, quindi, sia le componenti strutturali (territorio, comunità, apparati coercitivi e amministrativi) che simboliche (principi, norme, credenze, valori, simboli). Quest’ultima, la faccia immateriale dei regimi, riguarda i processi e i modi attraverso i quali le
donne e gli uomini che costituiscono una comunità politica attribuiscono validità al regime stesso e
ne giustificano/accettano come meritevoli di essere obbedite le decisioni. Tutti aspetti che «non sol-
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tanto rappresentano il potere», dandogli magnificenza e rendendolo visibile, ma essi stessi «costituiscono parte del potere […]» [Reinhard 1999, trad. it. 2001, 91].
Oltre a Weber, autori come Jean-Jacques Rousseau, Gaetano Mosca, Guglielmo Ferrero e J. Ortega
y Gasset hanno colto la centralità della legittimità – e del relativo processo di legittimazione – nella
vita politica dei singoli e delle collettività. Come precisa Ferrero, la legittimità serve a «umanizzare
e addolcire» le relazioni tra gli individui e chi detiene il potere politico. Solo così il rapporto altrimenti terribile tra chi domina e chi viene dominato cessa di essere una mera imposizione, un corpetto ortopedico avrebbe detto Ortega y Gasset, per diventare un abito interiore – una seconda pelle.
Per Mosca la richiesta di legittimità corrisponde a un reale bisogno degli uomini di obbedire ai comandi non per mera forza ma sulla base di un qualche principio morale. Del resto, se le autorità (i
governanti) poggiano le loro pretese di dominio su principi morali riescono a conservare in maniera
più efficace l’egemonia sui subordinati. Resta, comunque, il fatto che la grande innovazione intellettuale di Weber è stata quella di cercare il fondamento della legittimità non tanto su un qualche tipo di evento oggettivo o forza esterna (famiglia, guerra, scambio, divinità) ma sull’«atteggiamento
del soggetto legittimante rispetto al potere da legittimare» [Weber 1922, trad. it. 1986, 85]. Nello
specifico, le motivazioni interiori che rendono il potere accettabile per Weber sono rispettivamente:
le credenze nelle doti straordinarie e nei poteri sovraumani del leader (legittimità carismatica); nella
sacralità della tradizione e nella deferenza verso gli interpreti autorizzati (legittimità tradizionale);
infine, nella correttezza delle procedure formali e delle norme che regolano in modo impersonale
l’accesso ai ruoli di autorità, e nelle democrazie attraverso elezioni (legittimità popolare). In tutti
questi casi possiamo parlare più propriamente di potere legittimo o di autorità [Stoppino 2001].
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2. La prospettiva sistemica
Già agli inizi degli anni ‘40 due antropologi M. Fortes ed E.E. Evans-Pritchard curarono un volume
intitolato African political systems [1940]. Nell’introduzione i due studiosi affermavano senza mezzi termini che si erano «resi conto che le teorie dei filosofi politici (potremmo aggiungere anche i
giuristi) non erano state d’aiuto per capire le società che avevano studiato» [cit. in Lewellen 1983,
trad. it. 1987, 10]. Per cogliere il funzionamento e lo sviluppo della politica nel continente africano,
nonostante il peso del passato coloniale o forse proprio per questo, non aveva molto senso riferirsi a
concetti altamente specifici come istituzione, costituzione o Stato, tutti per altro connotati da una
valenza etnocentrica. Piuttosto, sembrava più utile guardare alle società come un insieme di reti di
relazioni e di interdipendenze tra elementi, così che un cambiamento in una qualunque punto (o parte) si sarebbe inevitabilmente ripercosso su tutto il resto (il sistema). Per di più tali acquisizioni non
avevano fondamento solo in contesti esotici, ma anche nelle società industriali e modernizzate era
riscontrabile un’ampia serie di fenomeni e attività politiche che non erano più riconducibili alle istituzioni statali. Basti pensare alla partecipazione politica non convenzionale, all’attivarsi di movimenti di protesta, all’attività sovente informale (e talvolta illegale) di gruppi di interesse, alla stessa
azione dei partiti politici volta a integrare-rappresentare la società e a controllare le istituzioni pubbliche. Per non parlare del sistema delle relazioni internazionali, ovvero dei rapporti tra stati. Così,
il concetto di sistema politico finiva per dare alle relazioni molteplici tra elementi (strutture, attori)
politici ovunque queste fossero presenti e si sviluppassero, anche al di fuori dello Stato e delle costituzioni formali.
In scienza politica la prospettiva sistemica sarebbe diventata celebre agli inizi degli anni Cinquanta
grazie a David Easton che in quegli anni diede alle stampe il volume intitolato, appunto, The political system [1953]. A questo primo contributo lo studioso americano avrebbe fatto seguire altri tre
volumi, due dei quali sarebbero apparsi negli anni Sessanta mentre l’ultimo sarebbe stato pubblicato
ben un trentennio dopo, negli anni Novanta. In un contesto adesso molto diverso, in cui la stella
dell’approccio sistemico era oramai tramontata1, anche se restavano dei segni dei suoi fasti nell’uso
diffuso di concetti e termini da esso derivati: primo fra tutti la stessa locuzione «sistema politico»
[↑1].
Per capire lo sviluppo dell’approccio sistemico specie nella versione americana vanno ricordati, oltre a quello di Easton, altri due importanti contributi quello di Karl W. Deutsch [1963] influenzato
dagli sviluppi della scienza dell’informazione e della cibernetica e quello di G. Almond e G. B. Po-
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I tre volumi sono rispettivamente A framewok for political analysis del 1965 (e tradotto in italiano nel 1984), A system
analysis of political life sempre del 1965 e The analysis of political structure del 1990 (tradotto in italiano nel 2001).
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well [1966] influenzato dalla teoria sociologica di Talcott Parsons2 [↑2]. Di seguito, proveremo a
presentare alcuni dei profili più significativi di tale approccio, mentre per un quadro più comprensivo rinviamo a Sola [1996] e Panebianco [1989]. Per Easton «l’idea di un sistema politico si rivela
un punto di partenza appropriato e anzi inevitabile» [1953, trad. it. 1963, 86] di una scienza politica
empirica. Dal che consegue la messa a fuoco di alcuni punti teorici e metodologici per nulla scontati
a quel tempo. Molto difficilmente la politica si può separare di netto dagli altri aspetti della vita sociale (parentela, religione, economia, rapporti informali, ecc.). In questo modo la sfera del politico
non si risolveva più nella poderosa costruzione giuridica rappresentata dallo Stato: «al massimo il
concetto di stato [in minuscolo nel testo originario] è di solito niente di più che un esempio di un
particolare tipo di fenomeno politico» [ivi]. Certo continua a essere un’istituzione importante, specie in Occidente e in Europa, ma è pur sempre storicamente condizionata. In passato sono esistite
società senza Stato e verosimilmente ciò si potrà verificare nuovamente in un futuro più o meno remoto. Certo, si potrebbe chiosare, che la definizione di politica di Easton, con la sua enfasi sul carattere autoritativo o imperativo, del processo politico [↑1] conserva un attributo cruciale dello Stato, a rendere politico un certo fatto o atto è infatti la sua relazione con la «destinazione [o distribuzione] imperativa dei valori per una società» [ibidem, 119]. Ma, come si è detto, ciò che contraddistingue in ultima analisi la nozione di sistema politico è la sua natura interattiva, processuale, aperta
rispetto ai rapporti con l’ambiente piuttosto che la sua stabilizzazione e istituzionalizzazione (due
caratteri questi tipici, invece, del concetto di regime politico).
La dinamica del sistema politico. Prendiamo come punto di partenza la fig. 1 dove abbiamo tracciato una versione semplificata del sistema politico di Easton [ibidem, 281]. Un primo aspetto da sottolineare è l’esistenza di un regolare scambio o relazione tra il sistema – concettualizzato come una
scatola nera o black-box – e il suo ambiente di riferimento. Lo studioso spiega che l’ambiente di un
sistema ha natura plurale, può essere biologico, geografico, sociale o internazionale (cioè fatto da
altri sistemi politici). Da tutti questi ambienti il sistema politico riceve pressioni, shock e in senso
più neutro input ai quali deve cercare di rispondere se vuole adattarsi e sopravvivere. Il che avviene
attraverso la produzione di output (o decisioni) vincolanti.
FIGURA 1 CIRCA QUI
Gli input (le immissioni) che arrivano dall’ambiente sono di due tipi. Innanzi tutto, abbiamo le domande, che sono delle rivendicazioni o richieste di assegnazioni imperative di beni e valori. In questo senso, quella che chiamiamo politicizzazione di una domanda, conflitto, bisogno o quant’altro
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Di questo lavoro gli autori hanno pubblicato una seconda edizione, ampiamente rivista, alla fine degli anni Settanta e
tradotta in italiano dieci anni dopo [Almond e Powell 1978, trad. it. 1988].
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consiste nel fatto che attorno a specifici temi (issues) è maturata la consapevolezza della necessità
di una soluzione imperativa. Tuttavia, è bene ricordare che la funzione di espressione o di immissione delle domande nel sistema non è né scontata, né automatica. In ogni sistema esistono varie unità di input che assolvono tale funzione di «trasmissione delle domande» come le burocrazie, i partiti politici, i sindacati, i gruppi di interesse, l’opinione pubblica, i rapporti personali e finanche familiari. D’altra parte, per poter processare e rispondere alle rivendicazioni che ricevono, i sistemi
politici hanno bisogno di sostegni, vale a dire di “energia” che consenta al sistema di funzionare. Si
tratta di apporti che hanno carattere materiale ma che sono anche associati all’obbedienza che individui e gruppi devono alle decisioni politiche. Tale sostegno può essere di due tipi, sostegno specifico, quando la conformità alle decisioni è il frutto dei benefici e delle convenienze che più o meno
direttamente ci si aspetta di ricavare dalle politiche pubbliche (per es., un aumento delle pensioni
potrebbe produrre un maggiore consenso per il sistema da parte dei pensionati), o un sostegno diffuso, che funziona come una forma di accumulazione originaria di credito e quindi di legittimità, per
cui indipendentemente dalla natura delle decisioni (spesso anche negative come un aumento delle
tasse) i cittadini sentono il dovere morale o civico di accettarne le conseguenze e, quindi, si conformano.
Comunque sia, dietro il binomio domande-risposte sembra operare una logica molto simile a quella
dei mercati competitivi in cui i consumatori-cittadini avanzano richieste e gli imprenditori-politici
provvedono a soddisfarle. In verità, già Easton aveva fatto notare che esiste una famiglie di domande, chiamate within-inputs (o intra-immissioni), che provengono dall’interno dello stesso sistema e
che arrivano direttamente dai leader, partiti e istituzioni. Cosa sono le norme sul finanziamento dei
partiti, o sulle prerogative ed emolumenti dei parlamentari, o sulla stessa leggere elettorale e la selezione della classe politica se non richieste dove si assiste ad una piena identificazione tra decisori e
destinatari delle decisioni? Il che spiega perché in questi ambiti è piuttosto difficile realizzare delle
riforme. Del resto, se le intra-immissioni diventano eccessive aumenta il rischio di autoreferenzialità della classe politica, che finisce per comportarsi come una casta di privilegiati.
Sulla scorta di quanto si è detto fin qui, si potrebbe pensare che un sistema politico sia una «macchina banale», ovvero che la sua dinamica sia riducibile al rapporto input-output (domanderisposte). Sappiamo che non è così. Innanzi tutto, non tutte le domande riescono ad accedere al sistema, la trasmissione delle domande e la loro immissione è regolata da alcuni meccanismi di filtraggio, selezione e composizione noti come gate-keepers (letteralmente “portieri”), indicati attraverso l’area in grigio nella fig. 1. Tali meccanismi manipolano le domande, bloccano quelle pericolose o innovative, ne riducono il volume quando cresce oltre le capacità di risposta del sistema e,
quindi, controllano il rischio di sovraccarico (overload) che caratterizza i sistemi politici, specie se
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democratici. Si potrebbe sostenere, con una certa dose di semplificazione, che i sistemi democratici
presentano domande facili e risposte difficili, qui è relativamente agevole associarsi, manifestare il
proprio dissenso, protestare, cercare di influenzare l’opinione pubblica e, quindi, i decisori. Tuttavia, il processo politico democratico diventa più complicato in fase di risposta, di formulazione delle
politiche, non fosse altro per la limitatezza delle risorse o per i vincoli che spesso le autorità incontrano quando devono assumere delle scelte pubbliche. Per contro, i sistemi autoritari hanno risposte
facili, perché imposte autoritariamente dal leader o della sua coalizione dominante e senza badare
alle reazioni dal basso, per altro, facilmente represse – sia detto per inciso, è per questa ragione che
spesso i regimi autoritari sembrano essere più efficaci delle democrazie in fatto di produzione e attuazione delle politiche pubbliche – e domande difficili, poiché non c’è pluralismo e libertà di opinione che permettono ai cittadini di esprime le loro preferenze e di contestare apertamente i governanti e le loro scelte.
Conversione e funzioni di processo. Lo schema riportato nella fig. 1 ci ricorda che la dinamica di un
sistema politico implica una relazione tra domande  conversione  risposte con il relativo feedback, cioè l’effetto ritorno per cui le risposte inevitabilmente finiscono per incidere sulle condizioni
che hanno alimentato le domande, per esempio tacitandole, spostando l’interesse dei cittadini e delle stesse unità di input (i partiti, per esempio, raggiunto un certo obiettivo si possono dedicare ad altro), favorendone una radicalizzazione quando non sono prese in considerazione o lo sono solo in
maniera apparente (politiche simboliche) – in questo caso, spesso, le politiche finiscono per alimentare un circuito vizioso che porta alla radicalizzazione del processo politico.
Il richiamo di questa sequenza pone il problema di cosa accade dentro la black-box, vale a dire nella
fase di conversione delle domande in risposte e rispetto alla quale il modello di Easton ci dice poco.
Per fare chiarezza sul processo sistemico occorre rivolgersi ad altri studiosi. Una delle prime risposte a questo problema arriva dalla proposta di articolare il processo politico in sette stadi o funzioni
elaborata da Harold Laswell [1956]: informazione, iniziativa, prescrizione, invocazione, applicazione, valutazione, terminazione. Si tratta di un contributo che, per quanto riflette l’analisi dei procedimenti giuridici (come si ricava anche dai termini usati), tenta di superare l’impostazione formalistica centrata sull’articolazione anacronistica delle funzioni legislativa, esecutiva e giudiziaria. Qui
invece ci soffermiamo sul lavoro di Almond e Powell [1960; e soprattutto 1966], nel quale il processo di conversione viene spacchettato in quattro funzioni che a loro volta delimitano altrettanti fasi o sub-processi del sistema politico (fig. 2).
- Articolazione degli interessi. Il processo politico è messo in moto quando gruppi o individui formulano una “domanda” politica che ha a che fare con i loro interessi, bisogni, preoccupazioni e la
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indirizzano al sistema politico. L’analisi dell’articolazione degli interessi e della trasmissione della
domanda richiede la ricostruzione di due aspetti: 1) le caratteristiche delle strutture politiche coinvolte, a partire dalla distinzione tra strutture a-specifiche (partiti, burocrazie, militari, cricche al potere) e specializzate quali i gruppi di interesse; 2) i diversi canali di accesso al sistema politico (legali e illegali). Sui gruppi di interesse e sulla loro classificazione ritorneremo [↓9].
- Aggregazione degli interessi. Ogni sistema politico deve in qualche modo cercare di aggregare le
domante che riceve. L’aggregazione implica la formulazione di programmi e di politiche generali
attraverso le quali gli interessi vengono presi in considerazione, sono combinati, resi coerenti e armonizzati. L’espletamento di tale funzione richiede la mobilitazione di risorse politiche (voti, maggioranze parlamentari, consenso dei gruppi di interesse e delle burocrazia, ricorso o minaccia di ricorso alla forza) e, quindi, la costruzione di coalizioni a sostegno dell’aggregazione. Centrali
nell’espletamento di questa funzione sono i partiti politici e i sistemi di partito tanto competitivi (o
democratici) quanto non competitivi (o autoritari). Nello specifico esistono tre stili di aggregazione
che corrispondevano ad altrettanti tipi di partito: 1) la negoziazione, compromessi e flessibilità (partiti pragmatici); 2) il riferimento a valori assoluti e l’affermazioni di principi rigidi (partiti ideologici); 3) la tradizione con la rappresentanza di interessi settoriali o territoriali (partiti particolaristici).
- Formulazione delle politiche pubbliche o «produzione delle norme». Il policy-making per i due
studiosi è, innanzi tutto, l’esito di processi antecedenti (che stanno a monte) quali il reclutamento
delle élite, l’articolazione e l’aggregazione degli interessi, e, in secondo luogo, delle caratteristica
delle “regole decisionali” o “regole del gioco” (leggi elettorali, forma di governo, ruolo e poteri delle istituzioni di garanzia tutte cose che rientrano nella definizione del regime) – si veda il par. 2. In
questa fase le domande vengono propriamente convertite in decisioni dotate di autorità e ciò implica
la mobilitazione del consenso (quanto meno della maggioranza e dell’opinione pubblica) e il paziente lavoro di costruzione di coalizioni attorno a particolari temi o policy (per esempio,
dell’ambiente, del welfare, delle relazioni internazionali). Tuttavia, a differenza di Easton che resta
nel vago, Almond e Powell entrano nello specifico individuando quattro categorie di output o politiche pubbliche – elaborando in questo modo una classificazione destinata a duratura fortuna – di un
sistema politico: 1) estrattivi, appropriazione di risorse di qualche tipo proveniente dall’ambiente
esterno (società o altri sistemi politici) bottino e spoliazione, tassazione, ma anche nella forma di
servizi obbligatori (servizio militare, giurie di cittadini); 2) regolativi, controllo-sanzione dei comportamenti di individui e gruppi nella società; 3) distributivi, allocazione a individui e gruppi, su basi universali o particolaristiche, di denaro, beni materiali, servizi, cariche pubbliche, onori, status e
opportunità; 4) simbolici, volti a rafforzare la legittimità del sistema politico e le identificazioni dei
cittadini, comprendono discorsi politici, rituali e cerimonie, feste civili, iconografia politica ecc..
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Non va dimenticato, poi, che le politiche o output sono anche il prodotto della creatività e delle capacità di innovazione dei leader. In questo senso, si può convenire che «la politica non è un processo fissato, calcolabile e casuale», ma è proprio compito della leadership quello di «far muovere il
sistema politico verso direzioni nuove» [ivi, 356-357].
- Esecuzione e amministrazione giudiziaria delle politiche. Una volta formulate le politiche devono
essere attuate il che avviene di norma seguendo due canali diversi, da un lato, quello burocratico, il
che implica l’applicazione e messa in opera delle decisioni da parte delle burocrazie pubbliche;
dall’altro, quello giudiziario che ha a che fare con la funzione di amministrazione della giustizia e di
regolazione dei conflitti ad opera della magistratura. In entrambi i casi, tanto sotto il profilo normativo che empirico, si pongono dei delicati problemi circa la natura del rapporto tra la burocrazia/magistratura e la politica. Anzi la prospettiva sistemica vede (e non potrebbe fare diversamente) il
rapporto tra questi attori non in termini dicotomici (la politica decide e l’amministrazione comunque esegue) ma come un continuo in cui prevalgono interdipendenze e invasioni di campo. In sostanza, né le burocrazie pubbliche né tantomeno le magistrature possono essere viste come semplici
«bocche della legge». Dalla contingenza di questi rapporti derivano due rischi patologici per qualunque sistema politico, specie se democratico: la politicizzazione (o partitizzazione) della burocrazia e dei giudici e, per converso, la burocratizzazione e giudizializzazione della politica.
Infine, alle funzioni relative al processo politico, Almond e Powell ne aggiungono altre tre a carattere sistemico, poiché necessarie alla stessa sopravvivenza del sistema politico. La funzione di reclutamento del personale politico e amministrativo nelle diverse strutture (le “autorità” di Easton), la
funzione di socializzazione nei ruoli connessa alla interiorizzazione dei valori di riferimento e la
funzione di comunicazione trasversale alle altre. Resta, comunque, il fatto che in tutti i sistemi politici o regimi, indipendentemente dal loro livello di sviluppo, vengono svolto le stesse funzioni, sia
pure con frequenza diversa e da strutture politiche distinte; inoltre, tutte le strutture politiche, non
importa quanto specializzate, sono multifunzionali, cioè possono svolgere più funzioni [Almond
1960].
FIGURA 2 CIRCA QUI
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3. Lo Stato
Nel corso della storia del genere umano, a partire dalla rivoluzione neolitica 10-15 mila anni fa, si
sono susseguite una amplissima varietà di regimi politici. Tuttavia, è possibile ricondurre tale ricchezza empirica ad alcuni specifici tipi. Una celebre classificazione antropologica al riguardo [Lewellen 1983; di recente ripresa da Diamond 2005] distingue i regimi del passato in «sistemi non
centralizzati», a loro volta divisi in bande e tribù, e «sistemi centralizzati» comprendenti il regime
dei capi, meglio noto con il termine francese come chefferie, e Stati veri e propri. Con l’avvertenza,
in questo ultimo caso, che gli «Stati originari» o primigeni, non caratterizzano soltanto l’Europa
post-medievale ma sono parimenti riscontrabili in altre regioni del mondo e in epoche più antiche –
si pensi alla Mesopotamia, Egitto, Cina, India, Perù e Mesoamerica. Da parte nostra, non intendiamo riproporre un dibattito annoso, anche se suggestivo, sulla unicità dello Stato europeo. Ci interessa invece rimarcare come, indipendentemente da ogni altra considerazione, lo Stato – che siamo soliti accompagnare con la qualificazione di moderno – come lo conosciamo in Europa costituisce solo una delle possibile forme di regime politico.
Prima di procedere oltre è opportuno attardarci su una questione lessicale non secondaria. É noto
che si deve a Machiavelli, già nell’incipit de Il Principe (1513), il merito di aver fissato e volgarizzato il significato moderno della parola Stato. Inoltre, come sottolinea Gianfranco Poggi [2008,
trad. it. 2013, 40], per quanto sia possibile e legittimo applicare l’espressione Stato «alle polity che
erano esistite in contesti pre-moderni» – e, quindi, anche ad alcune se non tutte i tipi di ordinamento
riportati in precedenza, è euristicamente corretto assumere che il termine Stato sia «più appropriatamente usato per designare le polity caratteristiche dell’ambiente politico moderno, il quale venne
alla luce in Europa occidentale alla fine del Medioevo, approssimativamente tra il XIII e il XV secolo» [ibidem]. Se tale posizione venisse portata alle estreme conseguenze verrebbe meno la stessa
possibilità di comparare regimi politici diverso nel tempo e nello spazio. Lo Stato occidentale costituirebbe una entità semplicemente incommensurabile a qualunque altra. Resta, poi, il fatto che a
partire da quella culla (europea e occidentale) il nostro oggetto si sarebbe “globalizzato”, cioè propagato nel resto del mondo. In questo senso le due espressioni di “Stato” e “Stato moderno” sono
equivalenti. Da parte sua Samuel Finer [1990, 3] afferma che «contrariamente a quanti molti ritengono, l’Europa non ha inventato lo Stato. L’Europa lo ha reinventato dopo un lungo periodo in cui
al crollo [dell’Impero romano] era seguita una condizione di quasi anarchia e successivamente di
feudalesimo. [E,] tuttavia, quello che essa reinventò era per molti rispetti diverso da qualunque altra
forma-stato che fosse apparsa nel mondo in precedenza e nella stessa epoca. Questa forma-stato è
diventata adesso l’unità fondamentale di tutto il mondo». Al di là delle apparenze, però, in questa
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affermazione prevale l’idea della comparabilità tra regimi politici e la necessità di andare alla ricerca dei tratti invarianti e regolari delle strutture politiche.
Ad ogni modo, le nostre società sono in gran parte inconcepibili se non si tiene conto del fatto che si
sono strutturate come Stati o, meglio, Stati-nazione o Stati nazionali (espressione che qui consideriamo come sinonimi). Del resto, quando parliamo di società “francese”, “americana”, “tedesca” o
altro, in effetti stiamo parlando di «società di Stato, ordine della società significa ordine dello Stato»
[Beck 1997, trad. it. 1999, 42]. Da qui la tesi dello Stato come container [ivi], un contenitore del
complesso delle relazioni sociali, economiche e culturali che si svolgono in un dato territorio.
D’altra parte, molti autori hanno visto nello Stato una potente e macroscopica forza di civilizzazione della società (quella europea in primo luogo ma non solo basti pensare alla Cina) e di strutturazione della stessa mentalità degli individui [Ellias 1969; Maravall 1972; da ultimo Di Donato 2010].
Insomma, per svariate ragioni, non possiamo disinteressarci dello Stato, seguiamone quindi le vicende con l’aiuto della tav. 1 dove ne abbiamo riportato le principali fasi di sviluppo.
La formazione dello Stato territoriale. Proviamo a chiederci, quindi, che tipo di regime è lo Stato
moderno? Rispondere a tale quesito richiede, in primo luogo, di discernere gli elementi definitori o
fondamentali, che delineano il «ritratto ristretto» dello Stato, dagli elementi accessori che restituiscono invece una immagine più generale [Poggi 1991; Matteucci 1993; Finer 1997]. I tratti necessari senza i quali non si dà regime-Stato sono: 1) il weberiano monopolio della violenza legittima; 2)
la territorialità, che riguarda il processo di costruzione dei confini entro i quali ha effettività il controllo della coercizione; 3) la sovranità, un attributo che Poggi definisce «alquanto misterioso e altamente controverso», che implica di «non riconoscere alcun potere superiore a se stesso» [ivi, 4142]; 4) i rapporti con la popolazione che attengono al grado di partecipazione dei cittadini/sudditi e
alla capacità di rispondere (anche selettivamente) ai loro bisogni; e, infine, 5) un ambiente costituito
da una pluralità di Stati sovrani indipendenti, con la conseguenza che l’ordine internazionale o meglio inter-statale si presenta fin dall’origine come non regolato, né regolabile poiché si sviluppa
«all’ombra della guerra» [Aron 1992]. L’unico fattore di ordine sulla ribalta internazionale non poteva che essere l’equilibrio di potenza, ovvero il bilanciamento delle forze tra i diversi stati – come
nell’Europa post pace di Westfalia 1648, nella Grecia classica prima della conquista macedone e in
alcune fasi “anarchiche” della storia della Cina.
Tutti questi caratteri sarebbero, comunque, stati acquisiti già nel corso delle prime fasi del processo
storico di «costruzione dello Stato» (State-building), fase che Poggi [1996] definisce di «consolidamento territoriale» (tra il XIII e il XV secolo) (Tabella 1). Tale espressione, però, comporta anche
qualcosa di più oltre all’acquisizione dei tratti originari in precedenza enumerati. Da un lato, riguar-
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da la neutralizzazione e sottomissione dei «contropoteri» costituiti dalla chiesa, dai nobili e dal sistema cetuale, dalle città autonome e dalle magistrature indipendenti dal sovrano [Reinhard 1999].
Dall’altro, ciò che il sociologo Heinrich Popitz [1986, trad. it. 2001, 206-207] definisce la «nascita
di strutture posizionali di dominio (o apparati di dominio) che si formano attorno alla posizione centrale di un signore». Tali apparati – ritorna qui il tema weberiano – hanno a che fare prima di tutto
con la costruzione di apparati amministrativi al servizio del sovrano.
Per Immanuel Wallerstein [1974], il rafforzamento del potere dei sovrani a partire dal XVI secolo è
frutto principalmente di quattro strumenti: la burocratizzazione, vale a dire la formazioni di un corpo di funzionari amministrativi, di origine sociale modesta, retribuiti, al servizio del re a tempo pieno e che all’inizio compravano le cariche pubbliche (venalità degli uffici); la creazione di eserciti
permanenti, anche se nelle prime fasi si trattava ancora una volta di eserciti mercenari, sostenuti economicamente dal prelievo fiscale – il riferimento è al circuito estrattivo-coercitivo di cui parla Finer [1990]; la legittimazione dei nuovi organismi politici e istituzionali, un processo che riguardava
le masse, le élite e i quadri del nuovo Stato che sviluppavano la credenza che la nascita e il funzionamento dello Stato si basasse su valori comuni; infine l’omogeneizzazione culturale dei sudditi,
ovvero il tentativo più o meno riuscito di rendere la popolazione, o comunità politica, un gruppo
culturalmente affine, soprattutto, per religione (si pensi, per restare all’Europa, al rapporto tra ebrei
e cristiani o a quello tra cattolici e protestanti) ma anche per lingua, etnia, ecc.. – tale processo sarebbe stato alla base della successiva costruzione delle nazioni.
TABELLA 1 CIRCA QUI
Tutti e quattro questi processi, che il sociologo americano considera alla stregue di altrettanti
strumenti politici in mano ai sovrani per consolidare il loro dominio territoriale, hanno a che fare
con lo sviluppo di apparti e di personale amministrativo servente. Tali caratteristiche sono più esplicite nel caso della formazioni degli eserciti stabili e delle burocrazie pubbliche (a partire da quelle
preposte alla riscossione delle tasse), ma valgono anche per gli altri due aspetti o processi che riguardano la dimensione culturale e «ideologica» delle monarchie territoriali – palazzi, coorti, cerimonie, spettacoli – che coinvolgono risorse, strutture, personale, ecc. A tal proposito va ricordato
che la costruzione dello stato moderno non è solo un’impresa militare e amministrativa, ma ha a che
fare anche con «il distacco dell’ordinamento politico, come tale, dalla sua destinazione e caratterizzazione religioso-spirituale» [Böckenförde 1967]. In altri termini la formazione dello Stato produsse
una formidabile spinta alla secolarizzazione della società, alla sostituzione della legittimazione trascendente e spirituale dei regimi politici con una legittimazione immanente e funzionale (con i propri riti e liturgie e chierici). Nel corso del tempo, lo stesso Stato sarebbe stato oggetto di sacralizzazione – nel XX, con l’avvento del nazifascismo e dello stalinismo, secolo diventando totalitario.
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La formazione degli apparati amministrativi specializzati non si esaurisce ovviamente in questa
prima e lunga fase, ma caratterizza anche la seconda fase di sviluppo dello Stato, che Poggi chiama
di razionalizzazione del dominio. Questa costituisce un macro-processo che ha avuto inizio grosso
modo nello stesso periodo in cui si sono fissati gli aspetti militari dello Stato moderno, per inoltrarsi
molto oltre fino al XIX e ai primi anni del XX secolo. In definitiva, riguarda «non la portata geografica del dominio, ma la natura delle pratiche tramite le quali esso è esercitato e degli assetti che
presiedono all’accumulazione e all’impiego del potere politico» [ivi, 360]. È, proprio, nel corso di
questa fase che si definiscono pienamente l’insieme di elementi accessori di cui si diceva in precedenza che vanno, a voler semplificare drasticamente, dalla razionalità tecnica della burocrazia, alla
giuridicizzazione o sottoposizione al diritto dell’azione statale. Miliari, burocrati e magistrati sono
in questo processo i principali alleati del sovrano, ma allo stesso possono anche tramutarsi in avversari nella lotta per il potere e il privilegio [Tilly 1975; Damaska 1986; Finer 1997]. D’altra parte, sul
versante esterno dell’impatto sulla società, lo Stato moderno crea le condizioni che avrebbero consentito la formazione e lo sviluppo delle istituzioni economiche competitive ed efficaci (mercato) in
grado di alimentare la ricchezza delle comunità assicurando la garanzia della legge e dell’ordine
pubblico, il rispetto dei diritti di proprietà e dei contratti, la costruzione di infrastrutture (opere pubbliche) e di servizi pubblici [Acemoglu e Robinson 2009].
Grazie alla saturazione amministrativa dei territori, alla razionalizzazione della istituzioni statali, e
alla diffusione della loro legittimazione il processo di istituzionalizzazione del potere monarchico
raggiunse l’apice. In questo modo si assistette alla «trasformazione del dominio centralizzato in pratica quotidiana» [Popitz 1986, trad. it. 2001, 210], di fatto, ciò comportò un triplice e convergente
processo – implicito nella nozione di razionalizzazione del dominio – la spersonalizzazione, cioè la
separazione delle cariche pubbliche dalla personalità di chi le ricopre; la formalizzazione, la standardizzazione delle attività e delle decisioni statali in base alla preminenza della legge e dei regolamenti, mentre l’ordinamento delle posizioni amministrative (uffici) viene contraddistinto dalla gerarchia e dalla specializzazione delle funzioni; l’integrazione dei diversi tipi di rapporti sociali e tipi
di potere (economico e culturale) sotto la primazia del potere politico, ovvero la coincidenza territoriale dei confini di differenti tipi di istituzioni (mercato, comunità nazionale, apparati coercitivi e
amministrativi) come base della legittimità politica.
Secondo Stefano Bartolini [1998; 2000] è proprio questa particolare idea di integrazione che differenzia lo Stato moderno europeo, da qualunque altro tipo di regime politico che lo ha preceduto. Da
questo punto di vista la costruzione dello Stato moderno si può interpretare come un poderoso processo di sovrapposizione di confini o, se si preferisce, come un innalzamento dei costi di exit (di uscita) degli individui e gruppi dallo Stato. Al contrario, oltrepassare i confini di uno dei tanti Stati
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europei significava entrare in un nuovo universo, dove si è sottoposti a nuove istituzioni regolative,
si entra in contatto con differenti mercati ed economie e nuove comunità culturali, dove esistono distinti modi per assicurare un certo benessere agli individui o gruppi.
La costruzione della nazione e la democratizzazione fondamentale. Gli aspetti e le dinamiche che
caratterizzano le prime due fasi di sviluppo dello Stato – consolidamento e razionalizzazione – avrebbero avuto ulteriori e significativi sviluppi nella terza fase che Poggi chiama di espansione e
che riguarda l’interdipendenza tra la formazione del sentimento nazionale, la diffusione della democrazia e la comparsa dello Stato del benessere specie in Europa. Per quanto questa terza fase sia più
circoscritta rispetto alle precedenti – si potrebbe farla iniziare con la fine del XVIII e la metà del
XIX secolo per farla terminare, con qualche approssimazione, con la metà del secolo successivo – è
quella che ha dato la maggiore impronta al panorama politico contemporaneo. Tuttavia, proprio in
questo terzo stadio sarebbero emerse alcune criticità di sviluppo, magari come esiti non previsti delle grandi trasformazioni descritte nelle fasi precedenti. Ci si riferisce principalmente alle discontinuità introdotte nella coerenza degli assetti di potere della società “tradizionale” dalle «prime democratizzazioni» [Dahl 1973] e dall’allargamento del perimetro della cittadinanza [Marshall 1963].
Né va dimenticato che anche dal punto di vista delle funzioni pubbliche, gran parte del Novecento,
è caratterizzato dalla «massiccia espansione e diversificazione [dello Stato e] dei suoi compiti che si
manifesta anche in una imponente crescita, e aumento della complessità, della sua organizzazione»
[Poggi 1996, 360]. Come vedremo [↓4] tale crescita ha assunto sia forme antagoniste, innanzi tutto,
ci si riferisce alla comparsa dei regimi totalitari di destra (nazifascismo) e di sinistra (comunismo),
ma anche all’insieme di mutamenti qualitativi e quantitativi delle strutture e delle funzioni dello
Stato democratico [Dente 2004]. Per di più tali mutamenti avrebbero gettato i semi della successiva
crisi dello Stato nazionale sulla quale ci soffermeremo nel par. conclusivo [↓].
La storia politica dell’Europa successiva all’età delle rivoluzioni liberali (XVII-XVIII secolo), secondo una ricostruzione di maniera, può essere compendiata nel progressivo ampliamento delle
chance di partecipazione alla vita politica di gruppi sociali e classi prima escluse. Quella che è stata
chiamata «la seconda venuta della democrazia» [Dun 2005, trad. it. 2006, 70] dopo l’esperienza originaria greca IV-V secolo a.c., presuppone dei processi di lunga durata che hanno reso gli individui politicamente attivi, trasformandoli da sudditi in cittadini. In realtà, il processo che avrebbe
condotto alle prime democratizzazioni si sovrappone e si intreccia, specialmente in Francia e
nell’Europa continentale, con il processo di «costruzione della nazione». In fondo ha ragione Finer
[1990, 17] quando distinguendo tra Stato nazionale e Stato-nazione, definisce questo ultimo come
«uno stato nazionale, certo, ma in cui è la nazione (per definizione identica al “popolo”) a controlla-
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re e possedere lo stato e non una qualche dinastia, aristocrazia, un conquistatore o il clero». In fondo, quando Sieyes si chiedeva Che cos’è il Terzo stato? (1789) intendeva reclamare la conquista
nazionale e democratica del governo.
Una lezione che si ricava dalla letteratura sui processi storici che condussero alle prime democratizzazioni è che i sentieri che conducono alle democrazie di massa o poliarchie come le avrebbe chiamate Robert Dahl [1973] sono molteplici e sovente lastricati da ostacoli e da tendenze
regressive. Una prospettiva che ha suscitato un certo interesse è quella di Charles Tilly [2007, trad.
it. 2009] che prende in esame i processi di democratizzazione e di de-democratizzazione in Europa
lungo l’arco temporale che va dal 1650 al 2000. Per Tilly la democrazia e la democratizzazione
consiste nell’instaurarsi di una relazione (orizzontale e aperta) tra autorità e cittadini che comporta
«uno spostamento complessivo verso una consultazione più ampia, uguale, protetta e vincolante»
[ivi, 33]. Le forme e i risultati di tale macro-processo dipendono, però, oltre che dal grado di contestazione o competizione (per usare due termini che ritroveremo in Dahl) o di «consultazione protetta» per ritornare a Tilly, anche dalle caratteristiche dei regimi pre-democratici e segnatamente dalla
«capacità dello Stato di mettere in pratica le decisioni politiche che assume» [ivi, 35] o, più semplicemente «capacità di governo». Ne consegue che se è vero che gli Stati forti sono di ostacolo alla
democratizzazione nel breve periodo, nel lungo periodo ne favoriscono l’avvento e la stabilità (è
stato il caso Norvegia e Giappone), per converso, gli Stati deboli possono ricevere dei contraccolpi
disgreganti dalla democratizzazione (Belgio) – si veda il par. 4.
Per Robert Dahl le democrazie di massa sono contraddistinte dalla capacità di «rispondere»
alle preferenze espresse dai cittadini considerati politicamente eguali. Storicamente questa capacità
è il frutto di due sub-processi. Il primo, è la liberalizzazione o libertà di contestazione, ci si riferisce
al grado in cui in un regime vengono effettivamente garantiti il diritto d’opposizione alle decisioni
del governo, la pubblica critica e la competizione aperta per il governo tra forze politiche diverse e
rilevanti. Ciò richiede il riconoscimento di quell’insieme di libertà personali, diritti civili e politici
che rientrano nella nozione di cittadinanza. Nella misura in cui questi diritti vengono estesi a porzioni sempre più ampie della popolazione, subentra il secondo processo che attiene, appunto, al
grado d’inclusività del regime o partecipazione, vale a dire l’estensione della proporzione di popolazione che è legalmente titolare dei diritti politici. Entrambi gli aspetti sono ricompresi all’interno
della dimensione della «consultazione protetta ed ampia» di Tilly, in Dahl invece resta implicito il
riferimento alla capacità di governo.
Comunque sia, l’incrocio tra queste due dimensioni teoriche della democratizzazione (liberalizzazione e incorporazione) consente a Dahl di tracciare una griglia analitica entro la quale collocare alcuni tipi puri di regimi politici (egemonie chiuse, egemonie inclusive, oligarchie competitive e po-
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liarchie) – è la cosiddetta «scatola di Dahl» riportata nella fig. 3. Così come i percorsi possibili che
conducono alla democrazia di massa o poliarchia. Per altro, il ricorso al materiale storico gli permette di discernere i sentieri virtuosi che conducono alle democrazie stabili. Come nel caso inglese
o delle democrazie del Nord Europa (Svezia, Danimarca, Norvegia), dove il riconoscimento dei diritti civili, di contestazione pubblica e d’opposizione, precede l’inclusione delle masse. In tutti questi casi, lo stato assolutista ha lasciato gradualmente la scena a regimi più aperti dove la competizione pubblica era riservata alle élite (le oligarchie competitive) e quindi a tutti i cittadini. In questo
nuovo quadro delle relazioni tra cittadini e sistema politico, le libertà personali avrebbe costituito
uno dei due pilastri del nuovo ordinamento statale, l’altro, era costituito dalle strutture della rappresentanza e dal diritto di voto [Ruffilli 1979; Poggi 1991; Matteucci 1993]. In questo modo, si sarebbero gettate le basi della cittadinanza (civile e politica) nel senso dato a questo termina da Marshall.
D’altro canto, esistono dei percorsi più rischiosi per arrivare alle democrazie di massa, che nei termini di Tilly avrebbero favorito delle inversioni di tendenza o de-democratizzazioni. Il primo fa riferimento alle caratteristiche di quei regimi dove la mobilitazione elettorale (inclusione) ha preceduto il costituzionalismo, cioè le il riconoscimento della contestazione e la legittimazione
dell’opposizione [Zakaria 2003]. In questi paesi si avvia un percorso di liberalizzazione ma questo o
è prematuro o le condizioni di contesto producono delle reazioni negative che comportano il crollo
delle deboli democrazia e l’instaurazione di un regime autoritario o totalitario. Il tragitto verso la
poliarchia è interrotto da parentesi anche piuttosto lunghe, come nel caso dell’Unione Sovietica, di
egemonia includente. L’altra possibilità densa di incognite e che alimenta l’instabilità del regime è
costituita dalla «scorciatoia» imboccata dalla Francia con la rivoluzione del ’89, dove la liberalizzazione e l’allargamento della partecipazione politica avvengono contestualmente. Un regime assolutista, egemonico e chiuso, crolla sotto i colpi di un evento rivoluzionario aprendo la strada, non solo
al riconoscimento dei diritti civili ma anche alla partecipazione politica delle masse.
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FIGURA 3 CIRCA QUI
In verità, nei processi più recenti di democratizzazione la scorciatoia francese avrebbe finito per costituire un percorso ricorrente, dal che si ricava che gli esiti delle neo-democratizzazioni sono
tutt’altro che scontati. In molti paesi sia dell’Est Europa che dell’America latina l’inclusione e
l’estensione dei diritti politici non sarebbe stata accompagnati da garanzie istituzionali effettive e
dalle condizioni materiali in grado di sostenere i diritti civili. Si è così parlato di «democrazie illiberali» o di «democrazie elettorali» [Zakaria 2003; Diamond 1999], dove si vota ma il pluralismo e le
altre libertà, a partire da quelle di informazione, sono pregiudicate [↓3]. Di più, nelle trasformazioni
democratiche più recenti è lo stesso rapporto tra Stato e nazionalità che entra in crisi e si complica,
come vedremo nel prossimo paragrafo.
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4. Trasformazioni e sfide dello Stato contemporaneo
Molti studiosi preferiscono etichettare la situazione in cui versano le istituzioni pubbliche oggi come una crisi dello Stato [Poggi 1996, 367 e ss.], per alcuni si tratterebbe di una vera e propria quarta
fase, anche se di crisi dello Stato si parlava già dai primi del Novecento – basti pensare alle riflessioni di un noto giurista italiano Santi Romano. Talvolta, si è anche parlato con una certa disinvoltura di «fine dello Stato» [Gamble 2000]. Per quanto ci riguarda muoviamo dalla constatazione che
questa nuova fase possa assumere non solo le forme familiari, per noi europei e occidentali,
dell’«eccesso dello Stato» ma anche quelle più esotiche della «carenza dello Stato» [Poggi 1996]. In
entrambi i casi, comunque, la sopravvivenza dello Stato deriverebbe tanto dalla sua legittimità che
dalla sua efficacia. Vale a dire, sia dalla base di giustificazione morale e dai principi che consentono
di accettare le sue decisioni, che dalla qualità delle sue perfomance nel risolvere i problemi collettivi e nel fornire beni pubblici agli individui e gruppi che vivono entro i suoi confini. Come ha evidenziato Seymour M. Lipset [1960] tra queste due componenti (efficacia e legittimità) della statualità c’è una stretta correlazione, onde l’efficacia può rafforzare o, in caso di ricorrenti performance
negative, può dissipare la legittimità dello Stato aprendo la strada alla dissoluzione del sistema e al
cambiamento del regime. Non ci resta, quindi, che soffermarci sui due tipi di crisi.
Crisi per eccesso di Stato.
I segnali che l’ambiente politico della modernità, così come lo abbiamo conosciuto negli ultimi cinque secoli, sia in rapido cambiamento sembrano evidenti. Come avverte uno storico, Wolfgang
Reinhard [1999, trad. it. 2001, 23-24], «lo Stato nella forma tramandata finora non viene più “creduto” – potrà prodursi un “nuovo Medioevo” del pluralismo politico?». Rispondere al quesito non è
semplice. Innanzi tutto, non va dimenticato che la forma più parossistica di eccesso dello Stato, come anticipato, ha riguardato la politicizzazione integrale della società civile ad opera dei «sistemi
totalitari». La crisi storica dei totalitarismi di destra, con la fine della seconda guerra mondiale, e di
sinistra, con il crollo del muro di Berlino, ha gettato le premesse per delle successive ondate di democratizzazioni. Qui, però, ci interessa soffermarci sulla situazione di ipertrofia dello Stato democratico che ha prodotto significative reazioni in tutte le democrazie occidentali nell’ultimo trentennio – a partire dalla cosiddetta rivolta fiscale. È in questo periodo che si comincia a parlare di ristrutturazione dello Stato [Clark 1995], allo scopo di affrontare le sfide e le trasformazioni che lo
hanno investito già dalla metà degli anni Settanta del secolo scorso. Da un diverso punto di vista, la
questione dell’eccesso dello Stato è stata affrontata sotto il tema della ingovernabilità, dei sistemi
politico-amministrativi [Crozier, Huntington Watanuki 1975; Rose 1984]. L’ingovernabilità è stata
vista, ora, come l’esito non intenzionale del pluralismo e della facilità di accesso dei gruppi sociali
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opportunistici alle sedi delle decisioni imperative – al fine di condizionarne il contenuto – in contesti democratici, ora, quale conseguenza del gigantismo dello Stato contemporaneo e della conseguente sovraccarico di funzioni.
Pertanto, la “debolezza” delle istituzioni statali per questi autori andava cercata rispettivamente, nelle conseguenze della scarsa autonomia dello Stato rispetto all’ambiente sociale o nel deficit di capacità amministrativa e fiscale frutto del moltiplicarsi senza tregua delle funzioni pubbliche [Donolo e
Fichera 1982; Nordlinger 1981; Sola 1996; Fukuyama 2005]. D’altra parte, lo sviluppo della globalizzazione economica e finanziaria, la crescente complessità dei problemi collettivi (basti pensare ai
temi ambientali e all’impatto delle scoperte della scienza e delle nuove tecnologie) e lo sviluppo ineguale e squilibrato a livello mondiale (con le conseguenze che alimenta in termini di migrazione
transnazionali e di rischi endemici di conflitti) sono questioni che assai difficilmente lo Stato è in
grado di fronteggiare con efficacia da solo. Bruno Dente [2004, 9] ha opportunamente messo in risalto come una delle prime conseguenze di questo nuovo scenario mondiale sia stata «la riduzione
della responsabilità politica» degli Stati il che si verifica in tre direzioni distinte ma convergenti negli esiti, comunque di indebolimento dello Stato così come lo abbiamo conosciuto:
a) quella della tecnocrazia, ovvero la devoluzione di poteri e responsabilità ad apparati ed istituzioni non elettive, sono le cosiddette «istituzioni non-maggioritarie» che decidono sulla base di criteri
tecnici e non politici (quanto meno non democratici) – Banche centrali, Istituzioni monetarie e finanziarie internazionali, Autorità indipendenti, ruolo delle burocrazie professionali;
b) quella della cosiddetta multi-level governance, le formazioni statali diventano semplicemente dei
nodi (o livelli) in una rete (o struttura) più ampia nella quale si sviluppano interdipendenze istituzionali tra entità sovra-statali (per es., Unione Europea, regimi internazionali) e sub-statali (per es.,
Stati membri di unità federali, Regioni, enti territoriali di vario tipo) volte a produrre politiche codecise;
c) quella della ri-mercificazione, per dirla con il sociologo Karl Polany, per cui sempre maggiori
servizi e funzioni vengono sottratti al controllo pubblico-statuale e devoluti al mercato attraverso le
privatizzazioni, ovvero si attenua semplicemente la regolazione pubblica di settori e ambiti di policy
prima considerati di interesse pubblico attraverso le liberalizzazioni, o ancora si assiste
all’inserimento di logiche di mercato nello stesso funzionamento delle burocrazie pubbliche al fine
di accrescerne la produttività, il che ci spingerebbe a parlare, più in generale, di aziendalizzazione.
Lo Stato contemporaneo, quindi, cambia pelle per garantirsi margini di adattabilità e sopravvivenza,
più che riflettere un mero declino passivo.
Crisi per carenza di Stato.
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Di tutt’altro tenore è la questione della carenza dello Stato. Il problema del deficit di statualità non è
certo nuovo, nel senso che riguarda solo, o prevalentemente, le forme di statualità venute fuori dai
processi di decolonizzazione, dalla dissoluzione dell’impero sovietico post-1989, dalle ondate di
transizioni democratiche in aree geografiche sempre più lontane dall’Europa e, per finire, dagli stessi processi di globalizzazione. In verità, quando affrontiamo tale argomento ci imbattiamo in un topos classico della filosofia politica moderna. Per Thomas Hobbes, la cui opera più importante il Leviatano è del 1651, «la ragione principale per cui i sudditi possono considerarsi sciolti dall’obbligo
di obbedienza al sovrano è la sua inettitudine al comando e di conseguenza l’incapacità di assolvere
al dovere fondamentale che è quello di proteggerli dai danni che ognuno può procurare all’altro e da
quello che possono provenire dagli altri» [Bobbio 1984, 23]. Nei nostri termini, Hobbes ci avverte
della rilevanza del problema di uno Stato contraddistinto non già dell’eccesso di potere ma dal suo
difetto. Per il prosieguo del capitolo il modo migliore di trattare la questione ci sembra sia quello di
ritornare alla definizione ristretta di Stato data nel paragrafo precedente e sostenere che il deficit di
statualità può riguardare una o più delle dimensioni evidenziate. Nello specifico ci soffermeremo
solo su tre (crisi del monopolio della forza, perdita dei confini, eterogeneità della comunità politica)
di queste dimensioni o, in negativo deficit, mentre rinviamo per le altre due (sovranità e contesto internazionale) ai capitoli della quinta parte [↓11].
Perdita del monopolio della forza legittima
Per dirla con Samuel Huntington [1968] ciò che distingue i regimi politici non è tanto la forma di
governo ma il loro grado di governo. Non la forma ma la forza. Un conto è lo Stato quale complesso di istituzioni e apparati, un altro è diverso conto è la statualità, questa è una faccenda di grado e
in astratto può disporsi da un minimo ad un massimo di forza delle istituzioni statali [Nordlinger
1987; Fukuyama 2005]. Si pensi per esempio alla classificazione dei regimi statali sulla base del rischio di dissoluzione dello stato: Stati dissolti (collapsed States), falliti (failed States), in via di fallimento (failing States) e deboli (weak States) [Rotberg 2004; Zartman 1995]. Secondo l’Indice degli Stati Falliti stilato da Found for Peace per il 2013,che riguarda la valutazione di 178 paesi, lungo
una scala che varia da 120 (massima allerta e rischio di collasso) a 0 (massima sostenibilità dello
Stato), i paesi con più elevato rischio sono caratterizzati da: pressione demografica; massicci flussi
di rifugiati; vendette tribali o private; squilibri economici e povertà; corruzione e delegittimazione
dello Stato; deterioramento dei servizi pubblici essenziali; violazione dei diritti umani e ricorso arbitrario alla violenza; perdita di controllo della forza da parte degli apparati di sicurezza; interferenze di attori sovranazionali. I casi estremi della graduatoria del 2013, con un punteggio medio di cir-
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ca 112, sono la Somalia, il Congo, il Sudan e il Sudan del Sud. Mentre paesi quali l’Iraq e
l’Afghanistan negli anni scorsi in situazioni altrettanto critiche, presentano segni di lieve miglioramento e sono rispettivamente all’11° e al 7° posto: all’opposto, i paesi con gli Stati più sostenibili
sono invece la Finlandia e la Svezia rispettivamente all’ultimo e penultimo posto della lista, con
punteggi intorno a 19 – l’Italia compare al 147° posto su 178 paesi.
Tale ranking, o altri simili, non risolvono però la questione della concettualizzazione e della reale
individuazione dei singoli casi. Per quanto una distinzione tra i due concetti non è agevole, accogliendo un suggerimento di Hague e Haropp [1982, trad. it. 2011, 63], potremmo dire che mentre il
fallimento si può definire funzionalmente «come l’incapacità dello Stato di esercitare il suo ruolo
principale, ossia monopolizzare l’uso legittimo della forza all’interno del suo territorio», il collasso
(o dissoluzione) va considerato istituzionalmente e indica «il tracollo dell’organizzazione statale e la
sua sostituzione da parte di enti privati o subnazionali». Questo ultimo è il caso di quei paesi controllati dai cosiddetti “signori della guerra” quali la Somalia, il Sudan o l’Afghanistan – si pensi anche al Ghana, Ciad, Sierra Leone, Libano, Haiti –, dove milizie e gruppi privati finiscono per sostituirsi al controllo esclusivo e legittimo da parte di funzionari e apparati riconosciuti come legittimi
da tutte le partiti in campo. In tutti questi casi l’organizzazione statale sperimenta un vuoto di autorità e lo Stato si riduce ad una «mera espressione geografica, un buco nero nel quale un sistema politico è caduto» [Rotberg 2004, 9]. Una sorta di revival dello stato di natura di hobbesiana memoria.
Diversamente, come avverte Rotberg [2004, 5] «non è l’intensità assoluta della violenza che contraddistingue uno Stato fallito», ma piuttosto è la sua endemicità e persistenza, la sua efferatezza, i
suoi obiettivi strategici e le sue rivendicazioni. Spesso, però, non è chiaro se il fallimento si riferisce
allo Stato in quanto tale – e in questo caso siamo in una situazione che può condurre al collasso – o
a specifici ambiti funzionali, in particolare l’ordine pubblico e la sicurezza esterna (es. sono la Yugoslavia e il Pakistan). Inoltre, la questione del fallimento può riguardare anche le performance dello Stato su specifiche porzioni di territorio, come nel caso della Columbia e del Venezuela dove si è
parlato di «regimi autoritari locali» [O’Donnell, Vargas Cullell e Iazzetta 2004], cioè di porzioni di
territorio dove il rispetto dei diritti umani e la presenza dello Stato è assente. Una situazione di questo tipo, però, si potrebbe verificare anche nelle società occidentali quando lo Stato perde il controllo del territorio a favore di gruppi criminali. Per restare a casa nostra, si pensi ad ampie zone del
Meridione o ai quartieri di grande città, come Scampia o Secondigliano a Napoli, o lo Zen a Palermo.
De-territorializzazione e perdita di rilevanza dei confini
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Il progetto dello Stato moderno anche nella sua fase più matura prevedeva una sostanziale sovrapposizione di confini territoriali, economici, culturali, politici, ecc. In particolare, la formazione della
nazione, la democratizzazione e lo sviluppo del welfare hanno finito per costituire degli ambiti funzionali reciprocamente rinforzantesi [Bartolini 2000]. D’altra parte, la globalizzazione e gli altri
cambiamenti strutturali ai quali abbiamo fatto cenno hanno messo in evidenza l’esistenza di forze
volte alla «trascendenza dei confini» [ibidem]. Questo per esempio è quanto si è verificato con
l’economia e il sistema capitalistico, sia nella loro componente produttiva che finanziaria. Ma anche
con il processo di europeizzazione, con il trasferimento volontario da parte degli Stati tradizionali di
porzioni significative di sovranità ad uno “strano” attore sovrannazionale (l’Unione Europa). Se lo
Stato moderno era caratterizzato dai processi di confinamento e di saturazione dei territori, lo Stato
del XXI secolo è invece alla presa con il processo inverso di de-territorializzazione, di perdita dei
confini il che equivale a dire, perdita di sovranità ora verso l’alto (il livello sovrastatale) ora verso il
basso (il livello sub-statale). Ma anche di perdita di controllo (de-confinamento) degli altri ambiti
funzionali, prima fra tutti l’economia, che sfugge al controllo degli organismi decisionali dei singoli
Stati. In realtà, il quadro è più complesso e, di fatto, i sistemi politico-amministrativi oggi appaiono
catturati nella duplice e contraddittoria tendenza tra spinte integrative, che sono il portato della loro
storia passata (identità nazionale, cittadinanza sociale, democrazia rappresentativa) e, di controspinte dis-integrative (internazionalizzazione dell’economia, crescita di rischi globali nell’ambiente
fisico, europeizzazione) [↓11].
Incongruenza tra Stato e nazione
Nella sezione precedente abbiamo omesso di dire che i regimi del XXI secolo, tanto le democrazie
mature quanto le neo-democrazie non pienamente consolidate, mostrano anche svariate incongruenza tra polis e demos», tra Stato e nazione. Si potrebbe perfino sostenere che «alla fine del XX secolo
in molti paesi regna poco accordo sulla stessa definizione dei concetti di nazione, paese, popolo»
[Dahl 1996, 606]. Tali incoerenze e contraddizioni sono il riflesso della sovrapposizione di fenomeni distinti legati ai processi di globalizzazione. Il primo, riguarda l’avvento di Stati-multinazionali o
delle cosiddette nazioni-stato [Linz e Stepan 1996, trad. it. 2000]. Il secondo, è relativo alle ricadute
dei poderosi flussi migratori che attraversano il globo (dai paesi più poveri a quelli più ricchi) sul
grado di eterogeneità delle comunità politiche.
Per di più, sia la sfida del multiculturalismo che quella dell’immigrazione sono destinata a crescere
di intensità in futuro [Dahl 2001, 150]. Da qui la centralità dei cosiddetti regimi della tolleranza
[Walzer 1997], ovvero della questione della convivenza delle diversità e delle soluzioni istituzionali
appropriate a tal scopo. Linz [2006, 599], riferendosi al caso delle democrazie post-1989, individua
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quattro modi di ricombinare demos e nazione, cioè di conciliare costruzione dello stato e della nazione.
Tipo I: regimi mono-nazionali, che ricordano l’idealtipo dello Stato moderno; nella situazione odierna, l’identificazione del demos con la nazione può condurre all’espulsione degli alieni «o, quanto meno, [all’]incoraggiamento sistematico a seguire l’opzione exit» [ivi, 599-600]; in questi casi, si
ripropone il conflitto tra centro e periferie come una forza determinate della strutturazione della politica moderna [Rokkan 1999].
Tipo II: regimi etnici, Linz parla di «democrazia rivolta solo ai membri del gruppo nazionale o etnico dominante» [ivi, 600]. Si accetta la differenzazione tra demos e nazione, il che getta le premesse
per una cittadinanza asimmetrica, poiché alle minoranze residenti nel territorio si riconoscono i diritti civili e sociali, ma non quelli politici. Ciò non esclude che i gruppi minoritari si possano in
qualche modo organizzare e talvolta anche mobilitare, pur in forme anomiche, per rivendicare diritti
e per denunciare le loro condizioni di vita.
Tipo III: regimi assimilatori, in questo caso assistiamo ad «uno sforzo massimo per [integrare] le
minoranze nella cultura nazionale [mentre ad esse] non si annette alcuno status speciale o alcun diritto culturale » [ibidem]. Le minoranze, del resto, hanno come obiettivo principale il raggiungimento, magari nello spazio di qualche generazione, della piena integrazione. Le società di immigrati di
cui parla Walzer [1997], come gli Stati Uniti e la Francia, rientrerebbero in queste fattispecie.
Tipo IV: regimi multinazionali, in questo caso ci troviamo nel quadro di una soluzione inclusiva
delle minoranze, e «ciò comporta l’accettazione di una società pluralistica nella quale la diversità
non è considerata diversamente. Ci sono molti modi in cui riconoscere diritti collettivi e individuali,
il bilinguismo nelle scuole e negli uffici pubblici, i diritti delle comunità religiose. In alcuni casi, la
democrazia consensuale e il federalismo possono creare le premesse di uno stato plurinazionale
democratico basato sulla lealtà nei confronti di esso, senza che ciò comporti una integrazione nazionale: avremo così una nazione-stato piuttosto che uno stato-nazione» [ivi, 601]. Tuttavia, non si
deve credere che queste soluzioni riguardino solo l’attualità, i grandi imperi del passato, da quello
austroungarico a quello arabo e ancora quello romano sono tutti regimi etnicamente e culturalmente
plurali.
Tali soluzioni rappresentano modi diversi di organizzare la convivenza tra gruppi, di configurare la
cittadinanza, di offrire ai cittadini opportunità di espressione delle preferenze e di partecipare effettivamente. Se l’enfasi sulle situazioni del tipo I rende difficili gli sviluppi democratici (rischia di diventare una democrazia razziale come il Sud Africa dell’apartheid prima degli anni Novanta), il tipo III appare difficile da realizzare in presenza di gruppi minoritari che rifiutano di essere integrati,
mentre le strategie di tipo II «sono un ripiego» che può aprire la strada alle soluzioni multiculturali
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del tipo IV. Anche Dahl [ivi, 165] arriva alla conclusione che oggi «nella maggior parte dei casi è il
multiculturalismo a rappresentare l’alternativa possibile» alla stretta coincidenza tra popolo e nazione. In ogni caso, si tratta di «trovare soluzioni che siano, almeno in larga misura, coerenti con i
valori, le istituzioni e le procedure della democrazia» [ibidem]. Soluzioni per nulla facili e a portata
di mano poiché «anche il multiculturalismo presenta problemi e difficoltà» [ibidem], a partire delle
reazioni delle comunità ospiti che possono condurre a forme di mobilitazione politica aggressiva
indicate come «sciovinismo del benessere» (localismo, razzismo, xenofobia).
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Box 1 – Le componenti del sistema politico per D. Easton
Per David Easton il sistema politico è composto da tre dimensioni o componenti: le autorità, il regime e le
comunità.
 Più esattamente, per autorità Easton intende le «posizioni cui competono le responsabilità di governo» [Easton 1996, 11], cioè i ruoli coinvolti nella produzione delle decisioni vincolanti e che, in una società avanzata, sono costituite dalla classe politica nelle sue molteplici articolazioni (governativa, rappresentativa, partitica).
 La comunità politica si riferisce al «gruppo di individui che si identifichino reciprocamente sul piano politico, ossia, si considerino come un’entità soggetta alle stesse regole fondamentali per effettuare delle allocazioni autoritative» [ibidem], o decisioni vincolanti. Si possono distinguere due accezioni di comunità politica [Sørensen 2008]: la comunità di cittadinanza, che rimanda al complesso di diritti civili, politici, economici e sociali [Marshall 1963] di cui si avvalgono i cittadini nei confronti delle autorità; la comunità di
sentimento [ibidem] o di destino, che fa riferimento all’appartenenza e all’identificazione degli uomini e
donne in una comune storia e tradizione, al riconoscimento reciproco e solidaristico che individua un dato
gruppo (o comunità) rispetto ad altri gruppi (o comunità).
 Il concetto di regime politico riguarda, infine, il «modo in cui il potere è distribuito tra i vari ruoli e posizioni all’interno del sistema politico. È questo quello che viene spesso chiamato ordinamento costituzionale, che può essere fissato in un documento scritto oppure essere semplicemente il frutto di una tradizione
orale» [Easton 1996, 11]. In questa nozione rientrano certo le costituzioni e le altre istituzioni politiche
(Parlamento e governo) e, più in generale, l’insieme di norme, regole e procedure volte a definire l’accesso
alle cariche pubbliche e il funzionamento del processo politico; ma anche i principi di riferimento (valori
condivisi) nei quali si riconosce una data comunità politica [Norris 1999].
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Inputs
Outputs
BLACK BOX
DOMANDE
SOSTEGNI
(Withinputs)
Feed-back
(retroazione)
Figura 1 – Modello semplificato di sistema politico
Fonte: Easton [1965, tr. it. 1984, 141; con adattamenti]
DECISIONI
AZIONI
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INPUTS
OUTPUTS
CONVERSIONE
OUTCOMES
Articolazione
Interessi
Aggregazione
Interessi
Formulazioni
Politiche
Domande
Esecuzione e
amministrazione giudiziaria
delle politiche
Regolativi
Distributivi
Simbolici
Sostegni
CIRCUITI DI RETROAZIONE
Figura. 2 – Processo sistemico, funzioni di processo e tipi di outputs
Fonte: Almond e Powell [1978, trad. it. 1988, 392]
Ambiente interno e internazionale
Estrattivi
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Tabella 1. Sequenze di sviluppo dello Sato europeo a confronto
Grandi fasi dello sviluppo dello Stato in Europa occidentale (Poggi)
Macro-processi di sviluppo dello Stato nazionale europeo (Bartolini)
Prima macro fase
tra il XIII-XV secolo
1. Consolidamento territoriale
[2. Razionalizzazione del dominio]
1. Formazione dello Stato territoriale
Seconda macro fase
dal XVI a metà XIX secolo
2 bis. Razionalizzazione del dominio
2. Sviluppo capitalistico
3. Formazione della nazione
[4. Prime democratizzazioni]
Terza macro fase
dalla seconda metà del XIX secolo alla seconda metà del XX secolo
3. Espansione dello Stato
[3 bis. Nazionalismo]
4bis. Democratizzazioni
5. Stato sociale
Quarta macro fase
anni ’70 del XX e inizio XXI secolo
4. Crisi contemporanea dello Stato
6. Europeizzazione e globalizzazione
NB Le parentesi quadre indicano che alcuni processi sono iniziati nella fase precedente.
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Capacità statale
Regimi non
democratici ad
alta capacità
Regimi
democratici ad
alta capacità
Stato forte
Stato medio
Stato debole
Regimi
democratici a
bassa capacità
Regimi non
democratici a
bassa capacità
Consultazione protetta - democrazia
a) Tipi di regime di Tilly
I
Competizione - Liberalizzazione
Oligarchie
competitive
I
Poliarchie
(Democrazie di
massa)
III
II
Egemonie
includenti
Egemonie
chiuse
II
Partecipazione - Inclusione
a)
Scatola di Dahl
Figura 3. Democratizzazioni e tipi di regime