Francesi nel ottocento - Dipartimento di Arti e Scienze dello Spettacolo

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Francesi nel ottocento - Dipartimento di Arti e Scienze dello Spettacolo
Francesi nell‟ottocento
Il periodo principale della teoria romantica in Francia fu inaugurato da
Victor Hugo (1802-1885) con la celebre prefazione al suo dramma,
Cromwell (1827), diventando cosi il portavoce del nuovo movimento. La
prefazione si apre con un‟indagine di storia letteraria, alla maniera dei
romantici tedeschi. Vi si dimostra come ogni epoca abbia sviluppato il
suo peculiare genere di poesia: l‟oda lirica del periodo primitivo; l‟epica
del periodo classico; e il dramma dei tempi moderni. Questi 3 periodi
sono equivalenti all‟infanzia, giovinezza e maturità, e rappresentano un
processo naturale che si ripete costantemente. I periodi maggiori della
letteratura occidentale, culminanti rispettivamente nella Bibbia, in Omero
e in Shakespeare, si ripetevano, su scala minore, in ogni epoca storica. Il
processo è sempre dal lirico all‟epico al drammatico, dall‟ideale al
grandioso all‟umano.
L‟idea centrale di questo saggio e di buona parte degli scritti di Hugo
(come Hernani, 1831) è che il grottesco costituisca il principio
organizzatore della terza fase di questa successione ricorrente. L‟arte
classica riconosceva come propria solo la sfera dell‟armonioso e del
bello, ma il cristianesimo costrinse il poeta ad occuparsi della verità
compessiva del reale: perchè il brutto sempre esiste accanto al bello, il
deforme accanto il grazioso, il grottesco sul rovescio del sublime, il male
col bene, l‟ombra con la luce… l‟artista allora accetta questo mondo cosi
come il Dio l‟ha creato, nella sua varietà e nelle sue contradizioni. La
poesia nata dal cristianesimo, la poesia del nostro tempo, è l‟arte
drammatica, poiché l‟arte drammatica è la sola forma poetica che cerca il
reale, e lo cerca nell‟imitazione della natura, combinando “il sublime, il
grottesco, e inseguendo l‟armonia dei contrari”. Il grottesco, inoltre, non
è solo un elemento appropriato del dramma, ma anche una delle supreme
bellezze, come si può vedere in Shakespeare, il cui genio mise insieme
Macbeth e le streghe, Amleto e i becchini, Lear e il fool.
Questa stessa applicazione del senso comune (che demolisce la
tradizionale, artificiosa, distinzione dei generi) può essere usata, secondo
Hugo, per demolire le unita del tempo e di luogo, mentre l‟unita d‟azione
è sempre stata accetta come unica valida. La verosimiglianza,
tradizionalmente proposta a difesa di queste regole, è proprio l‟argomento
che le fa cadere. Gli scrittori moderni riconoscono che niente può essere
più falso ed artificiale dello spazio neutro di una tragedia di Racine; essi
sano che la località esatta è uno dei primi elementi del reale.
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Analogamente, ogni azione detta la propria necessaria durata. Gli unici
precetti ai quali ogni artista dovrebbe sottometterci sono le leggi generali
della natura e le regole speciali, peculiari ad ogni creazione individuale,
che la rendono unitaria. Nessun trattato sulla poesia potrà mai codificare
queste regole, che sono infinitivamente variabili, e uniche per ogni opera.
“L‟artista non deve guardare né alle regole né ad altri artisti, nemmeno ai
più grandi; egli non deve prendere consigli che dalla natura, dalla verità e
dall‟ispirazione.”
Con questo non si vuole affermare che l‟arte dovrebbe duplicare la
natura, obiettivo che Hugo definisce ridicolo. Hugo accetta i
procedimenti d‟ampliamento e di condensazione, e accetta anche l‟uso di
verso. L‟espressione poetica scoraggia la pigrizia e il lassismo del
drammaturgo, costringendolo a disporre i propri pensieri in una forma
memorabile e insolita per il suo pubblico. Se il dramma è un specchio
non dovrebbe trattarsi di un specchio comune, che restituisce
un‟immagine della realtà fedele ma monotona. Dovrebbe piuttosto essere
uno specchio concentrante. Il poeta deve, inoltre, selezionare e raffinare,
ma il suo obbiettivo non è il bello (come nel classicismo) oppure
l‟opinione comune, ma il “caratteristico” che mette a fuoco gli elementi
essenziali della realtà storica.
Il successo di Hernani, il testo chiave del pensiero romantico sul teatro,
ufficializzò il nuovo dramma in Francia. Il suo argomento centrale era di
natura più politica ma meno dettagliata di Cromwell. Lui vedeva nel
romanticismo in letteratura una manifestazione strettamente collegata al
liberalismo in politica. Nonostante l‟intenzione dei classici e monarchici
di conservare l’ancient règime sia nella società sia nella letteratura, il
pubblico vuole liberta, ma non sregolatezza, nella letteratura come nella
società esso invoca non l‟anarchia, ma leggi nuove e più flessibili. In
letteratura, come in politica, gli uomini devono operare al fine di
costituire un ordine nuovo e più umano. È responsabilità del poeta di
creare un nuovo teatro, un teatro vasto e semplice, uno e molteplice,
nazionale, attraverso la storia, popolare attraverso la verità, umano,
naturale, universale nel suo esprimere le passioni. Classicismo e
romanticismo, come tutti i vecchi termini di parte, devono essere assorbiti
nella coscienza unitaria delle masse, su cui deve basarsi l‟arte del futuro.
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Il trionfo del romanticismo francese non è durato a lungo, gia un
decennio dopo d‟introduzione a Cromwell di Hugo, restava la visione di
un teatro incisivo per verità e contemporaneità di contenuti, ma non
c‟erano fra i romantici affermati, drammaturghi capaci di realizzarlo.
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La dama a camelie (1851) di Alexandre Dumas, figlio ne fu il primo
dramma realistico. Lui utilizzava più direttamente l‟esperienza personale
e i riferimenti specifici all‟attualità. La prefazione scritta in 1867,
descrive l‟aspetto fisico e riassume la vita della „reale‟ di Marguerite
Gautier, (Marie Duplessis, morta nel 1847). Dumas, figlio ha provato di
ritrarre, quanto più realisticamente possibile, la società e gli uomini che lo
circondavano. È questo il concetto che lo scrittore ha ribadito
costantemente. Il mondo di Demi-monde (La Società equivoca, 1855),
assicura la prefazione, è assolutamente reale. Dumas, figlio si descrive
come “uno che passa, guarda, vede, sente, riflette, spera e dice o scrive
qualsiasi cosa lo colpisca, nella forma che è la più chiara, la più rapida, la
più adatta a quello che desidera dire.”
La prefazione per Un Pere prodighe, (1859), arriva al punto di negare la
necessita dell‟immaginazione, per il drammaturgo: ”dobbiamo solo
osservare, ricordare, sentire, coordinare e ricomporre, in una forma
particolare, ciò che ogni spettatore dovrebbe subito ricordare di aver
sentito o provato in precedenza senza averci fatto caso. La realtà come
fondamento, la verosimiglianza dei fatti, l‟ingeniosità dei mezzi, questo e
tutto ciò che si dovrebbe chiedere.”
Chiaramente, Dumas non considerava il poeta come il genio unico e
solitario del romanticismo, ma come un rappresentante della specie
umana nella sua generalità, diverso solo per la capacita di osservare in
modo più approfondito e di registrare le proprie osservazioni più
acurramente di altri, cosi da poterle rendere riconoscibili come parte di
un‟esperienza comune. Vi si ritrova, certamente, una traccia del realismo
della ‘tranche de viè‟, e Dumas fils, senza dubbio, contribuì a sviluppare
questa tendenza, pur non essendo questo assolutamente, il suo scopo.
Egli riconobbe l‟importanza dello stile e della forma artistica, ed elogio
calorosamente i risultati ottenuti in questo senso da Eugene Scribe,
nonostante la vacuità dei suoi personaggi. Il dramma ideale deve
eccellere sia per tecnica che per capacita di osservazione: “ il
drammaturgo che conosca l‟uomo come lo conosceva Balsac e il teatro
come lo conosceva Scribe sarà il più grande drammaturgo mai vissuto.”
Il teatro dovrebbe mostrare l‟uomo cosi com‟è, ma solo per indicarli
come potrebbe diventare, e in che modo. Il suo intento didattico, sempre
più evidente nei drammi successivi, emerge anche dalle prefazioni, che
contengono spesso ampie riflessione su problemi come la prostituzione,
la maternità e la salvaguardia della famiglia. Drammi e prefazioni
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diventano tribunali, come più tardi si verifico per G. B/ Shaw, sebbene
quelli di Dumas figlio siano, purtroppo, assai più rado vivificati da spirito
oggettivo o da umorismo.
EMILE ZOLA (1840-1902)
Si spinse oltre, imputando all‟istanza didattica la colpa di aver precluso a
Dumas figlio i risultati importanti in quello che, secondo Zola, avrebbe
dovuto essere lo stadio successivo dell‟evoluzione teatrale, il teatro
„naturalista‟. Zola criticava Dumas, dicendo che lui ha altre idee che si
basano sulla convinzione che „nel nostro secolo di esperienza
scientifica,‟, l‟artista dovrebbe emulare lo scienziato, sia nel metodo che
nell‟ obiettivo, essendo il metodo l‟attento studio dei fenomeni oggettivi,
e l‟obbiettivo e un analisi esatta dell‟uomo.‟
La metafora scientifica era fortemente legata all‟introduzione e studio de
la medicine esperimentale (1865) del fisiologo Claude Bernard, è
costantemente presente nella riflessione teorica di Zola. Egli paragona
spesso il lavoro dell‟autore all‟esecuzione di un sperimento, alla maniera
dello scienziato. Nella suo Le roman experimental, Zola afferma che il
naturalismo e „il ritorno alla natura e all‟uomo, l‟osservazione diretta,
l‟esatta autonomia, l‟accettare e il raffigurare ciò che, ha illustri accedenti
letterari. Ogni qualvolta uno scrittore cerca di afferrare la verità,
l‟atteggiamento naturalistico e, in certo, implicito.‟
Omero a suo modo fu un naturalista, come lo fu Aristotele, sebbene solo
nel diciottesimo secolo cominciasse a svilupparsi qualcosa di analogo al
naturalismo moderno. L‟interesse del Rousseau per la natura e lo spirito
di ricerca degli enciclopedisti aprirono la strada al naturalismo moderno,
e alcuni autori francesi del tardo 700, specialmente come Diderot, che
secondo Zola sosteneva le sue stesse idee, applicarono per primi queste
problematiche al teatro. Il romanticismo, nella sua frenesia rivoluzionaria,
ha impedito uno sviluppo coerente del naturalismo, ma, facendo piazza
pulita della tradizione classica ormai esaurita e svincolando gli artisti
dalle convenzioni del passato, ha dato un decisivo contributo al trionfo
definitivo del naturalismo.
L‟interesse di Zola per l‟ambiente, presenti, in particolare l‟influenza di
Hippolyte Taine, (1828-1893), la cui riflessione circa gli effetti
dell‟ambiente sulla letteratura venne citata e fatta propria da Zola in
apertura del suo saggio sul costume. La Histoire de la litterature
anglaise, 1863, di Taine costitui un importante anello di congiunzione tra
i critici della tradizione romantica tedesca e quelli, come Zola,
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guardavano al pensiero scientifico del 19 secolo per trarne modelli
metodologici in materia di critica e di letteratura. Taine è d‟accordo con i
tedeschi nel ritenere che ogni opera d‟arte vada valutata nei termini che le
sono propri, assumendola come una totalità organica.
Tutta l‟arte originale crea le proprie regole, e nessuna arte originale può
sottomettersi alle regole di un'altra, essa ha in se il proprio equilibrio e
non lo riceve dall‟esterno; forma un tutto indivisibile; è un essere animato
che vive del suo proprio sangue, e che muore se qualcuno gliene toglie un
po del sangue per sostituirlo col sangue di in altro. Sulla scia di Hegel,
egli ha di tale correlazione una visione evoluzionistica, secondo la quale
ogni epoca reagirebbe alle dottrine dell‟epoca precedente, o le
assimilerebbe.
Nel cercare di isolare le “forze primordiali” che agiscono sulla letteratura
determinandone le caratteristiche proprie di ogni epoca, Taine propone la
sua famosa triade: razza, ambiente, e momento storico.
Come Diderot, Zola era più influente come teorico che come
drammaturgo. La prefazione del suo romanzo, poi dramma più noto
Therese Raquin, 1873, fu letta come una specie di manifesto del
naturalismo. Vi si trovano l‟idee che saranno sviluppate più
compiutamente in Le roman experimental e le Naturalism au theatre,
1881 e che muovono tutte dalla convinzione, che lo spirito sperimentale e
scientifico del secolo prevale a teatro e che in esso è l‟unico
rinnovamento possibile per la nostra scena. La logica di un dramma di
questo tipo non deve essere quella dei fatti, ma quella di „sensazioni e
sentimenti, e lo scioglimento il risultato matematico del problema
esposto.‟
Le immagini tratte dalla matematica e dalla scienza, cosi comuni negli
scritti di Zola possono essere fuorvianti, se non si tiene presente che Zola
non dimentico mai il contributo della personalità dell‟artista. Un‟opera
d‟arte scrive lui, è sempre un pezzetto della natura visto attraverso un
certo temperamento. Zola non considera negativo il temperamento
dell‟artista, al contrario, in teoria esso produce intensità e forma, senza
con questo allentare l‟opera dalla natura. Lui non difende mai la
„fotografia pura e semplice,‟ riconosce che il contributo personale
dell‟artista a trasformare la natura in arte, pur ammonendo l‟artista a non
alterare o falsificare, per assecondare i propri interessi, le convenzioni
formali, o i gusti del pubblico.
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L‟ambientazione di Therese Raquin come si legge nella prefazione era
stata armonizzata in tutto e per tutto, „alle abituali occupazioni dei
personaggi, cosi che essi non avrebbero „recitato‟ ma „vissuto‟ davanti al
pubblico.‟ Questa idea viene sviluppata più compiutamente nelle sezioni,
dedicati al costume e al decoro nel saggio “Naturalismo nel teatro”, dove
Zola prende in esame le implicazioni di uno stile più naturale sulla
mesinscena, sui costumi e sulla recitazione. In ogni settore, Zola giudica
necessari profondi mutamenti, essendo ciascuno, al momento, dominato
dalle convenzioni teatrali.
Ammirando la recitazione di Tommaso Salvini, Zola ammetteva che gli
attori dovevano dare l‟impressione di vivere il ruolo, e per questo
dovevano essere presentati nei costumi e nelle ambientazioni più
appropriate alle loro condizioni. Per Zola si trattava di qualcosa di più, e
diverso, rispetto all‟interesse dei romantici per il colore locale. Egli
sottolineava che la gente, nella vita reale, agisce nel modo in cui agisce,
anche a causa degli abiti che indossa e degli ambienti in cui vive.
Il vecchio eroe tragico, astratto o metafisico, aveva bisogno soltanto di 3
pareti neutre che lo racchiudessero, ma l‟uomo fisiologico delle nostre
opere moderne esige sempre più imperiosamente di essere determinato
dalle scene, dall‟ambiente in cui è prodotto.
Chiaramente, l‟ambientazione materiale stava diventando, per il dramma,
tanto importante quanto i personaggi stessi, e la teoria drammatica, che
nel 600 si era ampliata ad includere l‟arte dell‟attore, comincio, nel
secolo successivo, in modo particolarmente significativo con gli scritti
dei naturalisti, a comprendere anche considerazioni sul costume e sulla
messinscena.
Il teatro più strettamente collegato al naturalismo francese fu Il theatre
libre di Andre Antoine (1858-1943), inaugurato nel 1887. In 1890 lui ha
pubblicato un testo teorico che si proponeva di spiegare al pubblico gli
obiettivi del suo teatro. Con sostanziale riferimento a Zola si chiede un
teatro basato sulla verità, sull‟osservazione e sullo studio diretto della
natura, e si critica la formazione tradizionale degli attori, incentrata sui
tipi tradizionali, sui gesti tradizionali, e specialmente sulla dizione
tradizionale.
Gli attori di Antoine „torneranno ai gesti naturali e sostituiranno con la
composizione gli effetti ottenuti esclusivamente per mezzo della voce.
Questa nuova recitazione, naturalmente, avrebbe dovuto avvalersi di
ambientazioni realistiche, nelle quali un attore potesse elaborare „in modo
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semplice e naturale i gesti semplici e i movimenti naturali di un uomo
moderno che vive la sua vita quotidiana.
Uno dei drammaturghi di Antoine, Jean Julien, divenne il principale
portavoce critico dell‟impresa di Antoine. Che un dramma è una tranche
de vie messa in scena con arte, è una sua idea più conosciuta. Il teatro
dovrebbe offrire non un‟analisi dei personaggi, ne un intreccio ben
costruito, ma un azione piena di sorprese e spesso irrisolta, proprio come
nella vita reale. L‟arte di teatro vuol dire, strutturare logicamente gli atti e
le scene, a partire dalle solide fondamenta dei fatti osservati, e non dalla
preoccupazione di creare collegamenti ingegnosi dei dialoghi.
Come Diderot, egli da grande rilievo alla pantomima, anzi il suo interesse
per l‟azione lo induce a ritenere che per il drammaturgo sia più
importante il movimento che non il linguaggio. Julien, come Antoine
esorta gli attori ad abbandonare la tipologia tradizionale dei personaggi e
a non cercare di entrare nella pelle di un ruolo, ma di adattare piuttosto il
ruolo a se stessi, recitando come a casa, ignorando le emozioni suscitate
nel pubblico.
Nella sua frasi più memorabile, Julien dice che l‟arco di proscenio
dovrebbe essere considerato, una quarta parete, trasparente per il pubblico
e opaca per l‟attore. Lo spettatore dovrebbe „perdere per un attimo la
sensazione della sua presenza in teatro, e seduto nell‟oscurità davanti ad
un palco illuminato, rimanere attento e non osare più parlare.‟
3.
Se pensiamo all‟idea e alla pratica naturalista di teatro, ne individuiamo il
nucleo in questa ricerca della verità, di una scena che sia mimesi quasi
assoluta del reale e da questo deriva la propria poetica e la propria forma.
Ma, appunto tutto questo appartiene all‟universo della scena,
quell‟universo che nell‟ultimo scorcio dell‟Ottocento ha inventato, o
comunque, portato a consapevolezza teorica piena, la figura del regista
in senso moderno, come colui che è responsabile – organizzativo ed
estetico – dell‟intera operazione scenica. In questo contesto, si è soliti
anzi ritenere che la battaglia culturale in favore del teatro di regia fosse
stata la prima consistente rivolta contro la letterarieta del teatro in epoca
contemporanea, perché rivendicava l‟autonomia della messa in scena,
pretendendo per lei una patente di artisticità che la riscattasse dalla
condizione ancillare in cui l‟aveva relegata una concezione
letterariocentrica del teatro.
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Dall‟altro lato è soprattutto la struttura drammaturgia, è quel modello
forte della scrittura teatrale di cui si diceva a far apparire unitario anche
ciò che nasce da posizioni teoriche e poetiche differenti. Perché quello
che per brevità continuiamo a chiamare “naturalista” è il modello di
dramma che è restato nella cultura corrente come il paradigma della
drammaturgia moderna. Se si pensa alla definizione che Peter Szondi dà
del dramma moderno – una rette dei rapporti interumani, basati sul
dialogo più che sull’azione, che coniugano gli avvenimenti sempre al
presente, per costruire un dramma che è assoluto e autosufficiente in
quanto contiene in sé ogni elemento necessario alla sua compressione
– è proprio a questa tipologia del dramma di fine Ottocento che corre il
pensiero.
Da questo punto di vista poco importa se lo stesso autore individua poi
alcuni dei drammaturghi che sono inclusi nell‟area “naturalista” (Ibsen,
Strindberg, Hauptmann, Chekhov) come i maggiori responsabili della
forzatura di questa forma verso soluzioni in qualche modo epiche. Perché
è indubbio che questo nuovo dramma, complessivamente, nella sua ansia
di oggettività, nel suo rifiuto della “onniscienza del creatore, ” normalizza
alcune storture del dramma alla Dumas figlio, perché non ha bisogno di
trarre la morale né di ricondurre la vicenda ad un‟univocità di giudizio.
Come ammetteva Chekhov, “l‟artista non deve essere giudice dei suoi
personaggi né di ciò che loro dicono, ma solamente un testimone
spassionato…invece, formulare un giudizio sarà cosa dei giurati, cioè dei
lettori.”.
Strutturalmente, questo significa l‟eliminazione non solo di prologhi ed
epiloghi ma anche di resoconti di antefatto, di enunciazioni esplicite di
tesi ideologiche o sociali, di tirate e comunque di ogni tratto di teatralità
intesa come ricerca dell‟effetto e del diretto rapporto col pubblico. Il
dramma naturalista si costruisce solo sui micro conflitti che i rapporti
interpersonali della società borghese fanno trapelare tra le maglie di un
comportamento comunque sempre civile, dunque si nutre poco di grandi
azioni e di ideali e molto di parole. Necessariamente, sono molto rare le
esplicite enunciazioni filosofiche, proprio perché i valori e gli ideali della
società che il dramma rappresenta sono difficilmente declamabili. E
quando questo avviene, come ad esempio nel manifesto femminista del
finale di Casa di bambola, la sensazione è quasi d‟estraneità, di
giustapposizione di un elemento incongruo alla struttura del dramma: e,
infatti, l‟azione si ferma, il dialogo non esiste più e la scena è solo
occupata dalla tirata di Nora, che abbandona casa e famiglia per ricercare
se stessa.
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Al dramma naturalista, proprio per la sua poetica più o meno esplicita
della tranche de vie, è necessario uno spazio che anche esso sia una
tranche, un frammento isolato dal continuum spaziale della quotidianità.
Entrambi Antoine e Stanislavskij hanno pensato, disegnato e costruito
anche le adiacenze della stanza che costituisce la scena e che si offre agli
sguardi degli spettatori. Ed è nelle premesse teoriche del Naturalismo che
quella stanza sia prima una metonimia che una metafora, ossia una parte
della casa e del mondo che sta per il tutto, e secondariamente
un‟immagine del mondo, un modello dell‟universo sociale. Perché solo in
uno spazio metonimicamente ritagliato dal mondo quotidiano, e dunque
reso identico a quello reale, gli attori possono muoversi come fossero a
casa propria e gli spettatori possono percepire i personaggi come persone
reali, anche esse ritagliate dallo spazio e dal tempo della realtà e sbalzati
a mostrare una tranche della loro vita sotto gli occhi di tutti. Ma proprio
per questo è necessario anche che lo spazio scenico sia chiuso e
perimetrato, impermeabile al mondo esterno se non per ciò che filtra
attraverso porte e finestre e soprattutto impermeabile all‟interscambio
tradizionale tra scena e platea, censurato dalla quarta parete.
Forse proprio da questa idea non rinunciabile di uno spazio perimetrato,
oltre che ovviamente dalle sollecitazioni offerte dal nuovo mezzo, viene
l‟affiancarsi alla tradizionale metafora dello specchio; la metafora della
fotografia per designare il teatro, perché il riguardo fotografico richiama
immediatamente l‟idea di una tranche strappata alla realtà e offerta allo
sguardo. In più, la fotografia offre un esempio di oggettività, almeno
apparente, sconosciuto alle generazioni precedenti, tanto da ipotizzare,
positivisticamente, la possibilità di far parlare la realtà da sola, senza
mediazione. Ma la realtà che parla da sola, senza mediazione del soggetto
e dei suoi valori, può essere pericolosa, proprio perché rimuove ogni
filtro, estetico, sociale o morale. Ed è, infatti, da questo sguardo
scientifico e quasi meccanico che viene alla drammaturgia naturalista
quel tono di indagine e di denuncia sociale, quella spietatezza che le è
peculiare.
La metafora dello specchio contiene in fondo l‟idea che la comunità degli
spettatori si serve del teatro per auto-certificarsi, per riconoscersi o per
vedersi come vorrebbe essere, perché l‟occhio che guarda appartiene allo
stesso soggetto che viene riflesso, la fotografia invece implica il ricorso
alla macchina, che non ha valori né emozioni né ideali, e dunque può
spingersi a vedere e registrare fin dove l‟occhio non vorrebbe guardare.
Naturalmente dietro a tutto ciò c‟è il diffondersi della filosofia
positivistica, con la sua fede nel documento e la sua diffidenza per gli
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schemi astratti di interpretazione. Ma dietro a questa nuova drammaturgia
– o magari davanti ad essa, come fine da raggiungere – c‟è anche una
diversa concezione del personaggio. Il personaggio moderno non ha più
un destino, non iscrive più la propria esistenza in un orizzonte
teleologico, non lotta contro forze super-umane. Quello del dramma
naturalista, appunto per la sua poetica di partenza, è un universo
totalmente de-sacralizzato, senza un progetto divino e senza un Fato che
incombe, in cui l‟uomo è padrone di sé e dei suoi comportamenti e ciò
che sconta sono solo le sue colpe, o meglio solo i suoi errori. In questo
scarto tra colpa ed errore, o comunque atto che comporta conseguenze,
sta tutta la differenza della drammaturgia naturalista, come ha
sottolineato Strindberg nella sua introduzione a Signorina Julie.
È la conseguenza sociale delle proprie azioni l‟unica condanna che
rimane da allora al personaggio del teatro contemporaneo, quella
espiazione laica per una colpa anch‟essa laica qual è ad esempio, qui, la
trasgressione delle gerarchie sociali da parte della signorina Julie. Oppure
come può essere abdicazione al sentimento in favore del ruolo sociale di
tanti personaggi Ibseniani, come nel caso di signora Alving in Spettri. Ma
il metro della responsabilità e dell‟espiazione diventa difficilmente
utilizzabile per giudicare il personaggio moderno, perché non solo esso
non ha un destino ma spesso neanche un “carattere” a tutto tondo,
immutabile e unitario, definibile per categorie psicologiche o
comportamentali. Il personaggio moderno è spesso un prodotto delle
circostanze, è un collage di impulsi e di influenze sociali, è molto più il
risultato delle proprie azioni che non la loro causa, come spiega
Strindberg nella introduzione di Signorina Julie.
Il personaggio moderno è dunque contraddittorio, fratto ma come
costruito con residui, senza comunque la grandezza delle scissioni
psicologiche dei personaggi tragici, e infatti raramente eroico, o
comunque positivo, lontano quanto più non si potrebbe dall‟
individualismo centripeto e titanico del personaggio romantico. Per
questo gli sono vietati non solo le grandi passioni, ma anche gli
sconvolgenti conflitti tra eccezionalità e norma, tra individualità e
struttura sociale, tra grande sentimento e regola di morigerata continenza.
La situazione che il dramma di fine Ottocento descrive è ormai quella di
una rete di rapporti e di condizioni che disegnano la definitiva presa di
potere dei valori borghesi, ma di quei valori ormai stabilizzati nello Stato
solido di cui parlava Zola. La famiglia, prima di tutto, come centro
dell‟universo sociale, come fulcro d‟ogni possibile relazione e dunque
come sede principale dei conflitti. Per questo sono assolutamente primari
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i problemi che si determinano all‟interno della famiglia borghese, a
partire dai rapporti spesso tempestosi o ipocriti e comunque mai semplici
tra i coniugi, passando per le tentazioni e le pratiche dell‟adulterio (il
famoso triangolo borghese), per finire con la difficoltà dei rapporti
generazionali tra i genitori e figli, come quasi nel tutto Ibsen.
Ma accanto a quello della centralità della famiglia, l‟altro tema fondante
della drammaturgia naturalista è il problema del ruolo sociale. Gran parte
della vita scenica di questi personaggi si consuma in quella sorta di
imperativo sociale quasi senza discussioni che è la battaglia per la
carriera nella professione e per la conquista di una posizione che consenta
una adeguata spendibilità sociale, una sorta di spendibilità del proprio
comportamento non solo nel privato della famiglia ma anche sulla scena
delle relazioni sociali. Ed è centrale in molti drammi il conflitto tra
conseguimento del ruolo sociale e prezzi personali da pagare, primo fra
tutti la rinuncia all‟amore, e più in generale tra la maschera
comportamentale da esporre in società e un universo dei sentimenti
censurato, sepolto ma pronto a ri-esplodere come in Spettri.
Ma dietro a tutto, sempre, ad ogni comportamento, a ogni pensiero, c‟è il
denaro come molla, come desiderio, come pietra di paragone, insomma
come valore principe. In questo il dramma “naturalista” è davvero,
secondo la prospettiva sociologica già indicata da Zola, l‟espressione più
adeguata della società borghese tardo-ottocentesca, in cui ogni persona e
ogni comportamento ha un suo valore di scambio monetizzabile. Basta
pensare ad esempio, al ruolo del denaro, della finanza, delle eredità dei
fallimenti nella meccanica nei testi di Ibsen e Chekhov.
Del resto se c‟è un luogo in cui tutti questi fili si intrecciano a disegnare
forse il più affascinante e fortunato dramma della seconda metà
dell‟Ottocento, ma probabilmente di tutto il secolo, è proprio Spettri, non
a caso testo-cardine per tante esemplari prove d‟attore fra fine Otto e gli
inizi Novecento. In quegli anni Ibsen è il dominatore delle scene Europee,
con la ricchezza strutturale e semantica del suo teatro è al centro di ogni
dibattito e di ogni tentativo di teoria, diviene addirittura una figura
emblematica contesa tra chi vede i suoi solidi impianti drammaturgici
come lucide geometrie che danno senso al mondo e chi scorge nei suoi
testi il mistero e l‟ineffabile tra le crepe di un‟architettura drammaturgica
non così trasparente come potrebbe sembrare.
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