I racconti della civetta

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I racconti della civetta
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I RACCONTI
DELLA CIVETTA
Capitolo primo
L’ECLISSE
L’esperimento di Stucco
In cima ad una torre che dominava un vasto e rigoglioso
bosco, abitava una civetta di nome Bettina, la quale aveva
una gran paura del buio e per questo non usciva mai di notte.
Certo, per una civetta, uccello dalle abitudini notturne, la
cosa era abbastanza imbarazzante. Come spiegare agli altri
uccelli del bosco il fatto che proprio non le andava di alzarsi
in volo la sera e che preferiva uscire all’alba alla ricerca di
prede con cui sfamarsi?
Bettina provava a giustificarsi affermando che di giorno la
caccia è più facile, perché roditori e rettili girano in gran
numero per le selve e non si aspettano gli attacchi degli
uccelli notturni.
Naturalmente si vergognava di dire che aveva paura delle
ombre della notte.
Stucco, un vecchio barbagianni che nella vita aveva visto e
fatto quasi tutto quello che può vedere e fare un uccello
notturno, una volta decise di provare se era vero tutto quello
che Bettina andava dicendo in giro sulla caccia diurna. Una
delle poche cose che non aveva mai fatto era proprio questa:
andare a caccia di giorno.
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Una notte, invece di uscire con tutti gli altri uccelli della sua
razza, rimase appollaiato sul ramo, ad aspettare l’arrivo
dell’alba. Di dormire non gli riusciva perché era abituato a
farlo di giorno. Intanto, più le ore passavano e più
insistentemente il suo stomaco gli consigliava di alzarsi in
volo, in cerca di un appetitoso bocconcino. Ma egli volle
resistere e, sul far del giorno, quando gli spasmi della fame
erano divenuti intollerabili, si mosse con una gran voglia di
farsi una solenne scorpacciata di serpi, scoiattoli e topi che,
come diceva Bettina, a quell’ora cominciavano a girare
numerosi nel sottobosco. Ma Stucco dovette accorgersi, dopo
breve tempo, che non era facile come la civetta voleva far
credere. Di giorno quegli animaletti sembravano più prudenti
e difficilmente si lasciavano sorprendere e catturare. Intanto
la luce, che aumentava man mano che passavano i minuti, gli
arrecava sempre più fastidio agli occhi.
Quando il sole spuntò dai monti, sfolgorante in quella
limpida giornata estiva, Stucco non riuscì a vedere più nulla.
Abbagliato da tutto quello splendore, andò a dare una
tremenda capocciata contro un palo che sosteneva i fili della
corrente elettrica e cadde svenuto ai piedi di esso. Appena
rinvenne, se ne ritornò al suo albero, dove rimase tre giorni e
tre notti appollaiato su di un ramo con un terribile mal di
testa.
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Civetta bugiarda
Quando si sentì un po’ meglio, una sera, riprese il volo; ma,
invece di dirigersi verso i luoghi abituali di caccia, andò a
fare una visitina a quella bugiarda di Bettina.
La civetta tornava proprio allora nel suo buco in cima alla
torre e sembrava ben sazia, beata lei!
«Bettina! - urlò Stucco - Che ti venga un accidente! Perché
vai dicendo in giro che di giorno si caccia meglio che di
notte? Che stupidaggini ti inventi? Per colpa tua ho preso in
pieno un palo della corrente elettrica che per poco non ci
restavo.»
«Sei andato a caccia di giorno? Ah, ah, ah!.» Bettina si
sbellicava dal ridere. «Povero Stucco. Ah, ah, ah!»
«Beh, quando avrai finito di divertirti alle mie spalle, mi darai
una spiegazione. E fa’ in modo che sia una spiegazione
convincente, altrimenti ci rimetti le penne, stupida civetta!»
«Ma mio buon Stucco, rispose la civetta, tu sei andato a
caccia di giorno senza avere nessuna idea di come si faccia.
Ecco perché hai corso il rischio di fracassarti la testa. Vedi, la
caccia diurna è tutta diversa da quella notturna.»
«Ed ora me lo dici, uccellaccio incosciente?» gridò Stucco.
«Ma tu mica sei venuto a dirmi che avevi intenzione di
provare il mio metodo di caccia; se tu me ne avessi parlato, ti
avrei spiegato come si fa. Domattina esci con me e vedrai
come si caccia alla luce del sole.»
«No, grazie tante. Non ho nessuna voglia di sbattere di nuovo
la testa contro un palo. Figurati! Ora ho una fame che non ti
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vedo. Vado a caccia al solito modo degli uccelli notturni,
come comanda Iddio. Ne parleremo un’altra volta e mi
spiegherai come si fa. Ci rivedremo.»
Il barbagianni volò via, mentre Bettina se ne entrava in fondo
al suo buco e si disponeva a dormire.
Con gli occhi chiusi pensava a Stucco che in volo, nella luce
solare, aveva colpito in pieno un palo della corrente elettrica.
“Non è poi tanto saggio il vecchio barbagianni, se si mette a
cacciare di giorno senza avere neppure un’idea di come si fa.
E’ stata una vera imprudenza.”
Uno sbadiglio e si addormentò.
Intanto nella notte senza luna i rapaci notturni si alzavano in
volo dalle loro tane e si apprestavano a dare battaglia mortale
a quanti animaletti saporiti si fossero avventurati nel bosco,
anch’essi in cerca di cibo.
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Solo curiosità
Stucco, il vecchio barbagianni non si sognò mai più di andare
in giro di giorno. Però non aveva neanche voglia di andare in
cima alla torre a farsi spiegare da Bettina come lei praticava
la caccia diurna, perché proprio non gli andava di farsi ridere
sul becco da quella smorfiosa e presuntuosa civetta.
Tuttavia egli, nonostante la sua età e la sua saggezza, aveva la
curiosità di un pulcino di barbagianni. Una notte perciò,
avendo ormai dimenticato il dolore provato per la tremenda
capocciata nel palo, si diresse alla tana della civetta, dopo
aver lasciato i luoghi di caccia molto prima dell’alba. Con un
frullo d’ali si fermò davanti al buco dove Bettina dormiva.
La civetta, che aveva il sonno leggero, svegliandosi di
soprassalto al rumore delle ali del barbagianni e trovandosi
improvvisamente davanti la luce intensa e rossa di quegli
occhi, terrorizzata, cominciò a strillare come un’oca a cui
stessero tirando il collo. Sbatteva le ali e strillava tanto, che lo
stesso Stucco si spaventò.
«Ma che diavolo ti prende, stupida gallina, che starnazzi in tal
modo?» le urlò.
«Stucco, vecchio barbagianni della malora! Sei tu? Che ti
venga una paralisi alle ali! Mi hai fatto morire di paura. Ma ti
sembra questa l’ora di presentarsi a casa di una signora
civetta?»
«E cosa pretendi, che mi presenti nel cuore del giorno a casa
della gente? Ah, già! Dimenticavo. Tu sei fatta
all’incontrario. Beh, sai... Ho deciso di venire a caccia con te
stamattina. Ma bada! E’ solo curiosità la mia. Non ho certo
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voglia di prendere delle abitudini che non si convengono
affatto ad un uccello notturno.»
«Vorresti dire che io sono maleducata?» chiese Bettina, un
po’ risentita.
«E tu vorresti farmi credere che andare in giro di giorno è una
buona abitudine per un uccello notturno?»
«Puah! Tu sei un animale dalla mentalità ristretta e antiquata.
Non voglio discutere con te. Se hai deciso di venire a caccia
con me stamattina, ebbene sappi che è ancora presto. Io non
esco mai prima che il sole sia venuto fuori dai monti. Perciò,
ecco: ti faccio un po’ di posto. Mettiti qui e fatti un
sonnellino.
Quando il sole sarà entrato nella mia tana, ci sveglieremo e
andremo a caccia.»
A Stucco non dispiaceva dormire un poco prima di imbarcarsi
in quella insolita avventura.
A Bettina poi faceva enormemente piacere dormire in
compagnia, a lei che era paurosa come nessun altro.
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A caccia col sole
L’alba era svanita da un pezzo, quando Bettina si svegliò. Si
stiracchiò e, distendendo le ali, urtò Stucco che dormiva
profondamente.
«Svegliati, Stucco! E’ ora di andare a caccia.»
Al barbagianni avrebbe fatto piacere dormire fino a sera; ma
Bettina non glielo permise.
«Eh, cosa? La caccia? Uaaah. Ma se è pieno giorno!»
«Ebbene, allora! La vuoi fare questa prova, sì o no? Io ho una
gran fame», gli disse la civetta mentre si rassettava le penne
che erano ancora arruffate per la paura e lo starnazzare della
sera precedente.
«Ah, già. La prova... Uaaah. Ma forse è meglio rimandare a
domani», sbadigliò Stucco che stentava a svegliarsi. «Non ho
fame a quest’ora.»
«Sì, domani. Ma dai, svegliati vecchio poltrone! Oggi è una
giornata speciale per la caccia. Con questo tempo splendido
tutti gli animali del bosco sono fuori dalle loro tane. Ci sarà
cibo in abbondanza per noi.»
«Io non ho fame, ripeté Stucco. Se vengo è solo per sapere
come diavolo fai a catturare le prede alla luce del sole.»
«Allora sbrigati, che sto morendo dalla fame!»
«Un momento. Non avere fretta! Io non vedo niente con tutta
questa luce. Non penserai che abbia intenzione di mettermi a
volare senza sapere dove vado a sbattere il becco», protestò
Stucco.
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«Non ci sarà molto da volare, gli rispose Bettina. Te l’ho
detto che uso tecniche diverse. Riesci a vedere quell’albero
laggiù?»
«A malapena», ripose il vecchio barbagianni, che era
costretto a socchiudere gli occhi, non essendo abituato a tutta
quella luce.
«Non c’è nessun ostacolo fra noi e quell’albero. Ci
fermeremo sul ramo più basso e di lì ci poseremo sul terreno.
Sei pronto? Seguimi! Non perdermi di vista. Ti farò strada.»
Stucco, guidato dalla civetta, riuscì a posarsi sull’albero e poi
sul terreno. Là, sotto il fitto fogliame del bosco, dove la luce
era soffusa, il barbagianni riusciva a vedere meglio le cose
intorno.
A saltelli e piccoli voli, i due uccelli raggiunsero il posto che
Bettina diceva ricco di prede.
«Ecco. Fermati su questo ramo. Io mi apposto al di sopra di
quella tana. Da qui potrai vedere bene in che modo ti pizzico
un saporito bocconcino.»
Il barbagianni obbedì. Bettina si acquattò al di sopra di una
tana illuminata da un raggio di sole che filtrava tra gli alberi.
Stucco faceva difficoltà a distinguerla tra l’erba.
Passarono alcuni minuti. Ad un tratto vide un arruffio di
penne, udì acuti squittii. Poco dopo la civetta volava alla volta
di Stucco con un grosso topo nel becco.
«Vuoi favorire, amico mio?» chiese in tono po’ beffardo.
«No, grazie. A quest’ora non sono solito pranzare», rispose il
barbagianni con un certo disappunto.
La civetta si mise comoda ed in breve tempo divorò la preda.
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“ Certo, così la caccia è meno faticosa” dovette convenire tra
sé il vecchio Stucco, mentre guardava quel diavolo di una
civetta dalle stranissime abitudini.
Quando Bettina ebbe finito il suo pranzo, si rivolse al
barbagianni:
«Come primo piatto, non c’è male, vero? Ma ora ci vuole un
secondo altrettanto saporito. Vieni con me.»
La civetta andava avanti e Stucco la seguiva. Giunti alla
biforcazione di un albero, Bettina si rivolse al barbagianni:
«Qui ci dovrebbero essere delle ottime uova di passerotto. Ho
visto ieri la femmina che si accingeva a deporle.»
Infatti il barbagianni poté distinguere quattro macchioline
bianche in un nido, quando mamma passera era volata via per
la paura.
«Gradisci un uovo fresco?» gli chiese Bettina.
Stucco, per non sembrare scortese a rifiutare sempre ed anche
perché, a veder mangiare con tanto gusto, era venuto un po’
di appetito anche a lui, ne assaggiò uno.
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Una strana oscurità
Intanto il vecchio uccello notava che la sua vista si andava
sempre più abituando alla luce; riusciva sempre meglio a
distinguere le cose intorno.
Bettina invece aveva l’impressione che la vita del bosco fosse
diventata, già da un pezzo, stranamente più frenetica e che la
luce del sole non fosse più così brillante.
“ Si starà guastando il tempo “ pensò.
Poi, rivolta a Stucco:
«Ora, disse, si va un po’ in giro per scoprire qualche nuova
tana o qualche nido per quando ci verrà di nuovo fame.»Mentre Stucco si muoveva con sempre minore difficoltà,
Bettina invece diventava sempre più inquieta. Vide uno
scoiattolo che andava su e giù lungo il tronco di un albero a
velocità vertiginosa: sembrava impazzito. Le lucertole, che a
quell’ora ora avrebbero dovuto restarsene tranquille a godersi
il calore dei raggi solari, si andavano a nascondere in fondo
alle loro tane.
Gli uccelli del bosco avevano smesso di cinguettare; perfino
le foglie sembravano stormire di mala voglia, agitate
com’erano da un venticello leggero. Bettina avvertì un
brivido correrle sotto le piume.
«Dici che verrà a piovere?» chiese a Stucco.
«Non dovrebbe. Non è la stagione.»
“ Ma allora perché l’aria va facendosi così cupa e gli animali
del bosco sono così spaventati?” si chiedeva Bettina.
Eppure il cielo era sgombro di nuvole.
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Il sole... Oh Dio, ma che cosa era successo al sole? Ne
mancava un buon pezzo!
«Stucco, guarda il sole! Che cosa gli sta capitando?»
Il barbagianni guardò in alto, ma restò ugualmente
abbagliato, sebbene la luce solare fosse diminuita di intensità.
«Non vedo niente. Per me c’è troppa luce», rispose Stucco,
distogliendo lo sguardo dal cielo.
«Ma chi è che sta mangiando il sole?» esclamò Bettina che si
sentiva invadere dal terrore.
Di lì a poco al posto del sole era rimasto un sottile anello di
fuoco.
Il bosco era immerso in una strana oscurità. Allora la civetta
fu presa completamente dal panico.
«Torniamo a casa, Stucco!» gridò al colmo della paura.
Il barbagianni, al quale il sapore di quell’uovo aveva
risvegliato un certo appetito, rispose:
«Beh, approfittiamo di questo buio anticipato per cacciare alla
maniera degli uccelli notturni.»
«No, ti prego Stucco! Accompagnami alla mia tana e poi torni
a cacciare come vuoi tu.»- implorò la civetta, mentre tremava
in tutte le penne che aveva indosso.
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La paura: una cosa seria
Era un buio strano quello che era calato su quel pezzo di
mondo; diverso da quello solito della notte che Bettina non
amava, ma che le era pur sempre noto, se non proprio
familiare. Era un’oscurità che dava una sensazione di freddo
o addirittura di sventura. Era un buio da fine del mondo.
Bettina continuava a tremare spaventatissima sotto lo sguardo
meravigliato di Stucco e, piagnucolando, continuava ad
implorare:
«Per carità, accompagnami a casa! Per piacere!»
Stucco si rese conto che la giovane civetta stava per sentirsi
davvero male e le disse:
«Va bene; ma stai calma, non ti agitare. Andiamo!»
Volarono fianco a fianco fino in cima alla torre e, solo
quando fu giunta nella sua tana, Bettina incominciò a
calmarsi.
«Stucco, ti prego. Non te ne andare ancora. Resta un po’ a
farmi compagnia. Ho troppa...ehm...» stava per dire paura, ma
si trattenne appena in tempo. Il barbagianni però non era uno
stupido.
«Di’ un po’, pulcina. Ma per caso non avrai mica paura del
buio?» le chiese col tono di chi era sicuro di aver trovato la
spiegazione dell’enigma.
«Ma che c’entra! Questo è un buio strano, protestò la civetta
vuoi mettere il sole che si spegne all’improvviso. Queste
tenebre così diverse… Certo, ho paura del buio ma non di
quello della notte.
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L’imbarazzo della civetta era evidente e non poteva sfuggire
al barbagianni.
«Ah, ora ho capito! Ecco le tue strane abitudini da dove... »
«Sì, è vero. Ho paura del buio! E allora? Ho paura del buio.
Io, una civetta, uccello notturno che più notturno non c’è, ho
paura della notte. E per questo non esco a caccia con
l’oscurità. Che cosa posso farci?»
Bettina si aspettava che Stucco si sbellicasse dalle risate a
questa confessione e si rotolasse per terra reggendosi la
pancia. Si sarebbe così certamente vendicato delle risate della
civetta alla storia della capocciata nel palo.
Il barbagianni invece rimase zitto e non sembrava che avesse
voglia di ridere. Dopo un po’ riprese:
«Certo, è un affare serio per un uccello notturno aver paura
del buio. Ma, ohè, quando uno ha paura, ha paura: non c’è
nulla da fare. Del resto, se io volessi raccontarti di tutte le
volte che ho avuto paura in vita mia , impiegherei un mese
sempre a parlare. E poi, se per te va bene andare a caccia di
giorno, nessuno ti può rimproverare per questo. Tu sei un
uccello libero e puoi fare quello che vuoi.»
Bettina mai si sarebbe sognato di udire parole così
comprensive da un vecchio barbagianni come Stucco e, a dir
la verità, rimase veramente commossa da tanta benevolenza.
«Tu lo dici per consolarmi, ma io so bene che non è una bella
cosa per una civetta andarsene in giro di giorno.»
«Ah, ma allora sei tu l’animale antiquato e dalla mentalità
ristretta!»
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E qui non poterono fare a meno di mettersi a ridere in modo
così allegro che, se qualcuno li avesse visti, avrebbe giurato
che quelli non erano i lugubri e tristi uccelli della notte.
L’allegria aveva scacciato dal cuore di Bettina la paura, anche
perché sembrava che il sole andasse restituendo l’abituale
splendore di una giornata estiva anche a quel pezzo di mondo.
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Capitolo secondo
BETTINA E LA LUNA
Nelle notti in cui splendeva la luna piena, Bettina non aveva
molta paura del buio, perché le tenebre non erano fonde e
l’aria intorno sembrava pervasa da una luce azzurrina. Il
bosco che si stendeva sotto la torre, dove la civetta aveva la
sua tana, sembrava ricoperto da un velo d’argento.
L’aria era tiepida in quei giorni di primavera inoltrata e
Bettina, che amava la luce del sole ma non le dispiaceva
quella della luna piena, restava volentieri sveglia fino a notte
tarda. Quella palla bianca esercitava su di lei un fascino
strano.
“ Ma come fa a rimanere sospesa nell’aria, così, senza ali e
senza piume?” si chiedeva Bettina, che naturalmente vedeva
il mondo con occhi da uccello. Non conosceva nessun altro
che potesse sollevarsi e volare nell’aria senza ali.
“E il bello è, si diceva la civetta, che riesce ad andare più in
alto di tutti gli uccelli che conosco, perfino più in alto
dell’aquila reale! Certo non deve essere un uccello come me,
come Stucco o come gli altri del bosco.
“Forse è la sorella del sole, si diceva a volte. E’ una sorella un
po’ pazzerella. Il sole esce ogni giorno in tutte le stagioni,
anche se qualche volta è coperto dalle nuvole; la sorella
invece esce solo quando ne ha voglia. Alcune sere passeggia
per il cielo e in altre preferisce restarsene a casa, forse a
dormire. Poi, da una settimana all’altra, dimagrisce e diventa
sottile sottile. Poi scompare e non la si vede più per giorni e
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giorni. Poi ricompare ed incomincia ad ingrassare, fino a
diventare una palla. Forse per questo suo carattere volubile, il
fratello la fa uscire di notte, quando solo pochi animali la
possono vedere. Il sole forse si vergogna di avere una sorella
un po’ pazzerella. Pazzerella come me. Forse se anch’io
avessi un fratello...chissà... anche lui si vergognerebbe di
avere per sorella una civetta che ha paura del buio.
“Però è bella”, pensava Bettina continuando a guardare la
luna. “Se apparisse così, grande e rotonda ad illuminare tutte
le notti che calano sul mondo, non avrei più paura del buio
notturno.”
E la luna, grande e rotonda, volava lenta nel cielo, senza ali e
senza piume, e rischiarava la pianura e dipingeva d’argento i
monti e le colline.
E Bettina, libera dal terrore dell’oscurità e pensando che la
luna era la sorella pazzerella del sole, si addormentava.
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Capitolo terzo
LA BEFANA
Che nottataccia!
Al calar della sera, come al solito, Stucco, il vecchio
barbagianni si mise in volo verso i monti, in cerca di cibo.
Faceva veramente freddo in quell’inizio di gennaio e cadeva
abbondante la neve. Le ali del barbagianni stentavano a
scaldarsi e a raggiungere il giusto ritmo di battiti in quel volo
di trasferimento. Più l’inverno incalzava e più difficile
diventava trovar prede fuori dalle loro tane, quasi tutte sepolte
da una candida coperta. Inoltre gli occhi dell’uccello
cominciavano ad appannarsi per l’età e spesso Stucco doveva
giungere molto vicino al suolo per vedere se vi fosse qualche
animale da ghermire. Il risultato era che la preda si accorgeva
del rapace molto prima che questi potesse afferrarla e si
rintanava velocemente, mettendosi in salvo. Perciò Stucco
riusciva sempre più raramente a trovare cibo per sfamarsi.
Adesso volava verso le pendici dei monti, dove meno folta
era la vegetazione e più facilmente poteva vedere sullo sfondo
bianco qualche incauto roditore aggirarsi sulla neve.
Il vento che spirava verso i monti era molto freddo, ma
aiutava il vecchio barbagianni, sostenendolo nel volo e
spingendolo verso il luogo che aveva scelto per cacciare
quella notte.
Stucco vi giunse stremato e si posò sul ramo di un albero per
riposare. Intanto guardava di sotto per scorgere qualche
preda.
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Ma quale animale si sarebbe azzardato ad uscire dalla sua
tana in quella notte di gelo, con quel vento e con la neve che
di tanto in tanto cadeva fitta dal cielo nerissimo?
Uova nei nidi, di quella stagione, non se ne trovavano di
certo! Meglio se fosse rimasto sul suo ramo, al riparo delle
foglie, anziché uscire inutilmente. Ma era troppo forte la fame
del barbagianni che già da tempo non faceva un pasto
soddisfacente.
Per molte ore l’uccello andò in cerca di cibo, e alla fine, tutto
quello che riuscì a mangiare fu un passero caduto assiderato
ai piedi di un abete.
Per un po’ il suo stomaco fu quietato. Però il freddo
consigliava al vecchio barbagianni di mettersi in volo per
rientrare al suo albero, là nel bosco, al riparo dal gelo intenso
dei monti. Sulla via del ritorno, il vento gli spirava contro e
Stucco trovava enormi difficoltà.
A volte doveva distendere le ali e abbandonarsi, perché non
ce la faceva più a batterle. Così rimaneva in balìa del vento
che gli faceva perdere quel poco di cammino che aveva fatto
a costo di grandi sforzi. Si riposava per un po’ su qualche
ramo e poi stentava sempre più ad alzarsi in volo. A fatica
cercava di vincere la forza del vento che lo spingeva verso i
monti. La neve continuava a scendere abbondante e Stucco
non vedeva neppure più ad un palmo dal becco. Le ali
sembravano diventate pesanti come se fossero state di ferro. Il
respiro era affannoso e l’aria gelida che gli entrava dalle
narici e dal becco, gli procurava un forte dolore al petto.
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Il barbagianni temeva che questa volta non ce l’avrebbe fatta,
che per lui fosse ormai giunta la fine. Si sentiva così sfinito
che si aspettava di precipitare al suolo da un momento
all’altro. Se ciò fosse accaduto, non si sarebbe più rialzato.
“Almeno trovassi un ramo su cui posarmi!” pensava. Ma in
quella bufera sembrava che la terra e il cielo fossero spariti. Il
barbagianni nuotava in un mare di nebbia grigia e densa,
sballottato dal vento e senza più il senso dell’orientamento.
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Un ramo provvidenziale
Proprio quando stava per abbandonarsi e cadere a precipizio
chissà dove, si vide davanti alle zampe un bel ramo diritto e
liscio. Animato dalla forza della disperazione, non se lo lasciò
sfuggire; si afferrò ad esso, tenendosi anche col becco e
cercando di rimanere in equilibrio. Stava ringraziando tra sé
chiunque gli avesse mandato quell’insperato appoggio,
quando sentì una voce vicinissima:
«E’ proprio una nottataccia eh, vecchio mio?»
Stucco ebbe un sussulto che gli fece perdere l’equilibrio; ma
una mano, coperta da un guanto di lana abbastanza
malandato, lo sostenne.
«Stai pure comodo, non te ne andare. Sulla mia scopa c’è
posto anche per te. Hai bisogno di riposare un po’. Ma chi te
lo fa fare ad andare in giro con un tempaccio simile?»
«Ehm... ma io... Che spavento! Stavo ritornando nel bosco...
io...»
«Ma il bosco è dall’altra parte!»
«Sì, infatti mi ero perduto. Ma tu chi sei?»
«Come, non mi riconosci? Sono la Befana. Oggi è il cinque
gennaio, anzi è il sei gennaio, visto che la mezzanotte è già
passata da un bel pezzo. E’ il mio giorno di lavoro; per il
resto dell’anno sono in ferie.»
«Oh, è bello il tuo lavoro se lo svolgi tutto in una sola notte
dell’anno. Che specie di lavoro è?» chiese Stucco al quale la
curiosità non era scomparsa neppure in una notte così fredda.
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«Ma come! rispose la Befana meravigliata. Non sai qual è il
mio lavoro? Già, tu sei un barbagianni e, per quanto ne
sappia, non c’è una Befana per voi uccelli notturni.
Vedi, ogni anno, nella notte tra il cinque ed il sei gennaio, io
vado in giro per il mondo, sulla mia scopa, a portare doni ai
cuccioli dell’uomo, per farti capire.
Sì, insomma: ai
bambini.»
«Una sola volta all’anno?» chiese Stucco.
«Beh, sì e solo a quelli che hanno fatto i bravi per tutto
l’anno.»
«Eh! esclamò il barbagianni. Ma tu pretendi troppo. Qualche
regalino per un intero anno di sacrifici, mi sembra un po’
poco.» «Ma i bambini buoni non fanno alcun sacrificio ad essere tali.
Sono naturalmente buoni e perciò il sei gennaio ricevono i
miei regali.»
Ma se non fanno alcun sacrificio ad essere buoni, allora quali
meriti hanno per avere i tuoi doni? Li dovresti invece portare
a quelli cattivi che...»
«Uhè, uhè!- lo interruppe la Befana. Non ti ci mettere anche
tu a confondermi le idee adesso, altrimenti ti lascio qui in
mezzo alla tormenta, sai! Ci mancherebbe ora che anche un
barbagianni qualsiasi mi venisse a dire a chi debbo portare i
doni! Già bastano i bambini a crearmi nella testa una bufera
tale che quella di stanotte, a confronto, sembra una tranquilla
nottata di agosto! Ce ne sono di quelli che fanno il diavolo a
quattro per tutto l’anno, malandrini dall’alba del sei gennaio
fino al tramonto del cinque gennaio successivo.
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Poi diventano improvvisamente degli angioletti. E tu allora,
senza guardare né il calendario né l’orologio, non ti puoi
sbagliare: a vedere come questi diavoloni diventano mansueti,
puoi giurare che è il cinque di gennaio e sta per far sera. Tu
dici : “Eh, ma non mi imbrogliano questi briganti che si
camuffano per poche ore da agnellini!” E pensi di riempire le
loro calze di carboni e cenere. Poi leggi le letterine che ti
lasciano appese al camino o sotto l’albero di Natale e rimani
stregata. Certe paroline dolci! Tante di quelle promesse per il
nuovo anno che tu pensi proprio che per il resto della loro vita
non faranno più male ad una mosca e passeranno il tempo
solo a studiare e a fare del bene. E riempi le loro calze di
giocattoli e cose buone, come se avessero fatto i bravi
bambini da quando sono nati. Ma eccoli qua! Non spunta
neanche l’alba del sei gennaio che gli angeli diventano di
nuovo diavoli e ti farebbero venire la voglia di andarti a
riprendere tutti i doni che hai portato loro. Ma non puoi. E
allora ti dici che il prossimo anno non gliela farai passare
liscia. E l’anno dopo ti imbrogliano di nuovo. Credi che sia
una cosa facile fare il mestiere della Befana?»
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Una Befana anche per gli uccelli
Stucco ascoltava le parole della vecchina che continuò con
una punta di amarezza nella voce:
«Ti devi sempre tenere aggiornata. Ogni giorno escono
diecimila nuovo tipi di giocattoli, alcuni talmente complicati
che è difficilissimo perfino nominarli. E’ vero che ho
l’ingresso libero in ogni negozio ed il permesso di prelevare
gratuitamente più campioni di ogni tipo di giocattoli che le
fabbriche mettono in commercio. Ma è lo stesso una
faticaccia che non ti dico. Senza qualcuno che ti dia una
mano. Con i bimbi che chiedono le cose più strane. Uh, è
proprio una vitaccia! A volte penso di cambiar mestiere. Ma
che mi metto a fare? So fare solo la Befana.»
«Beh, ma almeno tu servi a qualcosa: almeno fai felici i
bambini, anche se solo una volta all’anno.» rispose Stucco,
anch’egli sconsolato.
«E già: faccio felici i bambini. Questa è certamente una cosa
molto bella. Però, sai... una spina nel cuore ce l’ho anch’io.»
«E chi non ce l’ha almeno una spina nel cuore?»
«Vedi, perché... mi fa una rabbia! Io porto doni a tutti i
bambini del mondo; in una notte gelida come questa mi
faccio in quattro per assolvere al mio compito nel giro di
poche ore... Ebbene, non ci crederai, io non ho mai visto
come si illumina il viso di un bambino alla vista dei doni
tanto desiderati. Dicono che sia uno spettacolo meraviglioso,
ed io... proprio io, non l’ho mai visto... Io non devo vederlo!»
«E perché non devi vederlo?» chiese Stucco con meraviglia.
Guido Esposito – I racconti della civetta
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«E perché, perché... Perché ho ordine di non farmi vedere da
nessuno, né piccino né adulto. Prima dell’alba devo essere
rintanata nel mio castello. E’ una disdetta!»
C’era tanta amarezza nelle parole di quella tenera vecchina.
Stucco capì e tentò di consolarla.
«Ma almeno tu hai la consolazione di sapere che fai felici
milioni e milioni di bambini. Io non riesco più a rendermi
utile neppure alla natura; non sono più in grado di liberare il
terreno da roditori e rettili. Sono giorni e giorni che non
riesco a catturare neppure un vermetto,» rispose Stucco
malinconicamente.
La Befana lo guardò benevolmente e poi gli disse:
«Hai fame vero, povero barbagianni? Aspetta, lasciami
guardare se nel mio sacco è rimasto qualche pasticcino
dimenticato. Sai, sono buoni i pasticcini e le caramelle che
porto ai bambini! Ecco, ce ne sono ancora. Accontentati di
questi. Mi dispiace che nessun bambino mi abbia mai chiesto
di portargli in dono qualche topo o qualche serpente,
altrimenti... qualcuno dimenticato nel sacco... Toh, prendi
anche quest’altro.»
Il barbagianni mangiò quei dolcini saporiti e subito sentì
rinascere le sue energie.
«Grazie. Avevo proprio bisogno di rimettermi in forze, prima
di riprendere il viaggio.»
La tempesta di neve non accennava a diminuire; ma Stucco si
sentiva al sicuro sulla scopa di quella buona vecchina.
«Stai tranquillo: ti porto io con il mio mezzo di locomozione
fino a destinazione,» promise la Befana.
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Guido Esposito – I racconti della civetta
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Era vero: a Stucco capitavano le cose più incredibili.
Incontrare nientemeno che la Befana! A raccontarla, nessun
barbagianni ci avrebbe creduto. Se Bettina lo avesse visto, su
quella scopa, in compagnia di quella gentile signora, che
poteva avere un’età... quanto?... forse cent’anni, forse mille o
duemila. Sai che spavento per quella civetta fifona!
«Di’ un po’, cara Befana: per caso non ti è rimasto anche
qualche dono in più nel tuo sacco?»
«Che? Un dono? chiese la Befana. Qualcosa che possa fare
felice qualche pulcino di barbagianni, dici?»
«O una civetta che tanto pulcina non è più.»
«Una civetta?»
«Sì, una giovane civetta che ha paura della notte.»
«Una civetta che ha... Ma mi vuoi prendere in giro, ingrato
barbagianni?»
«No, ti giuro che conosco una civetta di nome Bettina che ha
paura del buio. Dico sul serio! Se tu avessi in fondo al sacco,
qualcosa che fa al caso suo, la faresti felice.»
La Befana assunse un’aria assorta.
«Qualcosa che possa fare felice una civetta che ha paura della
notte. Ma tu guarda un po’ cosa mi deve capitare di sentire!»
e intanto rovistava in fondo al sacco.
«Vediamo un po’: un trenino elettrico. No, questo non dà
luce. Vediamo cosa altro c’è... Uno scatolo di cioccolatini... Beh, anche questo va bene, la interruppe Stucco. Sai, è una
civetta giovane e forse le piacciono i cioccolatini. Ma cerca
ancora qualcosa di più utile.» -
Guido Esposito – I racconti della civetta
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La Befana gli lanciò un’occhiataccia, ma continuò a cercare,
perché, si sa, quella vecchina non sa dire proprio di no a chi
le chiede qualcosa. Lo scopo della sua vita è quello di donare.
«Una bambola... un fucile a salve. Eh no, credo di non avere
proprio niente che vada bene per una civettina. Mi dispiace
per la povera Bettina. Forse il prossimo anno... Dille che
metta la calza fuori dalla tana, l’anno prossimo e che mi
scriva una letterina e... che soprattutto faccia la brava, ed io
vedrò di accontentarla. Cosa potrebbe desiderare la tua
Bettina?»
«Eh, per quella ci vorrebbe un piccolo sole personale che
sorgesse al tramonto e tramontasse all’alba. Eppoi lei non usa
calze e non sa scrivere. Beh, ma non fa nulla, va’. Era stata
solo un’idea. Un’idea un po’ pazza. Ti ringrazio ugualmente
per lei.»
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Guido Esposito – I racconti della civetta
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Un dono appropriato
Peccato! Il vecchio Stucco era rimasto visibilmente deluso.
“ Sai che gioia sarebbe stata per quella civetta strampalata
poter disporre di qualcosa che le rischiarasse la tana “ pensò il
barbagianni.
E la Befana, che talvolta sa leggere anche nel pensiero:
«Va’ là, vecchio uccellaccio, che stanotte non potrei rientrare
al mio castello sapendo che ho lasciato qualcuno deluso,
foss’anche solo un barbagianni infreddolito.» Stucco vide che la vecchina si frugava tra le pieghe del
mantello. Alla fine ne trasse uno strano aggeggio.
«Ecco qua! Tanto a me non serve più per quest’anno. Vedi
questo bottone? Spostandolo in avanti, si accende. Così.»
Un fascio di luce violenta colpì in pieno il vecchio Stucco, il
quale lasciò la presa delle zampe e stava per essere rapito dal
vento. Oplà! La Befana lo afferrò per la coda.
«Cosa fai? Hai paura della luce? Ah, già. Tu sei un uccello
notturno, dimenticavo. Ma la tua Bettina ama la luce, e allora
potrai portarle questa lampada.»
«Oh, ti ringrazio. Sei davvero gentile, cara Befana! Beati i
figli dell’uomo che hanno una persona così generosa; anche
se, devo dirti la verità, continuo a pensare che una sola visita
all’anno da parte tua, è troppo poco.»
La Befana sorrise.
«Vai, va’, amico mio. Sei giunto a destinazione. Sotto di noi
c’è il tuo bosco. Non dimenticare: spostare il bottone in avanti
per accenderla, indietro per spegnerla. Bada bene che è una
Guido Esposito – I racconti della civetta
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lampada magica. Non si esaurisce mai, se non quando il cuore
di chi la possiede diventa cattivo. Addio, vecchio
barbagianni! Mi ha fatto molto piacere averti incontrato. Se
l’anno prossimo, alla stessa ora, ti farai un voletto da queste
parti, forse ci rivedremo e mi dirai se Bettina è stata contenta
del regalo. Addio!»«Allora arrivederci, e grazie per la lampada e... per avermi
salvato la vita.»
Lo strano mezzo di trasporto della Befana depose Stucco
sulla neve delicatamente, insieme alla lampada e allo scatolo
di cioccolatini, proprio sotto la torre in cima alla quale c’era
la tana di Bettina.
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Guido Esposito – I racconti della civetta
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Un’alba gioiosa
L’alba era lontana e sicuramente la civetta dormiva ancora
Come fare per non spaventarla? Stucco provò a chiamarla con
quanto fiato aveva in corpo:
Bettina! Bettinaaa! La civetta, che aveva il sonno leggero, sussultò ma non aprì
gli occhi: lo faceva molto raramente nel cuore della notte.
«Chi è che chiama?» domandò intimorita.
«Sono Stucco. Non ti spaventare. Vengo su, nella tana.»
Prese lo scatolo di cioccolatini con le zampe e volò verso
l’alto con fatica.
«Ho qualcosa per te, guarda.»
Bettina, che quando c’era qualcuno a farle compagnia, non
aveva più paura, aprì gli occhi.
«E che cos’è?» domandò
«Sono cioccolatini.» - rispose Stucco che aveva il cuore
colmo di gioia.
«Cioccolatini? E di che si tratta?» chiese la civetta incuriosita.
«Vedrai. Se sono buoni come i pasticcini, ti piaceranno. E’
roba da mangiare. Aspetta. Ho qualcos’altro, qui giù, sotto la
torre. Vado a prenderla.»
Fu più duro per il barbagianni alzarsi in volo fino in cima alla
torre con la lampada tra le zampe; ma nelle ali di Stucco c’era
la forza che hanno le azioni quando sono fatte col cuore e
perciò ci riuscì.
«Guarda qui. Sai cos’è questa? E’ una lampada. Sai a cosa
serve?»
Guido Esposito – I racconti della civetta
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Il barbagianni sembrava ringiovanito. Frullava con le ali,
saltellava di qua e di là sull’imboccatura della tana di Bettina,
perdeva l’appoggio delle zampe e doveva aiutarsi con le ali
per riprendere l’equilibrio.
«Calmati, Stucco! Ma sei impazzito? Vieni qua a svegliarmi,
mi presenti delle strane cose e vuoi che io ti dica a che
servono! Ma forse la fame e il freddo ti hanno dato alla
testa?»
«Ascolta, Bettina. Questo aggeggio... non ti dico come l’ho
avuto, perché non mi crederesti. Questi cioccolatini sono
squisiti, più saporiti di un toporagno o di una biscia, vedrai!
Questa qui è una lampada, fa luce e rischiara le tenebre. Ti
servirà per non avere più paura, la notte. Guarda!»
Stucco spostò il bottone in avanti ed un fascio di luce tagliò il
buio della notte ed illuminò gli alberi coperti di neve. I
fiocchi che scendevano dal cielo, illuminati intensamente
dalla lampada accesa, mandavano bagliori argentei. La bufera
spaventosa, vista sotto la luce della lampada, sembrava una
festa.
Bettina rimase a becco aperto per lo stupore. Stucco spense e
accese l’aggeggio per più volte. E intanto spiegava alla
civetta che, chi gliel’aveva data, aveva detto che non si
sarebbe mai esaurita se non quando Bettina avesse avuto il
cuore cattivo e, per la verità, neppure aveva capito bene cosa
volesse dire esaurirsi e come un cuore può diventare cattivo.
Bettina allora cominciò a capire come le poteva essere utile
quella lampada. Stucco aveva veramente un cuore d’oro!
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Guido Esposito – I racconti della civetta
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Il barbagianni, a colpi di becco, aprì lo scatolo di cioccolatini
e ne offerse uno a Bettina. Davvero squisiti!
Affamati com’erano, ne divorarono metà scatolo, mentre
Stucco, che Bettina ci credesse o no, le raccontava come
aveva ottenuto tutto quel ben di Dio in una notte tempestosa e
magica.
L’alba di quel sei gennaio non ebbe solo la fortuna di leggere
la gioia sui volti di tutti i bambini alla vista dei doni della
Befana, ma con sorpresa, poté notare un’insolita aria di festa
anche nella tana risplendente di Bettina, dove due uccelli
notturni, invece di prepararsi a dormire, festeggiavano e
parlavano e parlavano più di due pappagalli linguacciuti.
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Capitolo quarto
CRUDELE INVERNO
Gelo e fame
Quell’anno l’inverno aveva proprio deciso di essere più
crudele che mai. A metà marzo non era ancora stanco di
bufere, neve, vento e gelo. Il bosco, stretto in una morsa di
ghiaccio, sembrava morto. Non più voli, non più canti,;
soltanto freddo e fame per quei poveri animali che, rinchiusi
nelle loro tane, avevano consumato già da tempo le provviste
accumulate nella bella stagione.
Tra tutti gli animali del bosco, gli uccelli notturni erano quelli
che si trovavano in maggiori difficoltà. Ad uscire di notte si
rischiava di morire assiderati, perché la temperatura
raggiungeva i limiti più bassi. Più gelido era il vento e più
scarse divenivano le possibilità di trovare prede in
circolazione.
Crudele era l’inverno e più crudeli che mai divenivano i
predatori. Spesso aggredivano i nidi degli uccellini,
sorprendendoli nel sonno. A volte scoppiavano liti rabbiose
per contendersi un verme o un toporagno che qualcuno era
riuscito a catturare chissà dove.
Chi invece non soffriva molto per le difficoltà del gelo, era
Bettina. Usciva di giorno, quando il freddo era meno intenso.
Avendo dalla sua parte la forza della gioventù, si spingeva
fino a valle, dove la neve era meno alta e si poteva trovare
anche qualche zona di terreno sgombra. Qui la civetta
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Guido Esposito – I racconti della civetta
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riusciva spesso a catturare qualcuno dei roditori che già si
erano risvegliati dal letargo e se ne andavano in cerca di cibo.
E non dimenticava mai di portare qualche buon pezzo di
carne a Stucco, che se la sarebbe passata proprio male se la
civetta non avesse provveduto a procurargli di che mangiare.
Con quel freddo, il barbagianni non usciva più dal suo buco
nell’albero. Soffriva tanto per i suoi dolori alle ali e al petto e
non poteva più volare.
Bettina, quando il giorno era fatto già da un pezzo, volava
dalla sua tana in cima alla torre fino all’albero di Stucco. Qui
trovava il barbagianni appollaiato nel suo buco.
«Come va, Stucco?» gli chiedeva.
«Va bene, va bene.» le rispondeva sempre il vecchio uccello.
Non gli andava proprio di far sapere a Bettina che temeva
molto di non giungere alla primavera, se questa avesse tardato
ancora ad arrivare.
«Ora vado giù e ti porto qualcosa da mangiare, eh, vecchio
mio?»
«Non darti pena per me, Bettina. Stanotte sono uscito ed ho
cacciato a lungo,» mentiva il barbagianni.
«Va bene, Stucco - rispondeva la civetta. - Io ti porto
ugualmente qualcosa. Se non hai fame la conservi.»
E volava veloce verso la valle, sapendo bene che il
barbagianni era affamato e che al suo ritorno avrebbe
divorato con avidità quel pezzo di carne che contava di
portargli.
Guido Esposito – I racconti della civetta
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E così anche Stucco, con l’aiuto di Bettina, era riuscito a
sopportare alla meno peggio quell’inverno più rigido di ogni
altro.
La giovane civetta usciva con qualsiasi tempo, anche se c’era
bufera: sapeva che Stucco aveva bisogno di mangiare,
altrimenti non avrebbe resistito.
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Un pranzetto per Stucco
Quella mattina la bufera di vento e neve non accennava a
smettere. Era durata tutta la notte e, ad interrogare il cielo, ci
si sentiva rispondere che non aveva voglia di smettere tanto
presto.
Bettina avrebbe molto volentieri evitato di uscire, almeno in
quella mattinata. Ma, dopo la consueta visita al barbagianni,
si era accorto che il vecchio uccello era molto debole e aveva
bisogno di mangiare al più presto.
Si precipitò a valle lottando contro la neve e il vento gelido
che voleva spingerla verso il monte e riuscì a raggiungere un
pianoro, dove la temperatura era più mite e a tratti, tra le
pesanti nuvole, veniva fuori anche uno squarcio di sereno.
Laggiù si poteva cogliere qualche segno della primavera che
non era lontana e che presto sarebbe esplosa; così il vecchio
barbagianni sarebbe guarito e avrebbe ripreso a volare.
“Guarda quanti bei tassi ci sono in giro! Si sono appena
svegliati dal loro letargo. Certo non saranno belli grassi come
in estate, ma... meglio che niente” pensava Bettina.
Sugli alberi e sul terreno giravano scoiattoli e ghiri, lucertole
e serpenti. C’era da farsi una bella scorpacciata! La civetta
catturò un tasso e pensò:
“ Questo è per Stucco “
Si saziò divorando qualche preda catturata alla svelta.
Riprese il tasso fra gli artigli e si diresse a tutta velocità verso
i monti, aiutata nel volo dal vento favorevole: Stucco si
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sarebbe certamente leccato il becco con quel bel pranzo che la
civetta gli stava portando.
Sul bosco la bufera non era ancora cessata, ma il vento non
soffiava più così violento. Bettina si posò sul ramo vicino alla
tana del barbagianni, respirando affannosamente per il lungo
e rapido volo, reso più faticoso dal peso della preda che
portava.
«Uffà, che faticaccia! Stucco, guarda che cosa ti ho portato.
E’ un tasso. Puf! Vedessi a valle quanto ben di Dio gira sul
terreno. Laggiù si sente che la primavera sta arrivando. Non
tarderà ad arrivare anche qui. Avanti, Stucco. Vieni fuori a
mangiare.»
Ma dalla tana del vecchio barbagianni non venne risposta.
«Stucco, ma dove diavolo ti sei cacciato? Vieni fuori,
uccellaccio freddoloso!»
Bettina entrò nella tana e la trovò deserta. La rovistò da cima
a fondo: niente.
“Ma dove se n’è andato quel vecchio pazzo con questo
tempaccio?” si chiedeva Bettina con l’angoscia nel cuore.
Lo attese fino a sera, ma Stucco non ritornò.
Ormai era più di una settimana che il barbagianni non usciva
dalla sua tana e proprio con una giornata brutta come
nessun’altra, quello stupido pennuto se ne era andato in giro
per il bosco!
Quando la civetta si accorse che cominciavano a calare le
prime ombre della sera, decise di lasciargli il tasso nella tana
e ritornare al suo buco in cima alla torre.
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Guido Esposito – I racconti della civetta
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Dormì sonni brevi e agitati e sognò Stucco che, travolto dalla
bufera, andava a sbattere contro un palo della corrente
elettrica e cadeva svenuto sul terreno, e lì veniva divorato da
una banda di faine. Si svegliava in preda alla paura e
all’angoscia, ma non aveva il coraggio di andare ad accertarsi
se Stucco fosse tornato alla sua tana. Si riaddormentava dopo
un po’ per riprendere a sognare il barbagianni che, mentre era
in volo, veniva colpito da un fulmine e cadeva arrostito al
suolo. E si svegliava più atterrita della volta precedente.
Finalmente, alle prime luci dell’alba, volò alla tana di Stucco.
Entrò. La preda era intatta, ancora là dove l’aveva lasciata la
sera, e Stucco non c’era; non era tornato.
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Alla ricerca di Stucco
Bettina incominciò a preoccuparsi disperatamente.
Girò per il bosco in cerca del suo amico. Che avesse cambiato
tana? Così, senza neppure avvertirla?
Esplorò ogni albero, ogni roccia o muro, ogni buco che
esisteva nel bosco, ma non trovava traccia del barbagianni.
Per tutto il giorno non fece altro che andare in giro,
spingendosi fin sulla cima dei monti, andando a svegliare
gufi, civette e barbagianni per chiedere se avessero visto il
vecchio Stucco. Nessuno sapeva dove fosse.
Matilde, una civetta madre di sei bellissimi civettini, che
abitava con la famiglia sotto un ponte, si avvide che Bettina
era molto addolorata per la scomparsa dell’amico e cercò
allora di consolarla.«Vedi, cara Bettina, noi uccelli notturni
abbiamo una vita lunga. Ma, prima o poi, anche per ognuno
di noi giunge quel giorno.»«Oh, no! Vuoi dirmi che il caro
Stucco è morto?» si disperò la giovane civetta.
«No, forse è in giro alla ricerca di cibo. Ma sai, Stucco era...
ehm... cioè... è molto vecchio e stanco. L’inverno è stato duro
per tutti. Se non si è giovani, se non hai figli che procurino il
cibo anche per te, e beh... è un po’ difficile spuntarla, sai.»
«Ma Stucco ha me, che gli porto ogni giorno da mangiare!»
protestò Bettina e si sentiva un groppo di pianto alla gola.
«Sì, mia cara. Ma era vecchio, molto vecchio.»
«Ma tu ne sei sicura? L’hai visto morto?» chiese con ansia.
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«No. E’ più di una settimana che non lo vedo.»
«E allora come fai a dire che è morto?»
«Ma era vecchio, tanto...»
«Ma vai al diavolo, uccellaccia del malaugurio! Tu non l’hai
neppure visto e già lo dai per morto!»
Bettina non volle più ascoltarla e se ne andò. E volò ancora a
lungo in cerca del vecchio barbagianni. Ma quando chiedeva
di lui a qualche animale del bosco, questo scuoteva la testa e
diceva:
«L’inverno è stato lungo, troppo lungo e freddo. Ne ha
mandati tanti all’altro mondo.»
Sul far della sera Bettina se ne tornò nella tana triste e
sconsolata. Aveva cercato per un giorno intero, dimenticando
perfino di mangiare.
E la stessa cosa fece il giorno dopo. Volò ancora per il bosco
e per i monti, chiedendo di Stucco a chiunque incontrasse, e
tutti dicevano:
«Eh, la vecchiaia! Eh, il freddo notturno... sai, credi che stai
per addormentarti e invece, puff! cadi dal ramo, sbatti sulla
neve, altra neve ti ricopre e... amen.»
Bettina allora volò in fretta sotto l’albero del barbagianni e
scavò per tutto il resto della giornata, nella neve. Ma Stucco
non era neppure lì.
Per tre giorni Bettina aveva cercato tracce del vecchio amico.
Al quarto giorno pensò che non c’era più nulla che potesse
fare ed incominciò a rassegnarsi all’idea che non avrebbe più
visto il caro barbagianni.
Guido Esposito – I racconti della civetta
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Finalmente, la primavera !
Intanto la primavera era giunta anche nel bosco.
La neve andava sciogliendosi e il cielo mostrava sempre più
ampi squarci di sereno. Il ruscello che veniva giù dai monti,
era allegro ed impetuoso e gorgogliava con fragore tra le
rocce.
Gli uccelli, a stormi sempre più folti, facevano larghi giri al di
sopra del bosco e già qualche rondine tornava al suo nido.
Appena il sole faceva capolino tra le nuvole, era tutto un
cinguettare, un garrire, uno squittire.
“Eh - pensava Bettina - sembrava che l’inverno li avesse
uccisi tutti... e invece... s’è portato via solo il povero Stucco.”
Ad un tratto vide strisciare una biscia in un cespuglio ormai
libero dalla neve. In un attimo le fu sopra e la ghermì con gli
artigli. La serpe, mentre si contorceva per liberarsi, urlò a
Bettina:
«Fermati, ti prego! Se mi risparmi la vita, ti dirò del vecchio
barbagianni, tuo amico. Io so che fine ha fatto. Sono stata
l’ultima a vederlo. Se mi lasci andare, ti racconto tutto.»
«Non è vero! Tu non sai niente. Lo dici solo per avere salva
la vita,» rispose Bettina.
«Te lo giuro! Io lo so. La mia tana è proprio di fronte
all’albero di Stucco. Vedi, conosco anche il nome. So anche
che gli portavi da mangiare ogni giorno. Ti puoi fidare.»
Bettina, che aveva una gran fame, avrebbe volentieri fatto un
bel boccone di quella biscia. Ma a sentire che forse sapeva
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Guido Esposito – I racconti della civetta
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veramente dov’era finito Stucco, le promise di lasciarla dopo
che avesse raccontato.
«Ti avverto però, - disse la serpe - le notizie che ho non mi
sembrano molto buone. Non ti arrabbierai nell’udirle e ti
scorderai la promessa?»
«Stai tranquilla! Ti lascerò andare qualunque cosa tu dica,
purché sia la verità.»
Allora la biscia prese a raccontare:
«Quando tu lo lasciasti l’ultima mattina che l’hai visto... Ti
ricordi?»«Eccome, non mi ricordo? Continua!»
«Ebbene, il barbagianni stava proprio male. Uscì dal suo
buco perché non poteva respirare. Si appollaiò sull’orlo
della tana e non si mosse di lì per mezz’ora circa. Poi, tutto
ad un tratto, barcollò e cadde di peso sulla neve, proprio
davanti ai piedi di due guardie forestali che avevano portato
il fieno ai daini. Uno di essi lo raccolse e disse: «Poverino!
E’ morto per il freddo.» Se lo passavano a turno,
accarezzandolo e sfregandogli le piume. Mi pare di aver
sentito parlare di un imbalsamatore, non ho capito bene le
loro parole. Poi lo avvolsero in un panno e lo portarono via.
Sai, mi dispiace: so che gli volevi bene, ma, se posso
esprimere la mia opinione, credo che tu debba rassegnarti a
non vederlo più.»
Bettina sospirò, poi mollò la presa e la biscia fu libera.
Mentre andava a rintanarsi di gran carriera, la serpe le disse:
«Sei onesta e leale, Bettina. Non meriteresti di soffrire. Ma la
vita è fatta così. Grazie! Spero di non incontrarti mai più.»
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La civetta pensava che avevano proprio ragione quelli che
dicevano che l’inverno era stato lungo e freddo e che Stucco
era vecchio. Intanto si avviava in volo verso il rifugio della
Guardia Forestale, un po’ più a valle.
Girò a lungo intorno alla casupola, sbirciando all’interno; ma
non riusciva a vedere se c’era un barbagianni imbalsamato su
qualche mensola. Si infilò allora nel camino e, scendendo
lungo la canna fumaria, si trovò in una stanza. Era deserta.
Girò dappertutto, ma non vide Stucco, né vivo, né
imbalsamato; né scoprì traccia del passaggio di lui in quella
casa.
Uscì per la stessa via da cui era entrata e prese la strada del
ritorno.
Decise di smettere ogni altra ricerca perché ormai la
testimonianza della biscia e la visita al rifugio della Guardia
Forestale avevano finito per toglierle ogni residua speranza di
ritrovare Stucco, il caro e indimenticabile barbagianni.
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Capitolo quinto
VITA AVVENTUROSA
In giro per il mondo
La primavera era giunta vestendo il suo abito più bello,
intessuto di fiori multicolori e di erbe dal verde brillante,
adorno di rondini e farfalle, di ragnatele dorate mosse da una
lieve brezza carica di profumi.
E’ ogni volta così che si veste la primavera; eppure sembra
presentarsi ai nostri occhi sempre vestita all’ultima moda, in
un abito sempre elegante, un’assoluta novità.
La civetta Bettina, in quella bella e luminosa mattinata, era
riuscita facilmente a soddisfare il suo appetito.
Ormai già da molti giorni non era più costretta a ritornare nel
bosco per portare da mangiare a Stucco.
“Ora forse il vecchio barbagianni - pensava Bettina - starà
volando nel paradiso degli uccelli, dove è sempre primavera e
c’è cibo in abbondanza per l’eternità.”
La giovane civetta non aveva più voglia di cacciare. Cosa
poteva fare di bello?
Gli venne in mente quella volta che Stucco, in vena di fare il
filosofo, le aveva detto che il mondo è bello e vale la pena di
girarlo il più possibile per conoscerlo. Quella era
un’occasione; aveva tempo davanti prima che facesse sera,
ora che il giorno si era di molto allungato.
“ E allora giriamo un po’ il mondo!- si disse Bettina. E volò
verso il fondo valle, decisa ad andare oltre i limiti consueti,
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fino a quando il sole non avesse iniziato la parte in discesa
del suo cammino giornaliero. A quel punto avrebbe preso la
strada del ritorno, per non farsi sorprendere dalle ombre della
sera fuori dalla sua tana.
Oltre la valle c’erano altri monti e poi ancora una valle e una
pianura e paesi e colline. La civetta volava contenta nella
dolce aria di primavera e si divertiva a lasciarsi trasportare
dal vento, abbandonandosi con le ali stese. Poi,
improvvisamente le chiudeva, volgeva il becco in basso e
scendeva giù come un fulmine, fino a sfiorare l’erba dei
campi. Quindi riapriva le ali e puntava verso l’alto e si
tuffava nell’azzurro cielo, dove il sole amico le sorrideva
gioioso.
“ Eh, questa gioventù! “- avrebbe detto certamente Stucco se
l’avesse potuto vedere.
E dopo essersi inebriata di azzurro, decideva di ritornare
verso il verde dei prati. Una capriola e... oplà: il verde. Il
verde...? Ma qua sotto c’è altro azzurro! E i campi dove sono
andati a finire?
Bettina non riusciva più ad orientarsi. Cielo di sopra e cielo
di sotto. Fece un paio di giravolte nell’aria senza sapere quale
direzione prendere. Poi riuscì a vedere le colline lontane e si
diresse verso di esse. Il cuore le batteva forte. Vide una
roccia e vi discese per riprendersi dallo spavento.
“ Che strano - pensò.- Quello che ho davanti non è il cielo: è
acqua! “
Non aveva mai visto tanta acqua insieme. Non sapeva che
cosa fosse il mare. L’unica acqua che conosceva era quella
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del ruscello che scorreva nel bosco e con la quale si
dissetava.
A vedere quell’azzurra distesa che brillava sotto i raggi del
sole, rimase incantata. Non finiva mai, fin dove arrivava la
sua vista ed anche oltre.
“ Forse qui termina la terra - pensò.
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Uno strano uccello
Ad un tratto due grandi ali vennero a svolazzarle proprio
davanti. La civetta ebbe un sussulto e fece un balzo
all’indietro. Che strano quell’uccello tutto bianco e con una
testa piccola piccola! Aveva tuttavia una linea elegante
mentre avanzava a passo sicuro verso di lei. Era un uccello
marino, quindi conosceva il mondo e non si lasciava
intimidire dalle cose insolite.
«Toh! Una civetta in giro di giorno e per di più vicino al
mare. E’ una cosa che non succede molto spesso. Come ti
chiami?»«Io... mi chiamo Bettina,» rispose titubante la civetta.
«Ed io Ernesto e sono un gabbiano, un uccello di mare.»
«Sicché questo è il mare!- esclamò Bettina. - Ne avevo sentito
parlare, ma è la prima volta che lo vedo.»
Poi, indicando altri gabbiani che, poco lontano, sfioravano a
frotte la superficie marina, chiese:
«Ma cosa fanno i tuoi compagni?»
«Pescano. Catturano pesci per cibarsi - rispose Ernesto.
«E’ un cibo saporito?»
«Eeeh! E’ saporitissimo. Noi mangiamo solo quello. Tu non
l’hai mai provato?»
«No, non so neppure come è fatto.»
«Beh, dovresti provarlo. E’ buonissimo da mangiare ed è
divertente catturarlo.»
«Io non so come si cattura un pesce. Mangio tutt’altra roba,»
rispose la civetta.
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«Guarda. Ti faccio vedere come si fa.»
Ernesto volò verso il mare sfiorandone appena la superficie.
Ad un tratto tuffò a volo la testa nell’acqua e la cacciò fuori
con un pesce guizzante nel becco. Tornò sulla roccia e
davanti a Bettina ingoiò la preda ancora viva. Poi le disse:
«Non è difficile, come vedi. Si tratta solo di avere la vista
buona e di saper scegliere il momento opportuno per
afferrarne uno. So che queste capacità non mancano a voi
rapaci. Provaci!» la invitò Ernesto.
«Ma sai, - rispose la civetta dubbiosa - non ho esperienza del
mare. Ho paura che...»
«Ma no! - la interruppe il gabbiano. - E’ facile. Vola al mio
fianco e fa’ come faccio io. Avanti, coraggio. Prova!»
La civetta seguì il gabbiano che si era alzato in volo, ma
proprio per non far intendere che mancava di coraggio.
Ernesto la condusse a sfiorare l’acqua, ma Bettina non osava
immergervi la testa. Proprio mentre stava decidendo di
rinunciare all’impresa, un’onda le si formò improvvisamente
davanti e Bettina vi andò a sbattere col petto, sollevando uno
spruzzo.
Si era bagnata tutta e gli occhi presero presto a bruciarle per
l’acqua che vi era entrata. Allora, spaventatissima, puntò il
becco verso l’alto e tentò di rialzarsi. Ma si accorse che le ali
erano divenute pesanti per l’acqua di cui si erano imbevute. Il
panico poi finì per paralizzargliele. Ormai galleggiava
sull’acqua annaspando a fatica.
Ernesto allora, accortosi che la civetta rischiava di affogare,
chiamò a raccolta i compagni e, insieme a questi, tentò il
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disperato salvataggio. Cercavano di tirarla fuori dall’acqua
afferrando col becco ora le penne della coda, ora quelle delle
ali. Ormai Bettina si sentiva stremata ed incapace di
collaborare con gli uccelli accorsi in suo aiuto.
Riuscì ad avvertire come il rombo stranamente prolungato di
un tuono che si veniva avvicinando; poi, accorgendosi che i
gabbiani l’abbandonavano nel mare e volavano via tutti
insieme come ad un segnale convenuto, svenne.
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Salvatore
Si risvegliò al calore di una stufa accesa appositamente per
lei, tra le mani di un ragazzo che la contemplava con una
certa ansia.
Appena Bettina diede segno di voler tornare in vita,
Salvatore, così si chiamava il ragazzo, si mise ad urlare
contento:
«Papà, papà! Vieni a vedere. E’ viva!»
Il padre si avvicinò al ragazzo che stringeva delicatamente la
civetta tra le mani.
«E’ vero. E’ proprio viva. Eppure avrei giurato che per lei
non ci fosse più niente da fare.»
«Hai visto, papà? E tu dicevi di ributtarla in mare perché la
credevi morta; invece è viva. E’ vivissima!»
Il ragazzo raddoppiò le sue cure nell’asciugare le penne
dell’uccello e nell’accarezzarlo.
Bettina si sentiva talmente debole, che non fece alcun
tentativo di fuggire dalle mani di Salvatore. Gli occhi le
bruciavano ancora e sentiva una fitta dolorosa all’ala destra.
Quando il ragazzo si avvide che l’uccello era completamente
asciutto, gli preparò una grossa gabbia con un soffice
giaciglio e ve lo depose.
Bettina cominciò a sentirsi un po’ meglio e guardava con
occhi smarriti quel ragazzo che la contemplava con
tenerezza. Ma il dolore all’ala le andava diventando sempre
più bruciante.
«Papà, guarda com’è bello.»
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«E’ veramente un magnifico uccello. Io non me ne intendo,
ma, per come è grosso, dovrebbe essere un gufo reale disse il padre, osservandolo più da vicino. - In gabbia però
non sta bene. Questo è un uccello nato libero. Così come lo
hai rinchiuso, non vive più di qualche giorno.»
Bettina si scrollò un poco e non poté fare a meno di emettere
strida di dolore: nel muoversi, l’ala le aveva procurato delle
fitte atroci. Tentò di articolarla, ma le rimase penzoloni e
dolorante.
Il padre di Salvatore se ne accorse.
«Poverino. Deve avere un’ala spezzata. Saranno stati quegli
stupidi gabbiani quando lo hanno aggredito, lì sul mare. E
meno male che c’eravamo noi col barchino a pescare nei
dintorni, altrimenti se lo sarebbero mangiato.»
«O sarebbe finito in bocca ai pesci,» completò Salvatore.
Il padre, attraverso l’apertura della gabbia, toccò l’ala della
bestiola che emise note lamentose.
«Eh, sì. Ha proprio un’ala spezzata. Occorre portarla dal
veterinario comunale, altrimenti non arriva a questa sera.»
Il veterinario, appena vide Salvatore con la civetta tra le
mani, sorrise.
«Non mi dire che hai abbandonato la pesca per la caccia,
Salvatore.»
«L’abbiamo ripescato col retino per i pesci questa mattina,
papà ed io. Era caduto in mare perché era stato aggredito dai
gabbiani. Ha un’ala spezzata. E’ proprio un bel gufo, un gufo
reale, non è vero?»
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«E’ una civetta, Salvatore. Athena noctua, questo è il nome
scientifico. E’ un uccello rapace notturno. E’ proprio un
bell’esemplare. Vediamolo un po’.»
Bettina continuava ad emettere strida acute mentre il
veterinario si rendeva conto della frattura all’ala. Poi le
praticò un’ iniezione e la civetta cadde in un sonno profondo.
«Ci vorranno tre o quattro settimane perché ritorni a volare,»
sentenziò il medico.
«Beh, ci penserete voi a curarla, vero, dottore?» chiese il
padre di Salvatore. «E quando sarà guarita, la libererete.»
«Certamente,» rispose il veterinario.
Salvatore voleva protestare. Avrebbe desiderato tenere
l’uccello con sé. Ma il padre gli fece capire che una civetta
non è un uccello da tenere in casa e tanto meno in gabbia.
«Non ti preoccupare, Salvatore. Tra qualche settimana
ritornerà libera e più felice di prima,» assicurò il medico.
«Quando la libererete, vorrei essere presente,» - pregò
Salvatore.
«Senz’altro. Ti farò chiamare: anche lei sarà contenta di
rivedere colui che l’ha salvata.»
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La clinica degli uccelli
Il veterinario sistemò l’ala immobilizzandola fra due stecche
di legno e fasciandola per bene, mentre Bettina dormiva. Poi
la sistemò in una gabbia spaziosa, dove c’era acqua e cibo.
La gabbia si trovava in una stanza semibuia, insieme ad altre
che ospitavano uccelli ed animaletti convalescenti.
Quando Bettina si svegliò, si avvide di avere al posto dell’ala
destra un grosso batuffolo di fasce.
«Cosa hanno fatto alle mie ali?» cominciò ad urlare,
scoppiando in lacrime.
Un falco pecchiaiuolo che si trovava nella gabbia vicina a
quella della civetta, le rispose:
«Non temere per le tue ali. Le hai tutt’e due. Solo che ne
avevi una spezzata e l’Uomo te la sta curando. Qui nessuno ti
farà del male, anzi! Questo è un ospedale per uccelli ed altri
piccoli animali che hanno subìto incidenti di ogni specie. Io
sono arrivato in questo posto qualche mese fa e avevo le ali e
il corpo pieno di pallini da caccia. L’Uomo mi ha salvato. Mi
ha tolto uno ad uno tutti i pallini dalla carne, mi ha guarito le
ali e tra poco avrò di nuovo la mia libertà. Guardati intorno.
Vedrai tanti uccelli, alcuni di specie rara. C’è chi ha una
zampa spezzata, chi un’ala rotta e chi il corpo pieno di ferite.
Là c’è un ermellino malato; qua c’è perfino Sua Maestà
l’aquila reale; poi un’albanella, un falco pellegrino, un gufo
reale e tanti altri. Ed ora ci sei anche tu. Benvenuta.»
Bettina si sentì un po’ rassicurata dalle parole del falco. Si
guardò intorno e vide che veramente in quel salone c’erano
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animali di ogni tipo, specialmente uccelli. Alcuni di essi
erano di una razza totalmente sconosciuta alla civetta.
Rivolta al falco che le aveva dato coraggio, Bettina disse:
«Ma io ho sempre saputo che l’Uomo è un animale poco
raccomandabile. Mi hanno sempre insegnato che è meglio
stare alla larga da lui, perché non se ne ricava mai nulla di
buono ad averci a che fare. Questo qui, tutto vestito di bianco,
mi cura l’ala e cura tutti i malati che sono qui. Ma allora, o a
me hanno sempre detto delle bugie sulla malvagità degli
esseri umani, oppure, tutt’ad un tratto, l’Uomo ha cambiato il
suo atteggiamento verso di noi.Le rispose una voce da una gabbia posta nell’angolo più buio:
«Il fatto è, mia cara Bettina, che esistono uomini che
combinano guai ed altri che cercano di porvi rimedio.»
Ma questa voce la civetta la conosceva!
«Ma dimmi un po’, come fai a conoscere il mio nome? Chi
sei?» chiese, cercando di trascinarsi più avanti in modo da
poter vedere la gabbia da cui era venuta la voce.
«Eh, il tuo nome lo conosco fin troppo bene, civetta
strampalata che non sai fare altro che combinare guai. Sono
un certo barbagianni che una mattina volle seguire i tuoi
consigli e andò a sbattere diritto contro un palo della corrente
elettrica.»
«Stucco! -urlò Bettina.- Sei proprio Stucco? Lasciati vedere!»
Dalla penombra la civetta vide venire la luce di due occhi
rossi e subito dopo riuscì a distinguere la faccia a forma di
cuore ricoperta di candide piume del vecchio barbagianni.
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Guarda chi si vede!
«Stucco, vecchio uccellaccio traditore! Ed io che ti credevo
già nel paradiso degli uccelli! Che gioia saperti vivo! Come
stai?»«Adesso sto bene; ma, in quanto al paradiso, ci sono stato
molto vicino. Come te, stando a quello che ho sentito.»
Bettina allora volle ascoltare da Stucco tutto ciò che gli era
capitato da quando era caduto dal ramo, in quel freddo
mattino di marzo. Alla fine chiese:
«E dimmi un po’: che fine faremo noialtri?»
«Ritorneremo a turno tutti quanti in libertà, stai tranquilla. Ci
libereranno quando ciascuno di noi sarà in grado di affrontare
di nuovo la vita del bosco.»
«Che piacere, Stucco mio! Quasi quasi ringrazio il gabbiano
Ernesto che mi stava facendo affogare. Se non fosse stato per
lui, non sarei mai capitata qua dentro.»
Bettina era veramente contenta e, se non avesse avuta l’ala
fasciata, avrebbe fatto salti di gioia.
In quel momento entrò il veterinario, l’Uomo. Portava del
cibo per alcuni uccelli. Bettina allora si accorse di avere
davanti a sé un recipiente pieno di buoni pezzettini di carne
fresca.
«Ma qui ci trattano veramente bene, che ne dici, Stucco? Non
sarebbe il caso di rimanere sempre qua dentro?»
«Eh, mia cara - rispose il barbagianni - fra qualche giorno non
vedrai l’ora di ritornare nel bosco, nella tua tana in cima alla
torre. Qui ci si annoia, dopo un po’.»
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«Che hai da gracchiare, barbagianni faccia di cuore? - gli si
rivolse l’Uomo - Devi stare ancora per qualche settimana qui.
E’ inutile che ti agiti tanto. Ti devi rimettere in forze,
altrimenti come farai a procurarti il cibo nel folto del bosco?»
L’Uomo aprì la gabbia di Stucco, prese il barbagianni, gli
spalancò il becco con cura e vi fece cadere alcune gocce di un
liquido disgustoso.
«Ecco! Questo ti rimetterà in forma, faccia di cuore. Vedrai
che volerai ancora per molto tempo.»
Se l’Uomo avesse potuto capire il linguaggio degli animali,
avrebbe sicuramente ascoltato parole di gratitudine da parte
dell’uccello.
«Lo sai, - disse Stucco rivolto a Bettina - non sono poi tanto
vecchio. Appena arrivai qui, più morto che vivo, mi dissero
che ero un bel barbagianni e che mi avrebbero rimesso a
nuovo. Quest’uomo mi ha detto che ho da vedere ancora
molti inverni.»
«Mi fa piacere per te, Stucco. Ritorneremo nel bosco a
goderci questa primavera e l’estate che verrà, e poi ancora
tante primavere e tante estati.»
«Uh, ma voi quanto chiacchierate!- esclamò una poiana. - E
questo è perché siete uccelli notturni e solitari! E se foste dei
pappagalli? Ma a quest’ora, non dovreste dormire? Mi avete
fatto venire il mal di testa.»
L’Uomo usciva in quel momento dalla sala.
«Beh, è venuto il momento di farci un sonnellino,» affermò
Stucco.
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Anche Bettina era molto stanca per le fatiche e le intense
emozioni di quella mattinata. Di lì a poco la civetta e il
barbagianni dormivano saporitamente, sognando il loro bosco
che in primavera nasceva a nuova vita, tra i canti e i voli
festosi di uccelli e farfalle e i profumi dei fiori.
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Sospirata libertà
Era quasi passato un mese da quando Bettina era giunta
all’ospedale degli animali.
Tre uomini in camice bianco entrarono nella sala semibuia.
Un fascio di luce accecante si riversò nella stanza dalla porta
rimasta socchiusa. Bettina poté immaginare quale splendida
giornata di primavera palpitasse al di fuori di quel locale che
l’Uomo si ostinava a tenere sempre nella penombra. Che
desiderio le venne di fare un tuffo ed un volo nella luce
solare! Ormai proprio non ce la faceva più a restare ancora
chiusa in quella piccola gabbia. Erano trascorsi più di venti
noiosi giorni di quella prigionia.
I tre uomini presero le gabbie degli uccelli diurni e, così
come facevano da tempo, le portarono fuori perché i malatini
prendessero un po’ di sole.
«Ma perché non portate fuori anche me!» gridò Bettina.
«Perché mai potrebbero pensare che esiste una civetta
innamorata del sole,» rispose Stucco.
Bettina era sempre di malumore. Le mancavano il suo bosco,
i voli nel cielo azzurro, le sue giornate di caccia.
«Non vedo l’ora che mi restituiscano la mia ala e la mia
libertà. Voglio volare per un giorno intero senza fermarmi
mai!»
«Ma che hai da strillare tanto, civetta senza cervello? Ora ti
vengo a vedere,» le gridò l’Uomo, il quale, di tutti i dialoghi
che gli animali intrecciavano da una gabbia all’altra, non
percepiva altro che pigolii, strida e gracchii.
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Si avvicinò alla gabbia di Bettina, aprì la porticina e, presa la
civetta, la poggiò su di un tavolo. Con degli elastici
immobilizzò il rapace, le distese l’ala ferita e la sfasciò
lentamente.
Mai Bettina aveva avuto modo di osservare con calma, da
così vicino un uomo. Era orribile e ... ridicolo. Eppure non
aveva paura di lui. Sentiva che da quell’uomo non poteva
ricevere del male... anzi!
“ Che strano animale - pensava. - Non ha neppure una penna;
e com’ è buffo senza becco! Ha i peli solo sulla testa, come
un lupo spelacchiato. “L’Uomo intanto continuava a togliere fasce e stecche di
legno che avevano tenuto immobilizzata l’ala di Bettina per
un’ eternità. La palpò a lungo e, visto che la civetta non
strillava più per il dolore, rivolto ai suoi compagni, disse:
«Questa signorina qua, può passare nella voliera dei
notturni.»
Bettina allora fu messa in una voliera molto ampia che si
trovava in un altro salone.
Provò subito a volare, ma si accorse che non riusciva ad
alzarsi dal suolo.
«Sta a vedere che ora ho dimenticato come si fa a volare!
Possibile che non riesca a sollevarmi da terra neppure di un
metro?»
«Sei diventata grassa come un’oca, piccina mia!- le gridò il
gufo reale. - Ormai sei buona solo per lo spiedo. Ah, ah, ah,»
risero di gusto Sua Maestà e tutti gli uccelli della voliera.
Allora Bettina si appollaiò su di un’asta e rimase lì triste.
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Un assiolo, anch’egli in convalescenza nella voliera, le si
avvicinò e le disse:
«Non devi arrenderti. Se ti lasci andare, non volerai più. Devi
insistere, allenarti. Ti hanno messo in questa voliera perché tu
possa riprendere in pieno la tua capacità di volare. Avanti!
Prova sempre, ogni giorno e a lungo, a cominciare da oggi. In
capo ad una settimana saprai volare meglio di prima.»
Bettina allora riprese i suoi tentativi e, dopo poche ore già
riusciva a sollevarsi da terra e a rimanere in volo per tutta la
lunghezza della voliera.
Due giorni dopo anche Stucco fu messo insieme a Bettina.
«Avanti, Stucco. Impara di nuovo a volare. Pochi giorni
ancora e torneremo in libertà,» lo incitava la civetta.
E il barbagianni, anch’egli desideroso di ritornare nel bosco,
al suo buco nell’albero, faceva ogni sforzo per riacquistare le
sue facoltà di volo.
Bettina ritrovò molto presto la sua agilità e, per tutto il giorno
non faceva altro che percorrere la voliera avanti e indietro.
Stucco invece era un po’ più lento nei suoi progressi.
«Stucco, ho un pensiero fisso che da un po’ di tempo mi
tormenta, disse Bettina, mentre i due si riposavano dopo
l’intenso allenamento mattutino. Ci lasceranno liberi di
giorno, oppure di notte? Che ne dici, amico mio?»
«Eh, cara Bettina, rispose il barbagianni. Credo proprio che ci
lasceranno verso il tramonto.»
«Ho paura che sarà proprio così, sospirò Bettina preoccupata.
Ed io come farò? Sarà lungo il viaggio per tornare a casa?» «Ci vorrà qualche ora,» le rispose il barbagianni.
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«Stucco, ed io come farò?»
«Beh, se ci libereranno insieme, tu sarai in mia compagnia e
non avrai paura del buio.»
«E se invece non ci dovessero liberare insieme?»
Stucco rimase un po’ pensieroso, poi:
«Faremo così: chi esce per primo, si trova un buco nei
dintorni e aspetta che arrivi anche l’altro.»
Bettina approvò l’idea e fu un po’ più serena.
Fu liberata per prima la civetta che aveva mostrato ormai di
sapere di nuovo volare perfettamente.
A salutarla c’era anche Salvatore, il quale volle restituirle la
libertà con le sue stesse mani. Dopo averla accarezzata a
lungo, la depose sul terreno e la civetta prese il volo.
Bettina avrebbe voluto far comprendere in qualche modo a
quegli uomini che era contenta di riavere la sua libertà e che
li ringraziava per tutte le cure che le avevano prestato. Ma il
sole era già tramontato e la civetta era ansiosa di trovare una
tana dove trascorrere la notte con gli occhi chiusi, per non
essere spaventata dalle ombre della sera; perciò filò via come
una freccia.
Per sua fortuna trovò molto presto un buco in un vecchio
edificio nelle vicinanze, da dove poteva tener d’occhio il
cortile dell’ospedale.
E fu proprio da quel cortile che, due giorni dopo, al tramonto,
Stucco riacquistava la libertà.
Bettina gli volò incontro. I due uccelli si incontrarono a
mezz’aria sulle teste dei tre uomini in camice bianco che
guardavano quella scena a bocca aperta.
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Stucco e Bettina intrecciarono in volo una danza allegra, fatta
di capriole e piroette, di festosi frulli d’ali e di strida gioiose.
Poi sfiorarono le teste di quei tre benefattori come per dir
loro grazie e per salutarli. Infine si diressero verso nord, nella
fresca aria primaverile, mentre gli uccelli diurni che
tornavano ai loro nidi, fuggivano spaventati nel vedere quei
due uccellacci rapaci volare veloci come dei fulmini.
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Sulla via del ritorno
Era meraviglioso poter volare di nuovo liberi, sentirsi il vento
scorrere sulle penne, distendere le ali e abbandonarsi,
lasciandosi trasportare dalla corrente.
Era così grande il piacere di aver riacquistato la libertà, che
Bettina non avvertiva neppure l’ansia, nonostante che la notte
fosse proprio lì per avvolgere il cielo e la terra. C’era Stucco
con lei, e questo bastava a rassicurarla; inoltre c’era il
desiderio di tornare al più presto alle loro tane e questo li
faceva filare veloci, senza pensare ad altro. Dopo aver volato
per un lungo tratto senza pause, decisero di riposare un
attimo. Quell’albero in mezzo a una vasta radura faceva
proprio al caso loro. Vi discesero e si posarono su di un ramo.
Tutto intorno era silenzio. Si sentiva solo il sussurrare delle
foglie mosse dal vento e, di tanto in tanto, il verso di qualche
assiolo: chiù, chiù.
«Sei proprio in forma, Stucco. Hai volato per ore come un
giovane barbagianni,» disse Bettina.
«Mi sento proprio bene. Quei dottori mi hanno rimesso a
nuovo.»
Era una notte senza luna e nel cielo si poteva vedere un mare
di stelle.
«Era tanto tempo che non vedevo un cielo stellato. Avevo
dimenticato quant’è bello, specialmente a primavera,» riprese
il barbagianni.
«Toh, guarda! Una stella cadente,» disse Bettina indicando un
punto del cielo. 62
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Una stella più luminosa delle altre stava attraversando, a
velocità costante, tutto il cielo. All’improvviso fece una curva
strettissima e incominciò a scendere, e man mano diveniva
più grande.
Che insolito comportamento per una stella cadente!
Con immensa meraviglia dei due uccelli, quello strano punto
luminoso si ingrandì fino a diventare una grandissima palla di
luce, che si fermò a mezz’aria sulla radura. Tutt’intorno si
fece chiaro come a mezzogiorno. Gli uccelli che dormivano
nei loro nidi, si svegliarono e si misero a cantare. Alcuni,
spaventati da quel sole straordinario, fuggirono via.
A Bettina la luce infondeva sempre coraggio. Stucco invece
sarebbe scappato via volentieri, ma restò accanto alla
compagna per non apparire meno coraggioso di lei.
La palla di luce restò ferma per un po’, poi incominciò a
scendere ancora, lentamente; si posò sul prato ed attenuò il
suo splendore, fino a divenire appena visibile sullo sfondo
nero degli alberi.
Poco dopo, in mezzo alla sfera, si aprì un portello, dal quale
venne fuori uno scivolo luminoso. Tre piccole palle
rotolarono su di esso fin sul prato. Mandavano bagliori di
luce multicolore. Si fermarono in prossimità dell’albero,
dov’erano appollaiati la civetta e il barbagianni. Per un po’
rimasero lì a battere tutta la zona intorno con fasci di luce
rossa, verde e azzurra.
«Che strani oggetti! Cosa saranno mai, Stucco?»- chiese
Bettina.
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Ma non aveva neppure finito di formulare la domanda, che le
tre palle smisero di mandare intorno i loro raggi e li diressero
tutti sui due uccelli.
A vedersi arrivare addosso tutta quella luce colorata, i due
avrebbero dovuto spaventarsi; invece si sentirono invadere da
una profonda calma.
Da quegli oggetti cominciarono ad uscire degli strani suoni.
Pfzzz, trzuiii, ctuooo, a, bi, ci, di, e, fi... e tutte le altre lettere
dell’alfabeto. Giunti alla lettera zeta, sembrò che quelle
strane cose avessero imparato la lingua degli uccelli notturni.
Infatti Bettina e Stucco sentirono provenire da quelle palle
una voce metallica, da macchina parlante.
«Salute a voi, abitanti del pianeta Terra! Noi siamo esseri di
un altro pianeta. Mi capite?»
«Ciao, pallottina - rispose Bettina. - Certo che ti capisco se
parli la nostra lingua. Siete anche voi uccelli notturni?»
«Noi siamo abitanti del pianeta Kappasette che si trova in
un’altra galassia, molto lontana dal vostro sole,» rispose la
pallottina di centro.
«Come sei buffa, senza zampe e senza ali! Ma come fai a
volare, a mangiare, ad essere triste o felice?» chiese Bettina.
«Ma noi non siamo come ci vedi tu adesso. Quella che vedi è
la nostra corazza che ci protegge da ogni pericolo esterno.
Chiusi qui dentro, nessuno può farci del male: la corazza è
indistruttibile. Se voi siete una specie pacifica e non ci farete
del male, noi usciremo.»
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«Non vi faremo del male,» rispose Stucco che era divorato
dalla curiosità di sapere com’erano fatti gli abitanti del
lontano pianeta K7.
«Non sappiamo fare del male a nessuno,» aggiunse Bettina.
Dopo un po’, i due uccelli appollaiati sull’albero videro le
pallottine incominciare ad aprirsi, come si apre un bocciolo al
calore del sole. Alla fine le corazze di quegli strani animali,
aperte completamente, formarono sul prato tre grosse
margherite, come parve a Bettina, o tre belle stelle ad otto
punte, come parve a Stucco. Proprio al centro di ogni fiore o
stella, apparve un abitante di K7 munito di un oggetto simile
ad una torcia elettrica che mandava una luce azzurrina.
Il corpo di ognuno di essi aveva, pressappoco, la forma di un
uovo, al quale, quelli che dovevano essere i vestiti,
conferivano una festosa aria da uovo di Pasqua a causa dei
loro colori vivaci e luminescenti.
Avevano una testa piccola rispetto al resto del corpo,
anch’essa a forma di uovo e due orecchie simili a quelle di un
coniglio. Il naso sembrava una patatina e la bocca la fessura
di un salvadanaio. Per occhi avevano due palline attaccate
alla fronte, le quali giravano indipendenti da tutte le parti.
Avevano poi due lunghe braccia che sfioravano la terra con le
loro mani a tre dita. Le gambe, molto corte, consentivano
loro di muoversi a piccoli passi.
Erano veramente dei buffi animali! Però erano ospiti e non
era educato ridere di loro.
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Perciò Stucco, con un colpo d’ala in testa a Bettina, le fece
morire nel becco la risata che la civetta sembrava avesse
intenzione di farsi uscire.
«Benvenuti sul pianeta Terra! -salutò il barbagianni che, per
la sua età e l’esperienza che aveva, sapeva bene come si stava
a questo mondo. -Io mi chiamo Stucco e questa è Bettina.»
«Io sono Biuno. Questi sono Bidue e Bitrè. Noi vi
ringraziamo per l’ospitalità. La nostra astronave ha subìto
un’avaria tra gli anelli di Saturno e siamo stati costretti a
venire sulla Terra per accomodare il guasto e rifornirci di
acqua per i motori che, a causa dell’avaria, sono rimasti
all’asciutto.»
«Deve essere proprio un cattivo soggetto questo signor
Saturno che rompe la vostra nave con gli anelli e fa morire di
sete i vostri motori,» rispose Bettina che aveva capito ben
poco di ciò che aveva detto Biuno e quel poco lo aveva capito
anche male.
Non è che Stucco avesse compreso molto di più tra parole
come astronave, motori, Saturno e avaria. Però almeno aveva
la buona abitudine di non parlare, quando non ci capiva nulla.
«E voi - continuò Biuno - siete l’unica specie che abita
questo pianeta?»
«Beh, se non proprio l’unica, siamo sicuramente la più
bella,» rispose Bettina.
«Ed anche dotata di una certa intelligenza - riprese
l’extraterrestre - se sapete costruire edifici così alti e ponti e
strade e veicoli come quelli che abbiamo visto sorvolando le
vostre città.»
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Guido Esposito – I racconti della civetta
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Bettina avrebbe voluto che Biuno continuasse a credere che
tutte quelle cose erano state costruite dagli animali come lei.
Ma quel pignolo di Stucco non amava vestirsi con le penne
del pavone, per cui rispose:
«In verità, tutto quell’inferno non è stato costruito da noi, ma
da un altro animale chiamato Uomo.»
«Ah, - esclamò Biuno - e com’è fatto quest’Uomo?»
«E’ più o meno come voi, solo alto il doppio e non sembra un
uovo di Pasqua,» si intromise Bettina.
Stucco le lanciò un’occhiataccia per l’impertinente risposta,
poi riprese:
«E’ un animale che non ama vivere nei boschi, tra il fresco
delle foglie, sulle montagne, vicino ai fiumi e ai laghi; e non
gli piace l’aria pura. Preferisce chiudersi in grossi scatoloni di
pietra e respirare il fumo. Ha inventato apposta delle
macchine a due, a quattro e più ruote che rendono l’ aria
fumosa. Ha costruito anche dei grossi tubi sulle case che
mandano al cielo enormi colonne di fumo. Per lui quell’aria è
profumata; a noi sembra che abbia un pessimo odore e ci fa
tossire.»
Bettina lo interruppe ancora per dire:
«E poiché odia i boschi, li distrugge. E noi non possiamo
vivere senza i boschi e perciò, più essi scompaiono e meno
posto c’è per noi, che andiamo perciò scomparendo.»
«E voi perché non dite all’Uomo di smettere di distruggere
l’ambiente in cui vivete? Forse non lo sa che voi non volete.»
«Lo sa, lo sa - rispose Stucco - ma non ci ascolta, perché ci
considera degli esseri inferiori di cui possono anche fare a
Guido Esposito – I racconti della civetta
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meno. Però noi, inferiori come siamo, non roviniamo
l’ambiente. E’ lui che sta distruggendo il pianeta.»
«E voi, non vi ribellate?»
«Ci mancherebbe anche che ci ribellassimo! Non fiatiamo
neppure e lui ci spara, ci cattura, ci mangia e ci distrugge la
casa. Figurati un po’ se ci ribellassimo! Ma c’è una specie
animale, a quanto si dice, che si sta preparando a dichiarare
guerra all’Uomo. Per ora questa specie vive nascosta tra le
case dell’Uomo, sotto le strade, e pensa solo ad aumentare di
numero. Quando saranno in tanti, ma proprio tanti, allora
attaccheranno e distruggeranno l’Uomo e tutto ciò che ha
costruito; almeno così dicono di voler fare. Ma io dubito
molto che possano riuscirci.»
«E qual è questa specie?» chiese Bettina che non aveva mai
sentito parlare di animali che stessero preparando la guerra
all’Uomo.
«Sono i ratti, i grossi topi delle fogne. Sono molto pericolosi.
Anche noi li evitiamo, pur se troviamo saporita da mangiare
una specie più piccola che vive in campagna e nei boschi.»
Il rumore che fecero le corazze di Bidue e Bitrè nel chiudersi
di scatto, fece sussultare i due uccelli sul ramo.
«Cosa fate? Andate già via?» chiese Stucco.Biuno intanto era diventato visibilmente inquieto.
«No, ma... volevo chiedere: ma allora su questo pianeta non
c’è la Pace? Vi uccidete e vi distruggete fra di voi?» chiese
Biuno con ansia.
Stucco non capiva il senso di queste ultime domande
dell’extraterrestre e non rispondeva.
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Guido Esposito – I racconti della civetta
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I petali della corazza di Biuno si andavano richiudendo
lentamente, mentre continuava a chiedere:
Ma voi mangiate i vostri simili! Perché?
«Oh bella!- rispose Bettina - Se non mangiamo rettili, topi ed
altri animali simili, come facciamo a vivere? Noi li mangiamo
per non morire di fame.»
A questo punto sembrava che Biuno non sapesse più cosa
dire e cosa fare. Le ultime frasi dette dagli uccelli lo avevano
spaventato. Ora la sua corazza si era chiusa per tre quarti.
Con voce titubante, chiese ancora:
«Ma allora gli abitanti di questo pianeta sono condannati ad
essere sempre in guerra fra loro? Avrete sempre paura l’uno
dell’altro? L’Uomo teme i topi, suoi acerrimi nemici. I topi e i
rettili temono voi e voi temete l’Uomo. Ma insomma, voi
passate la vita a temervi l’un l’altro?»
Stucco e Bettina non risposero. Dovettero convenire, però,
che quell’essere a forma di uovo aveva ragione. La vita dei
viventi sul pianeta Terra, animali o uomini che fossero, era
dominata dalla paura e dalla violenza.
In breve tempo l’astronave fu riparata. Gli extraterrestri, ben
chiusi nelle loro corazze, si rifornirono d’acqua presso il
vicino ruscello. Fecero tutto in gran fretta, come se non
vedessero l’ora di abbandonare il pianeta.
Alla fine Biuno si avvicinò all’albero dove Stucco e Bettina
erano rimasti a guardare in silenzio e aprì in fretta la sua
corazza.
«Noi vi ringraziamo e vi salutiamo. -disse loro
l’extraterrestre. Abbiamo riparato il guasto e ci siamo riforniti
Guido Esposito – I racconti della civetta
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di acqua. Ci rimettiamo in viaggio verso la nostra terra.
Addio!» e si richiuse velocemente.
«Addio,» salutarono i due uccelli.
Poco dopo l’astronave diventava un punto luminoso tra le
miriadi di stelle che luccicavano nel cielo notturno di aprile;
infine scomparve del tutto.
Stucco e Bettina rimasero silenziosi e ciascuno con i propri
pensieri per un bel po’. Poi, come se uscisse da un sogno, la
civetta esclamò:
«Che strani esseri abitano tra le stelle!»
«Sembrava che avessero piacere a parlare con noi, all’inizio.
Poi, tutt’ad un tratto, hanno rinchiuso le loro corazze e sono
fuggiti in gran fretta, come se improvvisamente fossero stati
presi dal terrore. Mah!»
Stucco non riusciva a spiegarsi il loro strano comportamento.
«Non li avremo mica offesi con qualche parola scortese o
inopportuna?» si chiedeva il barbagianni.
«Io ho avuto l’impressione che, a sentire i discorsi dei topi,
degli uomini e del nostro mangiarci l’un l’altro, abbiano
avuto paura,» disse la civetta.
«Sono abitanti di altri pianeti, molto diversi dal nostro. Sono
strani, forse avevano solo fretta di tornare a casa e se ne sono
ricordato all’improvviso. E anche noi dobbiamo ritornare a
casa. Perciò mettiamoci in volo e dimentichiamoci quelle
uova di Pasqua,» ordinò Stucco.
E i due uccelli ripresero il volo alla volta del loro bosco e dei
loro nidi. Ma per giorni entrambi pensarono a quegli strani
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Guido Esposito – I racconti della civetta
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esseri provenienti da spazi
comportamento, alla loro paura.
remoti,
Guido Esposito – I racconti della civetta
al
loro
strano
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Capitolo sesto
I CACCIATORI
Bettina, che non si svegliava mai prima che il cielo fosse
completamente rischiarato, si destò, in quella mattina di
autunno inoltrato, alle prime luci dell’alba. Qualcosa di
insolito aveva interrotto il suo sonno.
Il bosco era avvolto in una leggera caligine e il mattino
appariva umido e nebbioso. Bettina si scrollò un po’ le penne,
ma aveva ancora sonno. Tuttavia non riusciva ad
addormentarsi. Si sentiva inquieta; uno strano timore la
invadeva.
Mentre chiudeva gli occhi per tentare di riprendere il sonno
interrotto, sentì in lontananza delle sorde esplosioni. Ecco che
cosa l’avevano svegliata: i fucili dei cacciatori.
Bettina sapeva che i cacciatori sparavano soltanto agli uccelli
buoni da mangiare: gli uomini non ritenevano commestibili
gli uccelli notturni. Tuttavia, sapere che c’erano cacciatori in
giro, armati di quelle terribili canne che vomitano fuoco, le
metteva addosso tanta ansia e una grande pena.
“ Ma perché gli uomini usano quelle crudeli armi da fuoco
contro gli uccellini indifesi e deboli?”
Stucco le andò a fare visita portandole del cibo.
«Meglio per te se non esci dalla tua tana per oggi, Bettina. La
zona pullula di cacciatori.»
«Ma che c’entriamo noi? Siamo o non siamo uccelli notturni?
Gli uomini lo sanno che per loro non siamo buoni da
mangiare,» rispose Bettina.
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Guido Esposito – I racconti della civetta
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«E’ vero. E sanno che siamo protetti da leggi severe. Però si
trova sempre qualche cacciatore cretino che spara anche a
noi, come spara alle rondini e ai gabbiani.»
«Ma se non siamo buoni da mangiare, perché lo fanno?»«Per divertimento, mia cara. L’uomo spara agli uccelli e a
qualsiasi altro tipo di selvaggina soprattutto perché si diverte
a farlo.»
Bettina rimaneva pensierosa. Stucco continuò:
«Beh, io vado a dormire. Tu non uscire a caccia stamane:
potresti incontrare qualche cacciatore cretino.»
Il barbagianni se ne andò nel suo buco, nel tronco del
castagno e si addormentò.
Bettina, mentre lacerava col becco la tenera carne del
moscardino che Stucco le aveva portato, pensava che avrebbe
seguito il consiglio del barbagianni.
“Stucco ha ragione. Non è difficile incontrare un cacciatore
stupido; ce ne devono essere molti. Anzi, secondo me “
concluse Bettina “ chi uccide per divertimento, è prima
stupido e poi anche cattivo.-
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Capitolo settimo
UN GIALLO PER BETTINA
L’autostrada
Durante le lunghe giornate estive, Bettina amava trascorrere
un po’ del suo tempo ad ammirare le automobili che
sfrecciavano su un lungo nastro nero. Aveva saputo da Bubo,
il sapiente gufo reale, che l’Uomo chiamava autostrada quella
striscia di terra nera che usciva dalla collina, attraversava
tutta la valle e si infilava, attraverso un’ampia grotta, nella
collina di fronte.
«Poiché l’Uomo non ha le ali - le aveva spiegato Bubo con il
tono grave del maestro saggio - e non ha una corsa veloce,
costruisce delle macchine che vanno come il fulmine; però
hanno bisogno di scivolare su un terreno liscio. E allora
l’Uomo, che è un animale intelligente quasi quanto noi gufi,
si costruisce le automobili e le autostrade. E così può correre
veloce come il vento e più del vento.»
E Bettina si incantava a guardare di lontano quegli strani
aggeggi chiamati automobili, colorate e luccicanti che
correvano rapide sulla striscia nera.
Sembravano, visti dall’alto, tanti topolini spaventati che
andassero a rifugiarsi nella tana per non finire in bocca ad un
rapace.
La civetta però non aveva il coraggio di avvicinarsi troppo;
aveva paura specialmente quando passavano di quelli grossi
che Bubo, conoscitore profondo di tutte le cose del mondo,
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Guido Esposito – I racconti della civetta
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aveva chiamato autotreni. Anche da una distanza così grande,
si sentiva il grande fracasso che facevano correndo.
«Ti puoi avvicinare all’autostrada - le aveva detto Bubo - non
c’è pericolo se non ti ci fermi in mezzo.»
Una volta Bettina volle mettere alla prova il suo coraggio;
volle vedere fino a che punto era una civetta dal cuore di
coniglio. Decise che si sarebbe avvicinata il più possibile
all’autostrada, mentre sfrecciavano veloci quelle macchine
rombanti.
Di albero in albero si accostava sempre di più a quella nera
fascia d’asfalto. Il rombo dei motori le arrivava alle orecchie
sempre più potente e spaventoso e, dopo il breve volo verso
un albero più avanzato, Bettina si diceva che oltre non
sarebbe andata. Poi, presa da quel gioco che diveniva sempre
più emozionante, decideva di volare fino al prossimo albero e
poi basta. Giunse così ad una decina di metri dall’autostrada.
Quando passava un veicolo, il rumore e la velocità di
quell’affascinante macchina le davano strani brividi di paura
e di piacere.
Gli autotreni poi raddoppiavano l’intensità di queste
sensazioni e la civetta rimaneva come soggiogata sull’albero,
per vederne passare solo un altro, l’ultimo e poi riprendere la
via della tana.
Una volta che si attardava in questo passatempo, dal tunnel
alla sua destra, uscì un’auto nera, veloce come una lepre.
Bettina la stava seguendo con lo sguardo. Quando il veicolo
giunse all’altezza dell’albero dov’era appollaiata la civetta, si
vide venir fuori dal finestrino un oggetto che volteggiò
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nell’aria, cadde ad un battito d’ali dall’albero e scomparve
nell’erba alta.
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Un cucciolo d’uomo
Bettina, spaventata, si alzò in volo e prese la strada del
ritorno.
“Che diavolo avranno lanciato da quell’auto nera?“ si
chiedeva la civetta con il cuore in gola per lo spavento.
Si fermò su di un ramo a riprendere fiato.
In breve la paura diminuì di quel tanto che bastò alla curiosità
di prenderne il posto. Decise che bisognava sapere cosa era
stata scagliata fuori da quell’auto.
Ritornò cautamente sull’albero vicino all’autostrada e, con un
breve volo fu tra l’erba alta. Non dovette cercare molto: poco
dopo si trovò davanti al becco una bambina dai capelli biondi
e col vestitino strappato in più parti, riversa bocconi
nell’erba. Non aveva scarpe; le gambette, rosee e paffutelle,
erano scoperte.
Bettina si sentì stringere il cuore per la pena. Ma che razza di
animale crudele era l’Uomo che gettava via i suoi cuccioli
come se fossero i resti di una preda divorata!
Bettina non se la sentiva di abbandonare fra l’erba quel
grazioso cucciolo che giaceva immobile. Forse era ancora
vivo. Raccolse tutto il suo coraggio e si avvicinò fino a
toccarlo con una zampa, delicatamente. Era morbida e fredda
e... alla civetta sembrò che avesse mosso un braccio.
Pensò che lei, da sola, non avrebbe potuto aiutare in nessun
modo quella poverina, se poteva ancora avere bisogno di
aiuto. Decise in tutta fretta di ritornare nel bosco a dare
l’allarme tra gli uccelli notturni.
Guido Esposito – I racconti della civetta
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Volò veloce come rare volte aveva fatto.
“Devo trovare Bubo” pensava “Sì, lui è quello più adatto.
Egli sa tutto e certamente saprà organizzare nel migliore dei
modi i soccorsi per quel cucciolo d’uomo riverso tra l’erba.”
In un baleno fu alla tana di Bubo, lo svegliò e gli raccontò
tutto.
«Ma che stupidaggini vai dicendo, insulsa civetta! Non ho
mai sentito dire che l’Uomo getta nell’erba i suoi cuccioli.
Non può essere. Non hai visto bene. Ti sei sbagliata!» le
rispose il gufo.
«Ti giuro! Ho visto bene. Sono andata vicino vicino. L’ho
perfino toccato. So bene com’è fatto un cucciolo d’uomo. Ti
dico che hanno buttato via una bambina!»
«Civetta impertinente, priva di rispetto e scostumata! - gridò
Bubo molto indispettito. - Credi di poter prendere in giro me,
che potrei essere tuo nonno! Queste favolette valle a
raccontare a quelle spudorate della tua età. Impara
l’educazione, civettucola da strapazzo!»
Bettina allora giurò e spergiurò che era vero, che non s’era
sbagliata. Gli raccontò nei minimi particolari com’era fatta la
bambina, com’era volata fuori dall’automobile, com’era
caduta ed in quale posizione ora si trovava nell’erba; infine
scoppiò a piangere.
A questo punto, Bubo pensò che qualcosa di vero ci doveva
essere nel racconto di Bettina.
«E va bene. Ora va’ a casa tua. Appena il sole comincerà a
tramontare, uscirò insieme ad altri uccelli notturni e andrò a
vedere.»
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Il gufo si fece indicare bene il posto da Bettina e, prima di
congedarla, l’ammonì:
«Se è uno scherzo, meglio per te che, al mio ritorno, ti sia già
trovata un’altra tana lontana mille miglia da questo bosco,
altrimenti...»
Bettina, che già era molto emozionata per il raccapricciante
spettacolo a cui aveva assistito nei pressi dell’autostrada,
volò verso la sua tana ancor più inquieta per le minacce di
Bubo.
In realtà il Gufo Reale non era cattivo: faceva finta di adirarsi
con tutti solo per darsi un contegno, per mantenere alto il suo
prestigio di animale più sapiente del bosco, a cui tutti
ricorrevano per consigli ed insegnamenti. Infatti, appena
Bettina fu andata via, chiamò una civetta sua allieva e le
disse:
«Minerva, vai da Bettina e tienile compagnia. Per lo spavento
che si è preso, finisce che quella civettina mi combina
qualche sciocchezza, o muore per la paura.»
Minerva raggiunse Bettina e la trovò che andava avanti e
indietro nella tana, ripetendo come un disco che si è
incantato:
«Io sono sicura. Io l’ho visto. E’ proprio un cucciolo d’uomo.
L’ho anche toccato.»
«Se sei sicura - la interruppe Minerva - non devi essere
preoccupata. Se è viva, maestro Bubo farà in modo che
qualcuno accorra e la salvi. E non ti lasciar spaventare dalle
minacce del gufo: urla, strepita e fa la voce grossa, ma in
Guido Esposito – I racconti della civetta
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fondo ha un cuore d’oro. Aiuta tutti e non l’ho mai visto
punire qualcuno.»
Bettina fu un po’ rasserenata dalle parole di Minerva e
insieme trascorsero tutto il tempo che Bubo impiegò per far
luce sullo strano mistero della bambina lanciata
dall’automobile.
Alcune ore dopo il tramonto, le due civette udirono un
insolito trambusto provenire dal centro del bosco. Capirono
che erano tornati Bubo e il gruppo di uccelli che avevano
partecipato alla missione di salvataggio.
«Aspetta qua! Io vado a vedere cosa succede e torno,» le
disse Minerva e volò giù.
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Il mistero è svelato
Nel cielo splendeva la luna piena ed illuminava con la sua
luce d’argento tutte le cose intorno. Bettina non aveva tempo
di pensare alla paura, presa com’era da una grande ansia di
conoscere l’esito dell’operazione condotta dal gufo e dai suoi
compagni.
Però Minerva si faceva aspettare un po’ troppo. Aveva detto
che sarebbe ritornata subito; perché ci impiegava tanto
tempo?
Finalmente ritornò
«Vieni con me, Bettina,» le disse Minerva.
«Ma che cosa è successo?»
«Vieni e vedrai da te.»
Minerva le fece strada verso il bosco. Giunsero in uno
spiazzo che la luna rischiarava quasi a giorno. Al centro della
radura, con le spalle poggiate ad una pietra, c’era la bambina
che Bettina aveva visto volare dall’automobile e cadere
nell’erba. Intorno c’erano gufi, civette ed altri uccelli notturni
che sembravano aspettare la reazione di Bettina.
«Ma allora è viva?» gridò la civetta, che non sapeva se essere
contenta o raccapricciata.
«Avanti, avvicinati!» le intimò un giovane gufo.
«Ma è viva?» continuava a chiedere Bettina.
La bambina restava immobile, poggiata alla pietra, con i
capelli scompigliati e la vestina lacera.
«Ma se è viva, perché non si muove?» chiedeva la civetta
mentre accennava un timido passo verso quella creatura.
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«Avanti, ora basta! Vi siete divertiti abbastanza,» intervenne
a quel punto Minerva.
«Stupida, non vedi che è solo una bambola vecchia e
malridotta?» urlò qualcuno.
«E’ solo una bambola, Bettina!» le ripeté Minerva
accostandosi a lei. «E’ un giocattolo con cui le vere bambine,
i veri cuccioli di uomo giocano. Era vecchia ed inservibile e
l’hanno buttata via. Capisci?»
Bettina non capiva. Che cos’è una bambola e perché tutti
quegli stupidi gufi, civette e barbagianni ridevano?
Sembravano si fossero riuniti tutti gli uccelli notturni del
bosco per prenderla in giro.
«Va bene. Ora basta! urlò Bubo dall’alto del suo albero.
Ritornate alle vostre occupazioni e portate via quello stupido
giocattolo. Non fatemelo vedere mai più!»
I giovani gufi, allora, sollevarono la bambola ed in volo, la
portarono chissà dove.
«Vieni Bettina, ritorniamo alla tua tana e ti spiegherò.»
Giunte nel buco in cima alla torre, Minerva incominciò a
spiegare a Bettina quello che sapeva sui giocattoli dei
bambini.
«Una bambola è uno dei tanti giocattoli che i cuccioli degli
uomini hanno a disposizione per i loro giochi.»
E Minerva le parlò a lungo dei vari giochi che fanno i
bambini. Bettina ascoltava con grande curiosità e spesso
interrompeva l’amica per porre delle domande e ricevere dei
chiarimenti.
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Guido Esposito – I racconti della civetta
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Le cose che Minerva aveva imparato da Bubo sui giochi dei
fanciulli non finivano di meravigliare Bettina. Quando
Minerva ebbe finito di dire tutto ciò che sapeva, concluse:
«E’ notte fonda. Io ho una gran fame. Vado un po’ in giro a
cercare del cibo. Vuoi venire con me?»
«No, grazie, rispose Bettina. Preferisco rimanere qui. Per oggi
ho avuto troppe emozioni e mi è passata la fame. Forse più
tardi…»
Minerva la salutò ed andò via.
La civetta rimase sveglia ancora per molto tempo, sebbene
con gli occhi chiusi, perché le era ritornata la paura delle
ombre. Pensava a tutto quello che l’amica le aveva detto sulle
bambole.
“ Deve essere molto bello poter giocare con una bambola.
Vorrei proprio averla una civettina finta da accarezzare e
coccolare e trattare come una vera figlia. Mi farebbe anche
compagnia. Chi potrebbe costruirmela una bambola civetta?
Penso proprio che domani, appena il sole sarà spuntato, mi
metterò alla ricerca di qualcuno capace di costruirmela.”
E mentre dolcemente si addormentava, dai nidi tra gli alberi,
si potevano udire i tenui pigolii degli uccellini che si
crogiolavano sotto le calde piume materne.
Guido Esposito – I racconti della civetta
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Capitolo ottavo
LE FARFALLE
Nonna Crestina...
Che spettacolo meraviglioso è il bosco a primavera!
Bettina non finiva mai di stupirsi a guardare tutte quelle
meraviglie: foglioline verdi, gemme e fiori che quasi
nascevano sotto i suoi occhi giorno dopo giorno, in quella
dolce stagione. Poche ore fa, su quel cespuglio, si vedeva
solo il verde tenero e brillante delle foglie novelle; ora quel
verde appare tempestato di punti rossi: tanti graziosi fiorellini
che dondolano alla mite brezza.
E le farfalle! Tra tutti gli insetti erano quelli che
incuriosivano di più la civetta. Che bei colori! Quanta varietà
di forme e di voli!
Erano quelli i momenti in cui Bettina ringraziava il cielo che
l’aveva creata con le strane abitudini di un uccello diurno.
“Tutti i miei simili, gufi, civette, assioli e allocchi non sanno
quale spettacolo si perdono. Il bosco, le valli e le colline che
rinascono e fioriscono sotto la luce dorata del sole. Escono
solo di notte: non conoscono lo splendore di un giorno di
aprile. Poverini! “
Bettina non si stancava mai di volare in quelle giornate
tiepide e limpide. Si divertiva a rincorrere per gioco le
farfalle e gli uccellini. Era felice di essere al mondo.
Giungeva, sul far del tramonto, stanca morta per i mille voli
gioiosi che aveva intrecciato tutto il giorno.
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Guido Esposito – I racconti della civetta
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A quell’ora le veniva una gran voglia di ascoltare una favola,
piena di poesia e di cose fantastiche, come le sapeva
raccontare solo la vecchia upupa, nonna Crestina.
In realtà l’upupa Crestina non era la nonna di Bettina; ma,
poiché era proprio una cara vecchietta, tutti i giovani uccelli
del bosco la chiamavano così. Aveva sempre qualcosa di
fantastico da raccontare a chiunque si recasse in visita da lei,
meglio se con un insetto nel becco, dono gradito dai suoi
piccoli ed innumerevoli nipoti adottivi.
E Bettina, catturato un saporito insetto, si recò un giorno a
casa di nonna Crestina.
«Le farfalle sono strani e bellissimi esseri, non è vero, nonna
Crestina?»
L’upupa, che aveva nel cuore sempre allegria e voglia di
fantasticare, accettava l’insetto che Bettina le aveva deposto
davanti alle zampe, lo prendeva col becco e lo infilava in
quello del pulcino che le capitava per primo a tiro e che
sicuramente era il più affamato. Poi cominciava:
Guido Esposito – I racconti della civetta
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...racconta
«Certo, Bettina. Sono animali meravigliosi. Ma, devi sapere
che, tanti e tanti anni fa, le farfalle non esistevano. C’era ogni
altra specie di insetti: coccinelle, vespe, libellule e moscerini;
ma le farfalle non erano ancora state inventate dalla natura.
Perciò la primavera non sembrava completa senza i festosi
voli che queste creature disegnano sui prati. Anche i fiori
erano tristi e si sentivano soli e abbandonati, ciascuno sul
proprio stelo, senza nessuna bestiolina allegra e colorata che
andasse a far loro visita di tanto in tanto.
Allora, un bel giorno di primavera, i fiori decisero di
protestare; e lo fecero in un modo singolare e molto
pericoloso. All’apparir del sole, non vollero dischiudere i loro
petali per permettere agli insetti di succhiare il nettare e
prelevare il polline.
La Fata Primavera avvertì subito che qualcosa non andava
laggiù, sul mondo: si sentiva strana, debole ed infelice.
Chiamò sua figlia maggiore e le chiese:
«Flora, che succede? Mi sento così strana questa mattina.»
Flora le rispose:
«Mamma, succede un fatto inaudito! I fiori stamattina non si
sono aperti. Non sembra proprio primavera! Anche le foglie
hanno perso la brillantezza dei loro colori. Posso scendere ad
informarmi su questo insolito avvenimento?«Sì, va’! Va’, ti prego, figlia mia e torna con la spiegazione
dell’enigma, altrimenti io me ne muoio.»
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Guido Esposito – I racconti della civetta
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Flora scese sulla Terra ed interrogò alcuni fiori. Perché
avevano deciso di rimanere chiusi? Questi risposero:
«Ci sentiamo soli. Vogliamo che qualche leggiadro insetto ci
venga a fare compagnia ogni tanto e ci racconti quel che
succede nei boschi, nelle valli e sulle colline intorno.Ma avete i calabroni, le api, le vespe, gli uccelli-mosca! Non
vi bastano?» chiese Flora.
«No. Noi vogliamo qualcosa di più bello, di più allegro dei
calabroni, delle api e delle vespe. Questi pensano solo a
prendere il nostro nettare e il nostro polline e non hanno il
tempo di parlare con noi. Vogliamo qualcosa che ci
assomigli, dei fiori con le ali che abbiano un carattere gioioso
e siano disposti a chiacchierare con noi.»
Quando Flora riferì alla madre i desideri dei fiori, la
Primavera si disperò:
«Ma io non ho più materiale per creare dei fiori con le ali! Ho
consumato tutte le mie energie per far rinascere la natura. Ho
speso tutti i colori, tutti i petali, le foglie, le ragnatele; proprio
non m’è rimasto più nulla. Come faccio ad accontentare i
fiori?»
«Si potrebbe...» intervenne la figlia.
«Ecco! Brava Flora. Pensaci tu. Io sono troppo stanca: vado a
riposare.» E la Primavera si ritirò per concedersi un po’ di
meritato riposo.
Flora allora si recò dalla Fata Far, la più dolce e geniale fata
tra quelle che abitavano i boschi. Riferì ciò che stava
accadendo nel regno dei fiori e le confessò che la madre non
aveva più la possibilità di porre rimedio al disastro.
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La Fata Far rispose:
«Io non ho il potere di aggiungere qualcosa di nuovo alla
natura. Questo è il regno delle Stagioni e solo loro possono
mettervi le mani; però qualcosa si dovrebbe poter fare.
Vediamo.»
Far, che aveva questo nome perché si dava sempre da fare,
prese la bacchetta magica e, insieme a Flora, incominciò a
girare per i prati, i boschi e le colline. A veder la fata, tutti i
fiori si aprirono. Quando la Fata ne vedeva di quelli belli e
colorati, faceva danzare la sua bacchetta nell’aria, poi la
calava a toccare delicatamente gli steli e soffiava su di essi.
Allora succedeva che i fiori si staccavano dagli steli ed
incominciavano a librarsi nell’aria, spinti dal soffio della
Fata.
Flora l’aiutava a scegliere i fiori più belli e, quando ne
vedeva uno di mille colori, gridava:
«Far, fa’ là!»
E Far faceva volteggiare la sua bacchetta magica e subito i
fiori prendevano il volo.
«Far, fa’ là!»
E fu così che l’aria si riempì di fiori volanti, con grande gioia
di quelli che rimanevano a fare i fiori sugli steli.
Naturalmente, a furia di gridare “Far, fa’ là! Far, fa’ là!”,
quando si presentò la necessità di dare un nome a quel nuovo
essere della natura, il primo che venne in mente fu “Farfalla”.
E così nacquero le farfalle.»
«Bella! Bella questa favola! gridava allora Bettina.
Raccontamela di nuovo!»
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Guido Esposito – I racconti della civetta
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«E come faccio? rispondeva nonna Crestina. L’ho già
dimenticata. Io sono vecchia e perciò dimentico velocemente.
E poi è tardi, non c’è più tempo. Ho una famiglia numerosa
ed ho da pensare anche ad essa. Vienimi a trovare qualche
altro giorno con un altro bell’insetto o qualche seme in dono
per i miei piccoli ed io te la racconterò di nuovo.»
E così Bettina veniva congedata, e faceva appena in tempo a
ritornare nella sua tana prima che calasse il buio della sera.
Allora chiudeva gli occhi, si addormentava e sognava fiori e
farfalle di mille colori che danzavano intorno a lei nel cielo
azzurro di primavera.
Guido Esposito – I racconti della civetta
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Capitolo nono
BUONI O CATTIVI?
«Ma gli uomini, maestro Bubo, sono buoni o cattivi?» chiese
Bettina che, quando aveva un dubbio importante come
questo, preferiva rivolgersi al saggio gufo reale anziché a
nonna Crestina, l’upupa con la testa nel mondo delle favole.
Il sapiente Bubo guardò la civetta con un benevolo sorriso sul
becco.
«E come mai ti vengono in mente certe domande così serie,
piccolo uccello senza sale nella zucca?»
Per Bubo tutti gli uccelli giovani mancavano di sale nella
zucca.
«Perché tutti mi consigliano di stare lontana dagli uomini,
rispose Bettina. Dicono che da essi non si sa mai cosa
aspettarsi. Per dire la verità, gli uomini mi hanno trattata
sempre bene. Alcuni mi hanno addirittura salvata la vita più
di una volta e mi hanno anche curata. Invece tutti gli animali
mi dicono che gli uomini sono pericolosissimi. Allora tu, che
sai tutto, dimmi come stanno veramente le cose.»
«Vedi, civettina incosciente. Gli uomini hanno la possibilità
di scegliere se essere buoni o cattivi. E allora succede che
alcuni scelgono di essere buoni ed altri di essere cattivi.»
Bettina rimase un attimo assorta, poi come se parlasse a se
stessa, esclamò:
«Beh, ma allora è difficile essere uomini!»
«Brava, civettina! Dimostri di averlo un po’ di sale nella
zucca. E’ molto più difficile essere uomini che essere animali.
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Guido Esposito – I racconti della civetta
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Perciò, stai lontana da loro più che puoi, altrimenti potresti
trovarti in qualche situazione un po’ scomoda.»
Bettina capì che Bubo, gufo di poche parole, con
quest’ultimo consiglio, intendeva di aver chiuso la
conversazione e di licenziarla. Ma la civetta aveva un’altra
domanda da fare.
«Ancora una cosa, maestro. Come si fa a capire se un uomo è
buono o cattivo?»
Bubo si sentì gelare il sangue nelle vene quando gli arrivò
addosso quella terribile domanda.
Il fatto è che il gufo, benché avesse una veneranda età, non
era ancora riuscito a trovare un sistema per distinguere un
uomo buono da uno cattivo; per cui non sapeva proprio che
risposta dare a quella impertinente civettina. Che figura
avrebbe fatto maestro gufo se avesse ammesso di non
saperlo? Allora fece finta di essere assalito da un accesso di
tosse e intanto cercava un modo per uscire da
quell’imbarazzante situazione senza perdere neppure un po’
del suo prestigio di onnisciente gufo reale. Poteva fare la
voce grossa e sgridare la civetta perché gli stava facendo
perdere del tempo prezioso e quindi mandarla via. Ma non ne
ebbe il coraggio. Diventò allora più serio che mai e nei suoi
occhi non c’era quella severa luce di sempre.
«Sai, piccola mia. E’ una cosa molto difficile capire se un
uomo è buono o cattivo. Perciò noi animali lo fuggiamo
sempre, senza farci neppure sfiorare dall’idea di appurarlo.
Eh sì, è proprio una cosa molto molto complicata. Come
posso spiegarti? Eppoi non esistono uomini interamente buoni
Guido Esposito – I racconti della civetta
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o interamente cattivi. Ci sono uomini buoni che in certe
occasioni commettono cattive azioni e uomini cattivi che...
Insomma è una cosa difficile da spiegare e più difficile da
capire.»
Bettina però voleva capire.
Il gufo comprese che la civetta non era soddisfatta da quella
spiegazione, ed allora continuò:
«Una volta gli uccelli hanno conosciuto un uomo che era
buono, ma buono sempre. Un uomo che parlava la lingua
degli uccelli e riteneva che fossero creature tra le più belle ed
innocenti.»
Bettina, a questa notizia, si sentì rincuorata e le tornò un certo
entusiasmo.
«E chi è? Chi è? Dove si trova?»
«Stupida civetta! gridò Bubo, che aveva ripreso la sua aria da
maestro severo, poiché il suo prestigio non era più in
pericolo. Non hai sentito? Ho detto: una volta. Sono passati
molti secoli.»
«Oh, che peccato!» Bettina fu ancora una volta delusa.
«Eh, sì. E’ un vero peccato che non sia vissuto ai giorni
nostri. Si chiamava Francesco. Ancora oggi, gli uomini buoni
lo venerano come un santo: San Francesco d’Assisi. Parlava
agli uccelli, li capiva e si faceva capire. Riusciva ad
ammansire i lupi e, dovunque passava, stendeva un’
atmosfera di pace e di amore. Riteneva fratelli e sorelle non
solo i suoi simili, ma anche tutti gli elementi della natura.»
Bettina, che ascoltava a becco spalancato, chiese:
«Anche noi uccelli notturni?»
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Guido Esposito – I racconti della civetta
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«Non so con esattezza se abbia parlato anche a noi rapaci
notturni. Però sono sicuro che riteneva anche noi suoi
fratelli.»
«Oh, che bello! Che bello!»
Bettina era estasiata.
Bubo continuò:
«Ecco, così adesso puoi capire se un uomo è buono o è
cattivo. Se capisce il tuo linguaggio, se ti risponde e ritiene
che sia bello parlare agli uccelli, vuol dire che è buono; se
no…»
«Sì, sì! E’ vero! Ora so distinguere un uomo buono da uno
cattivo!» e si affrettò a lasciare la tana di Bubo,
dimenticandosi perfino di salutare il saggio maestro, tanta era
la gioia di aver trovata la soluzione di quell’importante
problema.
Allora Bubo le gridò dietro:
«Ma stai attenta, screanzata civetta! Non ti avvicinare troppo
all’uomo per capire se è buono: potresti accorgerti troppo
tardi che è cattivo!» Ma la civetta era già volata via e non aveva inteso le parole
del gufo reale.
Dopo quel colloquio con Bubo, Bettina prese l’abitudine di
rivolgere la parola ad ogni uomo che incontrava. Ma nessuno
capiva ciò che diceva. Questo accadeva perché la civetta
parlava agli uomini rimanendo sempre molto distante da
essi, a causa di quella fifona che era.
Guido Esposito – I racconti della civetta
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Capitolo decimo
L’ A Q U I L O N E
Un uccello prigioniero
Bettina era una civetta giovane ed inesperta e, essendo un
uccello, quando le capitava di vedere qualcosa in volo, subito
pensava ad un volatile pennuto come lei. Per cui non c’è da
meravigliarsi se, vedendo per la prima volta un aquilone
librarsi nel cielo terso, cullato dal vento, esclamò:
“Che strano uccello!”
Si era fermata sui rami di una quercia a contemplare i colori
accesi e la strana forma di quella creatura.
“Che razza di coda! Non deve essere un uccello dei nostri
luoghi. E’ sicuramente uno straniero.”
Decise di avvicinarglisi, di fargli un voletto intorno per
vedere se si poteva attaccare discorso e capire da dove
venisse.
Mentre, spiccato il volo, incominciava a salire verso
l’aquilone, si accorse che questo era legato ad un filo.
“Ma allora è prigioniero!“ pensò.
Smise di spingere con le ali, le tenne aperte e, lasciandosi
portare dalla corrente, si mise a guardare in giù seguendo il
filo, per capire dove andasse a finire. Il suo sguardo acuto di
rapace individuò subito tre figure di bambini che stavano sul
prato e sembravano molto allegri. Il filo a cui era attaccata la
strana bestiola, finiva nelle mani di uno di essi.
Riportando lo sguardo sull’uccello, ebbe l’impressione che
soffrisse; le sembrò che volesse scappare verso l’alto o
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Guido Esposito – I racconti della civetta
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svicolare di fianco, ma ogni volta che faceva un simile
tentativo, riceveva dal basso uno strattone, come se il
bambino che lo teneva prigioniero volesse fargli capire che
non poteva fare ciò che voleva e che il suo padrone era lui.
A Bettina non piacque questo comportamento da prepotente.
Sempre più convinta che l’aquilone fosse un uccello
prigioniero, che soffriva perché desiderava essere libero,
decise di accorrere in suo aiuto. Perciò, senza indugiare più,
si avventò sul filo per spezzarlo.
Afferrò il cotone nel becco e tirò verso il basso, poi dal basso
verso l’alto. Si agitava da tutte le parti senza lasciare il filo.
I bambini, nel vedere che quell’uccellaccio voleva rubar loro
l’aquilone, tiravano tutti assieme verso il basso.
Fu una battaglia che durò alcuni minuti, al termine dei quali,
il filo risultava spezzato e i bambini rimanevano a bocca
aperta a guardare l’aquilone che si portava via, verso i monti,
quel mariuolo di un uccello completamente aggrovigliato nel
filo di cotone.
Bettina era dunque imprigionata, paralizzata in un garbuglio
che neppure la più esperta delle tessitrici sarebbe riuscito a
districare.
Intanto la civetta, con qualche penna in meno e conciata in
modo da non poter muovere neppure una piuma, pensava:
“Beh, per riuscirci, ci sono riuscita... a rendere la libertà a
questo uccello. Adesso dovrà pensarci lui a liberarmi da
questo intrigo di fili; perché, sarà pure un uccello straniero,
ma sicuramente la riconoscenza e la gratitudine esisteranno
anche al suo paese. Certo, il minimo che possa fare per
Guido Esposito – I racconti della civetta
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ringraziarmi, sarà di liberarmi da questo viluppo di fili a colpi
di becco, sempre che abbia un becco.”
L’aquilone invece, sordo ad ogni sentimento di riconoscenza
e di gratitudine, se ne andava bel bello sulle ali del vento,
dondolandosi festoso ed agitando la sua lunga coda.
“Ora che saremo ben lontani dal prato, provvederà a
liberarmi“ pensava la civetta che faceva fatica perfino a
respirare, tanto era stretta nel cotone.
Ma all’ aquilone non passava neppure per l’anticamera del
cervello l’idea di prendere in considerazione la scomoda
situazione di Bettina, per il semplice fatto che un aquilone
non ha un cervello per la cui anticamera farsi passare un’idea
e neppure un cuore in cui albergare sentimenti di
riconoscenza. Per questi motivi continuava a trascinarsi
dietro il peso della civetta che gli faceva solo perdere
lentamente quota.
“Ma tu guarda un po’ se questo bel tipo di uccello incosciente
si decide a far qualcosa per liberarmi da questo imbroglio“
pensava Bettina.
Alla fine, adirata per tanta noncuranza, gli gridò:
«Ohè, amico bello! Se hai un po’ di tempo, vorresti per caso
prenderti a cuore la mia situazione? No, dico: senza fretta, sai.
Potresti spezzarti le ali, se no, che non so neppure dove ce
l’hai, le ali!»
Ma l’aquilone non se ne dava per inteso e continuava a
svolazzare allegramente ai capricci del vento.
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Guido Esposito – I racconti della civetta
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«Ma tu vedi un po’ che razza di bel tomo! Ma ti vuoi
decidere o no a posarmi a terra delicatamente e a
liberarmi?»
Come se avesse urlato al vento.
E Bettina continuava a gridare, ad implorare ed inveire, e così
fece fino a quando ebbe un fil di voce. Alla fine, stanca, si
rassegnò a lasciarsi portare senza altre proteste dove la testa
matta di quell’uccello aveva deciso.
Guido Esposito – I racconti della civetta
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Una situazione poco piacevole
Finalmente il filo dell’aquilone si impigliò nel ramo di un
albero.
Bettina rimase così appesa a dondolare in mezzo al bosco,
avvolta nel cotone come un baco nel suo bozzolo.
“Adesso si deciderà a tirarmi fuori da questa ragnatela, voglio
sperare. Gliene devo dire quattro a questo uccello ingrato. Ma
guarda un po’! Uno rischia di rimetterci le penne per
compiere un atto eroico; ti ridà nientemeno che la libertà,
dico: la libertà, e tu neanche ti degni di vedere come sta, se
gli occorre aiuto. Anzi, non lo ascolti neppure, non ti curi se,
per farti un piacere, rischia di morire soffocato dalle catene
che ti imprigionavano. Pezzo di babbeo! Vieni a liberarmi e
vedrai quante te ne dovrai sentire!”
Ma l’aquilone, rimasto anch’esso impigliato nei rami di un
albero poco lontano, continuava ad ignorare la triste sorte di
Bettina.
Passò parecchio tempo. Il sole si avviava velocemente verso
l’orizzonte per tramontare.
La civetta, appesa come un salame, era disperata e piangeva,
un po’ per la paura della notte che stava per giungere e molto
di più per la convinzione che l’uccello liberato, da vero
ingrato, l’aveva abbandonata ad una morte sicura.
«Traditore, vigliacco! -piagnucolava la povera Bettina.- E’
così che si fa? Ma da quale incivile paese del mondo vieni,
che non si presta soccorso ad una povera civetta che sta
morendo per averti reso un favore? Ma al posto del cuore, che
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Guido Esposito – I racconti della civetta
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cosa hai? un pezzo di marmo? Farabutto, malnato! Altro che
liberarti dovevo! Dovevo consigliare a quei bambini di
strapparti le penne ad una ad una, ecco quello che dovevo
fare, invece di liberarti!»
Così Bettina si lamentò a lungo.
Il sole intanto era sceso dietro l’orizzonte; non rimanevano
che pochi minuti di luce.
“Ahi, povera me! Che fine da imbecille dovevo fare!”
continuava disperata la civetta, convinta di non avere scampo
alla morte, questa volta.
«Ohé ragazzi! Venite un po’ a vedere che bel regalino ci ha
portato Babbo Natale, fuori stagione!»
Bettina conosceva bene quella voce. Non apparteneva ad un
uccello. Pur senza averla ancora vista, sapeva bene a quale
animale appartenesse. Era la crudele faina, nemico
pericolosissimo di ogni volatile, la cui specie veniva spesso
cacciata e predata dagli uccelli notturni.
«Ma io so che Babbo Natale viene a dicembre. Tu dici che é
venuto ora perché ha saputo che siamo affamate?»
Anche questa voce era nota alla civetta: era la donnola, altro
nemico sanguinario.
Bettina avvertì che molti carnivori stavano giungendo da più
parti, attirati dalla promessa di una saporita cenetta. Poté
intravedere qualche ermellino, dei topi di diverse specie, poi
quercini e ghiri: animali che Bettina ghermiva e divorava
volentieri quando usciva a caccia e che ora erano ben felici di
avere un’occasione d’oro per vendicare i propri simili, caduti
tra le grinfie della civetta.
Guido Esposito – I racconti della civetta
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Si raggrupparono in molti sul ramo al quale s’era impigliato
il filo dell’aquilone.
“Oh Dio! Per me é proprio finita,” pensò Bettina.
«Ma guardate com’é grazioso quest’involtino! Lo vogliamo
scartocciare qui e mangiarlo subito, o vogliamo conservarlo
per Capodanno?» burlava la faina.
«E se poi non é diretto a noi , questo dono?» riprese la
donnola, ridendo in un modo che finì di gelare il cuore di
Bettina.
«Ma fatela finita!- urlò uno scoiattolo. Tiriamola giù e
facciamogliela pagare per tutte le volte che ci ha spaventati e
ci ha ucciso e divorato i nostri amici!»
«Un momento! - intervenne la donnola. A dividerla fra tanti,
non si sazierebbe nessuno. Si allontanino tutti quelli che non
gradiscono carne di civetta per cena. Vengano avanti quelli
che sanno apprezzare un buon bocconcino. Faremo una conta
e la divideremo fra i tre che la sorte avrà prescelto. Anche
eliminando le penne e le ossa, sarà sempre una lauta cena per
tre di noi.»
Intanto che una decina tra faine, donnole, ermellini ed altri
piccoli carnivori facevano una serie di conte per scegliere i
tre che avrebbero banchettato con la carne della povera
Bettina, calava il buio.
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Guido Esposito – I racconti della civetta
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All’ultimo minuto
L’avevano portata sul ramo e la donnola stava tentando di
afferrarla con le zanne per trascinarla giù, ucciderla e
dividerla in pace con le due faine, comodamente sul terreno
del sottobosco. Proprio in quel momento le foglie degli alberi
intorno cominciarono ad agitarsi come scosse da un vento
improvviso.
Appena la donnola e le due faine capirono che uno stormo di
uccelli notturni stava calando su di loro, lasciarono tutto e
scomparvero in un baleno. Giunsero Bubo, Stucco, Minerva,
Cicco l’allocco e tutti gli uccelli amici di Bettina, messi in
allarme da Ciurlo, un assiolo che aveva visto la civetta in
pericolo.
Intanto Bettina, non più trattenuta dalla donnola, né dal filo,
scivolò dal ramo e cadde. Istintivamente tentò di aprire le ali,
ma queste, come si sa, erano ancora immobilizzate dal cotone
e perciò Bettina cadde con un tonfo sulle foglie del
sottobosco.
«Adesso - esclamò Bubo che si era avvicinato alla civetta - mi
spiegherai come hai potuto metterti in questa situazione!»
Intanto tutti gli altri uccelli, suoi amici e conoscenti, avevano
fatto cerchio intorno a Bettina.
«Liberatemi prima- rispose la civetta.- Ho un conto da
regolare con un uccello di mia conoscenza. Lo ricorrerò fino
in capo al mondo e quando lo avrò trovato, gli farò maledire il
giorno in cui è uscito dall’uovo!»
Minerva incominciò a beccare il cotone per spezzarlo.
Guido Esposito – I racconti della civetta
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«Piano, che mi soffochi!» urlò Bettina.
«Intanto che ti liberiamo - intervenne Stucco - raccontaci cosa
ti è successo.»
E Bettina raccontò dello strano uccello e della sua
ingratitudine e, proprio nel momento in cui finiva il racconto,
Minerva tirava via l’ultimo pezzo di filo che l’avvolgeva.
La civetta, senza dire neppure grazie, incominciò a volare
freneticamente di ramo in ramo, alla ricerca di quel vigliacco
di un uccello straniero. La rabbia le sprizzava da tutte le
penne.
«Dove ti sei nascosto, uccellaccio della malora! Vieni fuori,
brutto criminale, assassino, figlio di una serpe velenosa!»
Ad un tratto tacque e si fermò di botto. Tutti gli altri uccelli si
avvicinarono a lei e poterono vedere un aquilone trafitto da
un ramo spoglio.
Bettina si sentì sbollire tutta l’ira, credendo che l’uccello
fosse morto infilzato dal ramo: ecco perché non era corso a
liberarla!
«Dio mio! - esclamò Cicco l’allocco - Ma è solo un
aquilone!»
«Un aquilone? E a che specie di volatili apparteneva?» chiese
Bettina ancora perplessa e turbata alla vista dell’uccello
miseramente trafitto.
«Stuccooo! -urlò Bubo al colmo dell’ira.- Stucco, portati via
quest’oca col cervello di una gallina deficiente, altrimenti la
sbrano! Portala via, per piacere! Chiudila nella sua tana,
murala dentro e non farla più uscire. Combina mille guai ad
ogni battito d’ali! Ma come é possibile!? I guai se li va a
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Guido Esposito – I racconti della civetta
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cercare col lanternino. Ma dico io: proprio nel nostro bosco
doveva venire a fare il suo nido la più scriteriata civetta
dell’universo?! Portatela via, non fatemela più vedere. E
qualcuno mi faccia il piacere di farle capire, se è possibile,
che differenza passa tra un uccello e un aquilone!» Stucco accompagnò Bettina nella tana in cima alla torre e lì
le spiegò che cos’era un aquilone.
Quando Bettina l’ebbe capito, esclamò:
«Ma guarda che stupida sono! Quasi perdevo la vita per dare
la libertà ad in pezzo di carta.»
«Però - disse Stucco - il tuo gesto è stato ugualmente eroico.
Non importa se era un pezzo di carta o un uccello: tu hai
dimostrato di essere generosa e pronta a rischiare la vita per la
libertà e a combattere contro la prepotenza; questo ti fa onore.
La prossima volta stai più attenta: se devi correre un pericolo,
assicurati prima che lo stia facendo per qualcosa per cui valga
la pena.»
Guido Esposito – I racconti della civetta
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Capitolo undicesimo
L’AUTUNNO
Il bosco era tutto una pioggia di foglie dorate. Il pallido sole
di novembre trovava sempre più larghi spazi nelle chiome
degli alberi e rendeva brillante il tappeto di foglie gialle che
l’autunno stendeva nel sottobosco.
«Tra poco, quasi tutti gli alberi saranno spogli.» disse
sospirando Bettina a Stucco che era appollaiato sul suo albero
accanto alla civetta.
«L’autunno è così, mia cara. E’ triste e brontolone. Ha lo
stesso carattere degli uccelli notturni quando diventano
vecchi; si lamentano sempre e spesso imprecano e sgridano
tutti quelli che si trovano davanti,» rispose il barbagianni
seguendo un mulinello di foglie che, spinte dal vento,
giocavano a fare il girotondo.
«Che tristezza! -sospirò ancora Bettina- Io odio l’autunno e
più ancora l’inverno. Fa buio troppo presto e, anche quando è
giorno, c’è pericolo di non vedere il sole per intere
settimane.»
«Questo non dovrebbe dispiacere ad un uccello notturnoobiettò Stucco- Anzi... Sono le stagioni più amate da noi.»
«Ah, sì? E il gelo, le piogge, le tempeste, gli animali che
vanno in letargo, cosa che per noi rapaci notturni vuol dire
quasi la fame? eh, che dici? anche queste son cose amate
dagli uccelli notturni?»
«Beh, certamente tutto questo non è molto piacevole. Però c’è
più tempo per cacciare, perché la notte è più lunga del
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Guido Esposito – I racconti della civetta
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giorno. E poi, chi è in gamba, forte e coraggioso, trova
sempre da mangiare e non si spaventa per un po’ di pioggia
e di vento.
«Un po’ di pioggia e di vento? Ma tu hai dimenticato le
tormente di neve, gli uragani, il vento che spezza i rami e
sradica perfino gli alberi. E tu vorresti sostenere che al
mondo c’è un animale che possa amare l’inverno? Io credo
che non ce ne sia neppure uno!»
«Oh, ma insomma! Che vuoi? L’inverno c’è e te lo tieni, con
tutta la neve, il gelo, il vento e il resto della sua animaccia
nera!»
«Ah, così va bene. Ma non farmi credere che gli animali
possano amare l’inverno.»
Certo che aveva un bel carattere, questa civetta. Voleva che
tutti gli altri sentissero e vedessero le cose come le sentiva e
vedeva lei, amassero le cose che piacevano a lei e odiassero
le cose che lei non amava.
«Però -riprese Stucco- se fosse sempre autunno, sarebbe
meglio. Le notti lunghe, il freddo non eccessivo, gli animali
non tutti in letargo. Eh, sarebbe proprio l’ideale.»
«No, l’estate sarebbe l’ideale. Le giornate lunghissime, un
sole caldo caldo, gli animali belli grassi e saporiti tutti fuori
dalle loro tane. Eh, sì: è l’estate la più bella!»
«L’autunno,» ribatté Stucco.
«L’estate,» ripeté Bettina con dispetto.
«L’autunno!»
«L’estate!»
Guido Esposito – I racconti della civetta
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In quel momento Cicco l’allocco giunse anch’egli sul ramo
dove si trovavano i due litiganti.
«Ehi, non bisticciate. C’è una stagione che sicuramente
piacerà a tutti e due.»
«Davvero? E qual è?» chiese Bettina.
«L’estatunno.»
«L’estatunno? Mai sentita nominare!»
«Sfido io! -rispose Cicco- L’ho inventata in questo momento.
Ve la regalo. Dura tre mesi come le altre e alterna un giorno
d’estate piena ad uno d’autunno.»
«Sì, e la mettiamo al posto dell’inverno che non piace né a me
e né a Stucco.»
Risero tutti e tre di vero cuore quegli uccelli notturni e alla
fine furono d’accordo che, quando c’è il buonumore e
l’amicizia, anche la stagione più triste diventa lieta.
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Guido Esposito – I racconti della civetta
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Capitolo dodicesimo
LA TARTARUGA RACHELA
Strane amicizie per una civetta
A causa delle sue abitudini diurne, Bettina aveva diverse
amicizie che gli altri uccelli notturni non si sarebbero mai
sognato di coltivare. Prima di lei non s’era mai sentito in quel
bosco che una civetta avesse come amica una tartaruga.
«Un’ upupa è già un’amicizia insolita per un uccello notturno
-aveva asserito Bubo quando era stato messo al corrente delle
strane amiche di Bettina- Ma una tartaruga, poi... Mi sembra
proprio che questa civetta voglia comportarsi apposta come
nessun uccello notturno si è mai comportato.»
Il commento di Cicco l’allocco non era stato molto diverso da
quello di Bubo.
«Esce di giorno invece che di notte. Ama il sole e odia il buio.
Ora se la fa anche con le tartarughe. Ma chi crede di essere
questa Bettina? Vuoi vedere che in fondo le dispiace di essere
un uccello notturno?»
«Il suo comportamento è un’ offesa per la nobile stirpe degli
uccelli notturni!» esclamava qualcun altro.
Solo Stucco trovava parole indulgenti per questa civetta
bislacca.
«Ma considerate che è giovane e... si sa, i giovani amano
comportarsi da ribelli.»
«E invece è uno scandalo! E’ inammissibile! E’
intollerabile!» esclamava qualche altro uccello moralista.
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E Stucco:
«Ma infine non fa male a nessuno se va a caccia di giorno, se
ama il sole invece che le stelle e se ha per amiche un’upupa e
una tartaruga.»
E tutti allora dovevano riconoscere che Bettina era sì
bislacca, ma male non ne faceva, anzi: se c’era da aiutare
qualcuno in pericolo, non si tirava mai indietro.
In realtà tutti gli uccelli del bosco avevano qualcosa da dire
sul conto di Bettina a causa del suo strano modo di vivere,
ma tutti le volevano bene e a tutti la civetta voleva bene.
Anche a Rachela la tartaruga.
E perciò, ogni volta che la primavera dava segni di volersi
risvegliare, Bettina si recava all’ingresso della tana di
Rachela e aspettava che la tartaruga uscisse dal suo letargo
invernale.
«Buongiorno, Rachela. Hai dormito bene?»
«Eh, cosa hai detto?» chiedeva la tartaruga che era alquanto
sorda.
«Ti ho chiesto se hai dormito bene.» ripeteva Bettina.
E Rachela:
«Dici che non ho sangue nelle vene? Certo che ce l’ho! E’
ancora un po’ addormentato, ma ce l’ho.»
«Ma no! -urlava Bettina- Hai dormito bene? dormito,
Rachela. Hai dormito bene?»
«Macché! -si lamentava allora la tartaruga.» Quando si ha la
sfortuna di avere come vicina di casa una talpa che tossisce e
starnutisce a più non posso, ti va bene se dormi per venti
giorni filati. Io poi, che se mi sveglio, non riesco a riprender
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Guido Esposito – I racconti della civetta
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sonno per due settimane... Insomma, se dico che ho dormito
per un mese in tutto, quest’anno, dico anche troppo.»
E continuava a lamentarsi che s’era dimagrita tanto, durante
il letargo, che quasi la casa le sfuggiva di dosso. E giurava
che quest’altro anno avrebbe cambiato tana, che la prossima
estate se ne sarebbe andata a vivere lontana da quel posto
impossibile, in un bel campo di lattuga a qualche chilometro
da lì.
Ogni anno Bettina sentiva le stesse lamentele da Rachela, la
tartaruga che si svegliava dal letargo sempre di malumore.
Ma, alla fine di ogni autunno, Rachela ritornava alla sua tana
e da quel bosco non andava mai via, perché lo amava come
noi amiamo il nostro luogo natìo, la nostra città, anche se è
sporca, piena di automobili, rumorosa e sovraffollata.
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Una conversazione animata
L’età di Rachela era un mistero. Bubo diceva che le
tartarughe vivono tantissimo. Stucco spesso aveva detto che
suo nonno conosceva una vecchia tartaruga di nome Rachela.
«Quanti anni hai, Rachela?» le chiedeva Bettina.
«E quanti panni devo avere? Io non ho panni.»
«Anni, Rachela. Ho detto anni! Quanti anni hai.»
«Non sono tanto vecchia, mia cara.» rispondeva la tartaruga,
mentre si metteva comoda in un punto in cui il sole
illuminava il terreno e si impegnava a dare un po’ di calore a
quella corazza antica.
«Non ho ancora cento anni.» affermava con orgoglio Rachela.
«All’anima della giovinetta che sei! - rispondeva allegra
Bettina - E quanti sono cento anni?»
«Beh, sono... un secolo.»
«E che cos’è un secolo?»
«Sono cento anni. E io non li ho ancora cento anni.»
Chi poteva sapere l’età esatta di Rachela? Nessun animale dei
nostri boschi può vivere neppure la metà degli anni di una
tartaruga. Forse non diceva una bugia quando affermava di
essere quasi centenaria. Per lei Bubo, Stucco e i più vecchi
animali notturni erano dei neonati.
Bettina rimaneva a lungo a chiacchierare con Rachela che,
appena svegliata dal letargo, aveva bisogno di ore e ore di
sole per potersi riscaldare e curarsi un po’ i reumatismi di
lunghi mesi vissuti in una tana buia, fredda e umida.
«E com’è che voi tartarughe vivete così a lungo?»
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Guido Esposito – I racconti della civetta
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«Cosa? Hai trovato sei lattughe sotto un fungo?»
«Sì, buonanotte.»
Bettina allora si accostava un po’ di più all’orecchio della
tartaruga ed alzava la voce:
«Com’è che voi tartarughe vivete così a lungo?»
«E non strillare! Ho capito! Viviamo così a lungo perché
prendiamo la vita con calma, mia cara. Voi andate troppo di
fretta. Ma dove andate, poi? Mah, chi lo sa.»
«Eh, sì. Te la prendi comoda la vita. Però quello che io vedo
in un’ora di volo, tu non riesci a vederlo neppure in dieci
anni.»
«Ah, sì? e dimmi un po’ -replicava la tartaruga- Tu cosa vedi
in un’ora di volo?»
«Vedo alberi, boschi e valli e fiumi e monti e laghi e ... vedo
centinaia di cose.»
«Beh, anch’io in un’ora vedo centinaia di cose, carina. Tu per
esempio, conosci il lavoro che ferve in un formicaio, o la vita
che c’è sotto la corteccia di un tronco d’albero abbattuto? Io
conosco uno per uno tutti i cespugli che ci sono nel raggio di
cento metri, tutti i nidi di uccelli che vi si nascondono, i fiori
che vi nascono e le bacche che vi crescono.»
E Bettina allora rispondeva un po’ irritata:
«E io conosco tutti i boschi che esistono nel raggio di cento
chilometri, le specie di alberi che predominano in ciascuno di
essi, i frutti che vi crescono e le tane di animaletti che ci
sono.»
Allora Rachela, girandosi lentamente per offrire al sole l’altro
lato della spessa corazza, rispondeva:
Guido Esposito – I racconti della civetta
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«Un bosco non è altro che un cespuglio un po’ più grosso.
Come vedi, conosciamo la stessa quantità di cose; e
comprendi pure che, senza voler essere troppo pignoli,
conosciamo le stesse cose.»
Allora Bettina rimaneva perplessa, perché aveva la
sensazione di essere stata imbrogliata, senza riuscire a capire
dove fosse l’imbroglio. Proprio come quando il prestigiatore
fa un gioco e gli spettatori capiscono che c’è il trucco, ma
non sanno dire quale esso sia.
E Rachela continuava:
«Cara civetta presuntuosa, devi capire che ci si può istruire, si
può diventare saggi e si può imparare a vivere sia conoscendo
la realtà di un piccolo pezzo di mondo e sia conoscendo un
intero continente.»
Bettina si innervosiva, perché voleva dare torto a Rachela,
ma non sapeva in che cosa la tartaruga avesse torto.
«E tu hai visto mai il mare? Io l’ho visto. Avanti, cosa
rispondi?»
«Ti rispondo che, se non ho visto il mare, conosco però la
bellezza di un lago sotterraneo che ho scoperto nell’autunno
di due anni fa. E’ un lago che si trova qualche centinaio di
metri sottoterra, poco lontano dalla torre dove tu hai la tana. E
ti assicuro che è meraviglioso quanto il tuo mare.»
E Rachela raccontava le cose che aveva visto e udito sulle
rive di quel lago sotterraneo. Spiegava alla civetta, che si
incantava ad ascoltare, come erano fatti gli animali che
vivevano là sotto e la vita che conducevano nelle viscere
della terra, senza mai uscire alla luce del sole.
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Guido Esposito – I racconti della civetta
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Bettina rabbrividiva al pensiero che esistessero esseri i quali
trascorrevano tutta la loro vita nelle tenebre e quindi
ribatteva:
«Ah! Non vorrei essere nella loro pelle. Sai che ti dico?
Questo tipo di spettacoli tenebrosi te li lascio volentieri. Io
preferisco una giornata di primavera e lo splendore del mare
azzurro. E adesso ti saluto: vado a sgranchirmi un po’ le ali.»
«Ciao Bettina -rispondeva la tartaruga- Anch’io mi metterò
all’opera tra poco, per scovare qualche tenero cespo
d’insalata. Mi sento così debole. Ho bisogno di mangiare per
mettere qualche decina di grammi addosso.»
Bettina spiccava il volo dal terreno e si posava sul ramo di un
albero. Di lì si tuffava nell’azzurro cielo di primavera.
Rachela lentamente ruotava di mezzo giro per riscaldare
l’altro lato della casa e si ritrovava davanti una lunga fila di
processionarie, i buffi vermi che tra non molto si sarebbero
trasformati in farfalle.
Guido Esposito – I racconti della civetta
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Capitolo tredicesimo
LO SPAVENTAPASSERI
Quattro chiacchiere
Dopo l’abbondante acquazzone di quella mattinata, lo
spaventapasseri, posto a guardia del campo seminato, era
ridotto veramente in condizioni pietose.
“Poverino” pensò Bettina. “Costretto con ogni tempo a
rimanere fermo, con le braccia aperte, notte e giorno ... Non è
certo una bella vita la sua.”
Venivano fuori dalle maniche e dai pantaloni fili di paglia
che gocciolavano acqua. La giacca, vecchia e rattoppata, era
zuppa e il cappello giaceva sul terreno poco lontano, portato
via da una folata di vento.
«Vediamo un po’ cosa si può fare per te,» disse Bettina e volò
sul terreno nudo e molle. Col becco raccolse il cappello e
glielo posò sulla testa di paglia.
«Se vuoi rassomigliare ad un uomo, com’è tuo dovere, beh!
bisogna proprio che ti mantenga in forma, bello ed elegante.
Guarda un po’ come sei bagnato fradicio. Ma non ti
preoccupare. Vedrai, ora il sole ti asciugherà per bene. Il
tempo si mette al bello.»
Intanto la civetta cercava di mettere a posto tutta la paglia che
la pioggia e il vento avevano fatto uscire dal vestito.
Nel frattempo si diradava nel cielo la cappa di nuvole,
mostrando squarci di azzurro sempre più ampi. Gli uccelli
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Guido Esposito – I racconti della civetta
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riprendevano i loro canti e si sentiva il cra cra di qualche
cornacchia.
«Ecco! Così almeno sei più presentabile; altrimenti gli uccelli
non ti rispettano e ti vengono a rubare perfino la paglia che
hai addosso.»
La civetta completò l’opera togliendo il terreno dal cappello e
qualche foglia morta che, portata dal vento, era finita sul
vestito dello spaventapasseri.
«Eh, sì. Adesso sembri quasi un uomo vero. Vedrai come
avranno paura di te quei passerotti ladruncoli che vorrebbero
rubare i semi dal terreno!»
Quella mattina la civetta si era svegliata con la voglia di fare
quattro chiacchiere con qualcuno; ma Bubo, Stucco, Minerva
e tutti gli altri uccelli notturni dormivano, com’era loro solito.
Nonna Crestina era volata via dal suo nido in cerca di insetti
per gli uccellini sempre numerosi che si ritrovava tra le
zampe, quasi tutti orfanelli che l’upupa raccoglieva per il
bosco e curava come se fossero stati pulcini suoi.
Rachela la tartaruga non si era fatta ancora viva: forse era in
riva al suo lago sotterraneo, ad ascoltare le storie che
raccontavano gli animali, abitatori delle grotte sotterranee.
Gli animali diurni, sempre affamati in quel periodo, erano
intenti a procurarsi il cibo e non avevano tempo di scambiare
quattro chiacchiere con Bettina.
Così la civetta, uscita dalla sua tana in cima alla torre non
appena il tempo aveva accennato a smettere di piovere, aveva
incontrato quello spaventapasseri malconcio. Sempre meglio
di niente.
Guido Esposito – I racconti della civetta
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Era vero che quel fantoccio, fatto di stecchi e di paglia,
vestito con gli abiti logori di un contadino, non rappresentava
il meglio come interlocutore. Ma quando si ha tanta voglia di
conversare con qualcuno quanta ne aveva Bettina in quella
mattinata, non si va tanto per il sottile: ci si accontenta anche
di uno spaventapasseri.
La civetta allora, finito che ebbe di rendere il più elegante
possibile l’aspetto di quel grosso pupazzo ritto in mezzo al
campo seminato, gli si appollaiò su un braccio e tentò di
intavolare la conversazione.
«Adesso mi metto un po’ qui e ti aiuto nel tuo lavoro, perché
anch’io sono brava a spaventare i passeri, sai? Soltanto se mi
vedono, scappano via ad ali spiegate. Ah, vedessi la paura di
quelle pallottoline di penne appena io appaio! Però, devo dirti
la verità, mi sono simpatici. In vita mia, non ho mai mangiato
un passerotto o un altro uccellino. Non è che la loro carne non
mi piacerebbe; ma, non so ... non ho il coraggio di assalire
queste creaturine che non possono difendersi dai miei artigli
infallibili. Preferisco cacciare roditori, rettili e prede di questo
tipo. Non mi è piaciuto mai prendermela con gli uccelli. In
fondo sono pur sempre della mia stessa razza e, a mangiarli,
mi sentirei un po’ cannibale. No, mangiarli proprio non mi
va; spaventarli sì: mi diverto a farli scappare via a frotte. Sta’
a guardare come faccio.»
Ai limiti del campo, recintato da un basso muretto di pietre, si
era raccolto un nutrito gruppo di passeri che beccava nel
terreno, ad una certa distanza dallo spaventapasseri e dalla
civetta.
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Guido Esposito – I racconti della civetta
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Bettina spiccò il volo e, veloce come una freccia, prese a
sorvolare il terreno in lungo e in largo. Poco prima che la
civetta giungesse su di essi, i passeri levavano il volo e
precipitosamente si rifugiavano nel folto degli alberi che
circondavano il campo.
Bettina, liberata la zona da tutti gli uccelli, volò in alto, fece
un largo giro sul campo ed emise una serie di lunghe strida,
per far intendere che quel territorio le apparteneva e che
nessuno doveva azzardarsi ad invaderlo.
Ritornò quindi a posarsi sul braccio dello spaventapasseri.
«Hai visto come sono scappati? Ho messo loro un tale
spavento addosso, che non li vedrai più per tutto il giorno.»
Meno male che gli spaventapasseri non hanno occhi,
altrimenti Bettina avrebbe fatto una brutta figura. Infatti, non
aveva neppure finito di aggiustarsi le penne dopo quel volo,
che i passerotti, a gruppi di due o tre per volta, erano usciti
dai loro rifugi tra le foglie ed erano ritornati oltre il muretto di
pietre a beccare i semi tra le zolle.
«Ma tu guarda un po’ -dicevano fra loro i passeri, tra una
beccata e l’altra- Adesso anche di giorno questa scocciatrice
ci viene a rompere le uova nel paniere!»
Bettina non poteva udire queste frasi cinguettate in tono
sommesso; in più fece finta di non essersi accorta dei passeri
ritornati a beccare nel campo. E stava pensando bene di
cambiare discorso, quando lo spaventapasseri parlò:
«Grazie per l’aiuto che mi dai. Se non fosse stato per te, i
passeri avrebbero beccato tutti i semi di grano del campo.»
Guido Esposito – I racconti della civetta
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A sentir uscire la voce da quel pupazzo fatto di paglia, legni e
panni, la civetta fece un salto per lo spavento e piombò sul
terreno. Si allontanò un po’ dallo spaventapasseri e poi chiese
impaurita:
«Ohé E com’è che parli? Tu non puoi parlare! Tu sei una cosa
inanimata.»
Come si spiegava questo strano fatto?
Era successo che Coffa la cornacchia, appollaiata sul ramo di
un albero non molto distante dallo spaventapasseri, aveva
ascoltato fin dall’inizio la conversazione, o più esattamente il
monologo di Bettina col muto fantoccio e aveva assistito a
tutta la scena susseguente. Aveva così deciso di divertirsi un
po’ alle spalle di quella ingenua civetta che Coffa conosceva
bene e sapeva pure quanto fosse credulona.
Nel tempo in cui Bettina era impegnata a volare sul campo
per scacciare i passeri, senza che la civetta se ne accorgesse,
si era infilata sotto il cappello dello spaventapasseri e
contraffacendo la voce, aveva fatto credere a Bettina che il
pupazzo fosse in grado di parlare.
«Io posso parlare, ma il perché è un segreto che la fata mi ha
fatto promettere di non divulgare.»
Quando sentì parlare di fate, Bettina, che tanti racconti aveva
udito da nonna Crestina, (la quale giurava che le fate
esistevano) non poteva dare ascolto alla paura che la rendeva
sospettosa mentre, da un’altra parte, la curiosità la invitava ad
andare a fondo del mistero.
«Quale fata? Che segreto? Cosa vai dicendo?»
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Guido Esposito – I racconti della civetta
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«Eh, ma non posso gridare. Se svelo il mistero a tutti, la mia
fata mi fa perdere la facoltà della parola. Avvicinati di più ed
io ti spiegherò.»
Coffa già si divertiva un mondo vedendo, attraverso un buco
del cappello, come la civetta si dibatteva tra il desiderio di
avvicinarsi e il timore di qualche inganno.
La cornacchia dovette faticare solo ancora un po’ per
convincere Bettina ad appollaiarsi sul braccio dello
spaventapasseri per ascoltare la spiegazione del fantastico
avvenimento.
«Ma, per carità -pregava Coffa- non dirlo a nessuno. Non
svelare il segreto, altrimenti saranno guai per te e per me.»
La civetta ascoltava quella voce che veniva fuori dal
fantoccio con grande meraviglia e si andava convincendo
sempre di più di essere testimone di un fatto eccezionale e
favoloso.
«E’ successo tutto l’altro ieri. Mi sentivo triste e solo e
pensavo al mio destino sfortunato, alla mia sorte di uomo di
paglia, costretto a sembrare un essere umano solo per
spaventare i poveri uccelli affamati.
“Potessi camminare almeno, o parlare con qualcuno.
Scambiare una parola è pur sempre una consolazione. E
invece, niente: sempre qui, fermo e solo. Oh, come sono
infelice!” E mentre così mi lamentavo tra me -continuò Coffa
dall’interno del cappello- ecco che mi appare una bellissima
fata, tutta vestita di petali di rosa, con in testa un magnifico
cappello fatto di ali di farfalle, avvolta in una nube di stelline
scintillanti. “Perché ti lamenti, caro spaventapasseri?“ mi
Guido Esposito – I racconti della civetta
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chiede la fata. Io, passato il primo momento di stupore,
rispondo:
«Vorrei essere un uomo vero. Vorrei poter parlare e
camminare e fare tutto ciò che fanno gli uomini.»
«E la fata?» chiese Bettina divorata dalla curiosità.
«E la fata mi risponde: ”Beh, proprio come un uomo, non è
possibile. Ma ti donerò una delle più belle facoltà che ha
l’uomo: la parola.”
«E poi?» domandò ancora la civetta.
«E poi ... Eccomi qui: parlo!»
Nel dire con un certo impeto: eccomi qui, la cornacchia fece
un piccolo salto sotto il cappello e la sua coda, pur non
essendo molto lunga, fuoriuscì per un attimo da sotto le falde.
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Guido Esposito – I racconti della civetta
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Una giusta punizione
Bettina, che era, sì, ingenua e credulona, ma non era poi
proprio stupida, capì l’inganno e capì pure che, a ideare un
simile scherzo, poteva essere stata solo Coffa, la cornacchia
più burlona della zona. Però fece finta di stare al gioco e, per
un po’, continuò nella sua parte di civetta che credeva a tutto
quello che le si diceva.
E poi ti ha detto di non rivelare a nessuno questo segreto,
vero? Eh, sì. Proprio così mi ha detto - rispose Coffa.
E tu l’hai detto a me e quindi hai disubbidito. Sì, l’ho detto a te perché tu ti sei dimostrata gentile con me. E
poi so che tu non lo dirai a nessuno. E mentre così diceva, la cornacchia pensava : ”Tu non lo dirai
a nessuno; ma lo dirò io a tutti gli animali del bosco quanto
sei scema e zuzzurellona, tanto da credere alle fate e agli
spaventapasseri che parlano.”
«Io certamente non lo dirò a nessuno, rispose Bettina. Ma
questo non servirà a nulla. Sai perché?»
«Perché?»
«Perché la fata lo ha già saputo. E sai che cosa fanno le fate
ad una che non mantiene le promesse?»
«Cosa fanno?»
«Le mandano una civetta a punirla. Ed eccomi qua!»
Di colpo Bettina balzò sul cappello, imprigionando col suo
peso la cornacchia all’interno.
Guido Esposito – I racconti della civetta
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«Aspetta -disse Bettina- Fammi ricordare che punizione mi è
stato ordinato di infliggerti. Ah, sì! Ora mi ricordo. Sei
pronta?»
«Aiuto!» gridava Coffa.«Via!» gridò la civetta e cominciò a far cadere sulla povera
cornacchia una tempesta di beccate.
«Cra, cra!» urlava Coffa e si dibatteva sotto il cappello. Ma
Bettina, incurante delle grida di lei, continuava a tempestarla
di beccate che, nonostante ci fosse il cappello di mezzo,
facevano male lo stesso.
La cornacchia lottava cercando di sfuggire a quel becco che
sembrava un martello pneumatico, mentre Bettina tentava di
darle quante più beccate poteva.
Alla fine il cappello cadde dalla testa dello spaventapasseri
insieme alla cornacchia, che si rifugiò nella giacca per
sfuggire alla civetta, la quale non accennava a voler desistere
dalla sua azione punitiva. Dalla giacca si infilò nei pantaloni;
si trovò sul terreno e prese il volo. Bettina la inseguì
gridando:
«Aspetta! La fata mi ha detto che devo darti seicentoventotto
beccate e ti devo strappare tutte le penne. Le beccate te le ho
date; adesso lascia che ti strappi tutte le penne, maledetta
cornacchia!»
Coffa volava via cercando di sfuggire alla civetta e
maledicendo il momento in cui le era venuta l’idea di ficcarsi
sotto il cappello per burlarla.
Bettina la inseguiva caparbiamente e chissà se riuscì mai a
raggiungerla per strapparle le penne.
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Guido Esposito – I racconti della civetta
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Chi invece le penne ce le aveva rimesse tutte, era stato il
povero spaventapasseri. Il cappello era ridotto uno straccio
inservibile e giaceva miseramente sul terreno. La testa non
esisteva più. Al posto di essa c’era un pezzo di ramo d’albero
con qualche filo di paglia.
La giacca era rimasta vuota, come se fosse appesa ad una
gruccia; i pantaloni giacevano spiegazzati ai piedi del paletto
ficcato nel terreno.
Se veramente lo spaventapasseri avesse potuto parlare, chissà
quante ne avrebbe dette a quei due uccellacci della malora.
Guido Esposito – I racconti della civetta
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Capitolo quattordicesimo
DARDO
Un incontro tumultuoso
L’estate si andava spegnendo di giorno in giorno. I colori del
bosco perdevano la loro brillantezza e il vento cominciava a
strappare agli alberi le prime foglie ingiallite.
Per tutta quella mattinata, il cielo aveva minacciato di porre
fine alla lunga serie di splendide giornate succedutesi senza
interruzioni per tutto il mese di settembre; ma poi, nel
pomeriggio, dopo qualche profondo brontolio di tuoni, si era
chetato: forse aveva deciso di regalare ancora qualche bella
giornata estiva a quel bosco.
Bettina, che era stata in giro fin dalle prime ore del mattino,
si accingeva a prendere la via del ritorno, poiché il sole si
avvicinava all’orizzonte per tramontare.
La civetta aveva un po’ di malinconia nel cuore, perché così
le capitava quando il giorno si preparava a lasciare il posto
alla sera, e più ancora quando l’autunno incominciava a farsi
sentire in certe improvvise folate di vento fresco o nei
brontolii del cielo che improvvisamente si imbronciava.
L’autunno avrebbe presto ceduto il posto all’inverno e
sarebbero ricominciate le brutte giornate, con brevi ore di
luce ed interminabili nottate di vento e di gelo.
Giunse al bosco che il sole era appena scomparso
all’orizzonte, però c’era ancora tempo per fare una visitina a
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Guido Esposito – I racconti della civetta
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Rachela; chissà che la sua amica tartaruga non riuscisse a
metterla di buon umore e le facesse dissolvere quel velo di
tristezza che aveva avvolto il suo cuore. Rachela stava nei
pressi della sua tana a masticare una foglia non più tanto
fresca, ma ancora abbastanza tenera.
Alzando un po’ la voce, perché non s’era scordato che la sua
vecchia amica era un po’ dura d’orecchi, Bettina la salutò:
«Ciao, Rachela.»
«Ciao, civettina. Ti prepari per andare a caccia?»
«No, me ne sto... beh, sì. Andrò un po’ in giro alla ricerca di
qualche bocconcino.» Non ebbe voglia di rammentare a
Rachela la questione delle sue abitudini diurne.
«Fai bene. Fatti le provviste perché le mie vecchie ossa mi
dicono che l’inverno, quest’anno, verrà molto presto.»
«Che tristezza, mia cara Rachela. Io odio l’inverno. Non
passa mai e ci fa soffrire tanto.»
Ah, per conto mio, più dura, meglio è. Io mi addormento e
quando mi sveglio è già primavera. Io l’inverno, non so
neppure cosa voglia dire. Se la talpa, mia vicina di casa,
tossisce e starnutisce in silenzio, faccio tutto un sonno senza
neppure accorgermi che c’è stato. Beata te, Rachela! Ti invidio. Come vorrei anch’io
addormentarmi all’inizio dell’inverno e svegliarmi a
primavera.
Guido Esposito – I racconti della civetta
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Un’assurda aggressione
Mentre Bettina stava lì a discorrere con Rachela della brutta
e della bella stagione, ad un tratto vide la tartaruga ritirare
come un fulmine la testa e le zampe nel suo guscio; un attimo
dopo un uccello piombava su di essa e tentava a colpi di
becco di rompere la spessa corazza.
Subito Bettina capì che un giovane maschio di civetta era
piombato sulla tartaruga con intenzioni niente affatto
pacifiche.
Ma che voleva fare quello sprovveduto? Pretendeva forse di
spezzare la corazza della sua vecchia amica e procurarsi così
la cena a base di carne di tartaruga? Era proprio stupido!
Visto che quel bel tipo non si decideva a smetterla di beccare
il guscio di Rachela, rischiando anche di rovinare il suo bel
becco contro l’osso di quella durissima corazza, Bettina gli
affibbiò un colpo d’ala sulla testa, poi gli gridò:
«Ma chi sei? Che diavolo vuoi? Come ti permetti di aggredire
la mia amica? Devi essere proprio accecato dalla fame per
prendertela con una tartaruga! Chi credi di essere per
pretendere di rompere un guscio più resistente del legno di
un noce? Che cosa credi di avere, un becco d’acciaio?»
«Tu lasciami fare, mia cara e vedrai come te la tiro fuori dalla
scorza questa maledetta tartaruga!» rispose il giovane uccello,
sicuro di riuscire nel suo proposito e di fare bella figura agli
occhi di quella graziosa civettina.
Ma Bettina non gli permise di continuare quell’assurda
aggressione contro Rachela.
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Guido Esposito – I racconti della civetta
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«Ti ho detto che è una mia cara amica e perciò, prima che tu
possa darle un’altra beccata, dovrai fare i conti con me!»
Il giovane maschio di civetta, allora, squadrò Bettina dalla
testa alla coda, poi gettò uno sguardo alla tartaruga che
rimaneva immobile ben protetta all’interno del suo guscio,
quindi:
«E’ tua amica? E quando mai una civetta ha avuto come
amica una tartaruga?»
Bettina si sentì avvampare dall’ira, per cui postasi davanti a
quel bel tomo di un uccello, con atteggiamento di sfida, gli
gridò sul becco:«Ehi, senti un po’, civettucolo da strapazzo! Io sono amica di
chi mi pare e piace, capito! E non devo dar conto a te se mi va
di farmi amica una tartaruga. Per cui tu, adesso, la lasci in
pace e te ne vai da dove sei venuto. Ma da dove vieni? Chi ti
ha dato l’autorizzazione di cacciare in un territorio che non è
tuo?»
Il giovane rapace capì che la civetta era proprio adirata ed
inoltre notò che era davvero carina; pensò quindi che non gli
conveniva di rendersela nemica.
«Va bene, va bene! Non ti arrabbiare. Ho capito. La tartaruga
non si tocca. Calmati, perché quando ti arrabbi, ti si arruffano
le penne e diventi brutta.»
«Bada a quanto sei bello tu, ed anche molto educato. Tu, che
vieni qui ad interrompere due animali che se ne stanno per i
fatti loro a discutere.»
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«D’accordo. Scusami. Come facevo a sapere della vostra
amicizia? Io volevo offrirti una cenetta, perché non l’avrei
certamente mangiata da solo tutta la carne di questa preda.»
Bettina si calmò e, rivolta a Rachela, le disse:
«Puoi venir fuori, Rachela. Non ti farà del male, questo
signorino.»
La tartaruga cacciò timidamente la punta delle zampe e,
visto che nessuno gliele beccava, cacciò cautamente fuori
anche la testa e si avviò, con la maggior velocità possibile,
verso la tana. Bettina si pose tra l’uccello e la tartaruga per
proteggerne la lenta ritirata ed intanto guardava con occhi
truci il giovanotto, come a dire che non si azzardasse ad
ostacolare in nessun modo la fuga della sua amica, altrimenti
sarebbero stati guai.
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Guido Esposito – I racconti della civetta
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Un’upupa per bàlia
Il giovane civettino la guardava a sua volta con aria
canzonatoria. Però Bettina si avvide che quell’ uccello era
ben piantato, e certamente non sapeva come sarebbe finita, se
avesse dovuto difendere la sua amica con la forza contro di
lui. Inoltre, alla scarsa luce del giorno che finiva, vide che
aveva un bellissimo piumaggio lucido e un becco ben
robusto, due zampe forti, munite di artigli che certamente non
si lasciavano sfuggire la preda, una volta ghermitala.
Quando Rachela ebbe guadagnata la tana e si fu avviata per i
cunicoli sotterranei, da dove ormai sarebbe venuta fuori solo
a primavera, Bettina si sentì più rassicurata e stava decidendo
di andarsene, dopo aver inviato un ultimo sguardo di
disprezzo a quel ... a quel bel tipo di un uccello notturno.
Ma, mentre stava per girarsi e spiccare il volo, questi le
chiese:
«Puoi indicarmi dov’è il nido di nonna Crestina, per
piacere?»
«Perché? Hai forse deciso di cenare con la carne di upupa,
adesso? -gli rispose sarcastica Bettina- Ti avverto che anche
nonna Crestina è mia amica ed è amica di tutti gli uccelli
diurni e notturni di questo bosco.»
«Se per voi è un’amica, per me è stata ed è molto di più,»
rispose il giovane uccello con tono serio.
Bettina rimase sorpresa da queste parole e dal tono con cui
erano state dette, e si destò in lei la curiosità, per cui non potè
fare a meno di domandare:
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«Perché? e come la conosci, se sei nuovo di queste parti?»
«Io la conosco da quando tu non eri ancora neppure nell’uovo
da cui sei uscita -rispose. Mi ha fatto da madre, mi ha nutrito
e mi ha curato. Non ho mai conosciuto i miei genitori: sono
scomparsi poco prima che io nascessi. Nonna Crestina ha
finito di covare l’uovo in cui mi stavo formando, per tutto il
tempo necessario. Poi, appena sono stato in grado di volare,
ho lasciato il suo nido per girare i boschi del mondo. Ora sono
tornato e voglio vederla; ma non ricordo più dov’è il suo nido
ed in verità non so neppure se abita ancora in questo bosco.»
«Nonna Crestina abita in questo bosco,» rispose Bettina che
si era un po’ commossa alla storia del giovane uccello.
«E vorresti essere così gentile da accompagnarmi al suo
nido?» chiese con modi molto cortesi.
«Non posso, perché si è fatto troppo tardi ... ehm ... devo
ritornare ... Insomma ho da fare,» rispose la civetta molto
imbarazzata.
Non voleva fargli capire che aveva fretta di ritornare nella sua
tana perché si era fatto quasi buio e lei aveva paura di star
fuori con le tenebre.
«Tardi? -chiese l’uccello sorpreso.- Ma se è appena
cominciata la sera? Non esci a caccia?»
«Senti. Il fatto è che non vado in giro con chi non conosco. E
poi ... A caccia uscirò più tardi: adesso non ho fame.»
«Hai ragione. Sono proprio molto maleducato: non mi sono
neppure presentato. Mi chiamo Zirpo, ma tutti mi chiamano
Dardo perché dicono che sono molto veloce nel volo. E ...
posso sapere il tuo nome?»
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Guido Esposito – I racconti della civetta
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«Bettina,» rispose la civetta che, da quando quel giovane
uccello aveva iniziato a rivolgersi a lei con modi da uccello
per bene, si sentiva intimidita ed aveva perso tutta la sua
aggressività.
«Ed ora che mi conosci, pensi che ci sia qualcosa di male ad
accompagnarmi da nonna Crestina?» chiese Dardo.
Bettina avrebbe voluto accompagnarlo, ma poi come avrebbe
fatto a tornare alla tana con il bosco avvolto nell’oscurità
della notte?
«Beh, potrei anche farlo. Però, una volta che ti ho indicato il
nido dell’upupa, poi mi devi riaccompagnare alla mia tana.»
Il giovane Dardo non riusciva a capire bene perché la civetta
poneva quella condizione. Possibile che in quel bosco una
civettina non potesse circolare in tutta tranquillità?
Naturalmente non immaginava neppure che Bettina non si
sentiva affatto tranquilla a girare di notte perchè era atterrita
dal buio.
«Certo che ti riaccompagno a casa,» rispose Dardo.
E così partirono alla volta del nido di nonna Crestina.
Guido Esposito – I racconti della civetta
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Un invito imbarazzante
Dopo un breve volo attraverso il bosco, i due giovani uccelli
si presentavano a casa dell’upupa, che stava provvedendo a
sistemare un gruppo di pulcini per la notte.
Fu tanta la gioia di nonna Crestina nel rivedere il giovane
Dardo, che non finiva più di guardarselo, di dirgli quanto era
cresciuto e come si era fatto bello, di ricordargli quando era
appena un pulcino implume e gli combinava ogni sorta di
monelleria.
E girati di qua, e fatti guardare un po’ meglio, e ti ricordi
questo, e ti ricordi quello, ah, quante me ne hai fatte! E
insomma la vecchia Crestina non finiva più di ammirarlo e di
inorgoglirsi, quasi come se lo avesse fatto lei con le sue
stesse zampe.
Bettina intanto era impaziente di tornare alla sua tana e si
sentiva sui carboni accesi al pensiero di dover volare di sera,
nel bosco, in compagnia di uno sconosciuto. Però non aveva
il coraggio di interrompere quella festa di sentimenti che era
scoppiata tra Dardo e nonna Crestina.
Alla fine, il giovane uccello si ricordò della civetta.
Nonna Crestina, permettimi di accompagnare questa gentile
amica che mi ha indicato la tua tana. Faccio in un attimo e
torno. Poi avremo parecchio tempo per ricordare quando ero
un pulcino perché, se hai ancora un po’ di posto per me, mi
piacerebbe rimanere qualche giorno ospite del tuo nido. «Questa è casa tua -rispose nonna Crestina- e puoi rimanere
qui tutto il tempo che vuoi.»
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Guido Esposito – I racconti della civetta
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La notte era ormai calata sul bosco e rarissime volte Bettina si
era lasciata sorprendere da essa fuori dalla sua tana.
Dardo la guidò al di sopra della folta vegetazione, e lì il cielo
era luminoso. La civetta si accorse che, in fondo, il buio non
era poi tanto orribile; ma questa sensazione era forse dovuta
al fatto di ritrovarsi in compagnia di un giovane uccello forte
e coraggioso come Dardo.
“Forse, pensava Bettina, avendo la compagnia di qualcuno,
anche l’inverno sarebbe meno duro da trascorrere.”
In breve raggiunsero la tana in cima alla torre. Prima di
congedarsi dalla civetta, Dardo le chiese:
«Allora, domani sera usciamo a caccia insieme?»
A Bettina non sarebbe dispiaciuto accettare quell’invito, ma
uscire di notte non se la sentiva. Però forse insieme a Dardo...
«Non so -rispose la civetta- Vieni domani al tramonto e
vedremo.»
Si salutarono. Bettina guardò quel giovane maschio di civetta
mentre spiccava il volo dalla tana e si tuffava veloce
nell’azzurro cupo del cielo.
Certo, la prima impressione che Bettina aveva avuto
incontrando Dardo, non era stata di simpatia. Il giovane
uccello si era comportato abbastanza rozzamente, aggredendo
la tartaruga in sua presenza, senza tener conto del fatto che
stava parlando con lei. Ma, in seguito, si era comportato
correttamente ed, inoltre aveva mostrato di avere un animo
sensibile, se riusciva a nutrire pensieri di così profonda
gratitudine e affetto per nonna Crestina che gli aveva fatto da
madre.
Guido Esposito – I racconti della civetta
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Ripensando poi al volo che avevano fatto insieme dal nido
dell’upupa fino alla sua tana, di notte, Bettina dovette
convenire che non aveva avuto paura del buio neppure per un
attimo. Pensava che avrebbe accettato l’invito rivoltole da
Dardo di uscire a caccia con lui, la sera successiva; così
avrebbe potuto sperimentare meglio se veramente, insieme a
lui, sarebbe riuscita a dimenticare la paura per sempre.
Per tutta la notte Bettina pensò a Dardo e la mattina
successiva, volle parlarne con Stucco.
Il barbagianni le disse che, la notte precedente, aveva
incontrato un giovane maschio di civetta, mai visto prima, di
nome Dardo, mentre era a caccia, e questi gli aveva chiesto se
conosceva una civetta di nome Bettina.
«Mi ha raccontato del vostro drammatico incontro e mi ha poi
confessato che gli sei piaciuta molto. E’ proprio un uccello in
gamba: sa cacciare con un’abilità straordinaria ed è generoso.
Figurati che non mi ha permesso che mi affaticassi a ghermire
le prede. E’ stato lui che mi ha procurato cibo abbondante e
della migliore specie. Poi mi ha detto anche che ti ha invitato
a caccia con lui, stasera, ma che tu non gli hai assicurato che
avresti accettato l’invito.»
«Beh, sì -rispose Bettina. E’ sempre per quella maledetta
paura del buio che non so se accetterò.»
«Dovresti farlo, le consigliò Stucco. Non puoi mostrarti
paurosa a lui. In sua compagnia non avrai paura, ne sono
certo.»
Bettina lasciò il barbagianni e se ne andò un po’ in giro per il
bosco. Dardo, a quell’ora, sicuramente dormiva.
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Guido Esposito – I racconti della civetta
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Le parole di Stucco avevano rinforzato in lei il desiderio di
uscire a caccia con Dardo; ma avevano fatto anche qualcosa
di più: le avevano aumentato un certo sentimento che nel
cuore della civetta era nato nel momento in cui Dardo le
aveva raccontato la storia della sua vita.
Al tramonto Bettina era nella sua tana e non vedeva l’ora che
lui si presentasse a rinnovarle l’invito.
Guido Esposito – I racconti della civetta
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In giro di notte
E Dardo arrivò e subito le chiese se avesse deciso.
Bettina, dapprima faceva intendere di non voler accettare, ma
infine, dopo le insistenti preghiere del giovane uccello,
acconsentì ad uscire con lui.
Dardo propose che facesse lei da guida, poiché era straniero
di quei posti. La civetta allora approfittò per consigliargli di
non allontanarsi da lei perché, non conoscendo i luoghi,
avrebbe potuto perdersi.
«Non esagerare -gli rispose il giovane uccello. Non sono del
tutto sciocco. E’ vero che questo bosco mi è poco familiare,
ma, dopotutto, ho le mie brave capacità di orientamento e
certamente saprei ritrovare la strada per il nido di nonna
Crestina.»
Naturalmente Dardo non sapeva che la civetta gli aveva
consigliato di starle vicino poiché era lei che non si sentiva
sicura e temeva che il terrore l’avrebbe invasa, se si fosse
trovata sola in quelle tenebre.
Tuttavia non si staccò da Bettina per tutta la notte, non per il
pericolo di perdersi, perché la cosa non lo preoccupava
affatto; ma perché trovava molto piacevole restare vicino alla
civettina.
Si prodigava nel catturare per lei le prede più saporite e
faceva in modo che non corresse pericoli di nessun genere,
mentre erano impegnati nelle azioni di caccia.
Questo comportamento premuroso di Dardo faceva breccia
nel cuore della giovane civetta. Insieme a lui, l’idea della
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Guido Esposito – I racconti della civetta
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paura delle ombre non la sfiorò neppure. Era notte fonda,
eppure a lei sembrava che fosse l’ora più solare del giorno.
Era autunno e le sembrava che la primavera fosse appena
sbocciata in tutto il suo fulgore.
Dopo che ebbero girato a lungo per il bosco a caccia di prede,
i due uccelli si fermarono in cima ad una roccia, sotto il cielo
stellato. Bettina dovette ammettere che anche di notte il
bosco, illuminato dal tenue chiarore delle stelle e di una falce
di luna crescente, era uno spettacolo meraviglioso, degno di
essere ammirato non meno che in una splendida giornata di
primavera.
Ma se si fosse trovata sola, a quell’ora, in quel posto, sarebbe
stato ugualmente tutto così bello? La civetta si pose questa
domanda e subito sentì un brivido serpeggiarle per il corpo.
Era in compagnia di Dardo, perciò era serena e tutt’intorno
era un incanto. Ma quando lui sarebbe ritornato al suo bosco,
la notte sarebbe divenuta di nuovo ostile a lei, e l’autunno più
triste, l’inverno insopportabile.
Dardo restava silenzioso accanto a Bettina e, forse, anch’egli
pensava con tristezza al momento in cui avrebbe lasciato la
sua giovane amica. Bettina volle rompere quel silenzio che le
incominciava a pesare.
«E’ molto lontano da qui il luogo in cui hai la tana?» chiese la
civetta.
«Per venire qui, ho volato tutta una notte e il pomeriggio
successivo. Quando ci siamo incontrati, ero appena giunto in
questo bosco. La mia tana si trova al di là di due catene di
montagne, in un boschetto più piccolo di questo, ma
Guido Esposito – I racconti della civetta
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ugualmente bello, rispose Dardo. Se vuoi, un giorno ti porterò
a vederlo.»
Bettina pensò che sarebbe stato molto bello visitare un luogo
sconosciuto insieme a Dardo.
Dopo essersi riposati, ripresero il volo.
Incominciava appena ad albeggiare, quando si ritrovarono in
vista di un casolare dal cui fumaiolo usciva un tenue filo di
fumo.
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Guido Esposito – I racconti della civetta
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Accidenti alla superstizione!
Dardo e Bettina, non ancora stanchi di giocare e di stare
assieme, si misero a girare intorno a quel nastro azzurro e
sinuoso che si disperdeva nel cielo, cantando un girotondo.
Ma, agli orecchi del contadino che si preparava a bere una
tazza di latte, per uscire poi a lavorare nei campi, quel canto
di gioia giungeva come un lamentoso stridio.
«Accidenti a questi uccellacci del malaugurio! -imprecò. Con
i loro versacci attirano le disgrazie sulle case e nelle
famiglie.»
Si portò sull’uscio e rivolse lo sguardo proprio nel punto del
cielo da cui si udivano le strida dei due uccelli notturni, che
svolazzavano allegramente intorno al fumo del camino e
riuscì a vedere le loro sagome tanto odiate.
«Eccoli là, quei due maledetti. Hanno preso di mira proprio la
mia casa con le loro maledizioni. Ora li faccio smettere io di
attirare sventure!»
Entrò in casa e prese la doppietta da caccia, la caricò con due
cartucce e ritornò sull’aia.
Dardo, scorgendo subito quell’uomo, smise di cantare e tentò
di avvertire Bettina della pericolosa presenza; ma si accorse
che il contadino aveva già puntato il suo orribile strumento
verso di loro. Cacciò allora un grido d’allarme e si lanciò
verso la compagna.
Nel momento in cui partì il colpo, Dardo si venne a trovare
proprio davanti alla civettina. Molti pallini colpirono
Guido Esposito – I racconti della civetta
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l’uccello, ma nessuno raggiunse Bettina che era ben coperta
dal corpo di Dardo.
I due uccelli si allontanarono in fretta da quella casa. Bettina
era spaventatissima e pensava già di averla scampata proprio
bella, lei e Dardo.
«Non ci ha colpiti per un pelo, quel vigliacco! Per poco ci
ammazzava.»
Si girò verso Dardo, aspettando che questo le confermasse di
essere uscito illeso da quella terribile avventura. Ma si
accorse che il suo compagno volava sbandando a destra e a
sinistra; poi l’uccello racchiuse il capo tra le ali e precipitò tra
gli alberi della sottostante boscaglia.
La civetta capì allora che Dardo era stato colpito dal fucile del
contadino e si diresse come un fulmine nel punto in cui aveva
visto cadere l’amico. Girò disperata tra i fitti arbusti ed infine
lo trovò: giaceva sul terreno con le ali aperte, il capo reclinato
da un lato ed il petto insanguinato.
«Oh Dio! Dardo! Dardo, povero amico mio, rispondi! Ti
prego, parlami!»
L’uccello non dava segni di vita: aveva lo sguardo spento e
respirava molto debolmente. Bettina allora cominciò a
chiamare aiuto con tutta la forza delle sue corde vocali. Ma le
sue strida, prima di raggiungere qualche orecchio amico,
colpirono quelle del contadino che si era inoltrato nei campi,
col fucile in spalla ed armato di bastone, per trovare
l’uccellaccio che aveva visto cadere alla scarsa luce dell’alba,
tra i campi. Si avvicinava attirato dalle strida di aiuto di
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Guido Esposito – I racconti della civetta
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Bettina. Giunse così vicino ai due, che Bettina udì
chiaramente le parole di lui.
«Lo troverò quel dannato iettatore e lo inchioderò all’uscio
della porta di casa, così, da morto, servirà a tenere lontano i
guai dalla mia famiglia. Questi uccellacci servono solo da
morti.»
Bettina si preparò ad assalire quell’uomo crudele, a saltargli
al viso e cavargli gli occhi con i suoi artigli, anche a costo di
essere certamente uccisa, alla fine. Poi, mentre il contadino
continuava a rovistare nei cespugli alla ricerca dell’uccello
abbattuto, la civetta ebbe il tempo di pensare che Dardo era
ancora vivo, che forse si potevano salvare entrambi e la
speranza ritornò a scaldarle il cuore. Allora raccolse in gran
furia rami e foglie che trovava a portata di becco e ricoprì
Dardo in modo che, anche se il contadino fosse giunto molto
vicino a lui, non avrebbe potuto scorgerlo.
«Dardo, non muoverti. Stai tranquillo fin quando io non
ritornerò. Vedrai, non è nulla di grave: ci salveremo.»
Dopo aver rivolto queste parole all’uccello celato dal
fogliame, Bettina si nascose anch’essa in un buco tra le rocce
vicine e attese che il contadino smettesse le sue ricerche.
L’uomo girava rovistando col bastone tra i cespugli e intanto
parlottava tra sé.
«Dove diavolo sei andato a finire, brutto uccellaccio! Io ti ho
colpito, ne sono sicuro: ti ho visto cadere.»
Bettina ora vedeva quel brutto ceffo chino verso il suolo che
non tralasciava di rovistare neppure un cespuglio, neppure il
più piccolo cumulo di foglie.
Guido Esposito – I racconti della civetta
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«Oh, Dio, fa’ che non lo trovi. Fallo andare via. Dardo ha
bisogno di cure immediate, altrimenti...» Non aveva neppure
il coraggio di pensare che il suo amore potesse non
sopravvivere a quell’incidente.
“Anche se non potrà volare per molto tempo, anche se non
volerà più per tutta la vita -pensava la civetta- ci penserò io a
portargli il cibo tutti i giorni, purché rimanga in vita” pregava
Bettina.
Intanto il contadino si avvicinava sempre più al cumulo di
rami e foglie sotto cui era nascosto Dardo. Ci arrivò così
vicino da sfiorarlo con uno dei suoi scarponi e, proprio
mentre stava per affondare il bastone nel mucchio e buttare
all’aria il nascondiglio, si sentì un fischio lacerare l’aria:
qualcuno lo chiamava. L’uomo rispose con un altro fischio al
richiamo. Poi, rivolto alle ombre del bosco, esclamò:
«E va bene! Questa volta mi sei sfuggito. Comunque, per
come ti ho preso in pieno, uccellaccio del malaugurio, vivo
certamente non sei. Hai finito di recare sventure.»Si girò e tornò rapidamente verso la casa.
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Guido Esposito – I racconti della civetta
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Pronto soccorso
Bettina aspettò un poco, per essere sicura che il contadino si
fosse allontanato abbastanza, poi si precipitò fuori dal
nascondiglio e tolse dal corpo di Dardo tutto quello che era
servito a nasconderlo.
«Dardo, come stai? Mi senti? Quell’assassino se n’è andato.
Adesso ti porto al nido di nonna Crestina e ti cureremo.
Vedrai, guarirai presto.»
Ma Dardo non rispondeva. Respirava ora affannosamente per
un po’, poi sembrava smettere, mentre il petto gli si
insanguinava sempre di più. Bettina, in preda all’angoscia,
riprese a lanciare tra gli alberi il suo grido di aiuto, senza
pensare che il contadino potesse sentirla ancora e ritornare.
A quell’ora tutti gli uccelli notturni si preparavano a far
ritorno alle loro tane, dopo una notte trascorsa tra i boschi e
le montagne, a cacciare e a godersi la vita sotto le stelle. Ma
la loro spensieratezza non era mai totale; tanti erano i pericoli
che circondavano la loro esistenza che, i sensi rimanevano
sempre vigili, le loro orecchie sempre pronte ad avvertire la
più flebile richiesta di soccorso da parte di un loro simile in
difficoltà.
Stucco, in particolare, riconobbe in quelle strida disperate la
voce della giovane civetta amica e si mise subito in allarme.
In breve si radunò un folto gruppo di uccelli notturni che,
guidati dalle grida fitte fitte di Bettina, giunsero sul posto
dove Dardo giaceva ancora immobile tra le foglie, con
Guido Esposito – I racconti della civetta
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accanto la civetta che cercava di farlo rinvenire con le parole
e con le carezze.
«E’ il giovane straniero, disse Stucco agli altri. E’ stato
colpito dai pallini di un fucile da caccia, ma è ancora vivo.»
Portiamolo al nido di Bubo -propose Cicco l’allocco. Il
vecchio gufo sa cosa fare in questi casi.»
La rapidità con cui gli uccelli notturni organizzarono il
trasporto di Dardo al nido del gufo reale Bubo, sorprese
Bettina. Alcuni giovani gufi e civette costruirono una comoda
barella intrecciando rami e foglie. Vi adagiarono l’uccello
ferito e lasciarono subito il posto ad una decina di essi, tra i
più robusti, i quali afferrarono con i loro becchi la barella, la
alzarono in volo e di lì a poco la depositavano su una roccia
dove erano in attesa Bubo ed alcuni suoi vecchi amici.
Tutta quell’operazione fu condotta con un’abilità tale da far
pensare che quegli uccelli fossero stati addestrati a prestare
quel tipo di soccorso; ed infatti così era. Bettina non poteva
sapere che tutto il merito di quell’organizzazione era proprio
del saggio vecchio Bubo, il quale aveva trascorso intere notti,
insieme agli uccelli notturni del bosco, per mettere a punto un
efficiente servizio di pronto soccorso per gli uccelli feriti.
Bettina non poteva saperlo per la sua bislacca abitudine di
vivere di giorno e dormire la notte.
La giovane civetta sapeva che il gufo reale era un uccello
sapiente, però non avrebbe mai pensato che sapesse anche
fare il medico.
Una volta che Dardo fu affidato alle cure di Bubo e di altri
uccelli , tra cui c’era anche Stucco, il vecchio barbagianni,
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Guido Esposito – I racconti della civetta
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tutti gli altri si allontanarono da quel luogo, affinché gli
uccelli medici avessero tutta la calma per provvedere a quello
che doveva essere fatto sul corpo del ferito. Fu allontanata
anche Bettina che prima volle dare uno sguardo al suo amico
ancora privo di sensi. Il giovane uccello non aveva più una
sola piuma del petto che non fosse intrisa di sangue. Bettina
si lasciò portare da Minerva su un albero non molto lontano e
lì poté dare sfogo a tutta la sua disperazione, piangendo e
raccontando alla civetta amica quanto bene lei voleva a
Dardo e che cosa avrebbe fatto a quel maledetto contadino se
il suo amico fosse morto.
«Non morirà -le rispose Minerva per consolarla. Vedrai che
Bubo e gli altri uccelli lo salveranno.»
Ma le condizioni in cui Dardo era stato ridotto dai pallini
sparati dal contadino, erano gravi. Aveva perso molto sangue
e forse non avrebbe sopportato la lunga operazione che
occorreva per estrarre i numerosi pallini di piombo dalle sue
carni.
Guido Esposito – I racconti della civetta
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Tutti per uno!
Bubo incaricò Stucco di cercare qualche uccello capace di
andare a procurare una certa erba che cresceva nei pressi di
uno stagno al di là dei monti. Quell’erba ridava le forze a chi
era debole e sarebbe servita a ricostituire buona parte del
sangue che Dardo aveva perduto. Il vecchio barbagianni
pensò che nessun uccello notturno meglio di Bettina, avrebbe
potuto percorrere velocemente un lungo tratto in pieno sole.
La chiamò, le spiegò qual era il tipo d’erba che occorreva e la
pregò di portarne la maggiore quantità possibile.
Bettina si mise in volo immediatamente e si diresse verso i
monti, a quello stagno che conosceva, dove spesso aveva
catturato qualche saporita ranocchietta.
«Torna più presto che puoi, le aveva raccomandato Stucco.
La vita del tuo amico può dipendere dal tempo che impieghi a
portare qui quell’erba.»
Bettina ci impiegò pochi minuti ad arrivare allo stagno. Si
mise alla ricerca dell’erba indicatale dal barbagianni. Ne
raccolse quanta più poté e ne fece un fascio che legò con un
giunco.
Nel volo di ritorno non riuscì ad essere molto veloce, perché
quel fascio d’erba che pencolava dal suo becco, non le
consentiva la massima velocità di cui era capace. Bettina fece
il possibile per ritornare al più presto da Stucco, ma sembrava
che il tempo si fosse messo a scorrere più rapido che mai e
che le sue ali fossero divenute deboli e incapaci di spingerla a
fendere l’aria.
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Guido Esposito – I racconti della civetta
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Finalmente giunse alla roccia, chiamò Stucco e, mentre gli
consegnava l’erba, chiese:
«Come sta Dardo? Si riprende? Che fa?»
«Stai tranquilla e riposati ora. Gli stiamo togliendo ad uno ad
uno tutti i pallini dal corpo. Quell’uccello ha un fisico forte:
penso che ce la farà a sopravvivere. Quest’erba sarà molto
utile, le rispose il barbagianni e tornò vicino a Bubo e agli
altri uccelli impegnati a salvare Dardo.
Bettina si appollaiò lì vicino e vi rimase a lungo a pensare
quanto era stato generoso Dardo a salvarle la vita, a costo di
perdere la propria. Non meritava di morire un animale eroico
come lui. Il destino non poteva permettere una simile
ingiustizia.
L’animo della civetta era lacerato dal dolore e soffocato da
una pena immensa. Nella sua giovane vita, soltanto un’altra
volta aveva provato una simile disperazione: era stato quando
Stucco era scomparso e l’aveva creduto morto. Ma ora
Bettina sentiva che non si sarebbe rassegnata così facilmente
alla scomparsa di Dardo; forse sarebbe morta anche lei per il
troppo soffrire. Allora le fu ben chiaro alla mente che il
sentimento nato in così breve tempo per il giovane uccello, il
quale stava lottando contro la morte, era diverso dal bene che
voleva al suo vecchio amico Stucco, alla tartaruga Rachela, a
nonna Crestina e a tanti altri. Era un sentimento questo che
riempiva tutto il suo cuore ed era riservato solamente a
Dardo, il maschio di civetta più coraggioso e più bello che
avesse mai conosciuto; ma anche il più sfortunato. Aveva
perso i genitori ancor prima di nascere, ed ora, per venire a
Guido Esposito – I racconti della civetta
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fare visita a chi gli aveva fatto da madre, rischiava di perdere
la vita.
Mentre rivolgeva per la mente questi pensieri, le si avvicinò
nonna Crestina che volle sentire dalla civetta in che modo
Dardo fosse stato ferito così gravemente. Bettina le narrò del
contadino, dello sparo e di come l’amico le aveva salvato la
vita a costo della sua.
Nonna Crestina, a sua volta, raccontò alla civetta tutti i
sacrifici che aveva fatto per tirar su quell’uccello che,
quand’era pulcino, aveva sempre fame e il cibo non bastava
mai. Tutti gli uccelli di quel bosco l’avevano aiutata ad
allevare il giovane pulcino di civetta; ognuno le portava un
pezzo di carne, qualche insetto o vermiciattolo perché Dardo
crescesse sano e forte. E’ così era cresciuto: sano, forte e
buono di cuore.
«Perciò, non può morire. Vedrai -concluse nonna Crestina- si
salverà.»
Qualche ora più tardi, Stucco, allontanatosi dal gruppo degli
uccelli che stavano intorno a Dardo, si avvicinò a Crestina e
alla civetta.
«Come sta ?» chiese Bettina con ansia.
«Gli abbiamo tolto tutti i pallini dal corpo -rispose il
barbagianni- Ora dorme.»
«Ma, si salverà?» chiese nonna Crestina.
«Speriamo di sì. Ha perso molto sangue. Ma non si può dire
nulla se non passerà almeno un giorno.»
Possiamo immaginare con quanta angoscia nel cuore Bettina
visse il resto di quella giornata e la notte successiva. A turno
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Guido Esposito – I racconti della civetta
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Stucco, nonna Crestina, Cicco e gli altri uccelli notturni
cercavano di consolarla e di farle coraggio. Infine quel giorno
passò e Dardo si svegliò. Trovò vicino a sé Bettina che non lo
aveva lasciato un minuto, da quando Bubo aveva terminato
insieme agli altri uccelli l’estrazione dei pallini di piombo.
«Dardo, come ti senti?» gli chiese la civetta.
Il giovane uccello era sdraiato nel nido di nonna Crestina,
circondato dalle cure amorevoli dell’upupa, di Bettina e di
tanti altri uccelli che andavano e venivano per informarsi del
suo stato di salute. Ma era ancora talmente debole che non
aveva la forza di rispondere a Bettina.
«Che cosa altro si può fare, maestro Bubo?» aveva chiesto la
giovane civetta al saggio gufo, perché proprio non sopportava
di vedere Dardo ridotto in quello stato.
«Procuragli qualche buon bocconcino di carne e non
dimenticare di fargli mangiare quanta più erba dello stagno
puoi.»
Guido Esposito – I racconti della civetta
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Bettina sfida anche la notte
Allora la civetta usciva di notte per procurare al suo amico i
migliori bocconi di carne, il cibo più sostanzioso, affinché si
rimettesse in forze e potesse almeno parlarle. Andava spesso
a prendere erba fresca dallo stagno che Stucco le aveva
indicato. Girava per il bosco a tutte le ore del giorno e della
notte in cerca di cibo ed erba medicinale per il suo caro
amico. Le tenebre della notte non le facevano più paura e
sarebbe stata capace di andare all’inferno se qualcuno le
avesse detto che in quel luogo c’era il rimedio per far rifiorire
in breve tempo la salute di Dardo.
E il giovane uccello notturno incominciò a stare meglio. Ora
poteva parlare e non faceva altro che ringraziare gli animali
del bosco, che tanto avevano fatto per salvargli la vita.
Prima che potesse rimettersi in piedi e tentare i primi passi,
come un pulcino di civetta nato da poco, dovettero passare
alcune settimane. Intanto Bettina non si curava di altro che di
lui. Provvedeva lei ad uscire per procurargli da mangiare. E
doveva uscire di notte, perché di giorno Dardo dormiva e non
gli veniva certo la voglia di cibarsi. Era invece al tramonto
che l’uccello convalescente si svegliava e mostrava chiari
segni di essere affamato, anche se non lo diceva chiaramente
a Bettina, perché un po’ si vergognava di dover dipendere da
una civettina.
E Bettina usciva a caccia e, per prima cosa, provvedeva a
catturare una sostanziosa preda per il compagno malato.
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E usciva proprio a quell’ora in cui, di solito, si ritirava; e non
aveva più paura del buio, non aveva il tempo di pensarvi,
poiché aveva una cosa molto importante da fare: restituire al
suo più caro amico quella salute che aveva perduto per
salvare proprio lei.
Dardo non si lasciava sfuggire nessuna occasione per
dimostrare la sua gratitudine a Bettina, anche se per adesso,
poteva farlo soltanto a parole.
Sei molto buona, Bettina -le diceva.- Come farò a ripagarti
per tutto ciò che fai per me?
E la civetta gli rispondeva che avrebbe fatto qualunque cosa
pur di vederlo di nuovo in forma come un tempo.
Guido Esposito – I racconti della civetta
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Dardo... come prima
E così passarono giorni e settimane e, dopo un paio di mesi,
Dardo fu in grado di volare veloce come un fulmine, di
cacciare prede e procurarsi il cibo. Ogni giorno catturava
qualche saporito bocconcino in più che poi portava in dono a
qualche uccello amico che lo aveva aiutato quando era ferito.
Per Bettina poi aveva cure e pensieri particolari. Usciva
sempre con lei la notte e provvedeva a farle conoscere luoghi
nuovi, posti bellissimi che la civetta non aveva mai visto. In
breve Dardo era diventato l’amico più caro a tutti gli uccelli
notturni del bosco, perché era sempre pronto ad aiutare e ad
accorrere in soccorso di chiunque di essi si trovasse in
difficoltà.
Passò ancora qualche mese e un giorno il giovane uccello
confessò a Bettina che aveva voglia di rivedere i suoi vecchi
amici del bosco in cui aveva la tana. Le disse che sentiva una
grande nostalgia dei luoghi da cui era venuto, del bosco in cui
aveva tanti amici che certamente non sapevano cosa pensare
della sua improvvisa scomparsa.
Bettina aveva incominciato a temere queste parole fino da
quando Dardo aveva riacquistato in pieno le sue capacità di
volare, ed ora che il suo amico le aveva pronunciate,
certamente non poteva dirgli di restare con lei, non poteva
fargli sapere che senza di lui la vita le sarebbe sembrata vuota
e senza significato. E allora semplicemente non rispose.
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Guido Esposito – I racconti della civetta
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«Ma non temere, presto ritornerò a trovarti,» le aveva
promesso Dardo.
Quando al tramonto, quella sera, il giovane uccello salutò tutti
gli amici e prese il volo verso le montagne, la tristezza si
impadronì della civettina. Se ne ritornò mogia mogia nella
sua tana e non ebbe neppure voglia di uscire a caccia, così
come aveva preso l’abitudine di fare insieme a Dardo.
Calò la notte e la giovane civetta non riusciva a prendere
sonno. Guardava il cielo di un blu cupo, il folto degli alberi
sotto la sua tana e non faceva altro che emettere accorati
sospiri. Per poter dormire avrebbe dovuto avere la mente
sgombra da pensieri malinconici, ed invece non riusciva a
dimenticare la stupenda notte trascorsa insieme al suo amico,
prima che il contadino lo ferisse così gravemente.
Il bosco aveva mille fruscii e mille voci, ma per lei era un
deserto, perché Dardo era lontano e chissà se sarebbe mai più
tornato.
Bettina dunque non aveva neppure più tanta paura del buio.
Avrebbe attraversato tutto il bosco anche in una notte
tempestosa e mille volte più cupa di quella, se Dardo l’avesse
chiamata dall’altro capo del mondo. Invece il giovane
uccello, che riempiva i pensieri di Bettina, era in volo verso la
sua tana, dove forse l’attendevano tanti amici pronti a fargli
grandi feste, e forse, chissà, lo attendeva anche qualche
civettina che gli voleva particolarmente bene e che gli
avrebbe fatto dimenticare la brutta avventura del contadino e
forse anche l’amica civetta che si era prodigata per farlo
guarire.
Guido Esposito – I racconti della civetta
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Giorni sconsolati
Bettina aveva una gran voglia di piangere e lo avrebbe fatto
senz’altro, se, proprio nel momento in cui le lacrime dal cuore
si stavano avviando imperiose verso gli occhi, non fosse
giunto Stucco a farle visita.
«Allora, piccola gallinella da cortile, l’apostrofò per scherzo
il vecchio barbagianni. Vuoi uscire a caccia con me?»
«Non ho voglia di girare per questo stupido bosco, Stucco.
Non ho fame. Ho molto sonno, invece,» rispose la civetta, e
nella sua voce tremava quel pianto che con grande sforzo era
riuscita a frenare.
Stucco capì subito che la civetta era triste e voleva rimanere
sola. Fece qualche altro tentativo per scuoterla dal suo stato di
tristezza, si offrì di farle compagnia per quella notte. Bettina
rifiutò gentilmente i tentativi amichevoli di Stucco e la
compagnia di lui. Questi allora decise che era meglio lasciarla
sola con i suoi pensieri e se ne andò in cerca di cibo.
Bettina rimase fino all’alba appollaiata sull’orlo della sua
tana, tutta sola, a ripercorrere con la mente le bellissime ore
trascorse insieme a Dardo.
Sul far del giorno Stucco, prima di ritirarsi nel suo buco a
riposare, volle tornare a vedere la giovane civetta. Le portò
un buon pezzo di carne perché il barbagianni sapeva che
Bettina non aveva più toccato cibo.
«Mangia qualcosa, Bettina. Dopo ti sentirai meglio e ti
passerà anche la tristezza,» la pregò il vecchio barbagianni
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Guido Esposito – I racconti della civetta
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che aveva il cuore cupo a sapere che la civettina soffriva per
la lontananza del suo giovane amico.
«Non ne ho proprio voglia, mio buon Stucco.»
Il barbagianni si accorse che Bettina aveva le lacrime agli
occhi. Tentò allora di consolarla.
«Vedrai, ritornerà. Ascolta un vecchio amico che ha un po’ di
esperienza più di te e conosce bene l’animo degli uccelli
notturni.»
Ma per quanti sforzi facesse, Stucco non riusciva a sollevare
la giovane civetta dalla sua profonda malinconia. Fece un
altro tentativo per farle mangiare un pezzetto di carne, ma non
ci riuscì. Infine volò via dalla tana di Bettina e si recò
sull’albero del saggio gufo reale Bubo, a raccontargli le
preoccupazioni che nutriva in cuore per la sua cara amica
Bettina.
«Ah! -esclamò il saggio gufo.- La nostra strampalata civettina
si è innamorata del giovane straniero. E’ un brutto affare,
amico mio.»
«Che cosa possiamo fare per lei, Bubo?» gli chiese Stucco
che mostrò tutta la sua ansia al vecchio gufo.
«Che cosa vuoi fare, Stucco? L’amore è una malattia da cui si
guarisce col tempo. I giovani fanno presto a dimenticare.
Vedrai che, tra qualche giorno, la tua giovane amica avrà
dimenticato il suo civettino e ritornerà a volare per il bosco
come faceva un tempo.»
Ma il saggio Bubo non si mostrò molto saggio in quella
previsione. Dopo tre giorni Bettina era sempre là, sull’orlo
della sua tana, e trascorreva il tempo tra malinconici sospiri e
Guido Esposito – I racconti della civetta
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pianti da sciogliere il cuore. E il cuore del vecchio
barbagianni non resse a tanta pena: doveva fare qualcosa per
tirare Bettina fuori da quello stato d’animo che altrimenti
l’avrebbe portata a morire. La civetta non poteva più
rimanere a piangere e a soffrire e, per di più, senza toccare
neppure una briciola di cibo per giorni. Andò allora da
Crestina, l’upupa che aveva fatto da balia a Dardo, e si fece
dire in quale bosco il giovane di civetta avesse il suo nido.
L’upupa non lo sapeva con esattezza, ma, da quello che
aveva capito da certi discorsi di Dardo, il bosco in cui questi
abitava, si trovava a una nottata di volo verso est.
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Guido Esposito – I racconti della civetta
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Alla ricerca di Dardo
Al tramonto Stucco si mise in viaggio, volando con la
velocità massima che le sue vecchie ali gli consentivano. Era
deciso a trovare Dardo e a raccontargli della situazione di
Bettina; lo avrebbe convinto a ritornare da lei. Quel dannato
pulcino di una civetta, che aveva fatto breccia nel cuore di
Bettina, certamente non sarebbe rimasto insensibile nel
sapere che la piccola civetta soffriva tanto a causa sua,
almeno Stucco sperava che fosse così.
Giunto a metà del tragitto, dopo circa sei ore di volo,
intervallato da brevi pause, Stucco decise di dare la caccia a
qualche preda. Sentiva fame e, se non avesse mangiato
qualcosa, non avrebbe più avuto le forze per continuare il suo
viaggio.
Riuscì a catturare alcune piccole prede e con esse spense i
morsi della fame. Era notte fonda, una notte chiara, con il
cielo illuminato dalla luna piena.
Stucco decise di riposare per qualche minuto. Nel fogliame
degli alberi e tra i cespugli sul terreno si sentivano fruscii di
animali che andavano alla ricerca di cibo. La notte era
tranquilla e luminosa e Stucco, riposatosi alquanto, si rimise
in viaggio. Poco prima dell’alba, giunse in un folto bosco in
cui non era mai stato prima. Chissà che non fosse quello il
luogo dove abitava Dardo!
Si posò su di un ramo davanti ad una tana che certamente
doveva essere abitata da qualche uccello notturno. Chiamò:
«Ehi! C’é qualcuno qui?»
Guido Esposito – I racconti della civetta
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Ma non ebbe risposta.
Improvvisamente un grosso gufo gli arrivò quasi addosso
dall’aria.
«Chi sei? Cosa vuoi? Che fai vicino alla mia tana? Da quando
in qua ci si intrufola nelle tane altrui senza permesso,
straniero.»
«Non volevo intrufolarmi nella tua tana. Sono alla ricerca di
Dardo, un maschio di civetta che conosco, ma non so dove
abita. Per caso lo conosci?»
«Dardo, hai detto? Certo che lo conosco! Chi non lo conosce!
Ma non é di queste parti. Non abita in questo bosco. La sua
tana é molto più a nord, nel Bosco delle Betulle, in cima alle
montagne.»
Il gufo gli indicò la direzione in cui andare e se ne entrò nella
sua tana a dormire.
Stucco si avviò verso nord e volò ancora per qualche ora.
Quando il sole spuntò dai monti, decise di trovare un rifugio
in cui dormire fino al tramonto. Ecco! Quel buco in quella
quercia faceva al caso suo.
Quando fece per entrare nella tana, si accorse che c’era già un
altro uccello addormentato. Chi era? Un allocco. Ma Stucco
lo conosceva! Era Cicco! E che ci faceva in un posto così
lontano dal loro bosco?
Cicco si svegliò e, quando vide Stucco, disse:
«Mi hai messo paura. Credevo fosse il proprietario della tana
che mi veniva a sbattere fuori.»
«Che ci fai, qui, Cicco?»
«Ehm... sono venuto a caccia da queste parti.»
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Guido Esposito – I racconti della civetta
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«E perché? Forse nel nostro bosco sono finite tutte le prede?
Lo sai che é pericoloso andare a caccia in un territorio che
non ci appartiene! -gli ricordò Stucco.
«Sì, ma io qua... ehm... ho parecchi amici... Non é vero. Vuoi
sapere la verità? Sono venuto a cercare Dardo.»
«Anche tu!»
«Sì! A vedere come soffre quella civettina per la lontananza
del suo amico, mi si spezzava il cuore. Non reggevo più a
vederla in quelle condizioni. Finisce che muore, se Dardo non
ritorna da lei.»
«E allora siamo in due a provare questo sentimento di pietà
per quella povera pulcina! Anch’io sto alla ricerca del suo
amico. Fammi un po’ di posto in questo buco. Sono stanco
morto. Ho volato non ricordo più per quante ore. Al tramonto
riprenderemo insieme le ricerche.»
I due uccelli si addormentarono quasi subito, uno accanto
all’altro, mentre gli animali notturni si ritiravano e lasciavano
il campo a quelli diurni che uscivano in cerca di cibo.
Il sole non era ancora tramontato, quando Stucco e Cicco si
svegliarono e si rimisero in volo verso il Bosco delle Betulle.
Per potersi meglio orientare ed avere un’idea più precisa del
territorio che stavano sorvolando, i due uccelli decisero di
salire il più possibile.
Sotto di loro si stendevano boschi e colline, tra i quali a tratti
si intravedevano gruppi di case.
Cicco e Stucco rivolsero il becco ancora verso est e volarono
in quella direzione ancora per qualche ora.
Guido Esposito – I racconti della civetta
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Giunsero finalmente in un folto bosco, ricco di vegetazione e
di prede.
«Questo dovrebbe essere il Bosco delle Betulle,» disse
Stucco.
«Credo che sia proprio questo; ma per essere sicuri, occorre
domandare a qualche uccello notturno,» propose Cicco.
Incontrarono un gufo che andava in cerca di cibo e gli
chiesero se era quello il Bosco delle Betulle e se conosceva
Dardo, il giovane e forte maschio di civetta.
Diamine se lo conosceva! Era il civettino più in gamba di
tutto il bosco, il cacciatore più veloce, l’uccello notturno più...
Ma Stucco, ansioso di trovare Dardo e parlargli di Bettina,
non ebbe la pazienza di ascoltare tutti gli elogi che il gufo
andava tessendo, perciò lo interruppe.
«E dove possiamo trovarlo?»
«Ah, proprio non ne ho idea. Quello é un fulmine. Mentre lo
vedi che sta cacciando in collina, in un baleno, se lo vede
arrivare addosso una biscia che striscia alla sorgente di un
ruscello in alta montagna, e un minuto dopo lo trovi che si sta
divorando in santa pace un toporagno di pianura. Mentre sta
qua, l’attimo dopo può stare dovunque, in qualunque posto di
questo immenso Bosco delle Betulle. Proprio non ho idea di
dove possa essere in questo momento. Può essere vicino o a
distanza di due tre ore di volo da qui, distanza che noi
percorriamo in due o tre ore, ma che lui percorre in due o tre
minuti e che...»
«Per le penne di tutti i miei parenti barbagianni! esclamò
Stucco dopo che insieme a Cicco si era allontanato dal gufo.
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Guido Esposito – I racconti della civetta
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Quanto chiacchiera quel gufo! e quante frottole racconta! E’
proprio entusiasta di quel giovane di civetta.»
«Conosco anche un altra uccelletta che é entusiasta di Dardo,
e che ora sta rintanata nel buco di una torre a sospirare e a
soffrire d’amore per questo diavolo di uccello notturno che
sembra essere il dio di tutti gli uccelli, a sentirne parlare.»
«Diamoci da fare, Cicco! Troviamo questo benedetto
civettino e portiamolo da Bettina. Questa civetta scriteriata é
capace di morire se non lo rivede.»
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Bella ingratitudine!
E i due uccelli notturni si diedero da fare quasi fino all’alba.
Cercarono per tutto il bosco; chiesero di Dardo a tutti gli
uccelli notturni che incontravano. Chi diceva di averlo visto
un’ora prima che cacciava verso i monti, chi diceva di averlo
visto invece in pianura, chi diceva che si trovava di qua, chi
di là. Insomma sembrava che quel benedetto uccello fosse
contemporaneamente in ogni parte di quel vasto territorio.
Poco prima dell’alba, Stucco il vecchio barbagianni e Cicco
l’allocco si ritrovarono stanchi e affamati e senza essere
riusciti a sapere dove diavolo si trovasse Dardo. Avevano
rovistato ogni angolo del bosco, ogni ramo, ogni tana. Tutti
lo avevano visto poco prima nei punti più disparati di quel
luogo, ma i due uccelli non erano riusciti ad incontrarlo.
«Io ho fame, Cicco, disse ad un tratto Stucco. Mangiamo
qualcosa, un uovo, qualche topo; altrimenti svengo. Sono
senza forze.»
Decisero allora di mettersi alla ricerca di cibo.
Mentre stavano appostati presso la tana di un tasso,
aspettando che questo si decidesse ad uscire per poterlo
afferrare, si videro arrivare addosso un ciclone. Era un grosso
e robusto uccello notturno, un maschio di civetta che si fermò
a pochi passi da loro.
«Voi siete degli stranieri! gridò. Chi vi ha dato il permesso di
cacciare nel nostro territorio? Non sapete che non é buona
educazione appropriarsi di prede in un territorio che non é
vostro? Se non andate subito via, finirete...»
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Guido Esposito – I racconti della civetta
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Ma quello era proprio lui! Dardo!
«Dardo! Tu sei Dardo » gridarono Stucco e Cicco.
«Voi chi siete?» chiese il giovane di civetta, sempre più
adirato.
«Ma come non ci riconosci? Non ti ricordi di noi? Sono
Stucco, il vecchio barbagianni! Questo é Cicco, l’allocco!»
«Io non conosco nessun Cicco e Stucco e Tricchi e Trucchi.
Io so solo che voi non potete...»
«E neppure di Bettina ti ricordi? chiese il barbagianni. Quella
povera civettina soffre tanto da che te ne sei andato dal nostro
bosco, dopo che sei guarito.»
«Chi é questa Bettina? Io non conosco nessuna Bettina!»
«Ma tu sei Dardo?!» chiese Cicco.
«Io mi chiamo Zirpo!»
«Sì, ma tutti ti chiamano Dardo perché sei veloce come un
freccia!» intervenne Stucco.
«Quello che sono io, non vi riguarda! Ora vi consiglio di
scomparire da questo bosco e di non osare neppure toccare
una piccola preda, perché altrimenti saranno guai!»
Stucco e Cicco non sapevano cosa pensare. Quello era
certamente Dardo, non potevano sbagliare. Conoscevano ogni
piuma del suo corpo. Avevano esplorato con la massima
attenzione ogni centimetro della sua pelle, quando gli
avevano dovuto estrarre decine e decine di pallini di piombo,
mentre lui rischiava di morire a causa del contadino che gli
aveva sparato. Possibile che avesse dimenticato in così breve
tempo tutta quella drammatica storia?
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«Scusami -riprese Stucco con calma. Lasciami capire, ti
prego. Tu dunque hai dimenticato Bettina, il contadino che ti
ha sparato, tutto quel tempo che noi abbiamo trascorso a
salvarti la vita, a curarti, a farti ritornare in forma come sei
adesso? Possibile che hai dimenticato i bei giorni che hai
trascorso insieme a Bettina, la civettina che ti ama tanto e che
rischia di morire di dolore se sta ancora un altro giorno
lontana da te? Dunque -continuò Stucco alzando adirato la
«»cervello, ingrato uccellaccio?!»
«Non mi hanno sostituito un bel niente! Io non conosco voi,
non conosco questa Bettina, non mi ricordo di nessun
contadino che mi ha sparato. Voi volete fare i furbi per rubare
le prede di un territorio che non vi appartiene. Ora se non ve
ne andate da questo bosco vi riduco ad un ammasso di sangue
e penne. Avete due minuti di tempo per scomparire. Non
perdete tempo. Filate!»
«Ma sei o non sei Dardo!» gridò Cicco, anch’egli al colmo
dell’ira.
«Ma certo che é Dardo! Hai ancora dei dubbi? E allora
guarda!» Stucco saltò addosso al giovane di civetta e,
scostandogli le penne del petto, mise in evidenza le
innumerevoli ferite dovute ai pallini del contadino.
«Allora? Hai ancora dei dubbi?» «Toglimi le tue zampacce di dosso, barbagianni maleducato!
gridò il giovane uccello liberandosi dalla stretta di Stucco.
Ora basta! Sparite tutt’e due, ladruncoli di prede! Ricordate:
avete due minuti per sparire, march!» E volò via come un
fulmine.
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Guido Esposito – I racconti della civetta
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I due uccelli rimasero a lungo senza parole. Non sapevano se
avevano sognato o avevano vissuto davvero quell’incontro.
Come era possibile tutto quello?
«Forse, disse Cicco, deve essergli accaduto qualcosa. Forse
ha battuto la testa contro qualche ramo mentre volava veloce
come una freccia. Sai, a quella velocità, battere la testa
significa lasciarci le penne o quasi.»
«Macché! Ascolta me. Questa é ingratitudine bella e buona.
Quello non vuole saperne di Bettina. Se l’é dimenticata, o
forse non le ha mai voluto bene.»
«Eppure, rispose Cicco, se ricordi bene, le ha salvato la vita.
E’ stato lui a gettarsi davanti ai colpi del fucile per salvare la
civettina. Se questo non é amore...»
«Allora non ci capisco niente, concluse Stucco. Ma ora
andiamo via da questo bosco. Non ci voglio stare un minuto
di più. Se tutti gli animali qui sono ingrati e cattivi come lui,
non deve essere affatto piacevole vivere in questo luogo. Via
di qui alla svelta, Cicco!»
I due uccelli si misero in volo e presero la strada per ritornare
al loro bosco, dimenticando perfino la fame che avevano
sentito prima di incontrare Dardo.
Lungo il cammino, nelle pause di riposo, Stucco e Cicco
riprendevano l’argomento.
«Ed ora chi glielo va a dire a quella babbea di civetta che
Dardo si é addirittura dimenticato di lei? Chi ha il coraggio di
farlo?» chiedeva il barbagianni.
«Ma tu guarda un po’ di quale ingrato uccellaccio quella
stupidina doveva innamorarsi!» diceva Cicco.
Guido Esposito – I racconti della civetta
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Spuntata l’alba, Stucco e Cicco si rifugiarono tra le foglie di
un albero per riposare. Ma nessuno dei due riusciva a
prendere sonno.
«Ma era davvero Dardo, quel civettaccio, Stucco?» chiedeva
Cicco.
«Ma non hai visto le ferite che ancora ha sul corpo? E’
proprio lui purtroppo, anche se in tutto il tempo che l’ho
praticato, non ha avuto in nessuna occasione un
atteggiamento così scortese.»
«Perciò stento a credere che sia lui, Stucco.»
«E’ lui, é lui, Cicco. Lo riconoscerei tra mille uccelli notturni
quel civettino. Per giorni e giorni, quando rischiava di morire,
sono stato chinato su di lui per capire dai suoi occhi e da ogni
fibra del suo corpo se la sua salute andava migliorando o
peggiorando. E quale fu la gioia di tutti noi, ti ricordi Cicco?
quando ci accorgemmo che quel civettino se la sarebbe
cavata, e che sarebbe ritornato più bello e forte di prima. Ti
ricordi come eravamo contenti e felici?»
«E come! Forse sarebbe stato meglio se...»
«No! non dire questo. Pensa al dolore che avrebbe provato
Bettina,» rispose Stucco.
«E tu pensa al dolore che le darai quando le andrai a dire che
Dardo neppure si ricorda più di lei.»
«Ah, io non le andrò a dire un bel niente! E chi ne ha il
coraggio? Ci andrai tu!»
«Io? Sei pazzo! Non ho alcuna voglia di veder morire dal
dolore davanti ai miei occhi quella stupida civetta! Proprio di
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Guido Esposito – I racconti della civetta
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quel balordo doveva innamorarsi! Con tanti bei civettini che
ci sono nel nostro bosco!»
«Al cuore non si comanda, caro Cicco!»
I due uccelli erano veramente addolorati per quello che era
successo e per la povera Bettina. Non sapevano come fare per
rendere un po’ meno cruda la realtà dei fatti alla sfortunata
civettina. Però erano molto stanchi e, poiché il sole era ormai
alto, incominciavano ad avere un gran sonno.
«Però, disse Stucco, non mi sembra una buona soluzione
quella di non svelare a Bettina la realtà dei fatti.»
«Veramente, rispose Cicco, neppure a me sembra giusto.
Quella civettina strampalata continuerà a soffrire fino a
consumarsi per le pene d’amore. Almeno se le diciamo come
stanno le cose, é vero: soffrirà molto; ma infine comincerà a
mettersi l’animo in pace. Vedrai che, prima o poi, anch’essa
si deciderà a dimenticare quell’uccellaccio ingrato e
presuntuoso.»
«Forse hai ragione, Cicco. Vuol dire che dovremo trovare il
coraggio, tutt’e due, dico: tutt’e due, di andare da Bettina e,
con molta delicatezza, metterla al corrente dei fatti.»
«Vedremo, Stucco... quando arriveremo nel nostro bosco, ne
riparleremo. Ora ho un sonno che non mi permette di tenere
gli occhi aperti.»
I due uccelli notturni, vinti dal sonno e dalla stanchezza, si
addormentarono, mentre il sole saliva alto nel cielo.
Guido Esposito – I racconti della civetta
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Ah, questa gioventù!
Dormirono fino al tramonto. Al loro risveglio si sentirono più
riposati, ma avevano una fame tale da mangiare un‘intera
mandria di buoi.
Per fortuna erano ormai lontani dal Bosco delle Betulle, dal
territorio di Dardo, perciò nessuno poteva impedire loro di
cacciare.
Appena sazi, si rimisero in volo, anche se volare con lo
stomaco ben pieno, non era molto piacevole. Ma i due uccelli
avevano fretta di raggiungere il loro bosco, per decidere, una
volta giunti presso la tana di Bettina, come comportarsi nei
riguardi della civetta.
Volarono tutta la notte, facendo di tanto in tanto qualche
pausa per il riposo. Durante queste pause non facevano che
ripetersi l’un l’altro le stesse domande. Come avrebbero fatto
a rivelare alla povera civetta il fatto che Dardo non si
ricordava più di lei? Ma erano proprio certi di essersi
imbattuti in Dardo, la notte precedente, nel Bosco delle
Betulle?
Giunsero al loro bosco che il sole si annunciava prossimo a
spuntare dai monti. Il cielo era chiaro e, a quell’ora, gli
animali notturni dovevano essere già ritornati ai loro nidi.
«E se passassimo un attimo da Bubo il gufo per metterlo al
corrente della situazione? Magari potrebbe darci qualche utile
consiglio sul modo in cui comportarsi con Bettina. Eh, che ne
dici, Stucco?» chiese Cicco.
«Mi sembra una buona idea.»
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Guido Esposito – I racconti della civetta
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Andarono al nido di Bubo e raccontarono al saggio gufo della
loro missione al Bosco delle Betulle e dell’esito disastroso
che essa aveva sortito.
Il gufo li ascoltò senza interrompere e alla fine, in risposta
alle pressanti richieste che i due uccelli gli facevano per
sapere cosa fare con Bettina, chiese loro:
«Ma da quanto tempo ci mancate dalla tana di Bettina?»
Stucco e Cicco si stupirono di quella domanda, tuttavia
risposero:
«Adesso proprio torniamo dal Bosco delle Betulle. Non
vediamo Bettina da tre o quattro giorni.»
«Allora andate alla sua tana e vi renderete conto.» E Bubo si
appollaiò nel suo buco facendo capire ai due che non aveva
intenzione di continuare il colloquio e che intendeva
addormentarsi.
Stucco e Cicco si preoccuparono a causa dell’atteggiamento
di Bubo il gufo in quella circostanza. Cosa voleva dire? Che
fosse successo qualcosa di brutto alla cara civettina?
Si affrettarono a raggiungere la tana della civetta.
Da lontano, già molto prima di giungere al buco in cima alla
torre, Stucco e Cicco si accorsero che la tana era affollata di
animali notturni.
“Sarà successo certamente qualcosa di brutto alla povera
civettina!” pensarono i due uccelli.
A stento riuscirono a farsi spazio per atterrare nella tana.
Appena i due ebbero chiuso le loro ali, tutti gli uccelli
presenti scoppiarono in una gran risata
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Ridevano a più non posso Nonna Crestina l’upupa, Minerva
la civettina amica di Bettina, Asso l’assiolo, e tanti altri
uccelli notturni, e perfino Rachela la tartaruga che chissà
come diamine aveva fatto ad arrivare fin lassù. Stucco e
Cicco non riuscivano a spiegarsi tutta quella allegria. Poco
dopo credettero addirittura di aver perso del tutto il senno.
Fu quando al centro di tutta quella baraonda di uccelli,
scorsero Dardo e Bettina vicini, stretti l’uno all’altro, felici e
sorridenti, mentre insieme a tutti gli altri si prendevano gioco
di loro.
«Se voi aveste visto la loro faccia quando ho fatto finta di non
ricordarmi di niente, e quando poi ho detto che di loro avrei
fatto polpette se non fossero immediatamente scomparsi dal
Bosco delle Betulle!» raccontava Dardo ridendo a più non
posso.
A questo punto i due poveri uccelli capirono tutto: Dardo si
era beffato di loro.
Era successo che il giovane maschio di civetta aveva subito
riconosciuto Stucco e Cicco, ma, per scherzo, aveva finto di
non ricordarsi né di loro, né di Bettina. Appena i due uccelli
erano andati via dal Bosco delle Betulle, Dardo si era messo
in volo e, come una freccia, facendo onore al suo nome, si era
recato in poche ore a trovare Bettina. Era dunque arrivato con
una buona oretta di vantaggio sui due uccelli dal volo più
lento, a causa della loro età.
Tutti gli uccelli notturni e diurni amica della civetta si erano
riuniti intorno alla tana di Bettina per festeggiare il ritorno di
Dardo, e si erano molto divertiti al racconto della beffa che il
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giovane uccello aveva fatto a Stucco e al suo compagno
d’impresa.
Quando Stucco e Cicco seppero ciò, si offesero non poco, a
dire la verità.
Erano, sì, contenti del fatto che Dardo fosse ritornato a
trovare Bettina, ma certamente non andava loro giù il fatto di
essere stati trattati nel modo in cui erano stati trattati dal
giovane maschio di civetta. Volarono via da quel luogo
profondamente amareggiati.
«Come scherzo, diceva ora Cicco, mi sembra veramente di
cattivo gusto! Poteva anche evitare di fare tanto lo spiritoso, il
giovanotto! In fin dei conti due uccelli non più molto giovani,
che si erano presi la pena di fare un viaggio così lungo per
andargli a comunicare che la sua cara amica stava sulle spine
per lui, beh! meritavano un po’ più di rispetto. Ti pare,
Stucco?»
«Hai ragione, amico mio! -rispose Stucco. Ma... che vuoi? I
giovani sono fatti così: quando c’é da divertirsi non ci stanno
molto a pensare e partono in quarta, senza accorgersi che,
talvolta, i loro scherzi fanno un po’ male a chi ne é vittima.
Non ci pensiamo più. L’importante é che tutto sia finito bene,
che Bettina sia contenta e la smetta di piagnucolare e soffrire
le pene d’amore per il suo bel civettino. Ora andiamo un po’
in giro per il bosco in cerca di qualche buon bocconcino, che
ne dici, Cicco?»
Con un po’ di amarezza nel cuore, i due uccelli volarono a
valle, alla ricerca di qualche preda per spegnere la fame che il
lungo viaggio aveva fatto venir loro.
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Tutta colpa dell’uva!
La sera seguente Bettina fece sapere a Stucco e Cicco che
avrebbe gradito una loro visita alla sua tana. I due uccelli si
recarono in cima alla torre dove trovarono la civetta in
compagnia di Dardo.
Bettina li aveva chiamati per ringraziarli di cuore per quello
che avevano fatto per lei.
«Siete gli amici a me più cari - disse loro la civetta. Vi voglio
un mondo di bene perché avete un cuore d’oro. E se anche voi
me ne volete, ora dovete farmi un altro piacere. Dovete
perdonare questo mascalzone per il brutto scherzo che vi ha
fatto.»
«Sì - intervenne Dardo - Io vi chiedo scusa dal profondo del
cuore. Mi sono comportato davvero come un pulcino
impertinente ed incosciente. Il fatto é che, poco prima, avevo
beccato dell’uva in una vigna. Così, per curiosità, avevo
voluto assaggiare quei chicchi maturi. E voi sapete che noi
siamo carnivori... e perciò... non siamo abituati... però alcuni
miei amici mi avevano detto che quei chicchi facevano uno
strano effetto, davano una strana ebbrezza... devono avermi
fatto male... ne ho mangiato qualcuno di troppo... mi girava
un po’ la testa... però mi sentivo così allegro... euforico... e
allora...»
«Insomma, eri ubriaco! concluse Stucco. E certamente! Solo
così si può spiegare quell’idea balzana che ti é scoppiata nella
mente! Ora però avrai capito che non sempre é bene fidarsi
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degli amici, e che prima di fare uno scherzo, assicurati che
non sia troppo doloroso per quelli a cui é diretto.»
«Ma fu colpa dell’uva,» si scusò Dardo.
«Certo! Fu colpa dell’uva!» intervenne Bettina.
«Fu colpa dell’uva, concluse Stucco. Certamente in futuro ti
guarderai bene dall’andare a beccare quel frutto traditore. E
poi: non é molto dignitoso per un uccello carnivoro cibarsi di
frutta, non ti pare?»
«Certo! Non beccherò più uva, ve lo giuro su... sul bene che
voglio a Bettina!»
Vicino a quei due giovani uccelli Stucco e Cicco respirarono
per un po’ aria di felicità.
I due infine accettarono le scuse che Dardo aveva loro
rinnovato, dissero a Bettina che erano felici per lei e che
speravano di non vederla mai più abbattuta e avvilita come
era stata nei giorni scorsi per l’assenza di Dardo, e infine
salutarono i due giovani e volarono via dalla tana della
civetta.
Dopo essersi appollaiati su di un ramo di quercia, Cicco disse:
«Hai capito un po’, Stucco? Quello si ubriaca. E’ un
alcolizzato! E quale futuro avrà la nostra giovane amica se
decide di stare con quel drogato?»
«Ma che dici, Cicco? Ma quando mai l’uva ha ubriacato
qualcuno? E’ piuttosto il succo fermentato di quel frutto che
ha il potere di ubriacare. E’ il vino che fa questo effetto, non
l’uva!»
«Mah! Sarà come tu dici; ma io non mi fido troppo di un
uccello che si comporta in modo cosi infantile nei riguardi di
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due vecchi come noi. Noi, che ci siamo ammazzati di fatica
per cercarlo e fare in modo che facesse felice Bettina e fosse
anche lui felice insieme alla civettina. Ah! Guarda che ti dico:
quella poverina non sarà felice con un simile compagno.»
«Sarà felice, Cicco. Vedrai. Avranno tanti bei civettini e
formeranno una bella famigliola.»
E Bettina fu veramente felice da quel momento. Acquistò ben
presto le abitudini di Dardo col quale usciva a caccia di notte
e dormiva di giorno. La paura del buio era ormai dimenticata.
Qualche volta però, ritornava alle sue strambe abitudini, per
incontrare qualche vecchia amica come la tartaruga Rachela o
Coffa la cornacchia, o per portare qualche insetto in dono a
nonna Crestina che continuava ad allevare pulcini orfani e a
raccontare favole. Altre volte usciva di giorno per godersi il
primo sole della primavera, l’azzurro del cielo e i colori del
bosco.
Finì col far nascere anche in Dardo il desiderio di provare a
cacciare di giorno. Il giovane maschio di civetta imparò
presto a catturare le prede anche di giorno, e così i piccoli
pulcini di civetta che di lì a poco vennero fuori dalle uova che
Bettina aveva deposto e covato, ebbero cibo a sufficienza per
crescere belli e forti come e più dei genitori.
Bubo, che li vedeva uscire per il bosco ad ogni ora del giorno
e della notte, spesso diceva a Stucco e a Cicco:
«Eh! Non bastava una civetta strampalata nel nostro bosco!
Ci mancava anche Dardo a comportarsi in modo strano. Tra
non molto avremo un’intera famiglia di civette dalle abitudini
capovolte.»
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«Che vuoi fare, Bubo - gli rispondeva Stucco. I tempi
cambiano. Si vede che oggi va di moda così.»
«Ma così non esisterà più, tra poco, alcuna differenza tra
uccelli notturni e uccelli diurni!» si lamentò Cicco.
E Stucco, che si schierava in ogni disputa e in ogni polemica
sempre dalla parte di Bettina e di Dardo, osservò:
«Però dovete ammettere che, uscendo indifferentemente sia di
notte che di giorno, hanno meno problemi per procurare il
cibo per se stessi e per i loro figli. E non dimenticate che così
riescono ad aiutare anche tutti quegli uccelli, diurni o
notturni, che hanno delle difficoltà per procurarsi il cibo.»
Bubo e Cicco si convincevano in tal modo che Stucco aveva
ragione e, in fondo al loro cuore, provavano un po’ d’invidia
per quei giovani uccelli che avevano quelle strane abitudini.
Alla fine dei loro discorsi il saggio e vecchio gufo reale
finiva con l’ammettere che il mondo va avanti così e forse é
giusto che i giovani si diano da fare per cambiarlo e farlo
diventare come meglio fa comodo a loro.
FINE
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