LA TENTAZIONE DELLA GUERRA Dopo l`attacco al World Trade

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LA TENTAZIONE DELLA GUERRA Dopo l`attacco al World Trade
LA TENTAZIONE DELLA GUERRA
Dopo l’attacco al World Trade Center
A proposito di Occidente, islam ed altri frammenti di conflitto tra culture
di
Sommario
Stefano Allievi
Introduzione
Diario di guerra. Una settimana di ordinaria follia
Diario di guerra: continua…
Lettera alla signora Oriana Fallaci, più o meno nel suo stile
Diario di guerra: continua…
Risposta al professor Sartori, su islam e dintorni
Diario di guerra: …segue
Fine? Conclusione?
Troverei moralmente ripugnante, oltre che imbarazzante, l’idea di guadagnare del denaro attraverso
questa operazione editoriale. Proprio ora, mentre della gente muore, sotto i colpi della guerra di cui qui
parlo. Per cui i diritti d’autore di questo libro andranno a una meritoria organizzazione: che lavora
all’estero, ma non fa progetti di cooperazione allo sviluppo. Si occupa solo ed esclusivamente di
emergenze. Cioè di andare, subito, laddove c’è bisogno, laddove la natura, e assai più spesso, purtroppo,
l’uomo, ha creato disastri, Afghanistan incluso, come ultimo (per ora) anello di una lunga catena. Mi
sembrava pertinente…
Si chiama InterSOS, questa organizzazione, umanitaria in senso profondo. Si può aiutarla anche
direttamente, volendo: versando il proprio contributo sul conto corrente bancario 555000, presso la Banca
Popolare Etica, Padova, o sul conto corrente postale intestato a Intersos, via Nizza 154, 00198, roma. O
chiedendo informazioni e materiale allo stesso indirizzo, o attraverso il sito www.intersos.org.
2! Introduzione
Non sono un esperto di questioni internazionali. Non sono un esperto di terrorismo. Non
ho contatti con l’intelligence. In breve, non ho alcun titolo per parlare di questo
argomento con qualche originalità. E hanno già parlato in tanti, in troppi, in questi
giorni. E non voglio aggiungere la mia dose di inutile retorica alla molta che già è colata
insieme alle informazioni che abbiamo ricevuto, a cui ci siamo volontariamente,
inevitabilmente esposti.
Tuttavia sento il bisogno di riflettere ad alta voce su quanto successo. Anche perché, per
mestiere, vedo quanto succede da un’ottica particolare: che, oggi, è quella di quelli sotto
accusa. Mi occupo infatti, da sociologo, di islam, o meglio, di musulmani, e da una
decina d’anni ne ho fatto il mio ‘oggetto’ di osservazione privilegiato, quasi a tempo
pieno. Anche se io mi occupo soprattutto dei musulmani che stanno in Europa. E quelli
che conosco io non mettono bombe, e tanto meno si suiciderebbero sulle torri gemelle
del World Trade Center, portando con sé tanti innocenti, nell’illusione di guadagnare per
sé il paradiso e forse, per gli ‘infedeli’ coinvolti e colpiti, spalancare le porte
dell’inferno. Non solo. Parlo da un punto di vista del tutto soggettivistico. Forse non si dovrebbe,
laddove tanti soggetti avrebbero ben altro titolo per dire, per gridare la loro verità, o
semplicemente il loro dolore: e penso innanzitutto alle vittime. Ma di fronte
all’incommensurabile non me la sento di fare una qualche analisi puramente oggettiva.
Mi suonerebbe falso. Forse anche perché troppe di quelle che ho sentito in questi giorni
semplicemente mi disgustano, mi sembrano improprie, spesso anche oscene. Certe
esibizioni di saccenteria e troppe sicumere giornalistiche, certe sindromi da libido
commentatoria, ma anche troppe virili manifestazioni militar-politiche di violenza,
magari solo verbale (ma non meno pericolosa, perché è di questa violenza, di questa
praeparatio, che si nutre l’altra, quella delle armi), mi sembrano appunto questo:
esibizionistiche. Proprio nel senso ‘genitale’ che diamo solitamente alla parola: guarda
come la so lunga, guarda come ce l’ho lungo, te la faccio vedere io, te lo faccio vedere
io. E allora accetto di lasciarmi andare al soggettivismo, tradendo la mia disciplina
professionale. Anche perché coltivo la speranza – non credo l’illusione – che questo
disgusto, questo senso del limite nelle troppe analisi pseudo-razionali (anche se spesso
terribilmente irragionevoli) sentite in questi giorni, lo vivano in molti: lo subiscano,
come un’offesa. Alla morale e alla dignità umana, in primo luogo. Ancora una volta, a
cominciare da quella delle vittime, già dilaniate e torturate da un atroce destino, e che
non meritano di venire strumentalizzate dal cicaleccio di chi sa già, ha sempre saputo,
da subito, e senza dubbio alcuno, dove vuole portarci e come fare loro giustizia.
Ecco, spero che questo punto di vista tanto soggettivo alla fine non lo sia. Che, come
accade talvolta in letteratura, quando uno scrittore è bravo a sufficienza da farci
identificare con un personaggio, o una storia intera, anche altri si identifichino, se non
con le mie conclusioni (non so ancora se sarò capace di trarne), con le mie domande,
con i miei dubbi. Spero, voglio credere, che le mie insofferenze, il mio senso di
inadeguatezza – non tanto di fronte al fatto accaduto, ciò che è ovvio, ma di fronte alle
3! analisi che su di esso si sono sviluppate – l’abbiano provato in tanti. Che in tanti portino
con sé, come una ferita, la loro rabbia repressa, e il loro disgusto. Spero, insomma, che
tanti soggettivismi, sommati, in qualche modo si oggettivizzino. In che cosa, non lo so.
Anche perché non ho uno scopo. Come, credo, molti di quelli che proveranno qualche
briciolo di empatia con quanto qui si andrà dicendo. Mi accontenterei di aiutare a tenere
vivo (trista espressione, di fronte a tanti morti, e ai tanti altri che verranno) un po’ di
senso di indignazione.
4! Diario di guerra. Una settimana di ordinaria follia
Martedì 11 settembre
Ho saputo di quello che è successo da una giornalista di una emittente radiofonica che
occasionalmente mi usa come commentatore sull’islam. Naturalmente, ho risposto che
non avrei commentato nulla su ciò di cui sapevo ancor meno di chi mi interpellava. Ma
la giornalista, gentile e doverosamente insinuante, come professionalità comanda, ha
dirottato il suo interesse su di una più generale riflessione sugli attentatori suicidi e il
martirio in nome della religione. Come da richiesta, ho fornito diligentemente il mio
generico e irrilevante parere sul ruolo del suicidio volontario nelle culture non
occidentali. Ho parlato di palestinesi, di iraniani, ma anche di kurdi, i cui ‘martiri’ sono più politici e
nazionalistici che religiosi, e poi di kamikaze giapponesi. E infine, per una
illuminazione improvvisa, anche di suicidi rituali motivati però da ragioni private, non
religiose e nemmeno ideologiche, come è spesso il seppuku giapponese (più noto in
occidente come hara kiri), e come il suttee indiano: quella pratica che nell’immaginario
di chi ne ha sentito parlare si ricollega a delle vedove che volontariamente salgono sulla
pira su cui si stanno consumando le ceneri del marito defunto, e lì si lasciano morire
bruciate. L’esempio mi dà agio di parlare del fatto che il suicidio per motivi, per così dire, di
onore, che a noi occidentali pare pratica barbara e lontana nel tempo e nello spazio, non
lo è poi così tanto, e comunque non è esclusiva dell’islam. Mi viene anche in mente –
ma troppo tardi, e non ne ho parlato – che, dopo tutto, fino a una generazione fa, dalle
nostri parti, ci si insegnava che dulce et decorum est pro patria mori, e un sacco di
gente, credendoci, in buona fede ha ucciso e si è lasciata morire per questo, e volontaria.
E dopo la patria è stata la volta degli ideali politici, e delle ideologie. Noi oggi non ci crediamo più: siamo sempre più lontani dal credere che ci sia una buona
causa per cui morire. Anche se mi viene da pensare che, tutto sommato, è meglio saper
morire per qualcosa, avere il coraggio di lottare per qualcosa; per evitare che accada che
“chi non muore per qualcosa muore per niente”, come ha scritto Lanza del Vasto (ma
tutto dipende dal qualcosa per cui si muore: continua a convincermi di più chi muore
per salvare una vita umana in pericolo, ad esempio – anche se non è considerata una
‘causa’). Però tutti ormai, in occidente, abbiamo in qualche modo introiettato, anche
senza conoscerlo, il saggio cinismo di Brassens: mourir pour des idées, d’accord, mais
de mort lente. Non provo dunque rispetto per le idee che spingono a morire: religioni o
nazionalismi che siano (tanto meno gli idiotismi dello sballo del sabato sera, che
valgono ancora meno). Ma non riesco a non provare rispetto per quei nostri padri, nonni
e antenati che sono morti per quell’onore, quale che sia, in cui oggi non crediamo più. Improvvisamente mi accorgo che rischia di essere come provare rispetto per chi ha
compiuto gli attentati suicidi di New York. Anche loro, dopo tutto, hanno una causa. No,
questo è troppo, anche per me. Del resto, so bene che qui, sul suicidio, prevale
l’omicidio, anzi, la strage: con una innovazione raffinata e terrificante, che, stranamente,
non è stata messa in rilievo come avrebbe dovuto – l’idea di fare di civili innocenti non
solo il bersaglio, ma l’arma stessa. Ma, turbato, mi dico che forse non dovrei stupirmi se
qualcuno, nel mondo islamico, pensasse di loro quello che io penso di quelli che sono
5! morti per l’impero, l’Italia o le crociate. La comparazione crea di queste inquietudini, di
queste vertigini, di questi capogiri. Dopo tutto, da sociologo, dovrei esserci abituato.
Ma torniamo all’11 settembre. Ho fornito, come dicevo, il mio irrilevante parere. Non
prima di aver specificato che, per l’ora dell’attentato, avevo un alibi. E da quel
momento – ero in università – mi sono collegato alla CNN. E lì, guardando il ‘film’, ho
cominciato a intuire, se non a capire. E a riflettere.
Per capire, non ho dubbi. Non sono i commenti che spiegano. Nemmeno le notizie.
Neppure le pur stupefacenti immagini, così significative. No, sono le storie personali, le
tragedie individuali, private, a dirci veramente quello che sta succedendo. L’ultimo
contatto telefonico di un uomo con la moglie, che fa in tempo a dirle per l’ultima volta
il suo amore per lei e per il figlio. Quello che si butta, o cade, dall’ottantesimo piano.
L’eroismo semplice di chi istintivamente salva qualche collega e muore lui. L’eroismo
organizzato, democratico persino (con tanto di conta dei voti: una storia che riscatta la
democrazia americana dalla farsa e dai brogli che hanno portato, invece, all’elezione del
suo ultimo presidente), dei passeggeri del volo che si schianterà poi nelle vicinanze di
Pittsburgh, impedendo con il loro intervento che si consumi un altro orrore. Il
soccorritore che scava sotto le prime macerie per poi morire sotto il grande crollo,
quando è l’intera torre a sparire. La capacità organizzativa dei soccorritori, nonostante
tutto, uno shock dopo l’altro. I gesti d’amore, e magari di vigliaccheria: i mors tua vita
mea che nessuno avrà il coraggio di raccontarci. Le ultime parole. Gli ultimi pensieri
che possiamo cercare di immaginare. Questo ci spiega la tragedia: o, almeno, ce la
racconta. E questo, anche, può davvero insegnarci qualcosa. Questo riporta alle nostre
coscienze la tragica umanità dell’esistere, e del non esistere più. Sì, per capire
veramente la tragedia, e sopravvivere ad essa – anche noi, che non ne siamo stati
direttamente colpiti – è a queste storie, a questi destini, che dobbiamo puntare la nostra
attenzione. Farne tesoro, meditarle, pregarle, soffrirle, per quello che siamo capaci. Pensandoci, tuttavia, non riesco a non pensare che tragedie simili si sono ripetute
migliaia di volte, anche in questi ultimi anni, anche per causa del fuoco americano:
sparato, stavolta, non subito. Ma noi non l’abbiamo visto. Perché era altrove. Perché le
vittime non erano dei ‘nostri’. E quindi non le compiangiamo. Né ci siamo mai sognati
di volerle vendicare, o almeno di riscattarle. Ancora, nonostante il nostro sviluppo, la
nostra scienza, la nostra prosopopea civilizzata e globalizzata, siamo figli della logica
della tribù. E non è vero che la morte è uguale per tutti. Nemmeno dopo la morte siamo
uguali. Anche nel poi, nel ricordo, c’è il ricco e il povero. E per alcuni non vale
nemmeno la pena di pensarci, alla vendetta.
Ovvio, l’attentato è agghiacciante. E spettacolare. Provo orrore, come la maggior parte
(non come tutti: questa è retorica, che lascio ai professionisti del settore, giornalisti e
politici in primo luogo). Mi disgusta che muoiano dei civili. Mi ripugna che muoiano
uomini e donne ingiustamente, in generale. E’ orribile. E’ ingiusto. Ma per carattere
sono abituato a trarre dal peggio, e anche dalle ingiustizie, degli insegnamenti (è l’unico
modo con cui riesco ad accettare il peggio, e le ingiustizie, quando fanno irruzione nella
mia vita). E allora ci provo. Che cosa possiamo imparare da questo attentato?
Che gli Stati Uniti hanno molti nemici, in primo luogo. Uno è Bin Laden. Molti altri
stanno altrove, Stati Uniti inclusi (Oklahoma City, Atlanta, Waco, tanto per dire).
Stavolta sono stati bravi, dal loro punto di vista, questi nemici: hanno colpito al cuore –
6! il World Trade Center, il Pentagono, per poco forse anche il Presidente (una lunga
tradizione, tutta interna, negli USA). Niente da dire: professionisti. Ma professionisti
con un credo. Con qualche amico avevo provato a stilare un elenco di questi nemici. Tra quelli che
avrebbero avuto la capacità logistica, tanto per dire, per puro esercizio, avremmo potuto
metterci il narcotraffico. Ma nemici lo sono fino a un certo punto (talvolta sono persino
complici). Hanno la capacità, i soldi, i piloti. Ma il movente non c’è (per quanto ci
possa essere un movente razionalmente comprensibile e spiegabile in fatti di questo
genere – la storia delle bombe nostrane e della strategia della tensione insegna). E
soprattutto, non hanno niente in cui credere, a parte i soldi. E per soldi non si fanno
attacchi suicidi. Si può uccidere, per soldi: ma non ci si uccide. Dunque c’è di mezzo
l’odio, e l’odio è in sé qualcosa che meriterebbe una spiegazione, se non ci si vuole
accontentare del “molti nemici, molto onore” – uno slogan fascista, incidentalmente,
non democratico: indegno, dunque, di una grande democrazia, come sono gli Stati
Uniti. 12 settembre
Sono costretto a occuparmi d’altro: il lavoro ha le sue priorità. Ma a parte l’impegno
che mi porta con la testa altrove, oggi, primo giorno del dopo-World Trade Center, ho
deciso di non lasciarmi dire la mia opinione da altri: nel concreto, ho deciso di non
comprare e di non leggere i giornali, di non guardare la tv, e di non ascoltare la radio,
per lasciare sedimentare dentro di me le reazioni che la notizia e le prime immagini mi
hanno suscitato. Non sono cambiate, rispetto alle prime, istintive. Una è questa. La rappresaglia. Sono sconcertato, lo ammetto. Ammetto la mia ingenuità
nel rimanere sorpreso dalla facilità, dalla leggerezza, dal cinismo con cui giornalisti e
commentatori ripetono che gli Stati Uniti ovviamente dovranno procedere a una
rappresaglia, e in fretta: non per colpire chi li ha colpiti – non solo – ma per ribadire il
loro ruolo di superpotenza, oggi ferita e umiliata. Cosa temo? Temo una rappresaglia stupida, indiscriminata, cinica appunto: una
rappresaglia purchessia. Una rappresaglia tanto per colpire. Poiché, come ovvio, gli
Stati Uniti, quando colpiranno, colpiranno insieme agli alleati (la NATO ha appena
annunciato che considererà l’attacco subito dagli USA come rivolto contro se stessa), e
se colpiranno male (magari bombardando una fabbrica di medicinali spacciandola per
una fabbrica di ordigni chimici, come già successo) l’odio dei non occidentali
aumenterà. E coinvolgerà l’intero occidente. Temo – visto che di questo mi occupo –
che, al di là della risposta politica e militare, ci sarà quella sociale. Quale l’opinione
sull’islam, che già non gode di buona stampa? Quanti coloro che si sentiranno in diritto
di bruciare una moschea qui, di insultare una donna con l’hijab là, di non concedere un
visto a un cittadino arabo, di fermarlo o controllarlo (o arrestarlo) dieci volte di più di
un altro straniero, che già è controllato mille volte di più di un occidentale? Quante
ingiustizie si faranno? Quante mancate parità di trattamento scopriremo? Quante
infedeltà ai fondamenti del nostro vivere civile, quante violazioni dei diritti in cui noi
crediamo e su cui diciamo di fondare le nostre società, quante eccezioni che non
confermano nessuna regola?
7! Ma oggi ho anche qualcosa di personale da fare: chiamo una mia cara amica, a sua volta
fidanzata del mio migliore amico. Perché ho bisogno di confrontarmi con lei. Che in
questo momento si trova negli Stati Uniti (a Detroit, non a New York: “per fortuna”,
penso tra me e me, vergognandomene un po’, mentre ripenso alle vittime degli aerei e
del WTC). Che è araba. Che è musulmana – di cultura e famiglia musulmana, diciamo.
Per giunta sciita: che in Italia – ma, in fondo, in tutto l’occidente, dove nessuno ne sa
nulla – è sinonimo di donna iraniana oppressa, vestita con un chador nero che le copre
magari anche il volto, figlia di una cultura misogina, sessuofoba e retrograda: o vittima,
o estremista di suo. Lei non ci assomiglia neanche un po’, a questo ritratto. Intanto, non è iraniana ma araba,
anche se per l’occidentale medio non fa differenza. Poi non si è mai vestita di nero, e
non occulta al mondo il fatto di essere carina, cosa di cui il mio amico le è assai grato.
Infine, fanatica non lo è neanche da lontano. E oppressa neppure.
Però è lì. In America (quella che noi chiamiamo, per definizione, America: a torto, come
ci ricordano gli amici latinoamericani), ma non da cittadina americana. Comunque
vicina, per sensibilità – e perché questi fatti ti ci ributtano in mezzo, alla tua identità
d’origine, volenti o nolenti – alla comunità araba e a quella islamica. E mi dice quello
che lì succede. E le paure che cominciano a materializzarsi.
Ha anche un motivo tutto privato, per quanto piccolo, di fronte a tanta tragedia, di
preoccupazione. Ha chiesto un visto per l’Italia. Per motivi di studio della nostra bella
lingua, con tanto di relativa iscrizione ad una scuola riconosciuta con tutti i crismi (oltre
che, naturalmente, per stare vicina al suo uomo). Dovrebbe trattarsi più o meno di un
atto dovuto. Ma il visto ritarda. E lei non osa, oggi, chiamare il consolato. Ha un
cognome arabo. Teme una qualche forma di ‘stretta’, di stupida ripicca. E comincio a
capire una delle tante possibili conseguenze di quello che è successo.
Mi viene da riflettere su questa coppia. In cui nessuno ha assunto le opinioni dell’altro,
o il suo credo, cambiando il proprio. Ma in cui lo scambio e il confronto continuo,
talvolta anche duro, e il provare a mettersi, per amore, nei panni dell’altro, vedendo le
cose dal suo punto di vista, ha cresciuto entrambi: e, in profondo, li ha cambiati. In cui,
senza che nessuno pretendesse nulla, entrambi hanno ottenuto il rispetto delle proprie
opinioni e del proprio credere o non credere, o non saperlo più. Non pretendo che
questo sia di insegnamento per nessuno. Ma mi domando se non è quello che dovremmo
fare a livello di paesi, di stati, di religioni. Di ‘civiltà’, come forse troppo
ottimisticamente le chiamiamo. Invece, facciamo il contrario. A livello macro come a livello micro. Ne saprà qualcosa,
se già non ne ha fatto esperienza, questa stessa coppia, come altre coppie ‘miste’ (e già
definirle così, anche se non ce ne accorgiamo, è un’opzione ideologica su cui varrebbe
la pena ragionare) che ho conosciuto: che le incomprensioni maggiori le subiscono e le
devono affrontare all’interno delle rispettive comunità di riferimento. Non ha nemmeno
importanza che siano credenti o meno, praticanti o meno: lui è nato cattolico, lei è nata
musulmana (in questo caso), dunque sono un cattolico e una musulmana, le comunità
rispettive se ne appropriano, e li giudicano. E per queste comunità sono un segno di
contraddizione per il semplice fatto che esistono. Dal punto di vista della dottrina
islamica non avrebbero nemmeno il diritto di esistere: una donna musulmana non può
sposare un non musulmano. Dal punto di vista dei cani da guardia dell’ortodossia e dei
difensori di una qualche forma di ‘purezza’, di ambo le parti, sono comunque
8! problematici, incollocabili, perciò stesso fastidiosi. Meglio se non esistessero. Ma
esistono. Grazie a Dio. In barba ai preti e agli imam ricchi di dottrina (nei casi
migliori…) e poveri di carità: quelli che caricano gli altri di pesi che loro non portano.
Gli altri, quelli che sanno coniugare la dottrina (e l’appartenenza) con l’amore, di solito,
sanno anche riflettere su queste esperienze di frontiera, ne sanno apprezzare il valore,
anche di testimonianza, di esempio. Di cui in questi giorni si sentirebbe il bisogno anche
al di fuori della sfera religiosa: nel chiuso delle riunioni governative come sulle colonne
dei giornali.
In serata, a dispetto del mio digiuno informativo, vengo contattato da un altro
giornalista, della nostra amata radio nazionale. So quello che si aspettano da me:
l’ovvietà di una specie di difesa d’ufficio dei musulmani (che, peraltro, non è mia
competenza, ed è un ruolo cui rifuggo: i musulmani, del resto, sanno difendersi
benissimo da soli – e se non ci riescono, il problema è loro). Un atteggiamento buonista
del tipo: sì, c’è qualche frangia cattiva, fondamentalista, ma la maggioranza nel
complesso è equilibrata, civile…
Ma ho voglia di parlare d’altro. Sarà per questo che, durante la diretta, la parola mi
viene tolta, piuttosto bruscamente, giusto quando mi interrogavo sul perché dell’odio
nei confronti degli Stati Uniti, e le sue ragioni. Non mi sento censurato, ovviamente:
sarebbe ridicolo. Ma ho un assaggio di quello che ci sta succedendo. Cosa dicevo?
Niente di particolarmente originale. Solo che dovremmo ragionarci sopra. Possibile, mi
domando, che non ci siano errori, che siamo (che gli americani siano) infallibili? E’
credibile considerarci (-li) solo vittime? Provo disgusto, estetico ed etico (le cose sono
legate), nel vedere che qualcuno festeggia la morte di qualcun altro. Specie se quel
qualcun altro non è un orrendo dittatore ma inermi vittime civili, che non hanno
responsabilità della politica americana nel mondo. Ma davvero siamo tutti
irresponsabili? Possibile che nessuno si domandi le ragioni di questo odio? Possibile
che la reazione a cui pensiamo sia solo la prova di forza? Davvero siamo ancora così
primitivi? Gli USA non hanno nulla da rimproverarsi? L’arroganza, che ha nome, per
limitarci agli ultimi mesi, protocolli di Kyoto, denuncia del trattato sulle armi chimiche
e sulle mine, Palestina, conferenza di Durban, scudo spaziale, Echelon, segnali a tutto
campo che si vuole fare da soli e che ci se ne frega delle conseguenze e dell’opinione
altrui, compresa quella degli alleati occidentali, e chi più ne ha più ne metta, non
c’entrano nulla? Certo, non giustificano quello che è successo, ci mancherebbe – ma
davvero non spiegano nulla? E gli amici dell’America non hanno nulla da
rimproverarsi? Gli amici sono tali quando spiegano ai loro amici quando sbagliano. Chi
di noi l’ha fatto? Non voglio fare della rozza politica interna in questo momento: non ne vale la pena. Lo
prendo dunque come un esempio di un modo più generale di ragionare, che coinvolge
maggioranza e opposizione. Un presidente del consiglio, come il nostro, che nel suo
primo incontro con gli Stati Uniti, nella persona del loro presidente, dichiara “io sto con
l’America prima ancora di sapere dove sta l’America”, che cosa ci dice? A parte il gusto
della spiritosaggine che può perdere chiunque (“per la battuta mi farei spellare”, cantava
anni fa Guccini – ma non è sempre un pregio), e l’avvilente servilismo che dimostra,
che risultati ottiene questa politica? Davvero serviamo, in questo modo, gli interessi
dell’America? E quelli del mondo? E, incidentalmente, i nostri?
9! Ma non cambia nulla. Proprio ora – è notte – accendo una radio a caso. Ascolto la
seguente notizia: su un treno, negli USA, sono stati arrestati tre individui “con il tipico
vestito da terrorista islamico: turbante, barba lunga, tunica”. Che Allah ce la mandi
buona.
13 settembre
Giornata dedicata al recupero del digiuno di ieri. Mi intossico di informazioni. Provo
tuttavia a continuare a ragionare un po’ fuori dagli schemi della cronaca.
Non è una considerazione cinica; al contrario, chiedo scusa della parola desueta, è
amorevole. Gli Stati Uniti, per la prima volta da molto tempo, hanno assaggiato l’acre
sapore della guerra sul loro territorio. Uomini e donne sono morti, mutilati, feriti: i loro
cari li piangeranno, molti dei loro corpi, diventati cenere e vento, nemmeno si
ritroveranno più. L’eterna tragedia della guerra e del sangue, “quell’antica festa crudele”
di cui ha parlato un nostro storico, ha brutalmente svegliato gli USA in una mattina che
avrebbe dovuto essere, come tutte le altre, di pace: ma che pace non è, per troppi,
perché non c’è pace senza giustizia, e noi crediamo di vivere in pace, ma giusti non
siamo, e giusto non è il mondo che abbiamo costruito. Ho una speranza. Che – forse non
subito, ma domani, passata l’emozione – qualcuno, negli Stati Uniti stessi, si interroghi,
su questo sapore. Un paese che l’ha portata spesso altrove; un paese che – va detto, non
si può dimenticare – ha generosamente pagato il prezzo di guerre altrui (si pensi alla
seconda guerra mondiale, in cui ha versato il sangue e pagato il prezzo anche della
nostra libertà); un paese che ha sparato facilmente – però altrove – oggi scopre,
riscopre, quale terribile costo questo comporti, in particolare per chi non c’entra: i civili,
ancora una volta. Qualcuno, in questo grande paese, rifletterà su che cos’è la guerra, sui
costi che implica, sulle ingiustizie che comporta? Non c’è come subire una terribile
ingiustizia per comprendere quanto sia terribile l’ingiustizia, e per sentirsi solidali con
altri che subiscono ingiustizie, magari per mano nostra. Qualcuno ci rifletterà? Ci spero,
lo credo.
14 settembre
Con gli amici, ovviamente, non si discute che di questo. E come noi, quasi tutti. Se non
altro, si passano ore a guardare la tv. Non è ancora un risveglio democratico, ma in
questa fase può servire. E’ un modo di connettersi, di globalizzarsi. Sì, perché si tratta
anche di questo: di avere scoperto, più intensamente di altre volte, che siamo cittadini
del mondo, che quello che accade ci riguarda. Certo, dovrebbe accadere anche quando
si bombarda Baghdad, o quando si muore di Aids in Africa. E non accade. Non ancora.
Ma mi sembra ci sia stato un salto qualitativo – non solo nell’escalation dell’orrore. Mi
pare che cominciamo ad accorgercene. E qualche reazione captata qua e là mi fa
pensare, illudere, che nonostante i potenti poteri ‘contro’, qualcuno si accorga anche di
questo: dello sbilanciamento nelle nostre reazioni. E del fatto che anche questo è
ingiusto.
! 10
15 settembre
Intanto, in Palestina, mentre l’attenzione del mondo è distratta e sta tutta altrove, con gli
occhi e con il cuore, il governo di Israele, con un cinico ma azzeccato calcolo, fa
sconfinare le sue truppe nel territorio di Cisgiordania e Gaza (in quel ridicolo, patetico,
frammentato territorio senza sovranità che non è che un’ombra, una caricatura di stato –
ma che pure è l’unica cosa che i palestinesi hanno), tentando di far passare de facto la
tesi che ogni attacco ai palestinesi è una legittima operazione contro il terrorismo.
Mentre con l’altra mano fa la lezione agli USA, redarguendoli per non aver meditato
sugli allarmi che loro (il Mossad, immagino) avevano pur previsto, e per non aver
saputo difendere il loro territorio mentre Israele gli aerei li abbatte subito (non invento
nulla: fate riferimento alle interviste a esperti israeliani dei primi giorni successivi alla
strage).
E a proposito. Vogliamo dirlo, proprio adesso che tutti si stanno interrogando su un
problema che si chiama mondo musulmano, e per qualcuno, tout court, islam, che c’è
un problema Israele? Che rischia di diventare – anzi, è già – un problema ebraicomusulmano? E diventa persino ebraico-cristiano, perché è una pietra d’inciampo nel
tentativo recente di molti cristiani di riavvicinarsi al mondo ebraico, alla riscoperta delle
proprie radici? E ancora di più cristiano-musulmano – per quei pochi, pochissimi, che
lo praticano – perché i musulmani ci rimproverano non tanto la ‘sensibilità’ nei
confronti del mondo ebraico (per noi non questionabile: un felice e semmai tardivo
punto d’arrivo, per noi; anzi, un punto di partenza), ma qualche eccesso di
condiscendenza, o almeno troppo silenzio, nei confronti dell’Israele odierno? So che è
impopolare parlarne oggi – e per la verità è impopolare parlarne quasi sempre: perché, è
vero, c’è chi usa questo argomento per motivi loschi e abietti. Ma questo problema c’è.
Anche perché, lo credo fermamente, non ci sarà pace tra le religioni, e nel mondo,
finché non ci sarà pace a Gerusalemme. Tutto si tiene, tutto è collegato.
Anche se non come sono legate causa e effetto. Questo no. Questo è osceno e indecente
anche solo da pensare. E i musulmani – e non solo i musulmani – che avanzano questo
argomento vanno zittiti, con durezza. Il World Trade Center non è l’effetto della
Palestina, o se si preferisce di Giudea e Samaria. Questa è vergognosa propaganda,
demagogia, retorica. Che dobbiamo lasciare a Bin Laden e ai suoi. Incidentalmente, non
è lui a potersi fare paladino della causa palestinese. Non ha fatto nulla per essa (semmai,
l’ha resa impopolare e gravemente danneggiata). Non è palestinese. E fino a prova
contraria non ha ricevuto un mandato in questo senso né dalla base né dai vertici
palestinesi. Dunque questo argomento non ha diritto di cittadinanza, nemmeno da
lontano: va rifiutato a priori. Tuttavia non è di questo che qui si parla. E se ci si
interroga sull’odio contro l’occidente, e contro gli Stati Uniti in particolare, anche
questo argomento, purtroppo, c’entra. E ci è utile meditarci sopra. Anche, soprattutto
ora. So che è difficile. E’ difficile, soprattutto, parlarne con equilibrio, con delicatezza. Ma
come gli amici degli americani dovrebbero dire agli americani quando sbagliano, così
gli amici del mondo ebraico hanno pieno diritto e forse il dovere di chiedere ai loro
amici ebrei di attivarsi di più – sì, molto di più, e oggi più di ieri – sulla questione
Israele. E a quelli che rispondono che di Israele, uno stato, e non di religione si tratta,
non di ebraismo, non di ebrei, tanto meno di ebrei italiani, o americani, stavolta
! 11
rispondiamo che no, questo ragionamento, che in passato forse convinceva anche noi,
non funziona più. Non, almeno, finché non la smettiamo di chiedere ai musulmani di
tutto il mondo di schierarsi, esplicitamente e pure ad alta voce – e di schierarsi con noi,
naturalmente – perché altri musulmani fanno le peggio cose. Se vale per i musulmani,
vale anche per gli ebrei. E per i cristiani. Troverei giusto, oggi, che altri – ebrei,
musulmani – questionassero noi, la nostra identità cristiana, rispetto alle politiche dei
nostri paesi nei confronti di aree e di paesi in cui queste religioni sono dominanti. Anche
noi siamo in causa. E siamo stati in silenzio già troppo a lungo: e questo tipo di silenzio
si chiama complicità. Il mondo si è globalizzato anche in questo senso: siamo tutti
coinvolti, non solo tutti spettatori. Se parliamo di politica internazionale, qualche spiacevole evidenza dobbiamo pur
ricordarla. Israele, non facciamo finta di non saperlo, o che è politically correct non
dirlo, può permettersi la sua politica di potenza grazie all’appoggio degli Stati Uniti. Al
sostegno diretto, anche finanziario, della diaspora ebraica. E al sostegno indiretto, tanto
più importante, degli Stati Uniti, pesantemente influenzato da alcune lobbies ebraiche
interne. Basta tacere, dunque, sull’uso che fa di questo sostegno. Anche perché, se non
lo diciamo noi, lo dicono comunque tanti altri (l’ho sentito ripetere in treno come in
università, in questi giorni) – e gli argomenti è sempre meglio affrontarli e ribatterli,
anziché lasciarli marcire e diventare ‘voci che corrono’, e non si sa dove vanno:
rumours, o rumeurs, come riassumono con sintetica espressione l’inglese e il francese.
E in ogni caso lo dicono i musulmani, e forse non hanno torto. E se anche ce l’avessero,
non possiamo far finta che questo non sia uno degli elementi in gioco, e dei maggiori.
Ci sono persino implicazioni interreligiose globali, in tutto questo, che vanno assai al di
là della pur gravissima situazione in Palestina. E comunque, finché ci sarà la situazione
che c’è oggi in Palestina, tutto il mondo islamico sarà in fermento, e di conseguenza
anche noi, perché ormai anche l’islam, come le altre religioni, è dappertutto. Possibile che si faccia finta di non saperlo? Possibile che non ci si renda conto che
disinnescare questa bomba sarebbe come togliere l’arma principale – la rabbia e
l’impotenza di fronte all’ingiustizia dei potenti – allo stesso terrorismo islamico
fondamentalista? Ci riflettano, gli amici del mondo ebraico. E gli amici di Israele. Tra i
quali – entrambi – mi annovero. Ma ci riflettano anche i cristiani di casa nostra, e degli Stati Uniti: anche loro hanno
delle responsabilità nelle politiche dei loro paesi. E ci riflettano, ovviamente, i
musulmani: perché loro non ne sono privi, di responsabilità – tutt’altro. Non aiuta la
loro causa, per dire, e lo rifiuteremo sempre, fare del problema Israele, che esiste e che
abbiamo sottolineato – ma che è un problema di politiche adottate da chi in Israele
governa, e non altro – un problema ebraico nel senso che alcuni di loro propongono:
come quando si vuol far passare il sionismo, in quanto tale, per una forma di razzismo,
come si è tentato di fare per l’ennesima volta alla conferenza di Durban, o quando, per
citare un altro episodio recente, Assad figlio, di fronte al Papa, si è permesso,
danneggiando in primo luogo la causa che diceva di sostenere, di chiamare gli ebrei
popolo deicida. Se non lo fanno più i cristiani, grazie a Dio, non ci si mettano i
musulmani: non è problema loro, del resto, visto che loro, nel fatto che Cristo sia Figlio
di Dio, neppure ci credono. Dire che siamo tutti coinvolti, che dobbiamo intervenire,
sentirci corresponsabili, non vorrà mai dire intervenire in maniera semplificatrice, e
dunque violenta, perché fa violenza alla realtà e alla verità, nelle teologie altrui.
! 12
Israele non è gli ebrei. Ancora di più: l’attuale governo di Israele non è Israele. Grazie a
Dio. Dunque, a maggior ragione, agiamo. Lo fanno già molti ebrei, del resto, senza
bisogno delle nostre sollecitazioni, e pagandone i prezzi relativi. Così come molti
musulmani reagiscono e pagano il prezzo della reazione alle politiche dei loro governi,
e magari alle scelte delle loro guide religiose. “Dobbiamo ridurre la tensione in Medio Oriente, spegnere un fuoco che diffonde odio,
estremismo, fanatismo”. E li diffonde in tutto il mondo. Non sono parole di un
commentare filo-islamico, ma le lucide parole pronunciate in questi giorni da un
membro dell’attuale governo di Israele, Shimon Peres. Vorrei solo chiosarle così, queste
parole: che odio, estremismo e fanatismo vengono diffusi da ambo le parti, come Peres
sa bene; ma da una, va pur detto, con più sistematica freddezza, con più disdegno dei
trattati internazionali e delle opinioni del mondo, e da una posizione di forza, dunque
con maggiore responsabilità. E allora, va ricordato, e va ricordato ora, nonostante il
dolore ci porti altrove, basta con gli estremismi, basta fare terra bruciata dei moderati,
da ambo le parti. Perché alla fine, anche un inutile cittadino del mondo, come può
essere ognuno di noi, è costretto a porsele, certe domande. E non è tanto questione di
stare con Israele o con i palestinesi, di tifare per l’uno o per l’altro. Odio questa logica: e
typhos, lo ricordo, è una malattia, vuol dire febbre, offuscamento. E di tutto abbiamo
bisogno fuorché di annebbiare ulteriormente il nostro sguardo e la nostra intelligenza.
No, la questione è di ragionare su dove stiamo andando, e quali problemi dobbiamo
risolvere per andare dove davvero vogliamo, e non dove i terroristi e i pre-potenti di
turno ci stanno portando. E questo è uno dei nodi da sciogliere, se vogliamo
disinnescare le bombe e le stragi a venire. Senza dimenticare le colpe di chi ha
perpetrato quelle attuali.
Intanto, la demonizzazione del diverso, su scala planetaria, prosegue. Oggi ha un nome
nuovo: “stati canaglia”. Curioso: una espressione che fino a ieri non usava nessuno,
oggi è sulla bocca di tutti i commentatori. Trista espressione. Segno di una politica
questa sì incanaglita. Guarda caso, questi stati sono più o meno tutti musulmani, o
meglio, a maggioranza musulmana. E anche qui c’è un problema: perché con questo
criterio dovremmo chiamare stati cristiani le peggiori dittature centro-americane – che,
per inciso, non sono nella lista degli stati canaglia: tutti santi, da quelle parti; anche
quelli che vivono di traffico di droga, frodi elettorali, conculcamento dei diritti umani,
repressione delle popolazioni indigene, tortura e investimenti americani. Come se, visti
con lo stesso metro, ma da un altro punto di vista, non potessero essere definiti canaglia,
quando da canaglie si comportano, ed è successo, anche gli stessi Stati Uniti. O Israele.
O molti paesi musulmani, anche di quelli alleati – o servi – dell’occidente: nel qual caso
si perdona loro tutto. E tanti altri. Che, tuttavia, non sono nella lista.
C’è anche un altro problema. Li costringiamo a schierarsi, uno per uno, questi paesi.
Incluso il Pakistan, i palestinesi, e tanti altri. Più o meno convinti. Con la forza. Con il
ricatto economico (come per la consegna del boia serbo al tribunale dell’Aja: giusta,
certo – ma che squallidi modi…). Con molto bastone, e con non poca carota, sotto
forma di fruscianti bigliettoni. Ecco, mi chiedo solo se questo consenso, almeno in parte estorto, fornito al più forte in
nome della legge del più forte, che in politica ha il nome pudico di realpolitik, sia la
politica più giusta. E so già che non è così. Che non riprodurrà che una logica di
! 13
rapporti di forza senza cuore e senza convinzione, dunque senza futuro, pronta a
rovesciarsi alla prima occasione. Ci compriamo i nostri servi, il loro obbligato consenso. E poi, come bambini viziati, ci
sentiamo incompresi, e ci lamentiamo che non sono nostri amici, che non ci amano
come vorremmo e come meritiamo. Che non hanno più voglia di giocare con noi.
16 settembre E’ domenica. E la vita continua. Per cui decido, con un amico, di concedermi un volo in
parapendio. Forse è un inconscio bisogno di staccarmi da questa terra e dai suoi
drammi. Mentre sono sufficientemente lontano dal paesaggio su cui prima poggiavo i
piedi per apprezzarne maggiormente la bellezza, infatti, e mi viene da ringraziare Dio
per questo commovente spreco di meraviglie, penso a quello che succede sulla
superficie di questa povera terra, a me in questo momento più lontana, e forse proprio
per questo più attraente. Penso all’odio che ci travolge, che credo monterà come una
marea, e come una marea terribile non lascerà il paesaggio che adesso sto osservando
dall’alto come prima, travolgerà ulteriormente uomini e cose, più di quanto non abbia
già fatto. Penso a questa terra che, anche vista da lontano, sarà comunque diversa,
peggiore. Volevano questo, i terroristi? Se è così, il loro piano è stato davvero ben
congegnato. Perché funziona alla perfezione.
Poche ore di tregua. Stavolta è un quotidiano romano che mi sollecita. La domanda è se
ci sono timori di radicalizzazione dei musulmani che si sentono sotto accusa. Rispondo
che prima ancora di questo ho dei timori, sui quali sorprendentemente non si interroga
nessuno, sulla radicalizzazione delle nostre posizioni. Ormai è così. Come altri, quei
pochi che ne sanno qualcosa di islam e di musulmani, vedo che non ci resta che il ruolo
di chi cerca di tenere sveglio il senso critico e autocritico, o semplicemente dei
pompieri. Ne preferirei un altro, visto che non ho la vocazione dell’avvocato: magari
quello di chi rovescia le verità ufficiali come un calzino, senza per questo averne di
migliori. Ma si fa quel che si può.
Mi si chiede dei sentimenti che vivono i musulmani in Italia. Non so nemmeno se lo so,
anche se ne ho sentiti molti, in questi giorni. Mi viene spontaneo pensare, che so, agli
italiani in America ai tempi di Al Capone. I più l’avrebbero probabilmente visto
volentieri morto, così gli americani l’avrebbero finita di identificare l’Italia con la
mafia. E qualcuno invece lo considerava certamente un simbolo di riscatto, un esempio.
E non c’era, allora, di mezzo la religione (o forse, un po’ sì: per un popolo che non era
già più ma si credeva ancora wasp, forse un po’ di pregiudizio anti-cattolico non è
mancato). Lo stesso credo dei musulmani in Italia: non è perché ti ripetono che sei un
terrorista amico di terroristi, che un tranquillo lavoratore o un ignaro studente terrorista
diventa. Ma certo non gli rendi la vita più facile. E non rendi un buon servizio alla verità
delle cose. E se non rendi un servizio alla verità, vuol dire che lo rendi alla menzogna.
Non faccio in tempo a dirgli tutto questo, che sulla via del ritorno, sul lungolago di
Como, leggo la seguente scritta, tracciata con caratteri alti almeno un metro: “Padania
cristiana. No islam. No maumetti” (proprio così, non so se perché in dialetto o per
ordinaria ignoranza e dispregio). Scritto presumibilmente da uno che a messa non ci va
! 14
nemmeno. Come quei dirigenti leghisti, a cominciare dal loro leader, che onorano il dio
Po e si rifanno ai miti celtici, ma poi, come successo lo scorso anno a Torino, si sentono
in dovere di far celebrare una messa sul luogo, una pubblica piazza, dove i musulmani
hanno appena effettuato la preghiera di fine ramadan. Tanto per capirci, e per capire di
chi si tratta, celebrata da un prete scismatico, un lefebvriano. Ma tant’è. Sono gli stessi
che in deludente sintonia con le poco evangeliche prediche del cardinal Biffi (un
ministro ex-democristiano da cui non me lo sarei mai aspettato, conoscendo il
clericalismo servile della nostra classe politica, pronunciò il giorno del diktat
cardinalizio contro l’immigrazione islamica la frase più sensata che ho sentito in quei
giorni: “al cardinale oggi deve essere caduto di tasca il Vangelo”), e le prediche laiche,
altrettanto inquietanti, del professor Sartori, in occasione del progetto di costruzione di
una moschea a Lodi hanno lanciato una crociata anti-islamica senza precedenti nel
nostro paese, per toni, volgarità e durata: chi non ricorda lo striscione che in segno di
spregio vantava di aver concimato con “urina di porco padano” il terreno della
ipotizzata moschea? Che, grosso modo, è come se un marocchino si fosse vantato di
aver pisciato sul sito di un erigendo altare: come l’avremmo presa?
Forse risaliva proprio a quel periodo la scritta che ho visto (come tante altre che ritrovo
nelle stazioni, nei sottopassaggi del metro, nei cessi dell’università: ordinarie finezze
come “Islam nei forni”, “Musulmani bastardi”, o anche, chissà perché, “Allah culo”).
Non so dirlo, se risale a quell’epoca, del resto non lontana. Ma capisco, sento, quello
che significa ora. E ne ho paura.
17 settembre
La giornata comincia con la lettura dei giornali. Purtroppo. Appuntamento fisso: quelle
che i miei studenti chiamano le ‘alberonate del lunedì’. Poteva mancare di pontificare
sulla situazione, l’Alberoni nazionale? No, ovviamente. Ma come sempre, volendo fare
il tuttologo, non solo parla di ciò che non sa, ma riesce a dire cose che non esistono. Già
una volta, in passato, quando aveva parlato di islam in Italia (con un articolo un filo
prematuramente intitolato “Quando mezza Italia sarà cristiana e l’altra mezza
musulmana”), citando cifre e fatti inesistenti, mi ero sentito in dovere di ribattere.
Toutes proportions gardées, naturalmente: lui scrive sulla prima pagina del Corriere, il
sottoscritto può permettersi al massimo il lusso di rispondere solo nelle pagine interne
dell’Unità. Oggi ha fatto anche di meglio, l’Alberoni. Non solo riesce a dire che lui
l’aveva previsto, che lui l’aveva detto, che lui lo sapeva – e già questo è irritante e
moralmente intollerabile, di fronte a tanto dolore. Ma persino quando racconta la sua
personalissima sintesi della storia del mondo riesce a dire, per esempio, che i
musulmani in Spagna avevano creato un regime talmente duro che se ne sono dovuti
emigrare persino i musulmani moderati. Forse si confonde con la Reconquista cattolica,
visto che persino il più clericale degli storici sa che è stato esattamente il contrario: che
la Spagna islamica, al-Andalus, per quanto propagandisticamente idealizzata, è stata una
delle rare oasi di relativa tolleranza religiosa in quello che noi chiamiamo Medio Evo, e
magari i ‘secoli bui’, in Spagna invece rischiarati da una sorta di Illuminismo religioso
ante litteram. ! 15
E’ sempre penoso vedere quando gli intellettuali si allineano ai discorsi del potere,
rinunciando a pensare in proprio. Nei confronti dell’islam possiamo parlare di un altro
episodio, uno tra i tanti, l’ennesimo, di ‘tradimento dei chierici’.
Passo alla Repubblica: uno pro uno contro. Un articolo di Bernardo Valli che mette in
guardia dallo scontro di civiltà con l’islam. E uno di Giorgio Bocca che mette in
continuità il fondamentalismo islamico di oggi con le invasioni dei saraceni nella sua
adorata Alba, mille anni fa. Entrambi in prima pagina. Uno pari, palla al centro. Basta.
Smetto.
Prove tecniche di trasmissione. E’ cominciata la campagna di stampa, tanto più
importante, nella società delle comunicazioni di massa, delle campagne di guerra
tradizionali. Tornano alla mente le grandi manovre mediatiche ai tempi della guerra del
Golfo. Quando la preparazione del terreno, attraverso una informazione militarizzata,
filtrata e censurata, è arrivata a farci credere – e ci siamo cascati – che quello iracheno
era diventato il quinto esercito del mondo. Ricordo anche l’episodio grottesco del
cormorano che, tutto coperto di petrolio, non riusciva più a volare, destinato a morire
impaludato nel disastro ecologico provocato dai cattivi: una immagine commovente
(per noi che ci commuoviamo più per il destino dei cormorani che per quello degli
uomini), trasmessa in tutto il mondo – peccato fosse stata girata, se non ricordo male, ai
tempi del disastro della Exxon Valdez. Ma anche questa, naturalmente, ce la siamo
bevuta. Mi torna in mente che l’espressione gergale è ‘copertura degli eventi’. Appunto, li
copriamo. Chi li vede più? La guerra del Golfo non ha avuto luogo, aveva titolato un
suo caustico libretto Baudrillard. Lo stesso dovremo probabilmente dire per le
campagne d’Afghanistan o d’altrove a venire. Non le vedremo veramente. Dunque,
ancora una volta, non saremo stati noi. Non avranno avuto luogo. Possiamo anticiparlo
fin d’ora.
E’ cominciata anche la militarizzazione del linguaggio, l’allineamento conformista del
vocabolario. E vince la retorica delle parole: di quelle cattive, come guerra, che
pronunciamo come se sapessimo cosa significa; e di quelle buone, come libertà,
democrazia, civiltà (che, ugualmente, pronunciamo come se sapessimo davvero cosa
significano). Come sempre. Come quando Karl Kraus (in un libro il cui titolo ricordato
oggi fa riflettere: Gli ultimi giorni dell’umanità) inorridiva leggendo gli aedi della prima
guerra mondiale, i poeti che cantavano i fili d’erba, paragonandoli a virili distese di
baionette sull’attenti.
Non vale solo per l’islam in generale, o naturalmente per Bin Laden, per definire il
quale l’aggettivazione, per desiderio infantile di esagerare e di far vedere che si sta dalla
parte dei buoni, sfiora talvolta il ridicolo: con il piccolo controdeduttivo risultato,
peraltro, di farne, proprio per questo, una leggenda. E’ anche questione di politica
interna. Sui giornali, per dire, si moltiplicano titoli come “la mappa del terrore islamico
in Italia”, dove di solito si piazza una semplice mappa delle moschee (il titolo è preso
dal vero, e da un giornale serio, per giunta: lascio solo immaginare quelli non seri, da
Libero alla Padania), e qualsiasi musulmano è buono per essere sbattuto in prima
pagina. Come connivente, se non come complice.
! 16
Intanto, il gioco al massacro è cominciato. Attacchi a moschee. Insulti per strada e
sull’autobus a donne con l’hijab. Minacce di morte o almeno insulti via e-mail. Bambini
a scuola presi a calci o a male parole dai civilissimi compagni italiani. E l’assalto non va
tanto per il sottile. A Crema un noto rivenditore di tappeti, tale Benhur Zizun, si è
ritrovato sul negozio scritte come “Boia islamico”, e “Arabo, fuori dall’Italia”. Peccato
sia ebreo, viva in questo paese da quarantadue anni, e sia stato rinchiuso in un campo di
concentramento nazista. Negli USA, invece, tra aggressioni, tentativi di linciaggio, marce di pacifici cittadini di
presumo amene località che decidono di dare l’assalto alla locale moschea, fermate
all’ultimo dallo sceriffo, proprio come in un film western (Bridgeview, Illinois), persone
che decidono di sfondare un centro islamico con l’automobile e, non paghi, dopo l’urto
sfondano i vetri sopravvissuti a pugni (Evansville, Indiana), ordigni incendiari contro
una moschea (Denton, Texas), giustizieri solitari che si fanno scoprire nella stessa
situazione ancora con la tanica di benzina in mano (Seattle, Washington) – e ci
limitiamo alle notizie del primo giorno: quelle dei giorni successivi saranno peggiori – il
primo morto (altri, purtroppo, seguiranno) è stato un sikh: tale Balbir Singh Sodhi, 52
anni, proprietario di una pompa di benzina a Phoenix, Arizona, assassinato a colpi di
fucile. Già, tutto come in un film: un Easy Rider versione multiculturale? Del resto più
d’uno aveva già notato che l’attacco al WTC ricordava Indipendence Day. Peccato che
sia tutto vero. L’attacco, e le reazioni ad esso. Del resto, colpa sua, questo signore
portava il turbante, sembrava un musulmano; e poi non ci si capisce più niente, signora
mia, con tutti ’sti stranieri… Intanto il nostro governo, con grande tempismo, proprio oggi approva una dura legge
restrittiva all’immigrazione. Tanto per evitare che la gente pensi che c’è un legame tra le
due cose, tra immigrazione e terrorismo… Che tristezza. E già la Lega ricomincia con i
suoi proclami, chiedendo di consentire l’ingresso in Italia ai soli immigrati cristiani.
Parole purtroppo già benedette in passato da più di un porporato (per una volta la parola
è pertinente: solo che dovrebbe imporporarsi di vergogna il loro volto, non solo lo
zucchetto). Voglio vederlo il personale che alla frontiera avrà in mano il
coscienziometro. Che, se esistesse, proporrei di usare diversamente: facendo entrare
solo i buoni, i miti e i puri di cuore, a prescindere da razza e religione. Ma che si fa dei
cattivi che sono già tra di noi, in noi, che sono noi?
Non voglio però fare l’errore, speculare a quello di chi filmava i palestinesi in festa
dimenticando quelli che invece erano a lutto. Non voglio perciò sottolineare il nostro
peggio. Perché so, sperimento, che tra di noi è solo una piccola minoranza che reagisce
in questo modo – peccato che una parte di questa sia al governo. Una minoranza che
però, da democratici, abbiamo il dovere di denunciare. Prima che la nostra democrazia
si avveleni. Sarebbe un inutile regalo all’estremismo.
Capisco, del resto, che ci siano queste reazioni. La rabbia del momento: che, coniugata
all’impotenza della vittima, può trasformarsi, a caldo, in una rivolta cieca, che sbaglia
bersaglio, che sbaglia nemico. Posso comprendere, quindi. Ma non blandire. Posso
persino sentirmi vicino, umanamente: anche se detesto l’isteria, e da degli adulti
pretenderei delle reazioni adulte – che tuttavia, mi rendo conto, non sono sempre
possibili. Ma non posso incoraggiare. Anche perché poi, se si va a vedere, di solito chi
reagisce così non è la vittima, che non può più farlo, o il suo parente, chi le è
affettivamente vicino. Questi hanno altro da fare, da pensare, nell’ora del dolore. No,
! 17
sono altri: esaltati d’altro tipo, con poco titolo per dirsi coinvolti direttamente. Dunque
posso tollerare, per un poco: ma non più di questo. E vigilando, attentamente.
Certamente non posso carezzare il pelo di questi lupi travestiti da agnelli. Certamente
non ho il diritto di incoraggiarli. E meno ancora incitarli, scaldare gli animi. E peggio di
tutto, strumentalizzarli, politicamente o magari religiosamente, come alcuni invece
hanno fatto. Questo è inaccettabile. Questo è vergognoso.
18 settembre
Fantapolitica. Se Bin Laden si consegnasse… Che dinamiche incredibili che
innescherebbe! Che smacco, per tanti – nel mondo islamico come in quello occidentale
– che preferirebbero una sana guerra, e una sana morte, a un insano processo: i morti
non parlano, ed è meglio, quando potrebbero rivelare tanti spiacevoli e imbarazzanti
retroscena. Ma non succederà. Perché Bin Laden, comunque, c’entri o no con questa
strage, si trovino o meno le prove, e c’entri da solo o in compagnia, non è un Gandhi, e
non ne ha l’onore. E’ solo – anche se, purtroppo, qualche musulmano (e anche qualche
occidentale non musulmano) lo considera un eroe, e magari un santo – un ordinario
carnefice, come ce ne sono stati tanti altri nella storia: un impiegato a tempo pieno del
terrore, un macellaio su scala industriale. Lui – ma nemmeno, purtroppo, Bush – non
saprebbe dire, con Gandhi, che con la logica dell’occhio per occhio, alla fine, tutta
l’umanità finisce cieca (una frase che trovo citata come premessa a un appello
proveniente dall’università di Chicago, che ho firmato, e che sarà ripresa da tutto il
movimento pacifista): e che, per citare un’altra frase gandhiana, che stavolta aggiungo
io, “il fine sta nei mezzi come l’albero nel seme”, e se il mezzo è malvagio anche il fine
lo diventa. Questo, Bin Laden, serial killer planetario, non lo sa. Ma anche altri l’hanno
dimenticato.
Pensare che, a parte tutto, non sappiamo ancora se è stato davvero lui. Lo diamo
semplicemente già tutti per scontato. La presunzione di innocenza, baluardo della civiltà
giuridica occidentale, in questo caso non vale. E’ probabile sia stato lui, o che sia
coinvolto. E’ la prima cosa che anch’io, come quasi tutti, ho pensato, ancora a pochi
minuti dal primo aereo bomba. Del resto non è nuovo alle stragi, e al colpire in primo
luogo dei civili: le bombe alle ambasciate americane di Nairobi e Dar es Salaam (che
ironia: significa la casa della pace…) ne hanno uccisi a centinaia – di kenyoti e
tanzaniani, neppure di americani (e infatti in questi paesi non riscuote un centesimo del
consenso che alcuni arabi sembrano invece riconoscergli – e forse anche questi
dovrebbero cominciare ad accorgersi che neppure loro sono il centro del mondo:
nemmeno di quello islamico, di cui non rappresentano che un modesto venti per cento,
oltre tutto). Nello stesso tempo ricordo che non è la prima volta che la giustizia
sommaria internazionale si sbaglia. E’ successo a suo tempo con i libici dell’attentato di
Lockerbie. E’ successo con la strage di Oklahoma City. Mi auguro davvero che non si
sbagli anche stavolta. Ma so anche che i tempi della ponderatezza, della razionalità, in
definitiva della giustizia, sono più lunghi di quelli dell’emozionalità, della vendetta:
che, a differenza di quello che si dice, è un piatto che di solito si preferisce assaporare
caldo.
! 18
E a proposito di chi, nel mondo islamico, beatifica Bin Laden. Su questo fronte – sul
fronte islamico interno, intendo – mi sembra che qualcosa di buono stia nonostante tutto
accadendo. Credo di conoscere sufficientemente bene – come pochi, me lo dico da solo,
anche se molti in questo momento fanno finta di parlarne con cognizione di causa – il
mondo islamico del nostro paese, e anche di qualche altro. Fino ad ora avevo visto un
po’ di disattenzione, su alcuni aspetti. Se c’era qualche elemento che si prendeva troppo
sul serio nel lanciare roboanti proclami o magari minacciare un qualche nemico reale o
presunto dell’islam, seppure solo verbalmente, o circolavano delle posizioni
francamente inaccettabili (contro gli ebrei, contro i cristiani, contro l’occidente, ma
anche contro altri musulmani), si reagiva poco o nulla, li si lasciava comunque dire – e
ci si irritava se altri, non musulmani, rinfacciavano loro queste presenze e queste
opinioni impresentabili. I più del resto, tra questi, sono persone che dicono e basta. Ne
conosco anch’io – immigrati, ma in percentuale forse anche più convertiti – che pur
personalmente innocui, di solito, e mai stati nei paesi di cui parlano, si permettono
tuttavia di tranciare con colpevole leggerezza e assoluta insipienza giudizi di condanna
– e, anche più sorprendenti, di beatificazione – di questo o quel paese, di questo o quel
regime, di questo o quel movimento: tutti buoni perché comunque tutti musulmani, o,
peggio, veri musulmani, in Sudan come a Timor, in Algeria come in Afghanistan (e non
parlo delle protezioni a Bin Laden: parlo del resto, che è molto peggio). Molti musulmani, in questi anni, hanno parlato, si sono smarcati da questi ‘compagni
che sbagliano’, li hanno anche combattuti – ne conosco, e ne posso testimoniare (anche,
magari, da parte di qualche leader che la stampa accusava o accusa oggi del contrario).
Alcuni tuttavia (e per quanto pochi, sempre troppi, in ogni caso) hanno difeso
l’indifendibile; e molti di più, soprattutto, hanno semplicemente taciuto. Bene, un segno di maturità, e di integrazione anche, è che oggi molti di quelli che
tacevano comincino a dire che no: che con questi non si vuole avere nulla a che fare,
che con questi non ci si vuole confondere – e non per tattica, perché si è costretti a fare
così, ma perché ci si crede, magari ci si è sempre creduto, e si capisce che è ora di dirlo
ad alta voce (e all’interno, ciò che è più importante, non all’esterno della comunità, non
per farsi sentire da noi). Era tempo, ed è bene. Perché bisogna avere il coraggio di aprire
anche dei conti interni, e bisogna saperne pagare il prezzo. La logica minoritarista e un
po’ paranoica per cui se attaccano un musulmano comunque lo difendiamo, perché è dei
nostri, non paga. Sono un sociologo, e so che è tipico dei gruppi minoritari, specie se
stigmatizzati: ma è una fase, non uno stato – l’estremismo, malattia infantile di qualsiasi
-ismo… Del resto, noi stessi abbiamo poco da insegnare, da questo punto di vista: da
noi il vittimismo e la teoria del complotto, nonché naturalmente la difesa d’ufficio dei
‘nostri’, è uno sport praticato dai maggiori partiti, persino quando sono al potere. Quello che è vero sul piano interno, per i musulmani italiani, mi sembra stia accadendo
anche sul piano internazionale. Certi amici sono impresentabili, inaccettabili. Certe
amicizie è doveroso romperle. In nome, magari, di nuove amicizie, al di fuori delle
nostre comunità di riferimento. Globalizzazione vuol dire anche questo.
Ma non è detto che vada così liscia. Temo, se la vendetta del gigante ferito, se la
rappresaglia, non sarà saggia (ed è difficile che lo sia, quando la si chiama così), ma
andrà come in molti temiamo che vada, che anche questo processo verrà reso più
difficile. Con grave danno per tutti: per i musulmani, e per noi, per la nostra società, per
le nostre città. Per il mondo.
! 19
Una settimana fa, l’apocalisse. Ma la sensazione è che l’apocalisse vera debba ancora
venire. Non sarò qui a registrarla. Il diario di una settimana di ordinaria follia, in cui il
mondo ha deciso di incamminarsi zaino in spalla verso un nuovo scenario di guerra, si
chiude qui. Con la sensazione, assai sgradevole, di aver assistito ad una svolta. Per il
peggio. Lo scontro delle civiltà che Huntington, più che preconizzare, inventava,
comincia ad avverarsi. Un esempio da manuale di profezia che si autorealizza.
Non è nemmeno più clash of civilizations, del resto. Anche Huntington dovrebbe
aggiornarsi. E’ scontro tra il bene e il male. Così, almeno, lo descrive Bush il piccolo,
usando parole più grandi di lui – persino blasfeme, talvolta: male, vendetta, non
perdoneremo, chi non è con me è contro di me, persino crociata. Come l’angelo
vendicatore dell’Apocalisse. Ma senza averne la stoffa, l’altezza morale, probabilmente
nemmeno la forza. E soprattutto senza preannunciare nessuna ultima venuta di Cristo,
nessuna sconfitta dell’Anticristo (che, anzi, di questi tempi certamente ingrassa e gode),
nessun giudizio universale. Non è, anche se crede di essere, guidato dalla mano di Dio,
dalla sua spada, dalla sua giustizia, più o meno infinita. Brutto periodo, per inciso, questo, in cui i leader politici, a tutte le latitudini, cristiani
ebrei o musulmani o hindu che siano, ricominciano a credere di essere direttamente
guidati da Dio, fermo posta: unti del Signore o suoi vindici – come se Lui ne avesse
bisogno… Ma è colpa nostra, che gliel’abbiamo lasciato credere per troppi secoli, ai
potenti, benedicendoli dalle nostre chiese, dalle nostre moschee, dalle nostre sinagoghe
(ma anche dalle sedi dei nostri partiti laici, magari dalle nostre laicissime logge…). E
che ancora ci caschiamo.
Anche se, e anche questo va ricordato, il Papa, come altri leaders religiosi, cristiani,
musulmani ed ebrei, solitario, quasi nascosto tra i proclami di guerra dei mass media,
pacato ma fermo, con una testardaggine che ai nuovi guerrieri dell’est e dell’ovest deve
certo sembrare ottusa, ricorda che non è una soluzione lasciare la parola alle armi,
animali ignoranti, che parlano con una sillaba sola. E’ assordante, in questo clima,
l’immagine televisiva della sua preghiera silenziosa, in ginocchio, la mano che
nasconde un volto che può solo guardare dentro di sé, o in alto: perché intorno vede la
distruzione che si avvicina, e uomini che dicono di onorarlo che inneggiano alla guerra,
alla morte.
Brutta storia, brutto momento. Iniziata con la morte improvvisa, così terribilmente
scenografica, così oscenamente televisiva, di migliaia di vittime innocenti. E finita,
quando finirà, chissà come. Del resto, forse, era iniziata molto tempo prima, anche se
non necessariamente lontano da dove si è compiuto il suo primo drammatico atto, e non
ce ne eravamo accorti.
Tuttavia – nonostante tutto, ci credo – forse non tutto il male viene per nuocere. O
almeno possiamo trarre dal male un po’ di bene: insegnamenti, riflessioni, un poco di
empatia in più con il nostro vecchio mondo. Persino un po’ di comprensione reciproca
in più. Qualche segnale in questa direzione l’ho pur percepito, per strada o tra i
messaggi nella bottiglia gettati dalle persone più disparate nel gran mare di internet.
Nonostante tutto, c’è speranza. Speriamo.
So, comunque, alla fine, cosa ci si chiede, a noi tutti: di schierarci. Non mi piace. Ma
non perché mi sia difficile. Perché credo sia metodologicamente sbagliata, questa
richiesta, per come è formulata. Non mi sottraggo, comunque.
! 20
Non credo la scelta sia o con Bush o con Bin Laden. O con l’America (del nord) o con
gli afghani. O con l’occidente o con l’islam.
A parte che, guarda caso, se la scelta fosse questa, è fin troppo facile: non solo
staremmo con l’aggredito – staremmo con il più forte: che è sempre tranquillizzante. E
sospetto.
Ma la situazione è un’altra, un po’ meno manichea.
Devo proprio schierarmi, dichiararmi? E va bene, accetto. Sto con Bush.
Provvisoriamente. Ma solo, e solo nella misura in cui, si tratterà di colpire i colpevoli.
Se e solo se ci sarà un rapporto reale e dimostrabile tra colpa e colpo. Perché credo,
comunque, che si debba reagire all’ingiustizia. Ma non in qualsiasi modo. Non a
casaccio, solo per far vedere che ci si muove. Non ad ogni costo. Dopodiché starò
probabilmente – prima o poi capiterà – contro di lui: per altri motivi, a seguito di altre
probabili ingiustizie.
Potrei anche accettare di non far nulla, se sapessi che la cosa è finita lì. Che il terrorismo
è morto, ad esempio. Che un evento come quello cui abbiamo assistito non si ripeterà.
In questo caso, forse, si potrebbe anche non reagire. Come quando, nella vita privata,
decidiamo di non reagire ad un sopruso, ad un’ingiustizia: perché crediamo che sia un
incidente di percorso, perché pensiamo che non si ripeterà, e dunque il gioco non valga
la candela.
Posso accettarla, una posizione di pacifismo integrale. Posso capirla. Posso persino
ammirarla. Ma più come una posizione individuale, come una scelta profetica,
testimoniale. Molto meno come la reazione, o la non reazione, di uno stato. Ripeto:
sarebbe possibile, ipotizzabile, se pensassi che non succederà più. Ma qui – come
spesso anche nella vita privata, individuale, di ciascuno di noi – c’è il rischio che, se
non si ferma la mano dell’assassino, questa colpisca ancora. E non possiamo
permetterci altri morti come questi, senza reagire: come potremmo guardare negli occhi
i loro cari, i sopravvissuti? No, credo che non abbiamo il diritto di accettarla, questa ipotesi. Comoda, tra l’altro,
visto che i morti sono stati, e probabilmente saranno, altri, lontani. C’è veramente una
sfida in corso. C’è davvero qualcuno che si crede in diritto di far morire degli innocenti,
sia pure sudditi dell’impero che loro chiamano del male, in nome del bene, anzi peggio,
del bene assoluto. C’è dunque davvero una scelta da compiere. E a questa non possiamo
sottrarci. Non può farlo nemmeno l’islam che in questa sua offensiva caricatura non si
riconosce. Perché comunque c’è una riflessione da fare sul fatto che davvero, in questo
grande mondo che è l’islam, c’è da qualche parte un’area, un paese – certo non dei
maggiori, ma pure non piccolissimo – in cui questo modo di pensare, di credere, trova
dei sostegni, una linfa culturale di cui nutrirsi. Non possiamo non vederlo.
Reagiamo, allora. Colpiamo il colpevole. Assicuriamolo alla giustizia (non a una
stupida, cieca vendetta). Ma niente di più – e niente di meno – di questo.
Se invece la guerra dichiarata è tra culture, tra civiltà, tra religioni, allora no, non ci sto:
non mi arruolo. Non è la mia guerra. Non ci credo. Non solo penso che sarebbe
sbagliata, sul piano etico: penso che sarebbe controproducente. Penso che il conto
sarebbe ancora più salato, per tutti. E che, come sempre, lo pagherebbe chi non ha
nemmeno partecipato al festino. E questo rischio c’è, è ben presente. E’ qualcosa di più di un rischio: è un probabilità.
Per i pessimisti, una certezza. Ebbene, se la prospettiva è questa, dichiaro, fin da ora, la
mia obiezione di coscienza. Motivata. Radicale. Serena.
! 21
Mi schiero, allora. Ma non partecipo al Risiko dei potenti, che non è il mio.
Scelgo. Ma nella consapevolezza che la scelta non è tra la civiltà e la barbarie: o,
almeno, che la prima non coincide con l’America (del nord) e la seconda con l’islam, e
nemmeno con gli afghani. La scelta, per me, è per le vittime, contro i carnefici; per gli
innocenti, contro i colpevoli; per gli impotenti, contro i potenti. E la linea divisoria non
coincide con gli schieramenti attuali. Troppo facile. Troppo comodo. Totalmente irreale.
! 22
Diario di guerra: continua…
27 settembre
Non ce l’ho fatta. Pensavo di poterlo considerare un episodio chiuso, comunque di non
volerlo registrare oltre. Ma è troppo.
Ho fatto circolare quanto precede presso alcuni amici, attraverso quella grande
invenzione che è internet (posso dirlo? viva la globalizzazione…): un messaggio nella
bottiglia tra i tanti, il mio. Che qualcuno ha raccolto. Uno di questi, un amico, scrittore
sensibile a questi temi, Giampiero Comolli, mi ha detto: perché non vai avanti? Lo
ammetto: ha sfondato una porta aperta. Perché il troppo è troppo.
In questi giorni è successo di tutto. Intanto, il nome dell’operazione di ‘pulizia’,
“Giustizia infinita”, che tanto sconcerto aveva suscitato, tra i paesi musulmani ma anche
tra non pochi cristiani occidentali, per quella neanche tanto velata tentazione di mettersi
al posto di Dio che tradiva (perenne tentazione dei militari, del resto, che ci credono sul
serio, e lo fanno – distruggono con la folgore e il tuono, si arrogano il potere di vita e di
morte), è stato cambiato: è diventato Enduring freedom, “Libertà duratura”. In italiano
suona notevolmente peggio, ma il progresso è sotto gli occhi di tutti: non siamo ancora
all’understatement, che sarebbe pretendere troppo, ma insomma, si scende un po’ di
tono. Peccato che il cambio di etichetta non preluda affatto a una sostituzione del
prodotto; cambia solo il contenitore, insomma, ma non il contenuto: l’hanno ingentilito
con un fiocchetto, tutto qui.
Negli Stati Uniti, ad esempio, una copia malriuscita del dottor Stranamore, un generale
purtroppo non in pensione, e titolato a parlare a nome dell’esercito americano, mica un
John Wayne di provincia, ha evocato persino l’ipotesi (che, per quanto solo ipotetica, è
irresponsabile anche solo da nominare) dell’uso dell’arma atomica: un nucleare
‘chirurgico’, immaginiamo. E i giornali, e i soliti commentatori, lì a parlarne
serenamente, come se non ci fosse nulla di strano, come se davvero si potesse
parlarne… Aveva ragione chi, negli anni dell’antipsichiatria, diceva che i pazzi sono
fuori. Mi torna alla mente un bel racconto di Edgar Allan Poe: Il sistema del dottor Tarr
e del professor Fether; in cui sono i pazzi a gestire il manicomio. Ma non è letteratura,
questa, non è fantascienza, e nemmeno fantapolitica.
Anche il Vaticano è entrato nel gran gioco delle dichiarazioni e delle legittimazioni, o ci
è stato fatto entrare.
Mentre il Papa ribadiva il suo no alla violenza, anche più grande se la violenza è
esercitata in nome della religione, mons. Navarro Valls rilasciava una dichiarazione in
inglese che legittimava la reazione americana. Un colpo al cerchio e uno alla botte.
Ovvio: mons. Navarro è troppo intelligente per dire e scrivere questo. Dice e lascia
scrivere che è legittimo reagire alla violenza, e che in certi casi questa reazione può
arrivare alla morte. Fin qui niente di nuovo. La legittimità del tirannicidio c’è già in San
Tomaso – e chi può non essere d’accordo? Dunque, proviamo a tradurre al caso
concreto l’intervento di monsignore: è legittimo uccidere Bin Laden, se è lui il
mandante della strage, e soprattutto se c’è rischio che ne commissioni altre. E fin qui
tutto bene. Peccato, e monsignore è troppo intelligente per non immaginarlo, che
ovviamente queste dichiarazioni siano state usate negli Stati Uniti come una sorta di
! 23
legittimazione dell’intervento, ben oltre la persona di Bin Laden. Legittimazione poi
smentita, naturalmente. Ma monsignor Navarro, oltre ad essere un uomo intelligente e
navigato, è anche il direttore della sala stampa vaticana: difficile credere che non sappia
come funziona il mondo dei media, e quello della politica.
La conferma verrà successivamente, dallo stesso Navarro: “Niente luce verde vaticana
per un attacco, perché non c’è un attacco, ma una prevenzione attiva contro una
minaccia che si è manifestata due settimane fa e che potrebbe ripetersi”. E’ curioso:
perché siamo d’accordo, ma sappiamo anche che la ‘prevenzione attiva’ sembra proprio
prevedere un attacco, e allora come la mettiamo? Intanto il Papa ribadiva il suo no alla violenza…
In Italia invece è scoppiata la sindrome dell’afghano. Ne hanno trovati addirittura
cinque, di questi poveri disgraziati, senza documenti e incapaci di pronunciare una sola
parola di italiano, con una mappa ‘sospetta’, che indicava la strada fino a Trastevere.
Dove, come sanno tutti quelli che si occupano di immigrati, ci stanno i centri
d’accoglienza e Sant’Egidio, e forse avrebbero potuto rimediare un cambio di vestiti e
un pasto caldo. Fermati e ‘sparati’ in prima pagina, tanto chi vuoi che gli faccia poi
causa, ai giornali: certo non un afghano. Si è scomodato persino il ministro dell’Interno,
per ‘lanciare’ questa grande operazione di prevenzione e di antiterrorismo: la libido da
presenza nei media non ha limiti. Ma, per carità, senza voler fare dell’allarmismo…
Non voglio fare solo della troppo facile ironia. Un po’ di nervosismo è spiegabile, forse
inevitabile. Per la verità, è più spiegabile, più accettabile, negli Stati Uniti, che oggi
sono in prima linea. Da noi finisce per essere inevitabilmente più provinciale, come
tutto. Perché anche il dolore può esserlo, specie se è solo ‘recitato’, non vissuto. In
questo caso poi è stato anche colpevolmente cavalcato, strumentalizzato. Ridicolmente,
anche. Da tanti, non solo dal ministro. Tra tanti esempi, ricordo l’esperto geostratega
Stefano Silvestri discettare in tv sul ruolo possibile di questi cinque disgraziati, sui loro
possibili obiettivi: anche lui, come tutti, non solo senza senso della misura – del tutto
senza senso del ridicolo. E questo quando già avrebbe dovuto essere chiaro a chiunque
avesse un minimo di interesse a capire, che si trattava di un bidone. Come se Luttwak,
pure tanto amato e intervistato in Italia, si fosse messo a discettare sugli obiettivi
potenziali di una ipotetica cinquina di sfigati sbarcati a Ellis Island: ma la statua della
libertà è l’obiettivo, che diamine! E’ proprio lì vicino…
Del resto l’equazione immigrazione = potenziale terrorismo è passata. L’ineffabile
Borghezio, un rappresentante del popolo ‘verde’ (di bile? A proposito: lo sa Borghezio
che il verde è anche il colore dell’islam? Che provvedimenti intende adottare per
sottrarsi a questa inquietante somiglianza? Non sarà mica la prova di una complicità
oggettiva?) se ne va giulivo a riunioni della Guardia Padana in cui ripete quanto questa
scrive nei suoi fulgidi volantini: “clandestini = terroristi islamici”. Con una foto di Bin
Laden, tanto perché sia chiaro il messaggio. Eh, già: notoriamente i terroristi non hanno
né documenti, né soldi, né protezioni, e lavano i vetri e chiedono la carità ai semafori,
tanto per non dare nell’occhio – subdola, geniale copertura.
Non credo proprio di poter essere accusato di pregiudizio antileghista. Ho scritto, tra i
primissimi, un libro che la stampa italiana, dal Corriere alla Stampa, appunto, aveva
accolto con qualche sospetto (l’aveva recensito bene il Times Litterary Supplement, in
compenso: ma da noi chi lo legge?), accusandolo quasi di legittimare in certo modo la
! 24
Lega, perché prendeva sul serio le sue parole d’ordine: libertà, federalismo, autonomia,
e persino qualche altra. Poi la Lega è esplosa, e in molti hanno dovuto ricredersi. Tutti
federalisti, dopo, per dire – politicanti e giornalisti. Tutto questo per dire che non voglio demonizzare nessuno. Tranne il demonio. Tranne
gli apprendisti stregoni, che giocano con parole d’ordine e sentimenti che, una volta
evocati, non saranno più capaci di controllare e di gestire. Quello della campagna d’odio
contro l’islam è uno di questi.
Peraltro, vorrei togliermi un sassolino dalla scarpa. E vorrei chiedere conto al buon
Borghezio di quella che mi appare una non comprensibile contraddizione: anche se lui
certo sarà in grado di farla capire ai suoi. Non capisco infatti come mai adesso parla
male dell’islam, ma quando era sottosegretario agli Interni (eh, sì, anche questo è
possibile, in questo paese…) nel primo governo Berlusconi, si era presentato al
convegno annuale dell’UCOII (che sta per Unione delle Comunità e delle
Organizzazioni Islamiche in Italia), a Roma, la vigilia di Natale, dove aveva portato il
saluto e l’apprezzamento del governo – con un discorso, mica solo con due parole di
circostanza. Alla parte pubblica, era seguita una riunione ristretta (e, mi dispiace: io, che
ero nei paraggi per una delle mie ricerche sull’islam, c’ero), in cui aveva ribadito i suoi
sentimenti, sempre a nome del governo: ricevendo in omaggio una copia del Corano, e
tanto rispetto – era la prima volta che un rappresentante del governo, con tanto di scorta
ed auto blu, capitava ad un convegno di musulmani. E aveva fatto, con poca spesa, il
suo bel figurone. Dicevo: non me lo spiego. A meno che, in questo suo atteggiamento, solo
temporaneamente filo-islamico, non giocasse un ruolo, che so, il suo tradizionale
sentimento anti-ebraico: una costante, nella sua biografia, fin da quando, mi si dice,
tifava per il regime dei colonnelli greci, e frequentava quei simpatici e innocui goliardi
di Terza Posizione. Non mi spiego altrimenti cosa ci facessero nella sua ventiquattr’ore,
un giorno che l’ho rivisto per caso al Salone del Libro di Torino, dei libri sulla razza, si
può immaginare di quale taglio, delle edizioni di Ar: che, per chi non le conoscesse,
sono quelle di Franco Freda, notoriamente un sincero democratico, da sempre amico
degli ebrei…
Oggi quello stesso presidente del consiglio, dei tempi in cui Borghezio era
sottosegretario, è ancora presidente del consiglio – anche se Borghezio non è più
sottosegretario, il che è già un bel miglioramento. E proprio oggi lo ritrovo sulle prime
pagine di tutti i giornali, con alcune sue improvvide dichiarazioni, per giunta
pronunciate in quel di Berlino, così ci facciamo anche una figuraccia, l’ennesima, a
livello internazionale.
Che cosa dice? Trascrivo dal Giornale, che è un suo giornale (guarda cosa mi tocca di
comprare, di questi tempi!), così non posso essere accusato di distorcere la verità: tutto
virgolettato. “Uno degli obiettivi del terrorismo è la lotta alla corruzione occidentale. E
c’è una singolare coincidenza con il movimento anti-globalizzazione che si è
manifestato circa un anno fa, in cui proprio dall’interno dell’Occidente si sono portate
critiche al modo di pensare e vivere dell’Occidente [attività sospetta e sorprendente di
suo: non c’era il pensiero unico? e non era legge?, ndr]. Si colpevolizza l’Occidente
come se la povertà di tanta parte del mondo fosse una colpa sua, della sua economia di
mercato [tanto candore è persino ammirevole, davvero…, ndr]. Noi dobbiamo invece
essere consapevoli della superiorità della nostra civiltà, un sistema di valori e principi
! 25
che ha prodotto un benessere diffuso e che garantisce quel rispetto dei diritti umani,
politici e religiosi che certamente non c’è nei Paesi islamici”.
Ora, io sono molto contento di essere nato in occidente, di fruire della sua libertà e del
suo benessere, e anche della sua civiltà giuridica, della sua libertà politica e religiosa, e
di qualcos’altro ancora: ma, Dio mio, un dubbio, uno straccio di dubbio – non era anche
questa una conquista della razionalità occidentale? Per dire: sono convinto anch’io che
la maggior parte dei paesi islamici non ha lo stesso livello di rispetto dei diritti umani,
politici e religiosi, oltre che di benessere. Potrà sembrare strano, ma ne sono convinti
anche i musulmani – è precisamente per questo che vengono da noi. Ma almeno, che so,
avere la decenza di ricordare che, a parte i suoi rappresentanti più accreditati e ricchi
(tra i quali ci siamo noi), anche i paesi che vivono nell’orbita occidentale, e magari
maggioritariamente cristiani, o hindu, o quant’altro, non è che stiano proprio meglio, da
questo punto di vista, e forse un motivo c’è, e forse, dico forse, ha anche a che fare con
le forme di dominio, diciamo con il modello di sviluppo, promosse dall’Occidente…
Certe orrende cattolicissime dittature latino-americane, per dire… No? Neanche un
dubbietto? No. E infatti così prosegue la concione: ‘“Al G8 subimmo la pressione dei
giovani occidentali che in modo estremo e violento manifestavano contro la civiltà
occidentale”. Quei ragazzi non capiscono che Occidente “significa amore per la libertà”,
e in virtù di questo l’Occidente continuerà a “occidentalizzare e conquistare i popoli
mentre una parte del mondo islamico è ferma a 1.400 anni fa”’. E così anche la storia è
sistemata.
Viene in mente una vecchia storiella. Un gruppo di conquistadores spagnoli sbarca nel
Nuovo Mondo: “Siamo venuti per parlare con voi di Dio, di morale, di civiltà”, dicono.
“Benissimo – rispondono gli indigeni –. Che cosa volete sapere?”. Questo per dire che
una delle conquiste dell’occidente, ma non solo di esso, è stata di imparare che tutte le
civiltà, o quasi tutte, si credono superiori alle altre – e già questo dovrebbe insospettirci.
Ma, in più, e anche questo l’occidente l’ha (l’aveva?) imparato, ciò che fa grande
davvero una civiltà è la sua capacità di acquisire, di inglobare, il meglio delle altre: “Il
barbaro trionfa soltanto nel corto termine. Ben presto è assorbito dalla civiltà
soggiogata”, ha scritto Braudel, che di comparazioni tra civiltà ne ha fatte davvero, per
tutta una vita. E aggiungeva, con un’altra efficace espressione: “La porta di casa si
richiude alle spalle del barbaro”. Ma torniamo a noi, purtroppo; ché non è finita qui. “Berlusconi esce rinfrancato dalla
colazione di lavoro con Putin (a base di tartine e caviale Beluga [giuro che non è
un’aggiunta mia, ndr]) per la ‘personale amicizia e innata e istintiva simpatia
reciproca’ [e già questo è inquietante: ve l’immaginate di provare simpatia per Putin,
che anche nella faccia denuncia la sua biografia di ex del KGB; e, peggio, di essergli
simpatico? istintivamente per giunta, ndr], ma anche per ‘l’idea comune di un’Europa
che deve aprirsi alla Russia e ricostruirsi sulla base delle comuni radici cristiane [la
sottolineatura è mia, ndr]’”. E così anche la Cecenia è sistemata: alle notoriamente
cristianissime cure di Putin. Anche questa delle comuni radici cristiane deve avergliela suggerita Baget Bozzo, non a
caso uno dei maître à penser e dei consiglieri dichiarati di Berlusconi, un cui commento
campeggia a fianco dell’articolo testé citato (parlo sempre del Giornale, ovviamente), e
che, non a caso, sta conoscendo un momento di gloria, come nemmeno quando era nel
PSI… (a proposito: tutto dimenticato, tutto perdonato, specialmente dai vertici
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ecclesiali, che in non pochi la pensano dopo tutto esattamente come lui. E non solo
sull’islam).
Fa pensare, il Baget. Che scrive libelli sull’islam, e pontifica un’intervista dopo l’altra –
irridendo il legittimo pontefice e i suoi ‘cedimenti’ dialogici tutte le volte che può –
senza averne mai incontrato uno, di musulmano, per sua stessa ammissione. Così
pregiudizialmente incattivito che persino una musulmana non particolarmente rigorosa e
militante come Afef è riuscita a ridurlo al ruolo di predicatore senilmente incattivito,
accecato dal pre-giudizio, in senso letterale: un giudizio dato prima di avere incontrato,
conosciuto. Quello che ci fa più pensare è che sia un uomo di chiesa. Per carità, la
chiesa è così larga che c’è posto per tutti: persino per me, forse (credo, ancora). Ma,
appunto, visto che è questo il suo mestiere: e se, smettendola di prendersi per Pietro il
Venerabile, si occupasse, qualche volta, se non è chieder troppo, di …chiesa? Magari
rifacendosi ai contenuti che essa è chiamata ad annunciare? Per fortuna che di statisti che non la pensano né come Baget né come Berlusconi ce ne
sono, e sono anche loro rappresentanti del popolo. Penso a George Bush, sì, persino
George Bush, che ha sentito il dovere civico, non credo solo il bisogno tattico (ma se
anche fosse solo questo, sarebbe comunque un segno incoraggiante di intelligenza
politica), di andare alla moschea di Washington, togliersi le scarpe in segno di rispetto,
come tutti, e lì pronunciare un discorso di conciliazione e forse di ri-conciliazione con i
musulmani d’America. Penso al presidente del Senato, Pera, che come seconda carica
dello stato ha avuto la sensibilità istituzionale di fare lo stesso, visitando la moschea di
Roma, e poi anche la sinagoga, in segno di attenzione alle minoranze religiose presenti
in Italia. E penso a Prodi, che proprio oggi si è recato alla moschea di Bruxelles.
Ci piacerebbe, davvero, vedere Berlusconi alla moschea di Roma. E magari, se non
sapessimo che è chiedere troppo, in una di quelle di periferia – che so, quella di
Centocelle – dove più facilmente incontrerebbe i credenti comuni, quelli non interessati
a beghe di potere, quelli che non lavorano nelle ambasciate. Magari si confermerebbe il
suo sentimento di superiorità, di fronte a gente mediamente non miliardaria, raramente
laureata, che non parla un italiano perfetto, vestita con completi di qualità scadente e
non proprio in condizioni impeccabili. Ma, se non altro, perderebbe un po’ di paura
dell’islam. E si accorgerebbe che quella che temiamo essere volontà di conquista
assomiglia assai più ad un naufragio, alle conseguenze del quale si cerca di rispondere,
pur in condizioni non facili, con dignità. Anche mediante la religione.
Sono lieto però, e lo voglio sottolineare, che Berlusconi abbia anche parlato del conflitto
israelo-palestinese, e della necessità di intervenire anche qui, con serietà e fermezza,
politicamente, se necessario anche militarmente, mediante una forza d’interposizione,
ed economicamente, per cambiare le condizioni del popolo palestinese. Di gran lunga la
cosa più di sinistra che si sia sentita in questi ultimi anni, in ambienti governativi… Se
la ricostruzione storica è improvvida, la lucidità politica non lo è del tutto. Anche se
questa parte del discorso, l’opposizione, che ironizzava sulle dichiarazioni sulla
superiorità, ma dando palesemente l’impressione di non sapere perché, se l’è
dimenticata. Ci ha fatto un enorme piacere anche trovare sulla stampa la reazione onestamente
stupita di Amos Luzzatto, presidente dell’Unione delle comunità ebraiche, alle
dichiarazioni del presidente del consiglio: le prime, quelle sulla superiorità. Ci è
piaciuto non perché ne dubitassimo: conoscendolo, era impossibile immaginare
! 27
altrimenti. Ma perché, con la mitezza e la pacatezza dell’uomo di studio e di spiritualità,
ha saputo dire cose diverse, opposte, sui rapporti tra civiltà e il rispetto delle culture. E
non è proprio possibile non sottolineare il rilievo politico – e religioso – di queste
dichiarazioni da parte del più autorevole esponente della comunità ebraica, nel
momento in cui è la comunità islamica, che una lettura giornalistica potrebbe
considerare ‘nemica’, ad essere sotto tiro. Un passo – che non è la prima volta che
compie: l’ha fatto in dichiarazioni pubbliche, in convegni, in occasione di diatribe sulla
costruzione di moschee, ad esempio – che vorremmo essere sicuri che i musulmani
sapessero accogliere con il valore che merita. E, magari, tradurre nei discorsi quotidiani
nei confronti degli ebrei: tuttora, per me che frequento la comunità musulmana, nelle
mie ricerche, da tanti anni, l’aspetto, il meno che possa dire, più irritante e fastidioso –
e, diciamola tutta, talvolta scandaloso – dei discorsi che sento talvolta circolare.
Le voglio riportare, queste semplici, pacate dichiarazioni di Luzzatto (tratte, stavolta, da
Repubblica: sul Giornale ovviamente non ce n’era traccia…): “Ogni cultura ha la sua
storia, porta qualcosa alle altre, le influenza. Proprio come dimostrano le
contaminazioni tra l’Occidente e l’Islam. E gli esempi potrebbero essere altri. In questa
storia ognuno ha il diritto di esistere, di esprimersi. Non credo che si possa fare una
classifica (…). Come ebrei noi siamo in buona parte dentro la cultura occidentale, ma
non credo di poter dire che sarà questa cultura a prevalere nel mondo. Chi può dirlo?
Può darsi invece che avremo una sintesi di tante culture, può darsi che da questa sintesi
possa prendere forma il mondo del futuro. Guardo a me stesso: io sono formato per il
passato e per il presente sulle basi di una cultura occidentale ed ebraica, e non sarei la
medesima persona se non avessi fatto questo percorso. Per questo non potrei mai
immaginarmi spaccato in due, magari costretto ad abbandonare una cultura
privilegiando l’altra”. Grazie. Non a nome dei musulmani, e nemmeno a nome degli
italiani. A nome della convivenza civile. E del buon senso. Una bella, semplice lezione.
Qualcos’altro di interessante, oggi? Beh, in Afghanistan hanno dato l’assalto
all’ambasciata americana, chiusa da anni, appiccandole fuoco, e regalando un altro bel
simbolo propagandistico a quelli che considerano loro nemici: si può immaginare che
non faccia un’impressione carina, negli Stati Uniti, veder cadere un’altra volta nella
polvere il mitico medaglione con l’aquila e la scritta “In God we trust”. Per carità, si
può anche capire, pensando alla pioggia di proiettili che sta per sommergerli. Ma forse,
se fossi in loro, dirotterei un po’ di questa rabbia di regime, casomai ne avanzasse, per
l’appunto, sul regime che in questo vicolo cieco, in questa trappola – alla lettera –
mortale, li ha portati. In Spagna hanno fatto una retata di quelli che forse, stavolta, terroristi lo sono davvero,
con diramazioni in Francia e in Italia, dove parte delle indagini avrebbero avuto inizio: e
di questo, per una volta, ci complimentiamo. E in Italia? Niente di nuovo, ma tutto molto divertente. Va in onda infatti in diretta tv,
presumiamo nel disinteresse generale, il voto parlamentare sulle rogatorie
internazionali, che il governo vuol rendere più difficili, nell’imbarazzo della stessa
maggioranza. Un favore a Bin Laden, dunque un tradimento dell’alleanza proprio nel
momento in cui si vogliono colpire i santuari finanziari del terrorismo, come in maniera
improbabile e francamente ridicola tuona l’opposizione? Più modestamente, un’altra
farsa all’italiana: un governo favorevole alla globalizzazione, dunque agli scambi di
merci, denaro e informazioni – e così inviperito con i no global da accomunarli, proprio
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oggi, ai fondamentalisti islamici – ma che è protezionista (ma si tratta di un mero
caso…) relativamente agli scambi di informazioni riguardanti i conti correnti ed altre
quisquilie, in controtendenza con le normative giuridiche europee e americane. Una
piccola eccezione che naturalmente non inficia l’impianto ideologico di base. Dicono.
Dov’è finito Totò? O, almeno, Macario?
Ma non c’è da ridere. La gente alla propria superiorità ci crede volentieri. E’ sempre
consolante sentirselo dire. Anche questa volta Berlusconi ci ha azzeccato. Mossa
furbetta. Stamattina, con la mazzetta dei giornali ancora fresca in mano, sono andato dal mio
droghiere, a cui piace chiacchierare. Gli ho detto: “Guardi, oggi non mi dica niente,
sono arrabbiato”. “Con chi?”, mi fa. “Con ‘sta storia delle dichiarazioni del Berlusca”,
gli dico. E lui, naturalmente: “Beh, ma c’ha ragione, che siamo superiori”. Ecco,
appunto.
Pregiudizio per pregiudizio, mi veniva da dirgli che, quando vado nei paesi arabi, mi
capita di entrare in qualche bottega di drogheria (assai belle, peraltro, con quelle
piramidi di spezie di mille colori). E ne ho visti talvolta, di questi primitivi droghieri,
che, se non ci sono clienti, tirano fuori un libro, e ne leggono un po’, tanto per passare il
tempo. E quel libro è quasi sempre il Corano. Non so se il mio droghiere, che è una
brava persona e un buon diavolo come tanti altri, compra almeno il giornale: e se, nel
caso, non sarà, come è di solito, la Gazzetta (quella dello sport). Ma chiedo a voi,
chiunque voi siate: avete mai incontrato, mai, in Italia, un negoziante che, nei momenti
di pausa, tira fuori la Bibbia? O è che noi pensiamo che fa male alla salute, ed è meglio
la Gazzetta (quella dello sport, naturalmente)?
Non pretendo che sia un criterio di civiltà, come il PIL, che molti dicono essere l’unico
criterio attendibile, in ogni caso comparabile (e in quello, ovvio, vinciamo noi: siamo
superiori. Anche se terrei presente che qualche paese islamico ce l’ha più alto – più
lungo? – del nostro). Me lo tengo così, come un’impressione. Sfavorevole. Per noi.
28 settembre
Da ieri sappiamo che la guerra, che finora credevamo solo verbale, è già cominciata.
Con i guerriglieri, le forze speciali che erano state paracadutate in Afghanistan già 48
ore dopo l’attentato al World Trade Center (e al povero Pentagono che dimentichiamo
sempre, credo con suo piacere).
Sono quasi contento. Come quasi tutti, voglio che qualcuno sia colpito, per il male fatto,
e per scongiurare mali peggiori. E la presenza di questi professionisti della guerra mi dà
l’idea di un approccio appunto professionale, tra addetti ai lavori, più all’antica, in un
certo senso, tra combattenti – quasi che questo possa evitare che paghino inermi civili
afghani per gli inermi civili di tanti paesi del mondo uccisi a New York. Ci vedo anche
un altro scenario, in questo sviluppo possibile, in un conflitto forse risolvibile in un
duello tra soldati, e magari nella vittoria finale dei buoni e nella sconfitta del brigante
sanguinario. Se andasse così, ne sarei felice. Sarebbe, questa sì, una bella dimostrazione
della superiorità dell’occidente, capace di rispondere all’aggressione senza mettersi
sullo stesso piano dell’aggressore. Ma non sono certo, purtroppo, che andrà così.
! 29
So, temo, che questo sarà solo un preludio: il pianissimo dell’inizio di certe sinfonie di
Mahler, con solo gli archi ad accennare il tema, che si concluderà tuttavia, come in
queste, con un ‘tutti’ e un ‘fortissimo’ di orchestra e coro, magari raddoppiato, come
nell’Ottava. E sotto il fragore a quel punto assordante non si sentiranno più le urla dei
feriti e dei morenti. Quelle degli affamati e dei profughi, già presenti, come sempre non
le sentiamo per nulla: la solita, monotona, flebile nenia… Non si lamenta neppure,
questo genere di poveri.
Il solito film. E, a proposito, mi colpiva, ieri, guardando il TG4 di un Emilio più Fido
che mai, sentire l’onesto piacere infantile con cui si ripetevano, quasi lasciandole
risuonare in bocca, parole antiche, ricordi di infanzia, familiari come Topolino e la
Nutella: parole come Rangers, Berretti Verdi, reparti speciali, commandos. “Arrivano i
nostri”. Evviva la cavalleria.
Inutile ricordare, adesso, che nei termini stretti e astratti del diritto internazionale,
questa operazione è come Pearl Harbor, ma senza il rumore dei bombardieri (le truppe
paracadutate all’interno saranno senz’altro state più silenziose): illegale, in mancanza di
una formale dichiarazione di guerra, ancora non recapitata all’Afghanistan. E questa
volta, in tempi di comunicazione in tempo reale, non giustificabile con il ritardo nella
battitura a macchina da parte delle dattilografe. Sono stati violati, dopo tutto, senza il
suo accordo, i confini di uno stato sovrano – semmai l’Afghanistan, luogo di infiniti
conflitti di clan, ed estraneo all’idea occidentale di stato, lo è stato…
Sofismi, per carità. Quisquilie e pinzillacchere. Siamo d’accordo, del resto, che, come
diceva Carl Schmitt, la forma fondamentale, primaria, della sovranità, è la sua
manifestazione nel caso eccezionale, non previsto dalle leggi. E questo, con un attacco
feroce lanciato da un nemico che non è uno stato e che nemmeno si dichiara, senza
dubbio, lo è. Per cui, per quello che può valere, ce lo diciamo anche noi, che è
giustificato. Molto più di altre volte, nel passato, dove, in Africa, in Asia o in America
Latina, operazione analoghe sono state fatte, da tante potenze ex- e neo-coloniali. E’
stata la regola, dopo tutto, questa delle guerre non dichiarate, non l’eccezione. Detto in
altri termini: che ci sia una regola, forse, è una finzione.
C’è qualcosa di forte, evidentemente, nell’argomentazione di Bin Laden che è anche la
sua autodifesa. Lui dice che non è coinvolto negli attentati, che come musulmano non
mentirebbe. Lasciamo perdere il secondo aspetto: come se gli uomini di religione, anche
i più santi, e abbiamo qualche legittimo dubbio che lui lo sia, non mentissero, e non le
avessero spesso dette anche grosse, nella storia, e nel presente… Ma è interessante
sottolineare che alla domanda su chi potrebbe essere stato risponde, nella sua prima
presa di posizione, il fax mandato alla tv del Qatar Al-Jazeera, come nell’intervista
pubblicata dal quotidiano pakistano Ummat, in sintesi: sono stati gli ebrei.
C’è qualcosa di forte non perché l’argomentazione sia convincente, naturalmente: a noi
europei, purtroppo, ricorda paranoie del tutto autoctone, cristiane e pagane, che sono
sfociate, alla lunga, in un crimine mostruoso, la shoah. Nemmeno perché
l’argomentazione sia supportata non diciamo da prove, ma dal benché minimo indizio:
Bin Laden non ne offre nemmeno l’ombra, e gli indizi sono assai più inconsistenti, anzi,
inesistenti, di quelli che invece conducono a lui (e va pur detto che non pochi
musulmani, nel mondo, lo pensano, che sia stato lui, e alcuni hanno anche manifestato
per lui: non ci risulta che degli ebrei abbiano gioito e manifestato pensando a qualche
! 30
loro gruppo terrorista, dopo l’attacco). Ma perché l’argomentazione, comunque, se
viene usata, vuol dire che si pensa che per qualcuno almeno sia convincente: pezzi di
opinione islamica in paesi poveri e con alto tasso di analfabetismo; ma anche pezzi di
opinione colta nel mondo islamico chic, quello che frequenta la city e le università
occidentali; e pure pezzi di opinione occidentale, non islamica, negli Stati Uniti e fuori.
L’ho sentita anch’io, con le mie orecchie, da persone qualsiasi in posti qualsiasi – e, per
dire, forse è l’unica cosa, il sospetto nei confronti degli ebrei, su cui persino un
Borghezio potrebbe essere d’accordo con i musulmani.
C’è anche un’altra forza, triste, di questa argomentazione. Come l’evocazione continua
del fondamentalismo quando si parla di islam rischia di radicalizzare parti di opinione
pubblica islamica moderata, così la continua evocazione del sospetto del sempiterno
complotto giudaico (anche se stavolta non demo-masso-pluto, o forse anche) – così utile
a troppi, in questo secolo – rischia di mettere sull’avviso (direi sul chi vive, se
l’espressione non risultasse di cattivo gusto) e di radicalizzare in posizioni duramente
anti-islamiche pezzi di opinione pubblica ebraica, dentro e fuori Israele.
Legittimamente, di fronte a questi discorsi.
Alla fine, come in un gioco di rimbalzi su un tavolo da biliardo, potremmo scoprire che
se c’è un legame tra questione palestinese e odio anti-ebraico e anti-americano, potrebbe
pure esserci un feedback in direzione opposta. E a pagare sarebbe sempre chi non
c’entra, palestinese come ebreo. Un altro frutto avvelenato del clima di guerra, della
cultura dell’odio.
Cautela. Escono sui giornali le preghiere di Mohamed Atta, uno degli attentatori, trovate
nella sua valigia chissà perché non imbarcata sull’aereo, e chissà come finite al
Washington Post. Può darsi. Tutto può essere. Ricordo solo che qualche islamologo
(americano, noto, serio) ha notato qualche incoerenza: brani di preghiera in stile
tradizionale, ma con parole moderne e inusuali, come ‘ottimista’ o ‘cento per cento’, che
non appartengono al gergo coranico classico. E poi è strana la formula iniziale, con
l’invito a pregare “in nome di Dio, mio e della mia famiglia”, così inusuale sulla bocca
di un musulmano. Detto questo, da un lato, non ci vedrei nulla di strano – e allora perché no. Il contenuto è
plausibile, dopo tutto. Una notizia come un’altra: e non ho motivo di metterla in
questione. Ci perdo solo, a farlo. Perché mi si dirà che invece è vera, e molto
probabilmente lo sarà; e che voglio negare l’evidenza; e bla bla. Dall’altro però una
vocina sospettosa, chissà come mai, chissà perché, mi suggerisce che potrebbe anche
non essere, che c’è una sia pur lieve puzza di zolfo, che ha nome mistificazione,
intelligence, propaganda, effetto mediatico – qualcosa che ricorda molto da vicino il
cormorano della guerra del Golfo.
Intendiamoci, non cambierebbe nulla. Così come non sarebbe cambiato nulla se il
cormorano fosse stato effettivamente filmato nel Golfo e in quell’occasione. Ma, così, è
una questione di fiducia nostra nel nostro sistema – già minata, evidentemente, se anche
solo me ne viene il malevolo sospetto. Che mi dispiace persino avere.
L’effetto della notizia, del resto, è immediato, e me lo rende plausibile, questo sospetto.
Ieri sera, al solito ineffabile TG4, l’invidiato speciale, come ama narcisisticamente
autodefinirsi, dopo aver fatto leggere le preghiere in questione alla sua letterina di turno,
alla sua valletta (a proposito, ma ci saranno anche giornalisti professionisti in quella
redazione? o portano solo il caffè al capo? che sia questa la ragione di tanto turn over?),
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le commenta, con la faccia tipica di quando dice “mah, sarà…”, irridendo a quelli che
dicono di credere “in chissà quale Dio”. Missione compiuta, caporale Fede. E come te
tanti altri: soldati semplici – o, forse, intendenza (ben pagata) – nella guerra
dell’informazione.
E’ indicativo, comunque, questo discorso di senso comune. Come se solo noi avessimo
il monopolio di Dio, solo noi lo capissimo bene: come se quello degli altri fosse sempre
“chissà quale Dio” – una brutta copia, al massimo. Siamo ancora lì: dopo tanti
progressi, dopo tanta civiltà, siamo ancora lì. Cristiani e musulmani, e tanti altri sentiti
in questi giorni, capi di stato inclusi, anzi capi di stato soprattutto, dal mullah Omar a
George Bush. Mi fa venire in mente quanto mi è capitato di sentire in questi giorni, a Radio Maria:
che sì, è vero, anche nel Corano si parla di Maria – ma la Madonna, però, è cattolica...
Pensare che oltre tutto, dalla lettura dei Vangeli, mi era parso di capire che fosse ebrea.
Merita soffermarsi sul ruolo della stampa in questa partita. Leggendo i giornali,
guardando la televisione, mi torna in mente sempre più spesso il grande Karl Kraus,
fustigatore di costumi e giornalista atipico, visto che era direttore e pressoché unico
compilatore di una rivista che non conosceva nemmeno gli ‘a capo’, tanta era la sua
ansia di dire, di comunicare, riempiendo colonne infinite di piombo. Da un lato notava,
con battuta fulminante: “Non avere un pensiero e saperlo esprimere – è questo che fa di
uno un giornalista”. Ma dall’altro era conscio del peso del loro ruolo, frutto della
credenza nell’autorevolezza della parola scritta. Per questo ricorda, in un altro testo,
meno noto, che ci pare pertinente riportare qui: “Fa prima a crollare l’Islam che la fede
nella parola che è stampata!”.
Pertinenti comunque, e utili da rileggere in questo periodo, anche le seguenti, che vale
la pena riportare. Non so perché, ma ho la sensazione che potrei appiccicarci una mezza
dozzina di facce note, a fianco di ognuna di queste definizioni.
Ambrose Bierce, scrittore e giornalista, nel suo Dizionario del diavolo così descrive il
suo stesso mestiere: “Stampa (s.f.). Potentissima lente di ingrandimento. Con l’aiuto di
un «noi» e di un poco d’inchiostro trasforma lo squittìo di un topolino nel ruggito di un
leone editoriale, le cui dichiarazioni si presume la nazione segua con reverenza e fiato
sospeso”. E a proposito di inchiostro Friedrich Nietzsche, nello Zarathustra, ha definito
sprezzantemente i giornalisti “delle seppie che schizzano inchiostro”, quando non
“quelle mosche che cacano articoli”, mentre Honoré de Balzac ha parlato di
“bracconieri della stampa”. Gustave Flaubert infine, in un altro dizionario, il suo
Dizionario dei luoghi comuni, aveva inserito la voce, che ha un che di definitivo:
“Fondamento – Tutte le notizie ne sono prive”. Mi permetto di autocitarmi, da un testo recente dedicato a media e islam.
Perché questi timori? Perché quest’astio, anche, nei confronti dei giornalisti? Che pure
sono una categoria sociale cruciale, e talvolta anche a rischio, con i suoi eroi e non di
rado con i suoi martiri? Perché questa paura o almeno questa diffidenza nei confronti
del giornalismo?
Per il suo potere reale, senza dubbio, se è vero che stampa e televisione sono considerati
il quarto e il quinto potere, dopo i tre canonici del pensiero costituzionale occidentale
(esecutivo, legislativo, giudiziario): ma anche i soli poteri di fatto, che nessuna
costituzione prevede e regolamenta come tali. E per il suo potere presunto – che spesso
però è solo mera visibilità, ovvero illusione di potere –, che gli viene a torto o a ragione
! 32
attribuito. Forse a torto: l’eccesso di visibilità o di ripetizione infatti non
necessariamente rafforza il messaggio. Al contrario, oltre una certa soglia di
affollamento, come sanno bene i pubblicitari, si ha un effetto di diluizione
dell’incisività.
Ma anche perché, dove c’è potere, dovrebbe anche esserci etica del potere, esercizio
responsabile dello stesso. Mentre, quasi a voler rispettare alla lettera le indicazioni
burocratiche, talvolta di responsabile in una testata c’è solo il direttore, e in senso
stretto: solo davanti alla legge. Troppi, di questo potere, sono (ma non innocentemente)
inconsapevoli. E non per caso l’ultimo Popper ha insistito, chiedendo l’introduzione di
una sorta di ‘patente’ almeno per chi fa televisione, e dunque pratica il potere di questo
mezzo – il requisito minimale di un titolo di studio specifico o di una specializzazione,
almeno.
A questo punto si può specificare meglio quanto accade a proposito dell’islam.
Hegel ha potuto definire la lettura del giornale come “la preghiera del mattino
dell’uomo moderno”. E siamo arrivati al punto di chiamare edicole i rivenditori dei
giornali, mentre con la stessa parola si definivano in passato le cappelle votive che
racchiudevano le statue dei santi (aedicula = tempietto). Religioni concorrenti?
Vediamo come affronta, il giornalismo, il tema dell’islam.
Chiunque si occupi di islam, o come osservatore in qualche modo professionale (è il
caso di chi scrive), o come ‘vittima’ (è il caso dei musulmani stessi), sa e ha toccato con
mano, o sperimentato sulla propria pelle, quanto a proposito di islam sia frequente, e
ingigantito, un difetto che è per molti motivi intrinseco al giornalismo, ma non è
limitato ad esso: la tendenza all’esagerazione, alla focalizzazione solo su taluni aspetti,
e magari talvolta alla pura e semplice invenzione.
Nel migliore dei casi, quando si rivolge la propria attenzione all’islam, si grida, spesso a
sproposito, “al lupo, al lupo”, anche quando il lupo è in realtà innocuo, addomesticato, e
magari anche un po’ spelacchiato, confondendo scenari irreali con pericoli reali, ed
evoluzioni potenziali con realtà fattuali.
Citerò qualche esempio, per lo più già datato, essendomi stancato in seguito di
catalogarli. Ma chiunque, credo, potrebbe fare uno sforzo di memoria non difficile per
aggiornare il file dedicato all’attenzione mediatica all’islam, fino ad arrivare agli eventi
di cui stiamo parlando ora, che ci stanno accadendo intorno.
Un esempio tra i tanti, divertente in quanto totalmente inesistente, è stata la ‘guerra del
chador’, come l’ha battezzata il quotidiano che l’ha lanciata, ampiamente ripreso da
stampa e tv. Curiosa guerra: mai dichiarata da nessuno, un puro esempio di
ermafroditismo giornalistico, in grado di partorire una robusta figliata di notizie anche
in assenza di un fatto originario – e che pure, stando alle descrizioni dei media, avrebbe
avuto corso un paio d’anni fa nelle nostre scuole. Un tipico esempio di quelli che un
semiologo, Ugo Volli, ha chiamato ‘fattoidi’: strane creature che assomigliano ai fatti
pur senza esserlo. Verosimili, attesi persino, anche se non veri, e più facilmente
malleabili e manipolabili della realtà: ma che producono quello che il medesimo
osservatore ha definito inquinamento semiotico – una forma meno osservata ma non
meno pericolosa di inquinamento, se non dei corpi, delle coscienze. Ricordiamo per inciso che tale ‘logica’ è stata ampiamente riportata in auge ai tempi
dell’indizione del Giubileo, dove si prospettavano possibili rischi di attentati
fondamentalisti. E più recentemente ancora vi si è fatto ricorso in occasione del vertice
dei G8 a Genova: dove già alcuni mesi prima si è cominciato a far filtrare notizie su
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ipotetiche alleanze tra terrorismo islamico, terrorismo rosso e movimento
antiglobalizzazione, che fanno se non altro vedere quali sono considerati i nemici di
questa globalizzazione anche dal senso comune mediatico. Attentati mai verificatisi: il
Giubileo dopo tutto è passato senza incidenti – ma questo chi s’è ricordato di scriverlo?
E il G8 di Genova non passerà certo alla storia per il ruolo avuto in esso dai musulmani.
Anche se, dopo, un informatore al di sotto di ogni sospetto, il presidente egiziano
Mubarak, che ha il problema di tenere a bada, demonizzare e stroncare – e non ci riesce
– un’opposizione islamista al suo regime in crisi di consensi reali, non costruiti nel
chiuso di cabine elettorali assai volatili e poco trasparenti, dirà che c’era un piano per
ammazzare Bush e qualcuno degli altri, con la stessa tecnica usata a New York, anche a
Genova. E forse, chissà, è persino vero. Ricordo comunque che se anche gli attentati
non si sono verificati, l’allarme, quello sì, era ben reale, e si guadagnava l’apertura dei
quotidiani e dei TG. E i suoi effetti, anche quelli rimanevano: e rimangono, poiché sono
cumulativi. Su un quotidiano romano di rilievo nazionale è comparso – tempo fa, ma mi si è
inchiodato in testa – un editoriale che mi aveva colpito per la sua sorprendente logica,
scritto da un intellettuale noto ma la cui conoscenza dell’islam ci è (e probabilmente gli
è) ignota, a proposito di un giovane italiano condannato in Pakistan a subire dieci colpi
di frusta per detenzione di droga. L’articolo, in prima pagina, iniziava con queste
avventatissime parole: “L’Islam ha dichiarato guerra all’Occidente”. Come se, a
proposito di un giovane marocchino condannato da un tribunale italiano a qualche mese
di carcere per spaccio di stupefacenti, un giornale di Rabat titolasse: “La cristianità ha
dichiarato guerra al mondo arabo”. Letto col senno di poi, di oggi, mette i brividi.
Spesso poi i titoli sull’islam, anche quello interno, legato all’immigrazione, sono
incentrati su metafore belliciste – tipo ‘soldati di Allah’ – che hanno un effetto
nient’affatto tranquillizzante. Parafrasando il noto aforisma del barone von Clausewitz
verrebbe da dire che oggi è il giornalismo, e non la guerra, la continuazione della
politica con altri mezzi... Ma anche una seria rivista di geopolitica come Limes apriva il suo primo numero con
una cartina della collocazione geopolitica dell’Italia che, da sud, come altrettanti
pericoli, ci offriva solo, nell’ordine, i seguenti ‘prodotti’: immigrazione, universo
islamico, Libia, traffico d’armi e fondamentalismo islamico – questi ultimi,
opportunamente associati (e non rinunciava alla tentazione di pubblicizzare un numero
sul tema Mediterraneo, l’Arabia vicina con locandine sui principali quotidiani che
parlavano della “spada di Allah” e una copertina che richiamava il feroce Saladino). Anche occasioni relativamente più recenti, come gli arresti, presso un centro islamico
italiano, dei presunti responsabili di una cellula terroristica di cui si presumeva all’epoca
assai più di quanto sia poi risultato dalle carte processuali, hanno dato luogo in certi casi
a titoli che solo la carità professionale può evitare di menzionare. E’ sufficiente
ricordare che un’analisi dei loro contenuti dimostra agevolmente che quando ci si
occupa dell’islam si perde volentieri il senso della misura, nulla sembra esagerato, e
nulla sembra necessitare di ulteriore verifica. L’onere della prova viene volentieri
rovesciato. Spericolati collegamenti con fatti accaduti nei luoghi più disparati della terra
vengono dati come ovvi: dall’immigrazione islamica alla crisi in Algeria, dalla Bosnia
al racket delle macellerie islamiche (stupisce ci si scordi sempre dell’attentato al Papa,
dopo tutto opera di un turco). ! 34
Tutto questo è già un problema in sé. Un problema ulteriore è che questa cattiva
immagine diventa la lente con cui vediamo anche l’islam di casa nostra, continuamente
costretto a fare i conti con dei ‘peccati d’origine’ che non ha necessariamente
commesso.
I media in questa sovrapposizione ormai divenuta implicita hanno le loro responsabilità:
passano il tempo a fare l’esame del sangue ai musulmani intervistati, magari
responsabili o semplici frequentatori di questo o quel centro islamico di una qualsiasi
periferia urbana europea, facendo domande sul terrorismo e il fondamentalismo, e
stupendosi poi candidamente della insofferenza dei loro interlocutori nei confronti di
questo genere di lettura di quella che dopo tutto, per loro, è primariamente una
religione, una ragione e un modo di vita; la loro reazione non farebbe che dimostrare la
loro complicità oggettiva, quasi un innato cromosoma dell’intolleranza, una sorta di
DNA religioso... Sovrapporre continuamente i due piani, quello dell’immagine che abbiamo dell’islam
(basata spesso solo su casi estremi) e quello della ‘normale’ immigrazione, è tuttavia un
gioco pericoloso. Il minimo che si possa dire è che non è un incentivo all’integrazione.
Da un lato infatti offre a noi autoctoni una visione falsata della realtà che non fa che
incrementare le già preesistenti fobie, che hanno una origine ‘estera’, oltre che ‘storica’,
ma ricadute tutte ‘interne’ – come insegna il costruzionismo sociologico, non importa
che una cosa sia vera: è sufficiente che sia creduta vera perché produca effetti reali.
Dall’altro favorisce risposte in sintonia con lo stimolo, reazioni corrispondenti alle
nostre azioni, tra le quali anche una fastidiosa quanto inutile tendenza al vittimismo da
parte di alcuni esponenti del mondo islamico organizzato. Con il bel risultato che questa
insistenza ossessiva sul ‘lupo’ islamico rischia di diventare, anch’essa, un esempio
particolarmente rischioso e inquietante di profezia che si autorealizza, trasformando il
fattoide in fatto, lo stereotipo in realtà.
Intanto ieri si festeggiava – si fa per dire – il primo compleanno della seconda Intifada.
La macabra contabilità è più o meno questa: ‘circa’ settecento morti e diecimila feriti da
una parte, centosettantotto morti e circa duemila feriti dall’altra. Non credo di aver
bisogno di specificare le parti. Come candeline, altri sette palestinesi morti, uno dei
quali di soli dieci anni. E quaranta e dieci feriti, rispettivamente. Tanti auguri.
Non per tornare a occuparmi di facezie, patetiche, provinciali e offensive viste con gli
occhi di chi ha appena letto quanto precede, ma trascrivo una frase interessante: “Se
devo essere impiccato ad una sola parola, una sola, isolata dal suo contesto, in cambio
di essere libero di affermare ciò che penso e provano con me nella loro stragrande
maggioranza i cittadini italiani, allora dico: ‘Impiccatemi pure’”.
Devo specificarne l’autore? Sì, proprio lui, il presidente del consiglio, nel suo discorso
non mi ricordo se alla camera o al senato. E la parola, naturalmente, è ‘superiorità’:
troppo breve per impiccare chicchessia. E poi siamo contrari alla pena di morte. Noi. Io. Ma c’è un’argomentazione che mi pare interessante rilevare. Gli antichi, e anche
qualche élite più recente, avrebbero detto che governare è decidere, scegliere, anche
contro la maggioranza, quando e se necessario (e capita sempre, prima o poi).
Berlusconi no. In questo è onesto, e mostra una invidiabile e rara coerenza tra la sua
attività di imprenditore dei media e quella di politico: lui dà sempre e solo quello che la
gente vuole – panem et circenses. Per cui se la maggioranza degli italiani vuole farsi
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dire che è per la pena di morte, contro le tasse, contro gli statali, contro gli immigrati, o
semplicemente che è ‘superiore’… beh, lui glielo dice. E poi si rispecchia nel loro
consenso, che lui stesso gli ha fornito: intelligentemente fornendo a loro, soprattutto, la
possibilità di specchiarsi, in uno specchio deformante, come quelli dei luna park – solo
che nel luna park della seconda repubblica c’è solo lo specchio che ingrandisce, e ci fa
sentire superiori.
A fianco, la vignetta di Ellekappa: “I musulmani non conoscono il valore della libertà”;
“Che ne sanno quanto costa mantenere uno staff di avvocati e mezzo parlamento?”.
Geniale e ironico, come spesso, l’intervento di Andreotti: “Non si dispiaccia, presidente,
se la fraintendono. Piuttosto, ne approfitti per siglare il protocollo d’Intesa fra lo Stato
italiano e le espressioni religiose dell’islam. Vedrà che farà cosa gradita”, e
probabilmente questa volta non sarà frainteso; contestualmente ricordando che Paolo VI
era stato a suo tempo favorevole alla costruzione della moschea di Roma.
Già, l’Intesa. Ne ho già scritto molto, in passato, e forse varrà la pena ritornarci sopra.
Lo stato italiano, come ognun sa o dovrebbe sapere, a norma di costituzione, ha un
sistema concordatario. Il Concordato privilegia, su molte materie, la Chiesa cattolica, in
quanto confessione maggioritaria. Non è il caso di sottolineare qui pregi e difetti del
sistema. Ne prendiamo atto. Ma la costituzione invita anche lo stato a sottoscrivere delle
Intese con le confessioni minoritarie. Con colpevole ritardo, da imputarsi forse più alle
inerzie e alle obbedienze clericali della classe politica che a una vera e propria
opposizione di oltretevere, il sistema è finalmente partito, quando, per iniziativa del
governo Craxi, subito dopo il rinnovo del Concordato, sono state siglate le prime Intese.
Si è iniziato con valdesi e metodisti, e si è proseguito con altre confessioni minoritarie,
dagli ebrei agli avventisti del settimo giorno. Le ultime sono state quelle siglate dal
governo D’Alema con i buddhisti e i testimoni di Geova. Mi limito a ricordare che, per
il solito servilismo clericale della nostra classe politica, è stata l’attuale maggioranza (a
onor del vero, solo di un pezzo di essa: la Lega e AN), a bloccare in commissione affari
costituzionali la necessaria ratifica di queste due Intese, bloccando contestualmente, di
fatto, l’iter delle altre, tra cui quella con l’islam. Per non dispiacere alla Chiesa cattolica,
o a quella parte di Chiesa cattolica che fa politica, a tempo pieno ma senza un mandato
e fuori da qualsiasi controllo democratico anche solo interno, senza essere eletti e senza
essere revocabili, ma con cariche di lunghezza ‘biblica’, sorta di sinecura vitalizia: una
politica in cui i cattolici stessi non sono mai implicati né consultati. La subiscono, come
tutti, senza poterla mai discutere in una qualche sede a questo deputata. Possono, al
massimo, mugugnare a bassa voce. E al di fuori dei chiostri in cui viene decisa.
Torna il jihad. Nostrano. Quello contro l’islam. Il sindaco di Curno, dove la moschea sta
sotto un sexy shop e di fianco a una birreria (tanto per divertirsi a rovesciare qualche
slogan: inferiorità islamica e superiorità occidentale? In effetti, il sexy shop sta sopra, e
ci sarà pure un motivo, no?) ne approfitta per far sigillare la locale moschea – in realtà,
come quasi tutte, una poco più che precaria sala di preghiera. Quello di Varese, che ci
aveva già provato un anno fa, torna alla carica. Quello di Erba – la “Brianza
velenosa” (e, aggiungo, invelenita) di cui cantava Battisti – assicura che sul suo comune
una moschea non sorgerà mai: “Sono un covo di rivolta più che luoghi di culto”. Lui lo
sa per esperienza personale, immaginiamo: siamo certi che ne ha visitate a decine,
prima di parlare…
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Siamo certi che avranno tutti ottime ragioni – formali – per chiudere le moschee
esistenti: problemi pratici, mancanza di rispetto delle norme antincendio, magari. Come
siamo certi che siano assolutamente i soli edifici, nei comuni in questione, a essere fuori
norma. I loro sindaci, di sicuro, vigilano, e mai si abbasserebbero ad applicare due pesi
e due misure…
Però, però, qualche ragionamento dobbiamo pur farlo. Vagli a spiegare, a questi novelli
sedentari crociati, a questi cavalieri del Graal sovrappeso, a questi emuli del prode
Anselmo (“che andò in guerra e mise l’elmo” – lui, peraltro, finì male), che, dal punto
di vista sociologico, le moschee sono le parrocchie e gli oratori dei musulmani, e che
come tali svolgono una funzione di controllo sociale sul territorio, dunque di
prevenzione. Come hanno capito benissimo in Francia, esplicitamente teorizzandolo, e
di fatto favorendone l’insediamento, persino andando contro a una tradizione, prima
ancora che a una legislazione, di rigida separazione tra stato e chiesa: tanto che alcune
moschee hanno ricevuto anche cospicui finanziamenti pubblici. E, tanto per dire, a
teorizzarne l’utilità in termini di politiche d’ordine e di controllo sociale, non è un
qualche federale di provincia, mediamente incolto e di poca esperienza politica – come
quelli che, da noi, si immaginano di essere i nuovi crociati – ma gente a livello di
ministro dell’interno: e ne cito uno di destra, come Charles Pasqua. E’ una scelta che
peraltro stanno portando avanti un po’ in tutto il resto d’Europa: senza parlarne ad alta
voce, naturalmente, perché la pubblica opinione, e soprattutto alcuni mestatori travestiti
da suoi rappresentanti, vigila e non vuole sentire ragionamenti complicati; preferisce gli
slogan semplici e tranquillizzanti sulla superiorità e sull’inconciliabilità delle culture,
che tanti si affrettano del resto a fornirle. Vagli a spiegare che è meglio avere una
moschea, dove non si beve (nemmeno si fuma…), e qualche persona pia e autorevole –
capace magari di calmare anche qualche esagitato, se del caso – si può sperare di
trovarla, che le panchine di un parco, un marciapiede o le sedie di un bar: anche perché
lì si serve alcool, e notoriamente gli arabi non lo reggono un granché bene… Nella
laicissima Francia, lo dicevo, si è esplicitamente teorizzato: più moschee, meno reati – e
persino un minimo di controllo dei giovani marginalizzati delle banlieues. E’ tanto
difficile da capire?
In Italia, coraggiosamente, solo il sindaco di Lodi va avanti nel suo progetto, tra frizzi e
lazzi, e minacce e irrisioni. E senza uno straccio di sostegno morale dai vertici dello
stato, nonostante il linciaggio personale che ha dovuto subire, e sapendo che questo
forse (probabilmente, vista l’aria che tira) gli costerà la rielezione. Dovrebbero fargli un
monumento, per questo: al democratico ignoto. All’eletto che – rara avis – si è
ricordato, come in un testo fondativo della democrazia che forse non avrà neanche letto,
e che certamente non conoscono la maggior parte dei politici nostrani, la Lettera agli
elettori di Bristol (che ha me ha insegnato ad apprezzare, in università quel professor
Miglio che per qualche tempo è stato intellettuale di riferimento perfino dei leghisti),
che non esiste mandato imperativo, e che nemmeno chi ti ha votato ha il diritto di
importi delle decisioni, perché nel momento in cui eserciti il tuo nobile mandato tu
rappresenti tutto il popolo, e gli interessi superiori del paese.
Effetti collaterali. Ma positivi. L’aumento dell’informazione sull’islam. Tutti gli inserti
dei quotidiani e i settimanali vi hanno dedicato pagine e pagine. Niente di male, anzi. E
niente di nuovo. Era già successo, in forma meno imponente, in occasione della guerra
! 37
del Golfo. Unico limite: è un’informazione che dura poco, nei suoi effetti. Ma ben
venga.
L’inserto di Repubblica ci mette anche l’inevitabile sondaggio. Da cui risulta che ne
sappiamo davvero poco. Che crediamo (il 43%), che l’Arabia Saudita sia il paese
musulmano più grande del mondo, mentre è in assoluto uno dei meno popolati. Che pur
sapendo che non tutti i musulmani sono arabi (l’84%: ma ammettiamo, era facile facile,
come sapere che non tutti i cristiani sono europei), crediamo che essi siano la
maggioranza: lo dice il 68%; mentre in realtà gli arabi non rappresentano che una
minoranza statistica, un modesto venti per cento dei musulmani del mondo (l’Indonesia,
per dire, da sola, ha tanti musulmani sul suo territorio quanto tutti i paesi arabi messi
insieme; e forse non è da buttare via che il 9% sappia che è questo, e non l’Arabia
Saudita, il più grande paese musulmano del mondo). Che pensiamo (al 72%) che i
musulmani non venerino Gesù e la Madonna: il che significa che non abbiamo idea
alcuna che essi sono presenti nel Corano, che Gesù è considerato il più grande dei
profeti, l’unico capace di compiere miracoli (nemmeno Maometto, o come lo chiamano
loro, Muhammad, ne fa…), che il Corano parla persino della concezione verginale di
Maria (come oggi non solo i protestanti, ma nemmeno molti cattolici, amano
ricordare…), e che nel Corano, proprio perché riprende la rivelazione biblica, sono
nominati un po’ tutti, da Adamo ed Eva a Noè ad Abramo a Mosè e a tutti gli altri
principali personaggi che già conosciamo dalla Bibbia (noto sempre un discreto stupore
quando dico queste cose, dopo tutto banali, nelle mie conferenze…). Infine, che
crediamo che gli afghani siano arabi (il 36%, la risposta più accreditata): che è come
credere che i filippini, o gli indios guatemaltechi, o i ruandesi, in quanto cattolici, siano
bianchi e ariani.
Quando si dice la superiorità.
Ancora qualche reazione, dai giornali di oggi, alla sortita di Berlusconi. Il presidente iraniano Khatami afferma che “mani malvagie [chiedo scusa, c’è scritto
così nell’originale, ndr] e altri che non vogliono vedere il progresso di un pensiero
nuovo, stanno cercando di sfruttare la delicata situazione per alimentare uno scontro tra
l’islam e le altre religioni”. Certo, trattandosi di un iraniano, la reazione è sospetta, e
l’individuo ‘inferiore’, come sanno tutti coloro che hanno incontrato il personaggio:
avercene, da noi… Ma se non altro ci fa notare che tali sortite mettono in difficoltà
soprattutto e in primo luogo i paesi che stanno conducendo una difficile lotta interna
precisamente per non essere più, nemmeno da lontano, come li si descrive. Prodi, appena uscito dalla moschea di Bruxelles, dichiara ai giornalisti, pur senza
nominare la causa di tali dichiarazioni, che “se cominciamo a fare differenze di civiltà
siamo finiti: il futuro dell’umanità è nella cooperazione”. Ma Prodi, si sa, è un
comunista, amico dei comunisti – basta vedere la tenerezza con cui parla di D’Alema e
l’affetto che notoriamente gli manifesta, ricambiato… Non citiamo neanche le dure dichiarazioni del segretario della Lega Araba, Amr
Moussa, di cui avrà dato fastidio anche il fatto di essere intrise di una retorica
compiaciuta – molto tradizionalmente araba, se mi si consente… – ma in fin dei conti
banale; la frase più azzeccata, più rivelatrice, per noi, è stata la meno ‘politica’ e
indignata: “non si tratta mica di uno show televisivo o di una pubblicità”. Persino un improbabile amico dei musulmani come Joerg Haider si è smarcato dal
cavaliere, dicendo che “non è una guerra di civiltà”. ! 38
E allora, basta con le voci sospette. Prendiamone una che proprio sospetta non può
essere considerata, e che riesce a dire, pur in un momento difficile, una parola di
saggezza. E’ Richard Boucher, portavoce di Colin Powell, da Washington: la campagna
contro il terrorismo “riguarda la libertà e non la cultura. Non si tratta di uno scontro con
l’islam o con il mondo arabo”. Imparate, amerikani d’Italia.
Anche quelli, come Buttiglione, che, suadenti come sempre, con la lingua come un
tappeto rosso su cui il capo possa comodamente camminare, cercano di correggerlo e
interpretarlo dicendo che “Berlusconi è una persona che ogni tanto sbotta e parla il
linguaggio del cuore. Per questo dico che è un messaggio frainteso, perché era diretto
agli italiani e voleva dire loro siate orgogliosi di essere italiani, siamo una grande
civiltà”. Torna alla mente la nota battuta di Beppe Grillo: se Buttiglione è un filosofo,
allora Kant che cos’era?
29 settembre
Telefono a un amico musulmano (eh, sì, lo ammetto, ne ho qualcuno. E intendo proprio
amici veri, di quelli a cui racconti i casi tuoi più intimi e loro ti raccontano i loro). Gli
dico: “Preparati. E’ arrivata l’artiglieria pesante”. Mi riferisco al lungo articolo-invettiva
di Oriana Fallaci, che mi sono appena letto in treno, di primo mattino, in un lungo
viaggio da Napoli a Milano. “Perché gli altri sono solo articoli: questo, invece, resterà”.
Dopo averlo letto, ho sentito il bisogno di commentarlo. Con questo risultato.
! 39
Lettera alla signora Oriana Fallaci, più o meno nel suo stile
Ho letto La rabbia e l’orgoglio, il testo-manifesto che ha pubblicato sul Corriere della
Sera, con le sue riflessioni dopo la strage del World Trade Center. L’ho letto con
interesse e, glielo confesso, irritazione crescenti, man mano che proseguivo nella lettura,
che la seguivo nei suoi ragionamenti. L’ho letto, alla fine, con rabbia. E forse un eccesso
di orgoglio mi spinge a cercare di risponderle. In maniera forse irrazionale mi sento, in
qualche modo, tirato in causa: perché sugli stessi temi ci ragiono e ci lavoro da anni, e
trovo che testi come il suo facciano del male – gratuitamente, ingiustamente.
Colpevolmente. Nello stesso tempo costringono a discutere, e questo è il loro pregio
maggiore. Mi sento spinto a partecipare alla discussione. Mi ci ha spinto lei. Merita una riflessione il suo testo, signora Fallaci. Una riflessione seria e approfondita.
Anche se il testo non lo è. Più che scritto, sembra vomitato. E il risultato va di
conseguenza. Mi permetto di chiosarlo. Magari partendo anch’io – chiedo scusa se mi
metto su un piano non dico simile, ma analogo a quello di cotanta cattedra – da qualche
reazione ed esperienza personale, come molto personale, molto intimo, viscerale,
umorale direi, è il suo testo, signora Fallaci. Anche se i miei titoli sono assai più modesti
dei suoi: io mi limito ad occuparmi di immigrazione da una ventina d’anni, di islam da
una decina. E siccome lei, signora Fallaci, mette insieme per l’appunto i due argomenti,
per trarne una sua personalissima ma diffusissima morale (scommettiamo che avrà, in
proporzione imparagonabile, molti più elogi che dispregi?), forse posso buttarmici
persino io, su questo tema.
Come quasi sempre, in quanto la concerne, signora Fallaci, lo scrivere è il frutto di un
ego debordante (letterariamente può essere un pregio, a piccole dosi. Ma politicamente,
culturalmente, è un altro discorso: e qui lei pretende di fare una battaglia culturale). Lei,
per dire, non è una che intervista persone o personaggi famosi. No. Lei è una che
intervista, modestamente, la storia, come recitava umilmente il titolo di un suo libro,
appunto Intervista con la storia. La parola ‘io’ fa capolino dappertutto, centro e fine di
tutto: credo che anche quando scrive dio si senta solo la eco delle ultime due lettere…
Lo “straordinario scritto”, come viene presentato, comincia con le sensazioni provate
con il crollo delle Twin Towers. E fin qui tutto bene, e non ci entro nemmeno. Non è
questo, del resto, che è piaciuto. E’ la guerra culturale. E allora parliamone. Sorvolando
sugli errori di fatto: che so, che Beider-Meinhoff non si scrive così, e nemmeno Omar
Khayan (sembra secondario, ma è come scrivere Dante Alighiurri, o Giovanni
Bocciacco – dà subito l’idea che non se ne sa un granché, della cultura di cui si
parla…); che ci sono ventiquattro milioni di arabo-musulmani in America – sono sei
milioni, ma che importa; che Usama Bin Laden è suddito dell’Arabia Saudita, mentre
non lo è più; che “quel palestinese di nome Habash che per venti minuti mi fece tenere
un mitragliatore puntato sulla testa”, come denuncia il nome, e come sa chi di queste
cose si occupa, era un cristiano e non un musulmano, e così via. Queste sono quisquilie,
pinzillacchere, direbbe Totò. E chi mai si aspetta da un giornalista, tanto più se grande,
l’esattezza. Andiamo al sodo. Non mi viene da fare un discorso onnicomprensivo e coerente: nemmeno il suo, signora
Fallaci, del resto, lo è. Preferisco seguirla nel suo discorso. E commentarla come ho
fatto tra me e me leggendola, magari applicando il suo discorso ad altri, rovesciandolo
! 40
un po’. Augurandomi che sia l’ultima volta (ma so già che non sarà così: che se ne
parlerà, e riparlerà…).
Lei dice che ha scelto di uscire dal suo eburneo silenzio in nome di “una rabbia fredda,
lucida, razionale”, contro chi ha detto che all’America “gli sta bene”: quelli che, a suo
dire, hanno gioito. Non so chi siano, quanti siano, dove siano, non so nemmeno se ci
siano, questi intellettuali che lei non nomina, dunque nemico vago, evocato ma non
indicato. Le credo, comunque: è probabile che ci siano. Il mondo è piano di persone che
sfogano la loro rabbia, la loro impotenza, nella maniera sbagliata: lei, nel suo scritto, ne
è un esempio, signora. Chiunque siano, sono d’accordo con lei: è indecente, è
disumano, che qualcuno gioisca per queste morti innocenti. E’ vergognoso. E’ indicibile.
Ma è sulla sua reazione che mi permetto di eccepire: sul fatto che la sua rabbia sia
fredda, lucida e razionale come pretende. Almeno lo fosse! Non avrebbe
clamorosamente sbagliato bersaglio, colpendo con la sua sacrosanta indignazione, con
la sua rabbia, chi non c’entra nulla: uomini e donne, culture e religioni che non
c’entrano niente, con questi infami intellettuali con cui lei se la prende. Direi che la sua guerra guerreggiata, signora Fallaci, comincia quando lei descrive i
kamikaze suicidi. Ne parla malissimo. E fa benissimo. Lei non li considera – neanch’io,
per quel che vale – degli eroi e dei martiri, “come berciando e sputando saliva il signor
Arafat me li definì nel 1972”. Ammettiamolo. Arafat per giunta adesso bercia e sputa
peggio di prima, e magari rutta e scoreggia: in più è malato, e la malattia degli anziani
fa sempre un po’ schifo (è per quello che chiamiamo dei filippini e dei singalesi ad
occuparsene: non è roba da civilizzati farlo noi…). Ma il suo è puro soggettivismo. Di
trent’anni fa, per giunta. Che senso ha il paragone? Se è questo il livello del discorso,
beh, vediamo come ci finirebbero altri, nel mirino fallace. Non so, per dire, se il signor
Sharon bercia e sputa: non lo conosco. Non ho mai intervistato la storia. Nemmeno la
cronaca. Ma quanto a politiche sanguinarie non scherza nemmeno lui. Ma vogliamo fare
storia così? Vogliamo fare geopolitica così? Peggio, vogliamo fare cultura così? E’
rischioso. Da un lato Sharon, forse, invecchiando è peggiorato, mentre Arafat
perlomeno non li rivendica più pubblicamente, quei morti. Ma, per dire, Bin Laden non
bercia e non sputa, e al suo confronto, se si parla di stile, la maggior parte dei politici
nostrani (e anche Bush) ci fanno la figura dei plebei a Versailles. Vogliamo dedurne che
Bin Laden è migliore?
Qui viene fuori il primo riferimento al Corano, e al suo Paradiso: “il Paradiso dove gli
eroi si scopano le Urì”. Anche nella Bibbia, a volerli trovare – e non è difficile – ci sono
episodi assai poco edificanti: ci sono personaggi mica da poco che – certo, peccando, e
come peccati sono stigmatizzati, e sono occasione di ravvederersi, ma intanto… – si
scopano le figlie, si sbronzano come carrettieri, sbattono i legittimi mariti delle donne
che desiderano in prima fila per farli morire in battaglia e sbattersi liberamente pure le
mogli loro, ingannano mentono e uccidono che è un piacere. Proprio come nel Corano.
Cosa vogliamo dedurne? siamo ancora lì? l’opinione laica (anzi, laicista: si definisce
così lei stessa, signora Fallaci) non sa proprio trarre altro da un libro considerato sacro?
non sa leggerlo che in questo modo? e allora perché diavolo ne parla?
Poi dice qualcos’altro sui kamikaze del suo libro Insciallah (così non ci dimentichiamo
di rileggerlo, o di comprarlo se ancora, imperdonabilmente, non l’avessimo fatto). Che
sono vanesi: “che baffi impomati, che barbetta leccata, che basette civettuole…” Vabbè,
ma che dimostra? Perché, gli araldi della civiltà non si impomatano? Non sono vanesi?
Il cerone, lo sfondo giusto, il colore che ne fa risaltare l’abbronzatura, i capelli tinti, e
! 41
magari maggiorati di numero, che so, a caso, del cavaliere? ma dimostra qualcosa,
questo? se non, al massimo, che gli esseri umani, terroristi o no, sono vanesi? Geniale! E dopo questa scoperta straordinaria: “Eh! Chissà come friggerebbe il signor Arafat ad
ascoltarmi”. Non abbiamo dubbi. Senz’altro lo farà. Cosa vuoi che abbia da fare, in
questo momento, di più importante, cosa vuoi che lo faccia friggere, tra un attentato al
suo braccio destro e una decina di cadaveri al giorno tutto intorno? La Fallaci, che
diamine! “Ergo, non ci frequentiamo più. Peccato. Perché se lo incontrassi di nuovo, o
meglio se gli concedessi udienza, glielo urlerei sul muso chi sono i martiri e gli eroi”.
Lasciamo pure perdere il tono, la totale perdita di senso della misura e del ridicolo. Ma
la domanda è un’altra, politica: che c’entra Arafat? Perché parlandone così, a proposito
delle Twin Towers, vuol dire che si instaura un legame tra i due argomenti. Mi
piacerebbe sapere cosa ne pensano gli amici americani della Fallaci, visto che Bush si è
dato tanto da fare per tirare quel terrorista che bercia e sputa nella sua alleanza contro il
terrorismo, e ha fatto bene. Perché non scrive un’invettiva anche a lui, di cui pure parla
così bene nel suo articolo? Per inciso, fare questo incauto e irresponsabile esercizio
proprio adesso è come dire che gli americani se la sono voluta. Si mette sullo stesso
piano delle persone che più sembra detestare, signora Fallaci. Ma al posto che le spetta,
nel mezzo della scena, naturalmente: ben sotto i riflettori, pronta a raccogliere gli
applausi che, non dubito, arriveranno numerosi, pericolosamente acritici e unanimi.
Poi è la volta dell’invulnerabilità dell’America. Come lei ben dice, è giusto il contrario.
Ci si sente più sicuri, nelle dittature, nei regimi militari. Tranne se si è loro nemici,
come lei. Tutto vero. Compreso il dire che il rischio attentati, dunque, era reale, che
“non è mai stato un problema di ‘se’: è sempre stato un problema di ‘quando’”. Ma,
signora mia, perché esporsi al ridicolo di pretendere che lei lo sapeva, che lei, dall’alto
delle sue capacità divinatorie, l’aveva previsto? “Perché credi che martedì mattina il
mio subconscio abbia avvertito quella inquietudine, quella sensazione di pericolo?
Perché credi che contrariamente alle mie abitudini abbia acceso il televisore? Perché
credi che fra le domande che mi ponevo mentre la prima torre bruciava e l’audio non
funzionava, ci fosse quella sull’attentato? E perché credi che appena apparso il secondo
aereo abbia capito?” Miracolo… Anche se, lo ammetta, almeno le ultime due erano già
più faciline: forse altri trenta o quaranta milioni di americani avranno pensato più o
meno lo stesso, nello stesso momento. Ma quanto alle prime due, davvero, chapeau!
Perché la prossima volta non avvisa anche l’FBI o la CIA? Ne avrebbero avuto bisogno,
vista la figura che hanno fatto. Gli sarebbe stata utile.
Ma veniamo al punto serio (è che è difficile ritrovarli: ci si perde…), al punto critico,
delicato. Lei dice, giustamente, ed è un merito degli Stati Uniti (io li chiamo così), che
“la vulnerabilità dell’America nasce proprio dalla sua forza, dalla sua ricchezza, dalla
sua potenza, dalla sua modernità”. E avrebbe potuto aggiungerci, con molte ragioni, dal
suo grado di libertà, dalla democraticità delle sue istituzioni. “Nasce anche dalla sua
essenza multi-etnica, dalla sua liberalità, dal suo rispetto per i cittadini e per gli ospiti.
Esempio: circa ventiquattro milioni di americani sono arabi-musulmani”. Appunto. A
parte il fatto che i musulmani negli Usa non sono ventiquattro milioni, ma sei, e lungi
dall’essere tutti arabi, visto che circa il quaranta per cento di essi sono afro-americani,
cioè, uscendo da un linguaggio politically correct che lei certamente disprezzerà e forse
non chiaro, negri con cittadinanza americana che vivono in quel paese da prima della
maggior parte dei bianchi che ci vivono ora, come lei (non so quali sono le sue fonti, ma
conosco benissimo le mie, e sono le più accreditate). Ma a parte questo, che è dopo tutto
! 42
un dettaglio (grande come un terzo della popolazione italiana, ma fa niente…): come
osa, allora, scrivere: “Nessuno gli proibisce d’iscriversi a un’Università (cosa che spero
cambi) per studiare chimica e biologia: le due scienze necessarie a scatenare una guerra
batteriologica”? come, come? Intanto, ho letto bene: cosa che spero cambi? Giusto,
introduciamo l’apartheid, la selezione su base religiosa: un’autentica posizione
democratica! Ma a parte questo, lo sa che questi musulmani non solo studiano, ma
lavorano nei laboratori di chimica e di biologia (e di fisica, e di informatica, e di…, e
di… – e, vergogna, alcuni insegnano persino all’università, a dei bianchi ariani
americani forse cristiani!), e sono precisamente quelli (gli eroi e i pionieri, dovrei dire,
utilizzando il suo aulico linguaggio) che fanno dell’America (io continuo a chiamarli
Stati Uniti, ma fa niente) quella che è? Mai sentito parlare di brain drain? Cosa crede,
che ci perdano, a farli lavorare? Che lo facciano per (diciamo: solo per) generosità,
bontà, apertura mentale, gusto della democrazia? E allora perché secondo lei cercano di
lasciar fuori i poveracci non laureati che tutti i giorni tentano di attraversare la green
line tra Messico e Stati Uniti? Ma dove vive? A New York, sicura? Ma già, il direttore
del giornale su cui lei scrive, lo dice, in apertura, che lei “non risponde al telefono, apre
la porta di rado, esce assai di meno”. Gli credo sulla parola. Non mi spiego altrimenti
tanta distanza dalla realtà.
Nessuno, dicevamo – anzi, diceva – gli proibisce d’iscriversi all’università: “Neppure se
il governo teme che quel figlio di Allah dirotti il 757…” Complimenti, ancora una volta,
per la finezza di dire figli di Allah come se dicesse figlio di un cane o figlio di puttana:
tutti i figli di Dio di questo mondo (Allah vuol dire questo: al-lah, il Dio, equivalente
del nostro Iddio) le sono grati. Profondo, poi, il giudizio sugli alti papaveri dell’intelligence: “Se fossi il presidente
degli Stati Uniti io li caccerei tutti a pedate nei posteriori per cretineria”. La mitica
casalinga di Voghera, riferimento ossequiato di ogni giornalista che si rispetti, non
avrebbe saputo dir meglio. Ma se era così ovvio, non è strano che il presidente non
l’abbia fatto? E a proposito, non ci ha fatto nemmeno un pensierino, facendo violenza
alla sua proverbiale modestia, a farglielo sapere, almeno, il suo illuminante parere?
Nulla da eccepire, anzi, alle lodi all’efficienza dell’America, al suo patriottismo, al
ruolo di Rudolph Giuliani, al fatto che l’America è un paese speciale, e quant’altro. Ci
mancherebbe. Fa un po’ sorridere, solo, in qualche punto, la sua comparazione in
negativo – che, esterofilo come quasi tutti gli italiani, e forse per provincialismo come
quasi tutti, tenderei a condividere – con l’Italia: “Si odiano anche all’interno dei partiti,
in Italia”. In America, invece… Ma non l’hanno inventata loro la campagna elettorale
all’ultimo sangue? Ha presente l’ultima? E i presidenti assassinati, e quelli feriti: erano
stati i fondamentalisti islamici? Ma questo, davvero, è uno stupido, secondario dettaglio.
Torniamo all’islam.
Lei ci mette in guardia. “Con i figli di Allah la faccenda sarà dura. Molto lunga e molto
dura. Ammenocché il resto dell’Occidente non smetta di farsela addosso. E ragioni un
po’ e gli dia una mano”. A chi, scusi? All’America? Ma se Bush si è scomodato a
togliersi gli stivali e il cappello da cowboy nella moschea di Washington per dire che la
sua non è una guerra all’islam, bacchettando perfino il fido alleato e amico Berlusconi,
quello che è d’accordo con lui prima ancora di sapere se lui è d’accordo con se stesso…
Lei ci dice: “sveglia, gente, sveglia! Intimiditi come siete dalla paura d’andar contro
corrente cioè d’apparire razzisti (parola oltretutto impropria perché il discorso non è su
una razza, è su una religione [appunto, signora: non si rende conto che forse è persino
! 43
peggio? Anche l’ebraismo è una religione, non una razza: non le dice niente? E chi
voleva smarcarsi dalla rozzezza del discorso razzista, ma detestava comunque gli ebrei,
usava per l’appunto l’argomento religioso, apparentemente più pulito, ma ancora più
insinuante. Signora, ma che dice?, ndr]), non capite o non volete capire che qui è in atto
una Crociata alla rovescia”. Ah, sì? A me veramente, a sentir lei, sembrava una Crociata
per dritto, di quelle normali…
“Abituati come siete al doppio gioco, accecati dalla miopia, non capite o non volete
capire che qui è in atto una guerra di religione. Voluta e dichiarata da una frangia di
quella religione, forse [forse? Vuol dirci allora subdolamente che in realtà ce l’hanno
dichiarata tutti? ndr], comunque una guerra di religione. Una guerra che essi chiamano
Jihad. Guerra Santa. Una guerra che non mira alla conquista del nostro territorio, forse,
ma che certamente mira alla conquista delle nostre anime. Alla scomparsa della nostra
libertà e della nostra civiltà”. Ecc. ecc. Anzi, continuiamo: non vorrei essere accusato di
citare parzialmente: “All’annientamento del nostro modo di vivere e di morire, del
nostro modo di pregare o non pregare, del nostro modo di mangiare e bere e vestirci e
divertirci e informarci… Non capite o non volete capire che se non ci si oppone, se non
ci si difende, se non si combatte, la Jihad vincerà”. Ecc. ecc., perché comunque il succo
è quello, ed è inutile ricopiare tutto.
Ci provo, pacatamente. E’ del tutto evidente, signora mia, che ci siano degli sciagurati,
armati e pericolosi, che hanno dichiarato un (la parola, scusi la pedanteria, in arabo è
maschile) Jihad contro l’occidente, che vogliono colpire il nostro modello di vita e noi
stessi, che non hanno nessuna pietà per gli incolpevoli, che ci considerano così meno
che uomini e donne che non hanno nessuna preoccupazione di ammazzarne. Sarebbe
difficilmente eccepibile, dopo quello che è successo, non le pare? Immagino perciò che
lo pensino tutti: si figuri, lo penso anch’io. E non c’è dubbio che questo sia un pericolo
grave, gravissimo, terribile: si figuri, lo penso anch’io. E che dobbiamo reagire: con
forza, con durezza, con determinazione. Si figuri: lo penso persino io. Ma con
intelligenza, anche (e non mi azzardo neanche a dire: con giustizia). Cosa c’entra però
tutto questo con il dichiarare un contro-jihad culturale nei confronti dell’islam? Gliela
butto lì: negli Stati Uniti ci sono alcune migliaia di disgraziati, armati e pericolosi, che
hanno dichiarato guerra, per tutt’altri motivi, al medesimo sistema, magari in nome di
un conservatorismo bianco, razzista, che rivendica una ispirazione e un fondamento
cristiano (Waco, Oklahoma City, Ku-Klux-Klan, tanto per dire dei nomi più o meno a
caso). Combattiamoli. Con durezza. Ma dovremmo per questo dichiarare guerra al
cristianesimo? O solo a quelli che l’hanno capito male? Potrà spiacerle, perché non si
accorda con il suo quadro in bianco e nero, ma per l’islam è uguale. Un altro esempio:
ci sono dei pazzi, armati e pericolosi, e non meno sanguinari, che in Israele (e anche in
America) pensano che tutti gli arabi, o i palestinesi, o i musulmani (di solito, non fanno
sottili differenze, anche se ce ne sono) siano dei sottouomini che meritano di morire, la
cui vita non vale nulla, che sono arrivati a sterminare decine di musulmani proprio
mentre pregavano sulla tomba di un comune patriarca (il nome di Baruch Goldstein,
non più santo di Osama Bin Laden, le dice niente? Ma ce ne sono anche nelle scuole
religiose e nell’esercito, di uno stato che pure è democratico, di questi individui…), che
sono arrivati ad uccidere il loro primo ministro (conosce il nome di Ytzhak Rabin, e
quello di Igal Amir, il suo assassino? E sa che come lui ce ne sono tanti, che lo
considerano – il secondo – niente meno, un santo, come Goldstein, e come alcuni
musulmani considerano Bin Laden?), colpevole di voler trattare una pace anziché
! 44
continuare a sterminarsi a vicenda? Dovremmo per questo chiamare al jihad contro
l’ebraismo, o solo combattere, con durezza, con determinazione, quelli che l’hanno
capito male, che lo tradiscono? E, tanto perché il suo ateismo un po’ rozzo e molto
manicheo non la spinga a dire che questi sono frutti impazziti delle sole religioni, le
ricordo che in questo momento, sulla terra, ci sono migliaia di persone che farebbero lo
stesso, e lo fanno, e commettono stragi, e commissionano attentati, e stuprano, e
distruggono, in nome della religione, sì, ma anche della razza, della tribù, della nazione,
della patria, dell’ideologia, della fratellanza mafiosa, o del denaro, o semplicemente di
se stessi. Dobbiamo colpire loro. Ma stiamo attenti con le generalizzazioni. Non si
rende conto, poco gentile signora, che l’islam, per dire, è quella stessa religione che fa
invece vivere in pace e nel timor di Dio centinaia di milioni di persone? E lo stesso si
può dire del cristianesimo, dell’ebraismo, dell’hinduismo, del buddhismo, o di quello
che vuole lei? Non la sfiora nemmeno il dubbio – a me sì, spesso – che se non ci fosse
l’islam queste persone potrebbero essere non migliori ma peggiori? Anche se gli
portassimo la nostra idea di libertà e i nostri beni di consumo che del resto, per lo più,
non si potrebbero permettere, né l’una né gli altri?
“Io sono atea, graziaddio. E non ho alcuna intenzione di lasciarmi ammazzare perché lo
sono”. Signora, stia pure tranquillamente immersa nei suoi pregiudizi, tanto gratificanti
per la sua superiorità morale e culturale. Ma non ci ammorbi, non ci chiami a guerre, le
sue, che non abbiamo nessuna intenzione di combattere. Perché, semplicemente, non
sono in corso – non ancora, almeno: anche se non so come sarà il futuro, se molti
finiranno per condividere le sue opinioni. In caso, mi dichiaro obiettore di coscienza fin
d’ora. Posso anche decidere di combattere una guerra, per esempio contro la stupidità:
ma mi riuscirebbe difficile combatterla dalla parte degli stupidi. Che, come spesso
succede, si ritengono più intelligenti degli altri: anzi, superiori, come è stato detto in
questi giorni. Comunque, si tranquillizzi. Nessuno, spero, vuole ammazzarla, tanto
meno perché è atea. Muoiono quasi solo gli innocenti, quelli che non c’entrano niente,
nelle guerre, come negli attentati terroristici: non se ne è accorta?
“Da vent’anni, lo dico, da vent’anni”. Un’altra che ‘ve l’avevo detto, io’. Anche se le
do’ ragione su quello che dice dell’Afghanistan di vent’anni fa, che stava meglio sotto i
sovietici. Ma, lo diceva lei prima, a proposito degli americani, che la libertà è
insopprimibile. Loro non ci hanno voluto stare comunque, sotto i sovietici.
Probabilmente non vogliono stare neanche sotto i talebani. Non le viene in mente che
quello che succede è colpa di un governo, non di una popolazione? E chissà, magari da
questa storia potrebbe venirne fuori un Afghanistan migliore, più libero: qualcuno,
almeno, ci guadagnerebbe.
Lei ha ragione a dirci che quello che è successo all’America riguarda anche l’Europa,
che “l’America siamo noi. Noi italiani, noi francesi, noi inglesi…” Mi pare che sia
appunto quello che sta succedendo. Lo sappiamo bene che “se crolla l’America, crolla
l’Europa. Crolla l’Occidente, crolliamo noi”. Ha ragione. Ma cosa le fa pensare che non
ce ne siamo accorti? Non ha visto la prontezza della risposta dei governi europei, della
NATO, e anche di tanti altri paesi del mondo, non occidentali, persino musulmani, che
hanno meno da guadagnarci?
Ma non c’è bisogno di incitarci con quella triviale leggerezza che la trascina. “E al
posto delle campane ci ritroviamo i muezzin, al posto delle minigonne ci ritroviamo il
chador, al posto del cognacchino il latte di cammella”. A parte che un po’ di latte di
cammella in più e un po’ di cognacchino in meno non potrebbe che farci bene (e a
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scanso di equivoci, glielo dice un enofilo dichiarato e non pentito), da dove le viene
questo (quest’altro: non vada ad accendere la tv proprio adesso, per carità…)
presentimento? Non le sembra un ridicolo terrorismo psicologico? Ma dove li vede i
segni del trionfo del latte di cammella e del chador? Da noi, per giunta? E quanto alle
campane, se abbiamo smesso di suonarle, ben prima che sapessimo cosa significava la
parola muezzin, perché in città disturbano, beh, guardiamoci dentro, non fuori. Si guardi
dentro anche lei, incidentalmente.
E per farci capire l’importanza del suo discorso, prosegue: “Blair lo ha capito. E’ venuto
qui e ha portato anzi rinnovato a Bush la solidarietà degli inglesi. Non una solidarietà
espressa con le chiacchiere e i piagnistei: una solidarietà basata sulla caccia ai terroristi
e sull’alleanza militare”. Sono d’accordo. Ma non si accorge che questo non è in
contraddizione con altre cose che ha fatto Blair? Gliene racconto qualcuna: lungi dal
chiamare al jihad, Blair ha incontrato ripetutamente i responsabili musulmani del Regno
Unito; si figuri che orrore: ha nominato la bellezza di quattro Lords musulmani che oggi
hanno un seggio in quel venerato tempio della democrazia occidentale, sulle rive del
Tamigi, che è la House of Lords (e, lo sa?, hanno ottenuto di poter giurare fedeltà alle
leggi dello stato e al regno di sua maestà sul Corano anziché sulla Bibbia, e oggi nello
stesso edificio c’è anche una piccola sala di preghiera musulmana, oltre che una
cappella e una sinagoga); pensi un po’: ha addirittura lasciato che i musulmani
festeggiassero la fine del digiuno di Ramadan in Downing Street, poi è andato a
congratularsi con loro, e quando questi gli hanno offerto in dono un Corano ha risposto
che lo conosceva, che l’aveva letto durante le vacanze di Natale. Un doppiogiochista? O
non è proprio questo che fa la grandezza dell’Inghilterra? E infatti, posso dirglielo? non
si offende? E’ proprio perché Blair, invece di chiamarci al jihad, come fa lei, ha fatto
quello che le sto raccontando, e molto altro, che oggi nel Regno Unito la stragrande
maggioranza dei musulmani che lì vivono e che pur provengono in gran parte da aree ‘a
rischio’ (India, Pakistan, Bangla Desh) sostiene con convinzione la lotta al terrorismo e
a Bin Laden (un po’ meno l’idea di bombardare l’Afghanistan. Ma come dar loro torto?
Sono i loro vicini di casa…). Proprio perché sanno che non è rivolta contro di loro. Non
le dice niente, questo? Mi sa che i cattolici d’Inghilterra erano assai meno convinti delle
buone ragioni del governo inglese, quando si trattava di Irlanda del Nord: eppure gli
anglicani come Blair e chi l’ha preceduto si sono limitati a combattere l’Ira, non hanno
chiamato al jihad anticattolico – nemmeno, per dire, quando l’Ira ha messo a ferro e
fuoco Londra e fatto saltare per aria Lord Mountbatten, riducendolo in una cenere
altrettanto fine di quella in cui sono ridotti i poveri cadaveri delle Twin Towers. Non le
dice niente nemmeno questo?
Lei, gentile signora, si rivolge poi all’Italia, la cui situazione conosce così bene. E
rimprovera questo tapino di paese perché “il governo non ha individuato quindi
arrestato alcun complice o sospetto complice di Usama Bin Laden. Perdio, signor
cavaliere, perdio!”. Beh, lasci che per una volta sia io ad assolvere il cavaliere (perdio!).
Mi consenta di togliermi questa soddisfazione, così rara. L’ha fatto. Sono fiero di
dirglielo. Come sono fiero di dirle che questo è successo persino prima dell’attentato
alle Twin Towers. E persino da parte del governo che ha preceduto quello del cavaliere,
tanto per non accusare a vanvera il centro-sinistra di aver coperto il terrorismo islamico.
Sono state fatte fior di operazioni. Tanto che anche gli arresti effettuati in Spagna e in
Francia in questi giorni nascono, pare, da un’inchiesta iniziata in Italia. Basta leggersi i
giornali di ieri e dell’altro ieri. Ma, detto questo, a che titolo, dall’alto di quali
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informazioni, si permette di dire che invece “in Italia dove le moschee di Milano di
Torino e di Roma traboccano di mascalzoni che inneggiano a Usama Bin Laden, di
terroristi in attesa di far saltare in aria la cupola di San Pietro, nessuno. Zero”.
Scommetto che non c’è mai stata, in queste moschee. Scommetto che non ne conosce
neanche l’indirizzo. Ma questo è il meno. Scommetto che la sua è solo un’idea, senza
uno straccio di pezza d’appoggio. E allora, ripeto, come si permette? Con che autorità?
Ma sono sicuro che lei, che è una grande giornalista, un fine segugio, delle piste le ha di
certo, dei suggerimenti concreti, delle indicazioni. Perché, signora mia, non le passa ai
magistrati le sue certezze? Timore che le ridano dietro? Magari anche gli stessi che delle
indagini contro il terrorismo, e non è giusto non ricordarli, le hanno fatte, invece? Ma
indagini, serie, non congetture. Il Blair che lei ha evocato non la farebbe mai, né la
direbbe mai, una sciocchezza del genere. Anche se non è meno fermo di lei nella lotta al
terrorismo e nella solidarietà all’America: anzi, se mi permette, sospetto che lo sia di
più – con i fatti, come dice lei.
Lei, per sua fortuna – gliele invidio, queste caterve di certezze, pur così friabili: davvero
– sembra aver capito tutto, di cosa siamo, noi italiani non emigrati in America, e noi
occidentali non proni alla logica manichea del bianco e del nero: “Masochisti, sì,
masochisti. Perché vogliamo farlo questo discorso su ciò che tu chiami [il tu
immaginiamo si riferisca al direttore del Corriere: e così sappiamo, per usare una
terminologia guerresca che noi abbiamo pena ad utilizzare ma che forse piacerà alla
gentile signora, chi è il mandante di questa guerra culturale, ndr] Contrasto-fra-le-DueCulture? Bè, se vuoi proprio saperlo, a me dà fastidio perfino parlare di due culture”.
Non ho più niente da dire, nulla da aggiungere. E’ inutile discutere su questo piano.
Siamo al livello delle sortite del cavaliere, che non sono in nulla diverse, nemmeno
peggiori (complimenti, cavaliere: è al livello di una scrittrice tradotta in tutto il mondo,
una che nel tempo libero intervista la storia. A proposito, l’ha intervistata? Se non
l’avesse ancora fatto, sarebbe strano…). E la riflessione si fa in silenzio, nel chiuso delle
stanze, non nei libelli. Non tenterò nemmeno di convincere nessuno. Mi limiterò a dire
che, sulle nostre carte geografiche, una volta si scriveva hic sunt leones, per indicare le
terre incognite (incognite per noi). Poi, con gli anni, con i secoli, si è scoperto che non
c’erano solo i leoni. Che c’erano persino delle culture – oso dirlo, mi perdoni, se può. Aggiungo perfino, suprema blasfemia, che non c’è niente che mi farebbe più paura di
un mondo composto solo di occidentali, tutto occidentalizzato, un mondo fatto di
persone tutte e solo uguali a noi (noi chi, poi? Ha presente la differenza che c’è, per
dire, tra me e lei? Chi oserebbe dire che sarebbe meglio ci fosse solo uno dei due? I
totalitaristi, i fascisti, i fondamentalisti: questi, forse, lo direbbero, signora Fallaci). Non
credo, francamente, che sarebbe un mondo migliore. Credo che sia per le culture, e
persino per le religioni, come è per la biodiversità. E’ vero che i tonni sono buoni da
mangiare, e gli squali attaccano l’uomo, ma se l’immagina un mare abitato solo da
tonni? E se in aria i fagiani sono belli da sparargli addosso (a qualcuno piacciono solo
per quello), e le mosche danno noia (ma forse servono anche a qualcosa, solo che
siccome danno noia a noi, e noi tendiamo sempre a metterci al centro del mondo,
esercizio di cui lei, signora, è un’eccellente esempio…), se l’immagina un cielo abitato
solo da fagiani? E una terra abitata solo da vacche, che sono utili, perché si mangiano e
danno il latte, e di maiali, naturalmente, non foss’altro che per far dispetto all’islam? Di
più, signora: non solo credo che la diversità sia utile, e bella persino – credo che questa
diversità abbia un senso. E mi spaventano le certezze di quelli che appartengono a una
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cultura che dicono comune di noi tutti civilizzati occidentali (ancora una volta: noi chi?
Per fortuna so che questa omogeneità non esiste…), quelli insomma che dicono noi
includendo me (faccio obiezione di coscienza anche a questo): questo, signora mia, mi
fa paura. Ah, a proposito, giusto per ricordarglielo: tra quelli che pensano che tutti
dovrebbero essere come lui, e che certe religioni, ma non la sua, sono opera del
demonio, c’è anche Bin Laden. Se ne è accorta, signora? Le sue opinioni e la sua cultura
sono tutte diverse da quelle di Bin Laden. Ma il suo sistema di pensiero, da questo
punto di vista, è sorprendente simile. Ci rifletta, se può. Anche se c’è una differenza, e
cruciale, tutta a suo favore: Bin Laden passa dalle parole ai fatti, lei no. Anche se forse
altri, confortati dalle sue parole, lo faranno per lei. Magari non così alla grande: ma
anche una piccola violenza è comunque una violenza in più, buttata in un mondo che di
tutto avrebbe bisogno tranne che di questo.
Lo so anch’io che dietro alla nostra cultura c’è la Grecia, Omero, Aristotele, Fidia,
l’antica Roma, e il suo straordinario sistema di leggi, e poi Cristo (grazie per averlo
ricordato: molti lo dimenticano, quando fanno l’elenco…), Galileo, il Rinascimento,
Michelangelo, Bach, Beethoven, la Scienza. Per inciso: lei ricorda, con toccante
riferimento personale, che lei è “ancora viva, per ora, grazie alla nostra scienza: non
quella di Maometto”. Mi perdoni, ma il paragone è stupido: non è neanche la scienza di
Cristo, se è per quello, e nemmeno di Buddha. Ma dia un’occhiata a una storia della
scienza, scritta da un’occidentale. E anche a una storia della medicina. Forse avrà modo
di ricredersi, sul fatto che gli scienziati ‘di là’ – non voglio neanche dire musulmani,
anche se lo erano – non c’entrano proprio niente, con questa storia (con gli strumenti
che usava e le idee che aveva Galileo, per dire, visto che lo tira in ballo), e anche col
fatto che lei è ancora viva. Non voglio proprio mettermi a fare l’elenco, anche se lo
conosco. Quello che mi domando è: cosa dimostra? Cosa dimostra davvero, se non che i
sapienti, i saggi e gli scienziati di un tempo, di qualsiasi latitudine – ci includa per
esempio cristiani ebrei e musulmani dei secoli che furono – sapevano prendere, rubare il
meglio della grandezza altrui, mentre noi oggi ci pasciamo della nostra, abbiamo perso
la capacità di guardare al di là del nostro naso, stando almeno a scritti come il suo? E a
proposito, tanto per essere crudi, visto che è lei a tirare in ballo l’argomento: sarei
pronto a scommetterci una bella cifra (parola, tra le tante, che ci viene dall’arabo, ma
lasciamo perdere…) che tra le persone che oggi lavorano nei laboratori che producono
le medicine che la tengono viva ci sono anche persone di religione islamica. Ma anche
questo non dimostra nulla, nemmeno a favore dell’islam. Il problema è che l’islam,
semplicemente, non c’entra nulla con questo discorso, come non c’entra il cristianesimo
o l’ateismo. Questa è la grandezza della scienza. E, se vuole, dell’America: saper
integrare le differenze lasciandole tali, saperle far collaborare. Perché vuole rovinarci
questo splendido spettacolo?
Mi viene da piangere, a dover commentare le sue ‘argomentazioni’ a proposito del
Corano. Ma sento di doverlo fare, per quello che posso. E’ il bello dell’occidente, che ci
siano opinioni diverse a confronto, anche se qualcuno preferirebbe il pensiero unico,
così tranquillizante, così più facile da gestire. Per cui lo farò: limitandomi a dire che, se
lo legge così, in questo modo preconcetto, superficiale e polemico, può sbatter via tutti i
libri sacri del mondo, che costituiscono la sua maggiore ricchezza culturale, quella cui
attingono quotidianamente miliardi di uomini, una ricchezza viva, dunque, non morta:
non solo il Corano, quindi, ma la Torah, i Vangeli, le Upanishad, la Bhagavad-Gita, su
su fino, perché no, ai testi Baha’i e al libro di Mormon (a proposito, signora: anche i
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Mormoni sono poligami, e le donne mormone così “minchione”, come dice lei con la
consueta eleganza, “da sposare uno stronzo che vuole quattro mogli” – i Mormoni, per
la cronaca, ne possono avere anche di più…: ma non è un buon motivo per dichiarare
guerra allo Utah, che mi pare sia negli Stati Uniti, anzi uno degli Stati Uniti. E infatti gli
americani se ne guardano bene). Per inciso, argomento cui forse sarà sensibile: letti in
questa maniera (ricordo: preconcetta, superficiale e polemica) tutti i libri troveremmo
modo di buttarli a mare, non solo quelli sacri – anche, persino, i suoi.
Lei ci dice dunque tutto il male possibile dell’islam, condito da una dose da cavallo di
fiele, per dirci che, se le loro donne sono così minchione, e i loro uomini così grulli
(così dolce questo bell’aggettivo toscano, così affettuoso, in fondo, e tenero, che stona,
in mezzo agli altri), peggio per loro: “Non sarò io a impedirglielo. Ci mancherebbe
altro. Sono stata educata nel concetto di libertà, io”. Ah, meno male. Questo ci
tranquillizza. Anche se sorge spontanea la domanda: si riferisce anche a quella degli
altri? “Ma se pretendono d’imporre le stesse cose a casa mia… Lo pretendono”.
Ebbene, è proprio qui il punto: chi lo pretende? Osama Bin Laden, appunto, come lei
ricorda: e infatti gli stiamo facendo una giusta guerra, che poi è semplicemente
autodifesa. Ma lei ci dice: “Però la cosa non si risolve, non si esaurisce, con la morte di
Usama Bin Laden. Perché gli Usama bin Laden sono decine di migliaia, ormai, e non
stanno soltanto in Afghanistan o negli altri paesi arabi [l’Afghanistan non è arabo,
signora…, ndr]. Stanno dappertutto, e i più agguerriti stanno proprio in Occidente.
Nelle nostre città, nelle nostre strade, nelle nostre università, nei gangli della
tecnologia”. Sembra un film di Carpenter, signora. Gli alieni sono dappertutto. Ma lei
non stava facendo un discorso culturale? Da dove le viene questa paranoia? Dove li
vede, tutti questi nemici, lei che sta tutto il giorno in casa (o è il contrario: sta in casa
proprio perché vede nemici dappertutto)? Se lo lasci dire, signora: ma che ne sa? Ci
vada a parlare, a mangiare la pizza, si documenti insomma: è il minimo che si possa
chiedere a una che scrive. Perché se no il suo discorso è esattamente uguale e speculare
– e lo è, è proprio questo – a quello di coloro che vedono ebrei dappertutto, complotti
sionisti dappertutto, o comunisti dappertutto, o fanatici musulmani dappertutto. E’
uguale. E direi che sono questi i nemici più pericolosi dell’occidente che, invece, amo
io. E mi dispiace di dover annoverare anche lei nella truppa. Ha proprio ragione,
signora: il nemico è tra noi. Peggio, è dentro di noi – è noi. Lei dice: “Trattare con loro è
impossibile. Ragionarci impensabile. Trattarli con indulgenza o tolleranza o speranza,
un suicidio. E chi crede il contrario è un illuso”. Appartengo alla categoria degli illusi.
Ma, le assicuro, neanche trattare e ragionare con quelli come lei è uno scherzo. Anzi, ha
proprio ragione: è impensabile. Devo solo sperare che non diventiate maggioranza. E
ringraziare Dio perché lei non è il presidente neanche di un bruscolino.
Poi ha tutte le ragioni di sacramentare contro gli idioti, o gli assassini, e i carnefici, che
ha incontrato nella sua avventurosa vita. Che siano gli imbecilli dell’ambasciata
iraniana di cui lei parla, o quelli ancora più imbecilli che incontrò a Teheran ai tempi di
Khomeini, o i fanatici che ha visto all’opera in Bangladesh. Ma ancora una volta, non si
fa così la storia, e tanto meno la storia delle culture. Per dire, Khomeini è morto: non
gliel’hanno detto? E le stesse cose, o peggio, le facevano Pol Pot, o Mao, che non erano
musulmani, o magari Pinochet, per tutta la sua vita di onesto dittatore, e anche dopo,
convinto di essere un buon diavolo di cristiano – dunque, che cosa dimostra? Lei cita
poi un mostruoso episodio accaduto in Bangladesh, dove al grido di “Allah akbar” le
folle giustiziavano e calpestavano dei poveri disgraziati, colpevoli ai loro occhi di
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immoralità. E’ terribile, ed è doveroso denunciarlo, e fare in modo che non accada più,
anche. Fa bene a farlo. Ma lei fa il paragone solo con le orde del Colosseo di duemila
anni fa. Ne potrebbe fare di più recenti. In Rwanda si sono allegramente massacrate tra
di loro quasi un milione di persone, orrendamente mutilate a colpi di machete, stuprate,
bruciate vive, pensi un po’, persino dentro le chiese: le sembrerà strano, ma non c’era,
né tra i carnefici né tra le vittime, nemmeno un musulmano. E, anzi, in questo momento,
tra quelli accusati di strage e incitamento alla violenza c’è pure un prete. Cosa dimostra,
questo? Che l’islam è una religione di angioletti? No di certo. Che il cristianesimo è una
religione di perfidi assassini? No di certo. Cosa dimostra, allora? Appunto, nulla. Come
i suoi discorsi sull’islam.
Fine del discorso? Purtroppo no. Il peggio, in certo qual modo, deve ancor venire.
Perché lei adesso passa da un discorso sull’islam a un discorso sull’immigrazione.
Velenoso. Vergognoso. Indegno. Perché fa uno slittamento di significati illegittimo
anche concettualmente. Posso dirlo? Non c’entrano niente, gli immigrati: per la
semplice ragione che non sono immigrati perché musulmani, e nemmeno il contrario.
Sennò cosa dovremmo dire, che so, delle puttane nigeriane: che lo sono perché animiste
o cristiane (o anche musulmane) o tutt’e due? Che pena, signora Fallaci. Per lei.
Vediamolo, il suo sapiente discorso. Lei ci racconta di un episodio indegno. Che, manco
a dirlo, l’ha vista protagonista nella sua soluzione. Lei ci racconta di quando un anno fa
un gruppo di somali eresse una tenda, che rimase sul posto per tre mesi, in pieno centro
di Firenze, in piazza San Giovanni, tra l’Arcivescovado e il Battistero, per protestare
contro il nostro ministero degli esteri che non riteneva validi i passaporti concessi dopo
il ’91. Guardi, signora Fallaci, voglio entrare nel merito. Per dirle che sono d’accordo
con lei. Per dirle che è stata una vergogna, dal punto di vista estetico, della sporcizia,
del degrado urbano, della convivenza civile. Ma sbaglia ancora una volta bersaglio.
Quella tenda è ‘musulmana’ come io sono mio zio: l’islam c’entra meno che nulla. Non
l’hanno eretta in quanto musulmani, anche se musulmani, e nostri ex-colonizzati, lo
erano, e forse qualche motivo di protestare ce l’avevano pure. Lo stesso giornale che la
pubblica meritoriamente ricorda che nello stesso posto, in altre occasioni, furono erette
altre tre tende, per motivi diversi, e una, per protestare contro la guerra del Golfo,
rimase in piedi anche lei per tre mesi.
Non sono in toto contro le tende di protesta. In Italia e in tutto il mondo se ne mettono
nelle occasioni più diverse, che siano i radicali in sciopero della fame per una manciata
di referendum o i kurdi che protestano contro i massacri nel loro paese. Quest’estate ero
a Città del Messico, città che lei conosce assai meglio di me, e non certo un limpido
esempio di democrazia: ma mi aveva fatto riflettere che sulla piazza principale della
città, dove si affacciano la cattedrale e il palazzo del governo, vi fosse non una singola
tenda, ma addirittura una minitendopoli di campesinos urbanizzati, che protestavano per
le condizioni di una qualche favela locale. E mi aveva interrogato lo scoprire che lì c’è
sempre qualcuno che protesta per qualcosa. Con le tende. Magari vuol dire che non fa
male alla democrazia. Ma lasciamo pure perdere il Messico, che per l’appunto un
fulgidissimo esempio di democrazia non è, anche se è tutt’altro che da buttare, rispetto a
tanti altri paesi, anche più ricchi e sviluppati e occidentali e ‘superiori’. E torniamo a
noi. Le dicevo che tende di protesta se ne erigono dappertutto: ma con rispetto degli
altri e decoro. E qui è mancato.
Le do’ ragione: qui è mancato, e lei ha fatto bene a condurre la sua personalissima
battaglia contro di essa. Ma, di grazia, cosa diavolo c’entra l’islam? Se fossero stati
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peruviani cattolici, o indiani hindu, o eritrei copti, che differenza avrebbe fatto? Una
l’avrebbe fatta: lei avrebbe intinto la sua penna nello stesso invelenito e velenoso
inchiostro? Avrebbe usato dello stesso duro sarcasmo? Per esempio, sul fatto che
pisciavano sui muri (una vergogna: sono completamente d’accordo con lei), e le
strisciate di urina profanavano i marmi del Battistero: “Perbacco! Hanno la gettata
lunga, questi figli di Allah!”. Cara signora, fesseria per fesseria, perché non ricordare
che i negri, dicono, ce l’hanno più lungo, e forse è per quello che arrivavano fin là?
Signora Fallaci, glielo ripeto, sono d’accordo con lei nella sua battaglia contro la
sciatteria, la sporcizia, il cattivo gusto. Ma, glielo chiedo di nuovo: cosa c’entra l’islam?
Lei dice che anche quando la tenda incriminata fu tolta “fu una vittoria di Pirro. Lo fu in
quanto non influì per niente sugli altri scempi che da anni feriscono e umiliano quella
che era la capitale dell’arte e della cultura e della bellezza, non scoraggiò per niente gli
altri arrogantissimi ospiti della città: gli albanesi, i sudanesi, i bengalesi, i tunisini, gli
algerini, i pakistani, i nigeriani che con tanto fervore contribuiscono al commercio della
droga e della prostituzione a quanto pare non proibito dal Corano”. A parte la
sciocchezza sul Corano (anche la Bibbia proibisce un sacco di cose che, come le
risulterà, i cristiani praticano con fervore…), sono d’accordo con lei: ma perché non
nomina anche le etnie non musulmane, che pure contribuiscono anche loro? E poi però
non la smette di parlare di religioni, e di etnie, per parlare di individui? Cosa c’entra
l’islam con tutto questo? Non le viene il dubbio che, se delinquono – quelli che
delinquono: altri sono qui per lavorare, e non lo dimenticherei – non lo fanno perché
sono musulmani, ma semmai, rovesciando il suo argomento, perché non lo sono
abbastanza, magari non lo sono più? Crede che quelli più occidentalizzati, quelli più
simili a noi, quelli che alla moschea preferiscono la discoteca (e lungi da me,
comunque, demonizzare sia l’una che l’altra), delinquano di meno o di più? Lo stesso,
incidentalmente, vale per cattolici, ortodossi e confuciani.
Provo a fare, su questo tema dell’immigrazione, un discorso un po’ più ampio, un po’
più articolato. Sa, di immigrazione me ne sono occupato a lungo (lo sospettava,
nevvero? Non potevo essere che un complice…), lavorando nel settore e facendo
ricerche, non solo crogiolandomi nei miei pregiudizi, positivi o negativi che fossero (e
ne avevo di entrambi i tipi, lo ammetto). Ma anche quando me ne occupavo
direttamente, l’ho sempre fatto rifiutando le posizioni manichee: che, nel mio ambiente,
erano quelle buoniste, perché si tendeva a sottovalutare, a non vedere i problemi (la
delinquenza, ad esempio), anche a demonizzare l’altro (magari i commercianti, e altri
cittadini, che, giustamente, chiedevano ordine, meno delinquenza, più sicurezza, e meno
lassismo da parte della politica come della polizia). Una volta, a Milano, tornando da
una manifestazione antirazzista, cui era andato per dovere istituzionale (non amo, in
genere, le manifestazioni: ho anch’io la mia estetica), avevo letto, in corso Venezia, una
scritta che era tutto un programma: “No al razzismo. Morte al fascio”. Ecco, questo
slogan rappresentava per me la quintessenza del modo con cui non volevo occuparmi di
immigrazione. Come non mi piaceva la tolleranza per l’illegalità, anche modesta, per
dire. Anch’io, come lei, detesto la sciatteria, il disordine, la compiacenza, il blando
laissez faire nei confronti di chi non rispetta le leggi. Ma purtroppo, a differenza di lei,
non lo attribuisco agli immigrati: li precede, purtroppo. Loro ne sono solo un segno: più
visibile, per noi, per il colore diverso, perché sono ‘nuovi’. Ma sono esattamente un
segno dello stesso segno delle auto in tripla fila e della maleducazione stradale;
dell’abitudine a non rispettare le leggi nemmeno quando si tratta di non fumare nei
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luoghi pubblici o di mettere la cintura di sicurezza; della sporcizia sulle strade (nella
mia civile Milano, ex-capitale morale); del falso in bilancio e delle bustarelle ai giudici
(e magari depenalizziamo anche queste ultime, così risolviamo il problema); dei graffiti
ovunque, che detesto anziché considerarli un segno di creatività popolare; dei disperati
delle periferie che berciano e sputano e bestemmiano peggio di Arafat e non fanno
sedere le vecchiette sul tram; dell’inciviltà strisciante del linguaggio; dei motorini e
degli scooter al di là di ogni limite di inquinamento acustico e dei vigili che non vedono
e non sentono; dei telefonini squillanti anche alla Scala; della volgarità televisiva della
fascia pro-tetta e delle letterine sculettanti; del piattume e pattume del varietà e
dell’ossequio servile dei giornalisti ai vecchi e nuovi poteri, purché poteri siano; dei
politici ignoranti e incolti (alcuni, al governo, ignorano persino l’abc della costituzione
su cui giurano, non solo la sintassi e il congiuntivo, come lei giustamente ricorda); della
pubblicità invasiva anche sulla tv dei ragazzi, così imparano subito; della pornografia a
tutte le ore, immagino per lo stesso motivo; della povertà di spirito degli yuppies e dei
loro ridicoli miti, così ben espressi dalle loro riviste patinate, piene come sempre di tette
e motori e drammaticamente vuote di pensiero; della mancanza di responsabilità civica
delle élites imprenditoriali, che comprano solo squadre di calcio ma mai che facciano
mecenatismo sociale; della Gazzetta dello Sport quotidiano più letto, e autorevole…
Segni – esattamente come i senegalesi che su uno straccetto vendono false Vuitton e cd
taroccati – di un disordine generale, pervasivo, diffuso. Solo che io penso che loro siano
un effetto tra i tanti, non una causa, tanto meno la causa. Ma penso anche – forse una
delle poche cose su cui sono d’accordo con lei, signora Fallaci, e in contrasto con molti
dei miei ambienti di riferimento, progressisti e cattolici – che debbano essere combattuti
anche loro, insieme agli altri: non in quanto simboli, ma come persone, se e nella misura
in cui non rispettano le leggi. E’ l’unica crociata, quella contro l’inciviltà quotidiana e il
mancato rispetto delle leggi e delle regole minime della vita sociale, cui forse mi
scriverei: a patto però di chiamarla con un altro nome. Neanche pulizia mi piace: perché
quella etnica è troppo recente, e ha un pessimo suono, anche se era fatta da buoni
cristiani. E detesto quelli, talebani o occidentali, che mi dicono che sarebbe ora di fare
pulizia: di solito, sono quelli di cui io farei pulizia. Ma neanche io, grazie a Dio, ho il
potere.
Cosa c’entra, tutto questo, con l’islam, Santa Giovanna d’Arco(re) Fallaci? (mi scusi la
triviale battuta: ma è perché il cavaliere ha detto che, se l’avesse letta prima, si sarebbe
ispirato a lei nel suo ‘storico’ e indimenticabile discorso sulla civiltà superiore). Non ha,
anche lei, come tanti altri, nonostante la sua grande intelligenza, questa volta, sbagliato
mira, gentile signora? Almeno: è proprio sicura? Al cento per cento? Io no, non lo sono.
Forse è proprio questa la differenza tra lei e me: lei sa. “Tra le cose sicure la più sicura è
il dubbio”, diceva quel disfattista di Bertolt Brecht. Si figuri, questa frase me la sono
appuntata su un quadernino da ragazzetto, quando l’ho letta: e da allora non l’ho più
dimenticata. Non la voglio più dimenticare. Soprattutto oggi che tanti, troppi, anche lei,
sono così pieni di certezze, si sentono così ‘migliori’ (pardon: superiori).
Peccato, per tornare al dunque, che tutto questo discorso sulla delinquenza legata al
mondo dell’immigrazione non c’entri nulla con l’islam. Anzi. Sarebbe come ricondurre
il cartello di Medellin al cattolicesimo, i magnaccia della prostituzione slava e la mafia
russa all’ortodossia, la yakuza giapponese allo scintoismo, e il racket cinese al
confucianesimo (o magari al maoismo, a scelta). Credo, dopo tutto, che cattolicesimo,
ortodossia, scintoismo, confucianesimo, e forse persino maoismo, facciano qualcosa per
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combatterla, per arginarla, la delinquenza. Non pensa che si possa dire lo stesso
dell’islam?
Bontà sua, ammette che alcuni, solo alcuni però, lavorano, seppure lo ammette a modo
suo: “Anziché figli-di-Allah in Italia li chiamano ‘lavoratori stranieri’. Oppure ‘manod’opera-di-cui-v’è-bisogno’”. Signora, li chiamano così anche nella sua amata America:
e hanno ragione. E poi, non c’è alternativa tra le due cose. Lo sa che tanti imprenditori,
nel ricco Nordest, ben contenti di avere mano d’opera di religione islamica, obbediente
e lavoratrice, gli fanno pure la sala di preghiera, e non danno loro il prosciuttino a
mensa, per rispetto? Eccessivo, secondo lei? Comunque, anche qui c’è un punto su cui
sono d’accordo con lei. Quando dice che questo non basta. Che quella economica non è
una buona giustificazione dell’immigrazione. Sono contrario anch’io all’uso e all’abuso
di questo argomento. L’unico che metta d’accordo grandi imprenditori e piccoli
padroncini magari leghisti, sindacalisti ex-comunisti e volontariato cattolico – il che è
sospetto. E’ quasi sempre sospetto quando il sano egoismo del mercato e l’altruismo
magari anti-mercato vanno d’accordo: vuol dire che o uno dei due è riuscito a fregare
l’altro, o che tutti e due hanno capito male, o che hanno capito benissimo ma tanto
sanno che il prezzo lo pagherà qualcun altro. E infatti è precisamente quello che
avviene: il prezzo lo paga la società, cioè noi, per i bassi salari, l’evasione contributiva e
fiscale, il dumping sociale promosso da questa ‘singolare convergenza di
interessi’ (chiedo scusa se prendo in prestito un’espressione cara al presidente del
consiglio, anche se lui la usava a proposito di musulmani e anti-globalisti).
Lei parla di quelli che non lavorano, quelli che bighellonano e deturpano i nostri
monumenti, e che poi pregano cinque volte al giorno. Sicura che siano gli stessi? E se
anche lo fossero, non è meglio che quelle cinque volte, per pochi minuti, preghino il
loro Dio, smettendola di bighellonare e di deturpare i monumenti almeno in quel
frangente? Pensa che se non pregassero più, o se pregassero il nostro, di Dio,
bighellonerebbero di meno?
Di altre cose, invece (anche), si dovrebbe vergognare. “Se sono tanto poveri, chi glieli
dà i soldi per il viaggio sulla nave o sul gommone che li porta in Italia? (…) Non glieli
darà mica Usama Bin Laden allo scopo d’avviare una conquista che non è solo una
conquista di anime, è anche una conquista di territorio?” Te pareva. A parte che se fosse
così Bush sarebbe felice: avrebbe trovato il modo di prosciugare il pur cospicuo
patrimonio di Bin Laden. Ma lo sa che una argomentazione così non l’aveva mai
pensata nemmeno il disonorevole Borghezio? Lei mi dirà: e chi è? Lei è fortunata,
signora, a stare a New York. Glielo dico io, chi è Borghezio: è quello che dice immigrati
clandestini = terroristi. Ma questa non l’aveva ancora pensata. Gli ha dato un’idea (che
non è difficile, peraltro, se lo lasci dire). Però, signora mia, si lasci dire anche questo: lo
sa che le riderebbero dietro tutti i poliziotti che si occupano di queste cose; anche
quello, suo amico, che avrebbe fatto sparire la famosa tenda di Firenze? (episodio che,
nella epicità con cui l’ha raccontato, mi ricorda tanto “il famoso disastro del carrello del
thé del ‘64” dell’impiegato contabile Bristow della Chester-Perry. Ma suppongo che lei
non bazzichi questo tipo di letteratura inferiore: cartoons, puah!).
Ma non è ancora finita. Deve essersi resa conto che l’ha detta grossa, con i soldi di Bin
Laden per gli emigranti. E allora aggiunge: “Bè, anche se non glieli dà, questa faccenda
non mi convince. Anche se i nostri ospiti sono assolutamente innocenti, anche se fra
loro non c’è nessuno che vuole distruggermi la Torre di Pisa o la Torre di Giotto,
nessuno che vuole mettermi il chador, nessuno che vuol bruciarmi sul rogo di una nuova
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Inquisizione, la loro presenza mi allarma. Mi incute disagio”. Ma per carità, signora: se
la disturba, li cacciamo via. C’è altro che possiamo fare per lei? “E sbaglia chi questa
faccenda la prende alla leggera”: mi domando se si riferisce all’immigrazione, o al fatto
che lei, gioia bella, è disturbata, a disagio. Per carità, signora, se possiamo fare
qualcosa: che so, la disturbano i negri in genere, anche non musulmani, i terroni, i
clericali, le automobili di colore scuro, i cani da passeggio, gli uomini col cappello:
basta che ce lo dica, e li deportiamo tutti – non sia mai che lei dovesse sentirsi a disagio.
Gradisce anche un thé, per caso? Latte o limone?
Sono d’accordo con lei, invece (è strano, nevvero?) quando dice che l’immigrazione di
oggi in Europa è diversa da quella negli Stati Uniti del secolo scorso. Peccato che sia
un’ovvietà che hanno già scritto cento e cento libri sull’immigrazione, al di qua e al di
là dell’Atlantico. Ma il fatto che sia un fenomeno nuovo non ne fa di necessità un
fenomeno catastrofico. Forse solo un fenomeno da governare e gestire in maniera
diversa. Non pensa? Anche il computer è nuovo, anche internet, anche gli investimenti
in Borsa in tempo reale e il turismo di massa, anche il movimento gay e le coppie di
fatto, la carta di credito e i seni al silicone, il compact disc e le spedizioni su Marte, il
cellulare e gli organismi geneticamente modificati, l’Unione Europea e
l’invecchiamento della popolazione, l’immagine digitale e il trapianto degli organi: e
allora? E si stava meglio quando si stava peggio, e non ci sono più le mezze stagioni…
il livello è questo, signora mia: se ne è accorta?
La clandestinità è un problema, sono d’accordo con lei. Va governato, risolto, e si è fatto
troppo poco. Ma a parte il fatto che almeno metà della soluzione andrebbe trovata in
Italia, impedendo le assunzioni in nero e l’evasione fiscale, tanto per dire (e questo non
lo vogliono nemmeno quelli che non vogliono l’immigrazione: e glielo spieghi lei, che è
tanto convincente, che c’è una contraddizione…), qui c’è proprio un problema di
sguardo. Ognuno vede ciò che vuol vedere. Lei dice: “Io non dimenticherò mai i comizi
con cui l’anno scorso i clandestini riempiron le piazze d’Italia per ottenere i permessi di
soggiorno. Quei volti distorti, cattivi. Quei pugni alzati, minacciosi”. Se proprio
dobbiamo ragionare per slogan, che non è ragionare, posso anche raccontargliela
diversamente. E dirle che io invece non dimenticherò mai quelle code in questura di
centinaia di miti disgraziati, trattati come animali, certo non come cittadini, sotto la
pioggia o il sole cocente, non una sedia, non una parvenza di organizzazione, non
un’informazione esatta, per cui dovevi ritornare il giorno dopo: e butta via un altro
giorno di lavoro, che tanto non sei nessuno. Né che a quei cortei tanta gente cantava.
C’erano anche gli scout, e le suore, oltre che i giovani di Rifondazione, e i pugni alzati
magari erano i loro, e certo quando si grida uno slogan la faccia si distorce, il gesto non
è così fine come quando si porta in giro un barboncino al guinzaglio, e le labbra non
sono così sottili e composte come quando si fuma una sigaretta col bocchino. Ma a parte
questo, a differenza di lei, pur frequentandoli assai poco, non penso che i cortei siano
necessariamente il male assoluto, credo che siano uno dei modi in cui si pratica, e si
impara anche, la democrazia: forse non il migliore, ma è anche così, si stupirà a
sentirselo dire, che ci si integra in un paese.
Parla dell’identità intrisa di cristianesimo dell’Italia. E chi la nega? Ma davvero è messa
in crisi da quei quattro musulmani? La sua amata America l’ha forse persa? E se sì, è
forse colpa dei sei (non ventiquattro) milioni di musulmani? Lo dice anche lei, senza
accorgersene, che si può appartenere ad una cultura anche in modo soft: “Ecco: vedi?
Ho scritto un’altra volta ‘perdio’. Con tutto il mio laicismo, tutto il mio ateismo, son
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così intrisa di cultura cattolica che essa fa addirittura parte del mio modo d’esprimermi.
Oddio, mioddio, graziaddio, perdio, Gesù mio, Dio mio, Madonna mia, Cristo qui,
Cristo là”. Ammesso e non concesso che questo significhi avere una cultura cattolica, sa
quanti musulmani conosco che sono musulmani esattamente come lei è cattolica:
inshallah, ma’shallah, hamdulillah, salam aleikum, e poco altro. E, mi consenta: non
sono necessariamente questi i migliori.
E poi, torniamo al suo profondo argomentare: “Sebbene al cattolicesimo non abbia mai
perdonato le infamie che mi ha imposto [e via con la solita argomentazione
dell’inquisizione, tanto per essere originali, ndr] (…), sebbene coi preti io non ci vada
proprio d’accordo e delle loro preghiere non sappia proprio che farne, la musica delle
campane mi piace tanto. Mi accarezza il cuore”. Come direbbe Charlie Brown, tanto per
stare in tema: “oddio”. La musica delle campane le piace tanto… Lo sa che la sua
concezione dell’identità cattolica sta al cristianesimo come un Bacio Perugina sta
all’amore? Anche a me la musica delle campane mi accarezza il cuore: ma poi, perdio
(tanto per citarla, e farle vedere che un’identità cattolica ce l’ho anch’io), mi sa citare un
solo caso in cui, in Europa, la musica delle campane non si sente più perché i
musulmani l’hanno impedito? Avanti: dove? E allora, di che stiamo parlando?
“E poi ammettiamolo: le nostre cattedrali son più belle delle moschee e delle
sinagoghe”. Ammettiamolo. Anche a me le cattedrali piacciono tanto: anche se questo
non esclude che mi piacciano anche alcune moschee e alcune sinagoghe (sarò un
relativista culturale?). Ma le sembra un discorso? Lei cita anche le sinagoghe, dicendo
che le nostre chiese sono più belle. Tanto meglio per noi: ma le sembrerebbe un motivo
per mettersi a lanciar crociate contro gli ebrei? Lo stesso dice delle chiese protestanti e
delle loro funzioni, così noiose, senza immagini e incenso. Ben detto: cacciamo anche
loro? Albigesi non ce ne sono più: cacciamo i valdesi? Già che ci siamo… Come si
dice: tolto il dente, tolto il dolore, no?
Forse non ci farebbe male, a tutti, un po’ più di umiltà. Sarebbe bello che anche questa
virtù (così evangelica, tanto per restare in tema), di cui potremmo andare così fieri
(anche questo uno dei tanti paradossi evangelici: andare fieri dell’umiltà; come
quell’altra barzelletta che gli ultimi saranno i primi…), facesse parte della nostra eredità
culturale, di quello che tanti oggi chiamano il nostro DNA culturale (e sbagliano: se lo
fosse, com’è che io e lei non ce l’abbiamo uguale?). Persino lei, atea, vanta le sue radici
cristiane. Ma a lei, come ad altri, del cristianesimo piace altro: le belle cattedrali di
pietra, le Madonne di Raffaello, il suono delle campane. Cristo, già meno – così plebeo,
così poco inquadrabile: uno che forse, oggi, ci andrebbe a cena, con gli immigrati
musulmani… Beh, mi dispiace, ma il ‘non possiamo non dirci cristiani’ così, alla buona,
è un’idiozia. Il cristianesimo non è soltanto, non è neanche primariamente, le chiese
romaniche, i cristi e le madonne della pittura rinascimentale, la simbolica di quando era
bambina, che tanto, e giustamente, la intenerisce. E’ anche, è soprattutto, anzi forse è
solamente una persona di cui lei pare disinteressarsi alquanto (è dal nome dato a questa
persona, Cristo, che viene la parola…), che portava un messaggio d’amore, di giustizia
e di riscatto: e anche una spada – che però non divide tra i cristiani e gli altri (troppo
facile), ma dentro le famiglie, anche quelle culturali e religiose, tra fratello e fratello, tra
padre e figlio e madre e figlia, dentro anche ciascuno di noi. Proprio come il jihad… Ed
è questo a cui servono le chiese romaniche e la pittura rinascimentale: a ripetere, a
trasmettere, a incarnare questo messaggio, che è anche un messaggio di equilibrio e di
armonia, in una parola di bellezza. Ed è per questo che sono belle. E incidentalmente,
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credo che quando sono solo belle non lo siano più: come la Cappella Sistina, e tante
altre – è un museo, non un luogo di preghiera: si visita, ma senza vera emozione. Bello
ma senz’anima, se viene vissuto come un museo, da guardare. Il cristianesimo non si
guarda, si vive. Non è lì – non solo lì, almeno, non primariamente lì – in quelle pietre, in
quelle figure, che abita il cristianesimo: lì, semmai, ci abita la cristianità. Che, spesso, il
cristianesimo l’ha tradito (proprio come tanti musulmani, anche autorevoli, tradiscono
l’islam). E guardi, quando è successo, il cristianesimo la sua grandezza l’ha trovata nel
riconoscerlo, non nel rivendicare orgogliosamente, sempre e comunque, la sua
superiorità. Ma a lei, atea, tutto ciò sembra interessare assai meno. Nelle sue invettive
non ce n’è traccia, di questo cristianesimo. Lei è libera di capire il cristianesimo come
crede, e di farsene paladina a modo suo. Solo sappia che altri ne hanno tutt’altra idea. E
non sono per questo meno cristiani di lei: e nemmeno musulmani… “Sto dicendoti che, proprio perché è definita da molti secoli e molto precisa, la nostra
identità culturale non può sopportare un’ondata migratoria composta da persone che in
un modo o nell’altro vogliono cambiare il nostro sistema di vita. I nostri valori”. Forse
se la nostra identità fosse così precisa, non staremmo lì ad arrovellarci tanto per definire
che cos’è. Ma a parte questo: sicura che non abbiano di meglio da fare? Che passino il
loro tempo libero a pensare come introdurre lo stato islamico, applicare la shari’a e
imporre il chador alle donne italiane (impresa del resto disperata)? Ma se qui sono
impegnati a guadagnare quattro lire, e magari a godersela un po’, e i loro figli a studiare,
magari talvolta più dei nostri! E se poi alcuni preferiscono sposarsi tra di loro e si
vestono in maniera stramba, lei che ci perde? Disturba il suo senso estetico? Perché: i
punkabbestia no? I tangheri del sabato sera no?
“Sto dicendoti che da noi non c’è posto per i muezzin, per i minareti, per i falsi astemi,
per il loro fottuto Medioevo, per il loro fottuto chador. E se ci fosse, non glielo darei”.
Ma lei chi è, signora: il nostro santo patrono? Capirei ci fosse un argomento: ma, in
drammatica mancanza di essi, ci dobbiamo fidare solo della sua parola?
“Significherebbe regalargli l’Italia. E io l’Italia non gliela regalo”. A parte che non
significherebbe affatto questo: al massimo significherebbe affittargli – non regalargli,
ché non gli regaliamo niente – un cantuccio dove pregare insieme. Ma il suo
argomentare mi ricorda tanto quanto Pietro Scoppola scriveva della Chiesa cattolica
negli anni Cinquanta: essa aveva paura che il nemico fosse il comunismo, e lo
combatteva, lo scomunicava persino; e non si accorgeva che il nemico veniva da dietro,
da dentro: e si chiamava secolarizzazione, laicizzazione, individualismo, consumismo.
Nemico, voglio dirlo, che non è detto fosse negativo, in prospettiva. Ma, appunto, era
dentro e dietro di noi, anche se era percepito come nemico esterno, come antagonista
all’ultimo sangue. Tanti discorsi sull’identità italiana, come il suo, virulenti ma vuoti (a
differenza di altri, assai seri), mi fanno pensare che oggi stia accadendo la stessa cosa.
Lieto del suo patriottismo, signora. Facile, me lo lasci dire, dall’America. E’ più
difficile, glielo assicuro, essere italiano in Italia, specie in periodi come questi, anche
senza che gli italiani d’America vengano a farci la lezione. Ma lieto, davvero, del suo
patriottismo. Che lei stessa ammette, dichiara, essere un patriottismo legato a un’Italia
ideale. Si tranquillizzi, è così anche per noi: a guardar quella reale viene meno bene, e
allora anche noi, per tirarci su il morale, pensiamo a Dante, a Michelangelo e a Verdi (a
Verdi un po’ meno da quando del coro del Nabucco se ne è fatta un inno tutto suo la
Lega, che di patriottismo come noto ne ha da vendere). Ma non dica che quella non
patriottica, alla sua maniera, “è l’Italia delle cicale che dopo aver letto questi appunti mi
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odieranno per aver scritto la verità”. Primo perché – e so che questo esercizio le è
particolarmente difficile – il suo pensiero, per quanto importante, non è la verità: al
massimo un tentativo, fra i tanti, di rifletterci sopra. E non dei meglio riusciti. Poi
perché anche chi non sarà d’accordo con lei non è detto che la odi (altro modo di essere
presuntuosi: chi non è con me è contro di me, chi non mi ama mi odia. Così ragionano i
bambini: lo sa signora? O gli inviati di Dio. Lei, per età, come dice lei stessa, non
appartiene più alla prima categoria. Non sarà mica, anche lei, della seconda? Nel caso
non lo sapesse, la avviso: c’è già tanta concorrenza in giro…). Io per esempio, che come
avrà capito non sono d’accordo quasi su niente, con lei, non la odio per nulla: semmai
provo tristezza, dispiacere – per lei. E semplicemente, non sono d’accordo. In una sana
democrazia è ancora possibile. E’ dove si demonizza l’altro, dove lo si dipinge come
non è, dove si scontrano gli opposti fondamentalismi, insomma è nel mondo che
descrive lei, per come lo descrive lei, con le parole che usa lei, che questo non è più
possibile. “Col che ti saluto affettuosamente, caro il mio Ferruccio, e t’avverto: non chiedermi più
nulla. Meno che mai, di partecipare a risse e a polemica vane”. Comodo, dopo averne
scatenata una, e gigantesca. Ma lo sa, signora, che le sue parole sono e saranno armi che
altri useranno per bastonare i vostri comuni nemici? Ne è consapevole, di questa
responsabilità? Non ha il diritto di chiamarsene fuori, signora: gliene chiederemo conto.
“Ora devo rimettermi a lavorare, non voglio essere disturbata”. Ecco, caro Ferruccio,
lasciala lavorare. Non disturbarla più. “Punto e basta”, come chiude lei. In fondo, si è
trattato di una parentesi. Per riprendere il titolo di un suo libro: Niente e così sia.
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Diario di guerra: continua…
Sul treno, dopo l’incazzatura prodottami dalla lettura della Fallaci, e qualche pagina di
commento buttata giù (ho la mano anchilosata…), mi distraggo leggendo una piccola
introduzione al dialogo interreligioso di un noto teologo, Ramon Panikkar. Balsamo per
il mio cuore: finalmente un po’ di riposo dalla battaglia… Terapeutico, davvero. Lo
consiglio.
Finito questo, assai breve, attacco un libro di uno studioso ebraico della Bibbia, Vangeli
inclusi (un segno già di per sé, questo, di dialogo vero, serio, fondato), Pinchas Lapide.
Inizia con queste precise parole: “In definitiva, esistono solo due modi di approccio alla
Bibbia: prenderla alla lettera, o prenderla sul serio. La coesistenza di questi due
approcci è molto difficile”. Vale per i nostri pasdaran. Ma io lo penso anche del Corano:
come tanti musulmani, del resto. E vale dunque anche per i loro.
Sono un habitué dei treni. Vivo a Milano, insegno a Padova, e sfortunatamente per la
mia vita privata sono spesso in giro per l’Italia per conferenze, convegni e seminari. Ci
sono anche adesso, in treno. E sto notando i cambiamenti dei discorsi ‘da treno’,
variante lievemente più profonda di quelli da bar: un discreto indicatore, ancorché non
scientifico, del sentire comune. Niente di nuovo: così come c’è chi governa leggendo i
sondaggi, e chi, inviato più o meno speciale (ma speciale perché?) sul fronte diciamo di
Peshawar, le sue informazioni principali le raccoglie dal taxista che lo accompagna
dall’aeroporto all’hotel a cinque stelle. Niente di strano che mi nutra anch’io, allora, del
sentire comune, e lo interpreti a modo mio.
Cosa ne deduco, dalla parzialità di questo mio osservatorio? Che i discorsi sono molto
più anti-islamici oggi che nella prima settimana dopo l’attacco al WTC. Posso azzardare
cosa potrebbe significare? Che, nella prima settimana, dove prevalevano ancora,
nonostante tutto, le informazioni sui commenti, e nonostante l’emozione delle immagini
(che oggi, già diventate videocassetta di un noto settimanale – che ho comprato anch’io
– danno un po’ di assuefazione), la gente, ragionando con la propria testa, buttava lì
anche i suoi pre-giudizi anti-americani o magari anti-ebraici, non più fondati né migliori
di quelli anti-islamici, ma in un certo senso più primari: pulsioni profonde, pre-esistenti.
Mentre, oggi, sta cominciando a fare effetto la campagna di invelenimento delle
coscienze. Non lanciata da nessuno: non credo al grande vecchio, nemmeno al
complotto amerikano, e meno che mai a quello sionista di chi ha in mano la stampa
mondiale (a cui credono invece alcuni miei conoscenti, musulmani e non). Ma ai
giornalisti, ai nostri giornalisti in particolare, non serve l’imboccata: sono servili di loro.
Ricordo, alla scuola di giornalismo, vent’anni fa, quando meritoriamente ci insegnavano
le origini dell’anomalia italiana: stampa lottizzata e peso di quella di partito, giornali in
mano a potenti gruppi industriali, nessun editore puro, pochi bilanci in attivo. Oggi
alcuni dati strutturali sono cambiati. Per esempio un editore quasi puro, diciamo un
editore primariamente tale, oggi chiamato Mediaset, è diventato il più potente gruppo
industriale, anziché il contrario, come accadeva ai tempi in cui i padroni delle ferriere
compravano i giornali e li tenevano in passivo, ma proni, e usati come arma di ricatto
della classe politica, per passare all’incasso, a tempo debito. Non solo: è diventato
anche il primo partito del paese. E i suoi bilanci, come quelli di altre aziende editoriali,
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sono largamente in attivo. Ma un secolo di storia non si dimentica facilmente: neanche
nelle redazioni…
Incidentalmente, ci ripensavo vedendo l’altra sera un dignitoso e colto signore, che non
ne avrebbe bisogno avendo già una bella carriera alle spalle e presumo anche un
congruo stipendio in saccoccia, facendo il direttore di Panorama, che invece di
commentare la squallida litigiosa performance tra un signore che fa il capogruppo di
Forza Italia di cui – e ci sarà un recondito motivo – non ricordo nemmeno il nome (forse
Schifano, o Schifino), e Massimo D’Alema, che passavano il tempo a rimbeccarsi e a
interrompersi senza parlare del merito, a Porta a porta, a proposito delle famose
dichiarazioni del presidente del consiglio sulla nostra superiorità. Quel distinto signor
giornalista, invece di commentare questo mesto spettacolo (a scanso di equivoci, da
parte di entrambi: anche se da parte di uno – di cui non riesco a ricordare il nome – mi
sembrava, di più), e di elevarsi sopra di esso, in qualità di osservatore imparziale dei
fatti, entrava anche lui nella disputa, a sostegno di una parte (non credo di dover
specificare quale). Niente di nuovo: fanno (quasi) tutti così, a destra e a sinistra – e al
centro, così largo, da noi. Ma, appunto, cosa aspettarsi allora da questa stampa, da
questa televisione, se non che si pieghi nella direzione verso cui tira il vento? Anche nel
caso di venti di guerra? Una volta i maîtres à penser erano quelli che ci costringevano a pensare diversamente
da come pensavamo prima, che ci aprivano vie del pensiero nuove, ardite, inedite,
impensate, che buttavano giù i muri dei nostri pregiudizi. Oggi sono quelli che ce li
riconfermano. Oggi Nietzsche verrebbe licenziato. O condannato a un’esistenza oscura.
Al massimo si guadagnerebbe da vivere scrivendo testi per Battiato…
Oggi c’è stata a Roma una manifestazione per la pace, di Rifondazione Comunista. Al
comizio di Bertinotti, anche un po’ delle solite bandiere rosse con il volto del Che. Oggi
più incongrue che mai. Possibile che non ci si renda conto che Bin Laden è davvero, in
certo senso, un Che Guevara dell’islam, solo più ricco? Certo, ci sono molte differenze
nelle loro rispettive ideologie, a cominciare proprio dal riferimento trascendente: anche
se in entrambe, a modo loro, è centrale la dimensione dell’uguaglianza. Ma anche lui
combatte per un ideale, non per interesse personale. Anche lui combatte in un esercito
transnazionale. Anche lui ha uno stile di vita sobrio, e carisma. Anche lui studia, oltre
che combattere. Anche lui è amato dalle popolazioni più disparate, ben al di là della
propria. Anche lui ha contro nemici più forti di lui: stati, imperi. Anche lui infine sta
combattendo (o facendo combattere), e forse morirà, in un paese che non è il suo. C’è,
però, una differenza importante, sostanziale, che è doveroso sottolineare. Il Che era un
guerrigliero, non un terrorista: un militare che combatteva contro altri militari (e i civili
erano, per così dire, vittime collaterali). Bin Laden invece, è uno che i civili se li sceglie
come obiettivo primario: e anche, orribilmente – è questa la sua più mostruosa
innovazione – come arma. In questo non c’è comparazione possibile.
Comunque sia, delle due l’una: o anche Bin Laden è un eroe romantico, seppure con un
alone mefistofelico intorno, e dunque dovremmo provare una qualche forma di
comprensione per lui, o almeno comprendere i musulmani che ce l’hanno; o ci siamo
sbagliati sempre, in passato, ad averne per il Che. O anche in questo caso vale la logica
del ‘due pesi due misure’ di cui rimproveriamo gli americani?
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Ho fatto circolare tra un po’ di amici, per via cibernetica, il mio commento alla lettera
della Fallaci (Lettera da Milano fa inevitabilmente meno esotico e autorevole che da
New York, ma così è). Come mi fa notare un amico, può essere anche una condivisibile
pars destruens; ma si pone il problema della pars construens. Sempre più complicato,
ovviamente.
La Fallaci tocca due punti importanti, da questo punto di vista. Il primo: perché l’islam
ci fa paura. Il secondo: che cos’è l’identità italiana (ma anche europea, occidentale,
cristiana, o veneta, siciliana, ecc.), se è possibile una qualche forma di patriottismo, e
intorno a cosa.
Vediamo. Cominciamo dalla paura, di cui avevo già avuto modo di occuparmi, in
termini che qui non è inutile riprendere.
La paura dell’islam è storia antica. Jacques Delumeau vi dedica un capitolo del suo La
paura in occidente, analizzando il ruolo giocato dai musulmani insieme ad altri ‘inviati
di Satana’: idolatri, ebrei, donne (streghe). Già dalla seconda metà del quattrocento e
per tutto il cinquecento, negli anni di quella che l’autore definisce ‘la grande paura’, si
pubblicavano in Europa decine e decine di titoli sui ‘turchi’ (termine con il quale si
intendevano i musulmani in generale, e che è rimasto nella memoria e nell’inconscio
collettivo – Mamma, li turchi!), il cui successo è misurabile dal numero di ristampe
succedutesi. Storicamente, però, questa paura si spiega: nel 1453 era caduta Costantinopoli,
conquistata all’impero ottomano, e lo choc, in tutta Europa, fu comprensibilmente
enorme. Enea Silvio Piccolomini, il futuro papa Pio II, dottissimo umanista, meditava
sconsolato: “Nel passato siamo stati feriti in Asia e in Africa, cioè in paesi stranieri. Ma,
ora, siamo colpiti in Europa, nella nostra patria, a casa nostra... Mai avevamo perduto
una città e un luogo paragonabile a Costantinopoli”. E Lutero, ancora nel 1530 scriveva:
“Tutto è consumato: l’Impero romano è alla fine del suo corso e il turco all’apice...”
Ma oggi, a quale Costantinopoli riferirsi? Non c’è stata, dopo tutto, la reconquista
spagnola e poi, nel 1571, la riscossa di Lepanto, alla quale amano richiamarsi gli ultrà
cattolici di oggi? Non veniamo da due secoli almeno di ‘magnifiche sorti e
progressive’? Non è piuttosto l’islam ad essere stato sconfitto dall’occidente, almeno sul
piano della civiltà materiale e della geopolitica? Perché allora noi abbiamo paura?
Dicevamo della diffusione dei libri sui turchi. E’ lecito un parallelo con il crescere oggi,
in Europa, di una pubblicistica sull’islam di taglio superficiale e banalizzante quando
non esplicitamente faziosa?
Caduto il muro di Berlino dunque, e con esso il tradizionale nemico dell’est, ci viene
facile (ci è necessario?) trovarne uno a sud. E’ questo, il ruolo giocato dai vari
Huntington, per dire.
Il problema, del resto, non è solo occidentale. Specularmente nel mondo dell’islam la
demonizzazione dell’occidente continua a far proseliti, e finisce per diventare un
comodo parafulmine e un eccellente alibi per paesi travolti contemporaneamente
dall’esplosione demografica, dalla crisi economica, e dalla propria incapacità di gestire
politicamente un processo di crescita (solo occasionalmente accompagnata da sviluppo)
oggettivamente troppo rapido e culturalmente, non di rado, devastante. Entrambi i casi
appaiono dunque come la prova testimoniale dell’incapacità dell’uomo di vivere senza
un nemico, della sua difficoltà ad uscire dalle dinamiche amico-nemico che, come
insegna la scienza politica (da Tucidide a Carl Schmitt, passando magari per
! 60
Machiavelli e Hobbes), e con infiniti esempi la storia, accompagnano l’uomo nel suo
agire sociale e politico: un nemico, quale che sia, unifica gli abitanti della polis tra di
loro, fa dimenticare le loro divisioni e, non meno importante, fornisce un ottimo
sollievo psicologico alle angosce della quotidianità.
Questo forse significa che in fondo, anche in questo, islam e occidente si assomigliano
più di quanto amerebbero ammettere: e nel peggio il fatto è visibile più chiaramente che
nel meglio. Dopo tutto, come diceva Lévi-Strauss, “conosco fin troppo bene il motivo
del disagio provato in vicinanza dell’Islam: ritrovo in esso l’universo da cui provengo;
l’Islam è l’Occidente dell’Oriente”.
Ma, interessante, da entrambi i lati non c’è solo la paura: c’è la fascinazione. Quella
dell’islam per l’occidente passa per la sua ricchezza, per il suo sviluppo scientifico e
tecnologico. Ma anche per i suoi stili di vita, e – va ricordato – per i suoi valori: quegli
stessi che tanti occidentali tendono a dimenticare, di cui hanno perduto il senso del loro
valore. Quelli che si incarnano in leggi e in istituzioni: il sistema giuridico, la tutela
individuale dei cittadini, il rispetto delle libertà individuali, la possibilità garantita (o
limitata casomai più dagli ostacoli materiali che da quelli di principio) di poter vivere
come si vuole e credendo o non credendo in ciò che più aggrada. Cose che esistono
anche altrove; anche, in misura variabile, ma spesso tragicamente ridotta, oggi, in alcuni
paesi dell’islam: cose che del resto dipendono più dal livello di ricchezza, di istruzione,
dal grado di urbanizzazione, che dalla religione di appartenenza, anche se la religione
non è estranea o irrilevante nell’ostacolarle o nel favorirle (ciò che è accaduto, del resto,
anche da noi, in terre cristiane) – ma che l’occidente ha maggiormente sviluppato e
tutelato, anche se non sono sicuro si possa dire che le abbia inventate. E in più,
naturalmente, ci sono le libertà ‘banali’, troppo sottovalutate dagli aedi delle libertà
‘alte’: quella di consumare, per esempio. C’è un piacere, una gioia, nel farlo, troppo
poco messa in evidenza, anche se esperita da tutti. Seppure in forme diverse, è presente
in tutte le società, comprese quelle dette primitive, che magari la concentrano
soprattutto nel senso della festa e del dono: oggi, semplicemente, è dominante, è
vincente, il nostro modo di fare festa, di consumare immaginario, magari da spettatori al
cinema.
C’è anche, tuttavia, una fascinazione dell’occidente nei confronti dell’islam (e di altre
tradizioni, del resto). Che, grosso modo, è speculare alla precedente. Credo che piaccia,
ad alcuni almeno, precisamente quello che altri fuggono, ma che noi, che già l’abbiamo
perso, aneliamo a ritrovare: il senso di una comunità, il calore della condivisione,
un’idea di famiglia stabile, la sensazione di appartenere a una tradizione immemoriale
(e, per così dire, di diritto divino), il fatto che il nostro ruolo non si ferma a noi stessi,
che abbiamo una responsabilità anche comunitaria, dei doveri comuni, oltre che dei
diritti. Anche, non incidentalmente, nei confronti di Dio. E che una vita senza dio e
senza comunità è o può sembrare vuota, fallita, perdente e perduta. Lo diceva già molti anni fa un noto rivoluzionario e contestatore dell’occidente come
De Gaulle, che in futuro saremo costretti a importare i nostri beni più profondi
dall’Africa: “Ci sono, dall’altra parte del Mediterraneo, dei paesi in via di sviluppo. E
questi paesi hanno una civilizzazione, una cultura, un umanesimo, un senso dei rapporti
umani che noi abbiamo tendenza a perdere nelle nostre società industrializzate, e che un
giorno saremo probabilmente molto contenti di ritrovare presso di loro. Loro e noi,
ciascuno col nostro ritmo, con le nostre possibilità e il nostro genio, avanziamo verso la
società industriale. Ma se vogliamo, intorno a questo Mezzogiorno, culla di grandi
! 61
civilizzazioni, costruire una civiltà industriale che non passi per il modello americano e
nella quale l’uomo sarà un fine e non un mezzo, allora occorre che le nostre culture si
offrano con larghezza l’una all’altra”. A parte la terminologia un po’ invecchiata, non si
potrebbe dir meglio. Bene, è quello che sta accadendo. Non solo con l’islam. Proprio
nello stesso momento in cui ne stiamo esportando tanti altri, di beni, non meno
importanti, ci accorgiamo che ne abbiamo anche qualcuno da importare. Cosa c’è di
male? perché negarcelo? perché negarglielo?
E’ questo, in fondo, quello che ho trovato studiando i percorsi di conversione all’islam,
le storie cioè degli europei, degli italiani, che hanno scelto di diventare musulmani: in
un libro che è stato per me, mentre lo scrivevo, più illuminante rispetto a noi stessi che a
loro. Tra l’altro, ho la sensazione che ciò che cerchiamo non è l’altro-da-noi: ma,
paradossalmente, ciò che eravamo. Noi stessi, ma quelli di ieri. Quelli che oggi non
siamo più, ma forse solo per un difetto di comunicazione. Perché nella nostra società,
nella nostra enfasi sul nuovo, sull’innovazione (ma, ammoniva Musil, “si cerca il
nuovo, si trovano solo le novità” – superficiali), abbiamo un po’ dimenticato la
conservazione, la tradizione: come tramandare il vecchio, che ci manca, perché
incorpora comunque un sapere, una sapienza, e una saggezza; come mantenere un
collegamento stretto con le nostre stesse radici, che rischiamo di dimenticare.
Da qui l’ambivalenza, da ambo le parti: l’odio-amore, il desiderio e la ripulsa. Che
credo, entrambi, continueranno. Ma veniamo alla paura di oggi: quella del fondamentalismo. Si spiega da sola? E’
quanto molti ci vogliono far credere. Credo tuttavia che vada spiegata anch’essa.
Intanto, va spiegato il perché facciamo di ogni erba un fascio. E’ strano, per esempio,
che non riusciamo nemmeno a distinguere tra un islamismo radicale e talvolta violento,
che agisce in taluni paesi musulmani, e un islamismo moderato che costituisce una
importante forma di opposizione, in chiave politico-religiosa, a regimi oppressivi, anche
se magari sostenuti dall’occidente. Questo islamismo è presente anche in Europa, è
vero: ma, oso dirlo, è un bene. Spesso si tratta di associazioni e movimenti politici
messi fuori legge o in condizione di non poter agire nei paesi d’origine, al punto che i
loro rappresentanti ottengono in Europa lo status di rifugiati politici, e come esuli sono
trattati. Il dato curioso è che quando si trattava di attivisti russi o cileni ce ne facevano
un vanto di ospitarli, come prova della superiore democraticità del nostro sistema –
anche se continuavano a fare politica nel nostro paese, in attesa di tornare a farla nel
loro. Nel caso dell’islam siamo assai meno entusiasti. E anche questo andrebbe
spiegato. Anche perché finora, in Europa non si sono avuti segni di qualche importanza
di un attivismo islamico politico che abbia come suo terreno di elezione e come suo
obiettivo l’Europa, o singoli paesi europei.
Non solo: alcuni di questi esuli diventeranno, con buone probabilità, la classe dirigente
di domani, in paesi che prima o poi probabilmente crolleranno sotto il peso delle loro
stesse contraddizioni, nonostante, in non pochi casi, il sostegno interessato
dell’occidente. Se non per convinzione, facciamolo almeno per tattica, di cercare di
capirci qualcosa. E di non ridurci sempre, come abbiamo fatto finora, a sostenere fino
all’ultimo regimi impresentabili, anche quando si imbellettano a nostro uso con un
minimo di (scorrette, e talvolta false) procedure elettorali di legittimazione democratica,
che malamente nascondono oppressione, corruzione, poteri basati sulla forza assai più
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che sul consenso: fino a che esplodono, e ci ritroviamo al governo chi questi governi,
contro di noi e senza il nostro aiuto, li ha, spesso con buone ragioni, buttati giù.
Ma vorrei provare a porre l’interrogativo su che cosa è il fondamentalismo a un livello
più alto. Il fondamentalismo infatti non è solo, e forse non è primariamente, quello di
cui tanto parliamo in questi giorni. C’è un fenomeno più generale, che sarebbe interessante osservare. Mi pare ragionevole
sostenere, nell’islam ma anche altrove, in certi fenomeni del tutto autoctoni, che sia un
insieme di comunitarismo e di ‘ritorno al (del) passato’ ciò che probabilmente
interpretiamo come fondamentalismo, o comunque come diversità radicale, come
alterità irriducibile, che temiamo. E’ esso che ci sconcerta, noi recentemente
secolarizzati e con una fede, quando ce l’abbiamo, individualizzata: e più in generale
noi figli della società degli individui. Ecco, credo che questo fenomeno ci sconcerti non perché è totalmente altro rispetto a
noi, ma precisamente perché era noi. Consciamente o inconsciamente credo sia questo
che ci fa paura: perché anche noi vivevamo in passato (la fede, ma non solo) in questo
modo, ma ora viviamo diversamente, e consideriamo altri modi di vivere, a ragione ma
forse anche a torto, ‘strani’ e incompatibili con il nostro modo di vita attuale e il nostro
livello di sviluppo.
Non è il minore dei paradossi che siano spesso i settori più tradizionalisti del mondo
ecclesiale, quelli che rimpiangono la ‘cristianità’ trionfante, ad essere maggiormente
contrari alla presenza dell’islam: accusandolo, paradossalmente appunto, di essere
quello che anche loro, dopo tutto, vorrebbero essere, e rimpiangono di non essere più.
Tutto questo non è probabilmente il fondamentalismo come lo intendiamo
comunemente, eppure è forse persino più importante di esso. Ma potremmo spingerci ad una generalizzazione ulteriore. E domandarci se non siano
alcune delle trasformazioni, anche religiose, che sta vivendo l’occidente (per esempio la
compresenza di più religioni sul medesimo territorio, grazie anche alle immigrazioni,
ma non solo) che producono in certa misura quel fondamentalismo che associamo al
fanatismo – e non solo tra i musulmani. Se non sia per esempio il processo di
globalizzazione, e più in particolare i processi di secolarizzazione, privatizzazione e
pluralizzazione della sfera religiosa, che spingono, a tutti i livelli, a ridefinire i propri
confini identitari, costringendoci (o costringendo i meno forti, i meno sicuri – i più
deboli) in certo modo a calcare i toni. Non a caso c’è chi comincia a ipotizzare che il
jihad, preso come simbolo del rivendicazionismo su base religiosa (sia esso islamico,
ebraico, cristiano o hindu, tanto per dimenticarci quella sciocchezza che riguardi solo le
religioni monoteistiche), non sia che l’altra faccia, del ‘mondo alla McDonald’s: Jihad
vs. McWorld. Ed è più un suo fenomeno gemello che una sua conseguenza. Quanto all’identità italiana, e prima ancora all’identità personale di ciascuno di noi. Non
pretendo di dire alcunché di originale: anche perché questo dell’identità è non un
problema, ma il problema dell’occidente, e non solo dell’occidente, nel mondo
globalizzato; cui si affannano a rispondere il meglio della sociologia, della filosofia,
della psicologia, dell’antropologia, della storia, con risultati sempre inevitabilmente
provvisori, anche perché la nostra identità cambia nella misura in cui cambia la società
– e questa, come ognun vede, cambia in fretta.
Ci ho ragionato, sul concetto di identità, tra l’altro a partire dal cambiamento di identità
dei convertiti: cioè di quelli che hanno cambiato religione, e a partire da questo molte
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altre cose, compresa l’idea di sé. Lì sono costretto a rimandare, in certo modo. Ma
qualche riflessione può essere trasportata in questo contesto, scusandomi fin d’ora del
pesante gergo sociologese. Ma alle volte, di fronte a fenomeni complessi, non è facile
essere semplici.
Le trasformazioni oggettive, nella e della realtà sociale, inducono o comunque sono
accompagnate da quelle soggettive, nella e della identità personale. Un dibattito, questo,
che trascende il riferimento religioso, per costituire problema a sé.
Ci limitiamo qui a constatare che sempre più l’identità va considerata, e può essere letta
e interpretata, “non già come una ‘cosa’, come l’unità monolitica di un soggetto, ma
come un sistema di relazioni e di rappresentazioni”, come ha scritto un serio sociologo
italiano recentemente scomparso, Alberto Melucci. “La definizione dell’identità – ha
notato altrove lo stesso autore – si sposta dal contenuto al processo, dal dato al
potenziale e coincide sempre più con la capacità degli individui di identificarsi e di
differenziarsi dagli altri: è dunque un processo continuo di identizzazione”. Un
cammino progressivo, il cui dato di partenza è “un ‘sé’ plurale”, che non può se non
cercare di inventarsi quella ‘semplicità dell’ordine narrativo’, in quanto ordinata
successione di eventi, che non esiste nella realtà ma che ognuno cerca di reinventare
nella propria biografia. Il mondo è vero solo ‘fino a nuovo ordine’. Si assiste a una
crescente de-istituzionalizzazione dei corsi di vita, a pratiche di nomadismo e di
‘vagabondaggio spirituale’, e dunque a continui processi di socializzazione e
risocializzazione, e quindi di rinegoziazione dei rapporti sociali. Già molti anni fa, ai
tempi in cui andava di moda Marcuse e L’uomo a una dimensione, Gian Enrico Rusconi
notava che questo significa “rovesciare uno dei luoghi [comuni, ndr] più stantii
dell’analisi sociologica. Questi luoghi comuni vedono la modernità come caduta
nell’eterodirezione, nella perdita di sé, nel conformismo. E’ un’incredibile
stravolgimento della realtà, che abbiamo sempre preso per buono. Infatti è il mondo
tradizionale ad essere dominato dal vincolo di appartenenza delle scelte, di identità
coatte, di conformismo. La modernità invece è sotto il segno delle chances di scelta, sia
pure a prezzo della precarietà”. Oggi quel dibattito è già sepolto, e del problema si parla
in maniera diversa; ma il problema di capire come si forma e come si mantiene – e
magari, che cos’è e, al limite, se esiste – quel qualcosa che chiamiamo identità, come
tale, resta.
Oggi si tende a mettere l’accento sul fatto che siamo costretti a ripensarci
continuamente, a rimetterci in discussione continuamente, come mai era successo in
passato. Un processo che tende a produrre delle “biografie riflessive”, come le ha
chiamate Anthony Giddens, in cui “l’io è visto come un progetto riflessivo, di cui è
responsabile l’individuo”. Biografie problematiche, in continuo ri-pensamento di sé, in
cui l’identità sta in fondo alla base, o a monte, dei vari ruoli che siamo chiamati a
recitare sul palcoscenico della società, ma che non si incarna e non è veramente visibile
in nessuno di essi, né deducibile da essi. Un “individuo-come-processo”, ha scritto
ancora Melucci in uno dei suoi ultimi testi, la cui difficoltà maggiore sta proprio
nell’assicurare a se stesso una unità e una continuità. Ora, un processo, per definizione,
non è mai compiuto, ed è oggettivabile solo con difficoltà.
Oggi dunque le identità sono sempre meno ascritte fin dalla nascita e immutabili, e
sempre più possiamo parlare di identità transitorie, liberamente scelte (e, nel caso di
alcuni gruppi religiosi del tipo ‘setta’, un po’ meno liberamente abbandonate), assunte
attraverso ‘socialità elettive’ – che codificano ma anche consentono l’ingresso nei nostri
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vari gruppi di appartenenza –, e poi ancora a carattere temporaneo, e infine, in molti
casi, multiple. Un processo che coinvolge le identità, ma anche la loro percezione, dato
che sembra di assistere a un divaricazione progressiva, quasi una forma di schizofrenia
sociale, tra identità sempre più incerte e (probabilmente non per caso: l’una cosa sembra
implicare l’altra) il bisogno sociale, ‘sistemico’ potremmo dire, di individuarle, di riconoscerle. Come ha sottolineato un’altra sociologo che ha affrontato il tema, Loredana
Sciolla, “i confini diventano incerti mentre, al contempo, aumentano, invece di
diminuire, le richieste di accertamento dei confini stessi da parte del sistema. L’identità,
non essendo più chiaramente definibile in termini oggettivi, diventa per l’individuo un
problema soggettivo”. E il soggetto stesso si è fatto più sfuggente. Non a caso qualcuno ha cominciato a mettere in connessione i processi di
globalizzazione, con le loro conseguenze in termini di incertezza e di indebolimento
delle identità, da un lato; e il bisogno di reinventarsele, delle identità più o meno solide
e fondate, dall’altro: che si chiamino localismi politici, fondamentalismi religiosi,
etnicismi, nazionalismi, o anche solo tribalismi urbani, quelli cui ricorriamo per bisogno
di gruppi coinvolgenti e talvolta onniavvolgenti – dalle sette religiose alle bande
giovanili, dai tifosi da stadio ai culturisti da fitness club, dai discotecari agli heavy
metal.
Ci hanno ragionato in tanti, su questo tema dell’identità: basti pensare ai tanti libri
odierni sulla globalizzazione, che ne é l’altra faccia, del nostro interrogarci sull’identità
– penso ai testi di Bauman, di Giddens, di Beck, e altri ancora. Anche sull’identità italiana, tanto difficile da definire, ci hanno dedicato le loro
attenzioni studiosi che hanno provato a divulgare le loro domande, i loro buoni
interrogativi, più che le loro risposte, che forse non hanno: penso a intellettuali così
diversi come Rusconi o Galli della Loggia, tanto per dire. Che hanno scritto ad
abundantiam su che cos’è l’identità italiana e il rischio di non essere più una nazione.
‘Identità italiana’ si chiama anche una collana della casa editrice Il Mulino, che cerca di
ritrovarne i frammenti un po’ dappertutto, di questa identità, dagli spaghetti e la pizza
alla madonna di Loreto.
Ma, ecco, direi che il problema è proprio questo: che, per le ragioni esposte prima, che
riguardano l’identità nella modernità, in generale, cui si aggiungono quelle storiche,
specifiche dell’Italia, si tratta di frammenti, non di un quadro organico. Non esiste, non
esiste più, forse non è mai nemmeno veramente esistito, un corpo unitario che li
racchiudesse. Ce lo siamo raccontato. Il che non significa che fosse vero. Un’altra,
anche questa, delle tante grandi narrazioni della modernità che la modernità stessa, o la
post-modernità, ha mandato in crisi. Non è un caso che il bel libro sui nazionalismi di
Benedict Anderson, in assoluto uno dei saggi più importanti degli ultimi decenni, si
intitoli Comunità immaginate. Dovrebbe farci riflettere. Se non altro sul fatto che non
esistono risposte semplici a problemi complessi. Che la globalizzazione, che dobbiamo
necessariamente ri-tirare in ballo, mette in questione anche le nostre identità: anche
quelle degli altri, del resto. Anche quelle dei musulmani.
Legata al problema dell’identità, è l’idea che abbiamo delle maggioranze e delle
minoranze. Non a caso viene tirata in ballo sempre più spesso, in questo periodo, questa
nozione: noi siamo la maggioranza, loro sono la minoranza, dunque decidiamo noi chi e
cosa sono loro, e soprattutto quali ‘loro’ decidiamo, eventualmente, di avere tra noi, tra i
piedi, i nostri piedi.
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E’ comprensibile, questa reazione: fisiologica, direi. E tocca un’altra importante
dimensione. Mette in gioco infatti la capacità di accogliere, di inglobare, o anche solo di
accettare di mala voglia la presenza di minoranze, cioè di persone che non parlano come
noi, non mangiano come noi, non vestono come noi, non pregano come noi, non
leggono il mondo – anche il nostro mondo – come noi: o anche una sola, o alcune, di
queste cose.
Il problema delle identità è anche un problema di maggioranze e minoranze. E qui c’è
un problema: di definizione.
Le minoranze esistono. E’ anche relativamente facile individuarle. Quando anche non le
vediamo, basta che si credano tali per esistere. E si inventano i loro miti: proud to be
gay, black is beautiful, ad esempio.
Ma il problema sta altrove: nelle maggioranze. Esistono, queste? Temo di no: non più.
Temo che la società stia cambiando anche in questo, che non sia più chiaro per niente
chi e cosa è minoranza, e chi e cosa – soprattutto cosa: quali valori, ad esempio – è
maggioranza.
Ho dato un’occhiata, attraverso il lavoro di un collega londinese che si occupa di media
e cultura, al dibattito sui giornali inglesi degli ultimissimi anni: a proposito di
insegnamento, ad esempio, e dell’opportunità di cambiare o di introdurre alcuni
contenuti, che tengano conto delle nuove presenze dovute all’immigrazione, per
esempio nei programmi di storia. In fondo è incentrato su questo interrogativo, sotteso a
tutti gli altri: what does it mean to be British?
Per noi è pure peggio, più difficile. La nostra identità è più precaria, più recente anche,
sottoposta forse, in passato, a prove storiche maggiori: cosa vuol dire essere italiani?
Ma il problema è più ampio. Torniamo agli inglesi: cosa definisce la maggioranza?
Essere bianchi? Anglicani? Prendere sul serio la regina? Bere il thé?
Il problema è tuttavia più ampio ancora. Non riguarda solo le nazioni, o alcune in
particolari: magari, come il Regno Unito, assai più sottoposte della nostra alla presenza,
molto visibile, di culture altre, diverse.
Il problema è che non esistono più, o esistono sempre meno, le maggioranze in sé. Non
solo le minoranze possono essere un costrutto culturale, in certo modo un’invenzione:
basta trovare il denominatore comune da cui far discendere il senso di appartenenza, che
sia l’appartenenza etnica, il colore della pelle, la religione, o le preferenze sessuali (e
sapendo che ciascuna di queste taglia trasversalmente le altre, e dà luogo a gruppi di
appartenenza diversi – e il problema è appunto quello delle identità: il problema è che
noi siamo tutte queste cose, e in fondo è una nostra scelta, non un dato, il decidere quale
fare prevalere…). Non solo, dicevo, le minoranze sono un costrutto culturale, quindi
contestuale, storico (vi sono oggi identità emergenti, di cui in passato non si parlava):
anche le maggioranze lo sono. Sono sempre meno oggettive insomma, anche se
soggettivamente siamo sempre convinti, implicitamente convinti, che esistano come
dato immodificabile, e magari di appartenervi, a questo dato, a questo corpo.
Non esistono dunque più, o quasi più, delle maggioranze in sé. Esistono sempre più
spesso, invece, delle maggioranze contestuali, legate a una certa forma di appartenenza,
a un certo periodo storico, magari, o a una singola occasione, come le maggioranze
elettorali: i soli casi in cui è relativamente facile (o facciamo finta che lo sia) dire quale
è la maggioranza, e che “la maggioranza vince”. Esistono solo, insomma delle
maggioranze a geometria variabile: come le ali degli aerei militari di oggi. Dunque,
esistono solo maggioranze al plurale. La maggioranza al singolare è un’astrazione, un
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assunto inesistente, una ipotesi basata, oggi, su poco, se non proprio sul nulla: un’ipotesi
di cui, tuttavia, abbiamo bisogno, perché ci aiuta a definire e a tenere in piedi l’ordine
sociale, e un’idea di unità, senza i quali è impossibile – o certamente più difficile, e
bisognosa di strumenti nuovi – una vita associata. E’ questa la tragedia in cui siamo
immersi, e che ci turba: il nostro modello di sviluppo, forse i nostri valori più diffusi,
vanno in una direzione che rende difficile mantenere in piedi un modello associativo
unitario, condivisibile da tutti, in cui ci si possa, per lo meno, riconoscere, quanto meno
parzialmente.
Le minoranze del resto hanno lo stesso problema: non solo sono plurali tra loro; sono
plurali al loro interno (inclusi i musulmani). Ma sono, alcune almeno (come i
musulmani da noi, ad esempio), in una fase iniziale della loro storia: in un certo senso,
ancora non lo sanno… Possono più facilmente credersi una cosa sola. O meglio lo
sanno, lo sentono, che non lo sono più: ma riescono ancora, per ora, a nasconderselo.
Anche perché la cosiddetta maggioranza li interpreta come loro vorrebbero essere e non
sono: una cosa sola, appunto, unitaria.
Ma come dicevo, la crisi è più grave, per la maggioranza, e più inesplicabile, meno
facilmente accettabile. Come è possibile accettare, con nonchalance, come se niente
fosse, di scoprire che non si è più dominanti, che il mondo non si riduce più a se stessi?
E’ sempre stato così: le idee dominanti sono le idee della classe dominante, diceva
Marx. Giravano quelle, anche se ce n’erano anche altre, tuttavia subordinate, assai meno
visibili. Ma dominanti e dominati potevano credere di avere anche qualcosa in comune,
un’identità in comune. E’ ancora così?
E’ difficile, per esempio, per i cattolici, ammettere che non si è più una maggioranza,
come lucidamente fa, solitario, il cardinal Martini. E’ più normale, anche se meno
fecondo, e certamente assai meno ‘spirituale’, cercare di lucrare il massimo che si può
in termini di visibilità, di istituzionalizzazione, di buoni-scuola, di dichiarazioni
politiche, di spazi in televisione, di soldi, di ossequio, magari solo formale. La
permanente tentazione costantiniana della chiesa. Di tutte le chiese. Di tutte le religioni,
anche se altrove si chiama diversamente.
Il concetto è semplice: si è diventati minoranza. Ma non è per niente semplice da
accettare. E neanche da comprendere veramente, in tutte le sue implicazioni.
E poi la società, la politica, i giornali, e anche le istituzioni religiose, hanno bisogno di
idee semplici, anche semplificatorie, di slogan. Non sanno che farsene di lucidità, di
articolazioni, di sfumature. Sta qui un’altra faccia del problema. Dietro cui si nasconde
la nostra interrogazione sull’identità. Mi raccomando, che sia semplice e chiara: è
questa la nostra attesa. La realtà è però diversa: la nostra identità è esplosa, si è
frammentata, è contraddittoria, ambigua, fatta di pezzi che tra loro sarebbero
inconciliabili. Per questo ci fa piacere quando ce la semplificano. E’ un sollievo alla
faticosa ansia di esistere. Questo, credo, spiega il successo delle risposte facili, come quelle della Fallaci. Ci
consentono, per un po’, di non pensare. Ci danno risposte apparentemente
incontrovertibili. Semplici, soprattutto. Poco importa che siano false, menzognere. E
che paghino – o meglio, facciano pagare – il prezzo di una semplificazione brutale,
scorretta, menzognera appunto, dell’identità altrui. Che importa, se a rimetterci sono gli
altri.
Torniamo ai rapporti con l’islam, anche quello di casa nostra.
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Non occorre inventare conflitti inesistenti. Tanto meno crearne. Al contrario, dobbiamo
operare per arginare quelli in atto. Ed evitare che si manifestano quelli potenziali.
Ma quelli in atto dobbiamo gestirli al loro livello. Non useremmo l’atomica contro
l’Africa per combattere la zanzara tigre che da lì è venuta e ora ci dà fastidio, in qualche
esemplare, nelle nostre città. Bene. Con lo stesso criterio, non possiamo passare da un
conflitto su una singola moschea allo scontro di civiltà con l’islam (e a proposito: l’altro
contendente, il ‘nostro’, chi è? Un sistema economico? Un potere politico? Una
religione? Tanto per capire…). Così come non possiamo passare dall’attacco alle Twin
Towers alla crociata anti-immigrati. Non sono problemi dello stesso livello. Spesso non
sono nemmeno lontanamente legati. Colpire duro, durissimo, la violenza, i malviventi. Ma per quello che sono. Non dare
l’impressione che lo si fa per altri motivi. E’ sgradevole. Irritante. Per noi. Figuriamoci
per i musulmani.
Ci sono terroristi? Arrestiamoli. Ci sono persone che fomentano conflitti?
Disattiviamone le potenzialità distruttive. Bisogna controllarli? Controlliamoli. Non li
abbiamo controllati abbastanza? Facciamo ammenda e incrementiamo la sorveglianza.
Ma basta. Non più di questo. Non inventiamoci dei nemici. Ce n’è già abbastanza.
Sarebbe assai triste dover scoprire di averne addirittura creati.
30 settembre
Sarà una forma di inconscia protesta culturale? Scegliendo un disco da mettere di
sottofondo per mettermi a scrivere dell’Oriana, l’occhio mi era cascato, imperiosamente
– giuro, non invento niente –, sul Ratto del serraglio di Mozart. Un’opera in cui il
musulmano di turno ci fa bella figura: meglio degli europei. Come nel Nathan il saggio
di Lessing, che forse oggi ci sarebbe utile rileggere. L’opera di Mozart, deliziosa, è del
1782. Il saggio di Lessing del 1778. Allora si poteva dire. La cancelleranno dal
repertorio, come voce fuori dal coro? Naturalmente, l’ho infilata nel mio cd…
Continuano i commenti all’uscita del cavaliere. E a quella dell’Oriana. Che sono una
cosa sola. Il cavaliere ribadisce che ha detto “solo quello che tutti pensano”, il che è
probabile. Che il ragazzo abbia fiuto a intuire dove va e cosa vuole la gente è innegabile
come l’attacco alle Twin Towers, altrimenti non avrebbe fatto la fortuna che ha fatto,
negli affari prima, e in politica poi (come l’abbia fatta, è un altro discorso, più fumoso e
vago: come il fumo che è rimasto dopo e intorno alle Twin Towers). Ma dice anche che
avrebbe preferito dirle, quelle cose che tutti pensano, alla maniera della Fallaci, il cui
articolo sarebbe “uno dei più belli che ho letto negli ultimi anni”. Non ne dubitavamo.
Che questo l’avrebbe letto.
Di passaggio, una banda di idioti manda in frantumi le vetrate del centro islamico di
Imola. Il sindaco ha espresso la sua solidarietà, e punto e a capo.
Credo, davvero, che quanto succede in questi casi sia interessante. Primo, succede poco,
meno di quanto avrei temuto in un primo momento. Me lo confermano anche alcuni
interlocutori islamici sentiti qua e là. Secondo, quando succede, serve a ricompattare dei
legami sociali primari, o addirittura a crearli, laddove non esistevano. Ancora una volta,
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una fase di conflitto serve a raggiungere un livello di equilibrio più elevato.
Interessante.
Repubblica esce con un dossier di due pagine sui musulmani italiani: una onesta
mappatura, niente di più e niente di meno. Per quanto venga da un giornale ‘ufficiale’,
sembra quasi controinformazione, tanto è rara.
Ne viene fuori anche l’immagine litigiosa – rispondente al vero – di alcune primedonne
islamiche, tutti convertiti, tutti a denunciarsi l’uno con l’altro (e non a denunciare fatti: a
seminare delegittimazioni, delazioni di idee – fossero di fatti sarebbero utili alle
indagini, dunque benemerite…). Cito questi, perché di loro in questo dossier si parla;
ma ce ne sono tanti altri. Gabriele Mandel, leader di una confraternita mistica, dichiara:
“Qui a Milano c’è una cellula attiva di Bin Laden ma nessuno osa dire niente. Se i
servizi segreti fossero più attenti, capirebbero”. Perché intanto lei non informa la
polizia, come suo dovere di cittadino italiano? Omar Camiletti, un convertito romano
che fa capo alla sezione italiana della Lega musulmana mondiale (i sauditi della
moschea di Roma, per capirci), dice: “Bisogna tagliare i ponti con l’islam settario e
violento che si considera tutore della verità. Mi riferisco ai nostri fratelli dell’UCOII.
Bisogna rompere senza indugi con l’ideologia che alimenta il fanatismo”. Discorso
corretto in sé: ci mancherebbe. Ma che così posto somiglia un po’ a un avvertimento
trasversale; come dire: loro hanno cattive frequentazioni e ideologie – noi no,
naturalmente. E Abdul Hadi Palazzi, già presentato qualche sera fa alla RAI come imam
dei musulmani italiani (la cosa deve essere andata così: avranno detto a un giornalista di
intervistare un autorevole rappresentante musulmano. Lui avrà digitato le parole
‘musulmani’ e ‘italiani’ su un motore di ricerca, e sarà venuta fuori la persona in
questione, che infatti è direttore o presidente di una Associazione Musulmani Italiani
fondata con quattro amici, ma con un sito web – oltre, la sua autorevolezza non va. Ma,
e lo diciamo al giornalista in questione, sarebbe come realizzare un servizio sui cattolici
italiani intervistando monsignor Lefebvre come loro leader spirituale…): anche lui fa
riferimento all’UCOII per denunciare “la presenza in Italia di un’area islamica che
legittima il terrorismo”.
Sono imbarazzato a parlare di queste cose. In primo luogo, perché conosco
personalmente tutte le persone qui citate, alcune da molti anni. E ho timore che la cosa
venga presa sul personale: non vorrei rompere conoscenze di vecchia data. Ma non solo:
non è questo lo scopo. Non ho difficoltà, del resto, a dichiarare stima personale per
diverse delle persone qui citate. E so benissimo, innanzitutto per esperienza personale,
che una dichiarazione su un giornale non descrive il suo autore (quanto volte mi hanno
attribuito, e come a me a loro, cose mai dette, per quanto virgolettate!). E che in ogni
caso una singola dichiarazione non descrive la complessità di un pensiero, e tanto meno
di una persona. Ma mi servono, per così dire, per tentare di articolare un discorso più
generale.
Ci sono abituato, a sentire di queste dichiarazioni: sono anni che alcuni leader di alcuni
gruppi, grandi e piccoli (e parlo di altri, stavolta, non di quelli qui citati), passano il
tempo a sparlare l’uno dell’altro, anche in pubblici convegni, con termini al limite e
talvolta oltre il limite della denuncia penale per diffamazione. Un paio di
associazioncine, che pure anche loro pretendono di rappresentare i musulmani nella loro
totalità, ne hanno fatta la loro principale ragion d’essere, di questa attività. E non me ne
frega niente, ovviamente, di queste diatribe. Cavoli loro. Men che meno mi interessa
! 69
valutare la fondatezza degli uni o degli altri giudizi. Mi limito a constatare l’attivismo.
Normale, forse, in una situazione normale (non è che i gruppi cattolici, per dire, siano
teneri l’uno nei confronti dell’altro: e quanto a sparlare, non si scherza affatto… Per non
parlare dei gruppi politici, naturalmente). Ma è forse più stupefacente, questa
predilezione, in momenti così drammatici, dove forse ci sarebbe altro da fare, quanto a
priorità. Non è che questa litigiosità sarà influenzata, tra le altre cose, anche dal fatto
che alcuni di questi sono tra loro concorrenti nell’ipotesi di Intesa – sempre più lontana,
con queste premesse – con lo stato: e, magari, nelle speranze di suddivisione del futuro
otto per mille, sulla entità del quale, peraltro, si fanno notevoli illusioni?
Di fronte a tutti questi leader e leaderini tra loro in contrasto, e occupati primariamente
a farlo notare, suonano sideralmente distanti e sagge le semplici parole di un seguace
del movimento Tabligh, che è un gruppo religioso islamico che potremmo definire
pietista, molto attivo ma rigorosamente apolitico: “Noi rispettiamo le leggi italiane.
Certamente sono preoccupato, chiediamo a Dio la sua misericordia, noi non vogliamo la
guerra né contro i musulmani né contro altri (…). Noi non vogliamo che nessun
musulmano in Italia violi le leggi dello stato: chi non è d’accordo se ne torni al suo
paese”.
Naturalmente, in questi momenti c’è spazio per gli esaltati di tutte le latitudini. Che non
rappresentano nessuno: ma in certi momenti basta alzare la voce per trovare orecchie
pronte ad ascoltare – anzi, più la alzi, e più dici fesserie, più ti intervistano volentieri.
Come quella Aisha, che dirige la rivistina fai da te – ciclinprop, come si diceva una
volta – al-Mujahidah, la combattente, anche lei citata in questo dossier. Abituata ad
esaltare l’Afghanistan e qualsiasi altra causa persa purché islamica, scambiando alcune
situazioni tra le peggiori del mondo con il paradiso terrestre. Ricordano tanto certi
alleati della Cambogia o entusiasti della rivoluzione culturale cinese, oggi magari finiti
a fare politica con il Polo; persone che venivano ricevute come presidenti quando
andavano a trovare Mao (e qualcuno anche Enver Hoxha). Aisha non la riceve nessun
presidente, e non arriva probabilmente alle dita di una mano, quanto a numero di
seguaci (i filocinesi d’antan, quanto meno, per un po’ sono andati di moda). Ed è
pericolosa uguale – cioè poco, in fondo – ma pretenziosa di più, perché lo fa in nome di
Dio. Comparse della storia, anzi nel nostro caso della cronaca, che per esistere hanno
bisogno di identificarsi in cause più grandi di loro (stile Davide contro Golia), e
possibilmente impossibili (a differenza di quella di Davide).
So di cosa parlo. Perché il caso vuole che Aisha la conoscessi quando ancora si
chiamava Barbara e non era musulmana. Studiavamo insieme arabo all’ISMEO di
Milano (lei, devo dire, con più lusinghieri risultati…); era mia compagna di classe. Ha
passato più di un pomeriggio a casa mia, a catalogare i miei libri sull’islam. Gliene ho
prestati molti, ed era buona letteratura: al-Hallaj, al-Ghazali… Poi ha preso un’altra
strada, e fatto la fine che ha fatto, e da quando l’ha fatta non ho più sue notizie dirette. E
finché fosse rimasta un raro caso di italiana col burqa – una malattia come tante, ma
grazie a Dio non infettiva – potevano anche essere solo fatti suoi. Ma adesso si è messa
in testa di fare la pasionaria, il Toni Negri della situazione: che si espone solo
verbalmente, ma col rischio che qualcuno faccia il lavoro sporco che lei non fa. Anche
se il paragone non tiene fino in fondo. Di Toni Negri si poteva almeno dire ‘cattivo
maestro’. Della giovane Barbara, al massimo, ‘cattivella’, o ‘sciocchina’. Anche perché
occorre almeno studiare per esserlo, un maestro. E Toni Negri ha certamente studiato di
più. In compenso è una che tutte le volte che va in televisione fa perdere una buona
! 70
percentuale di simpatia – della poca che è rimasta – ai musulmani che vivono in Italia:
aumenta lo share, e crolla contestualmente l’indice di gradimento del prodotto – se ne
accorgono, almeno? Lo sanno di fare dei danni ai loro confratelli e alle loro consorelle?
Del resto non è la sola. Penso a quell’Adel Smith, che anche lui si è fondato con quattro
accoliti una organizzazione pomposamente denominata Unione dei Musulmani d’Italia,
di cui manco a dirlo è presidente. Ne parlo già nella prima ricerca che ho fatto
sull’islam, ormai dieci anni fa, di questo mediocre mestatore professionale,
specializzato in una trista letteratura anti-ebraica e anti-cristiana. Notando peraltro, già
allora, la sostanziale condizione di marginalità dell’individuo rispetto alla comunità
islamica. Oggi torna a nuovi fasti mediatici: perché è proprio il musulmano qu’il faut.
Proprio quello che serve a certo giornalismo, per non parlare del peggio dell’antiislamismo in circolazione. Se non ci fosse, bisognerebbe inventarlo, un musulmano così
(anche se, purtroppo, c’è): difende Bin Laden, odia ebrei e cristiani, parla di Cristo con
disprezzo e della Bibbia con livore, ha un vocabolario intriso di odio e capziosità,
capace solo di legalismi e giuridicismi e del tutto privo di umani sentimenti, si è
specializzato nel sobillare l’ignoranza di alcuni (pochi) immigrati per lanciarsi in inutili
battaglie contro simboli di secoli fa (ma tutto serve, se serve a mettersi in mostra. Come
il suo tentativo, sgonfiatosi prima ancora di partire, di lanciare una campagna contro un
dipinto di una chiesa di Bologna, perché vi si raffigurava Maometto all’inferno: ma si
guardi intorno, e dentro il suo mondo, anche nei libelli che circolano, che scrive, che
pubblica, che diffonde, guardi a quello che dicono di cristiani ed ebrei di oggi, senza la
scusa del conflitto che opponeva i due mondi ai tempi delle Crociate!). E naturalmente è
convinto, manco a dirlo, che la sua religione sia superiore a tutte le altre (indegne anche
di essere considerate tali), la sua cultura pure, e per finire di essere lui superiore a tutti
gli altri musulmani.
Sono tempi buoni, per questi figuri: sarà per questo, tra l’altro, che tendono a
ingrassare… – lo respirano col fisico, il loro momento di gloria.
Mi arrogo il diritto di una domanda: i musulmani si chiedono, ogni tanto, chi fa del
male all’islam? E se vengono sempre da fuori, i nemici?
Ma credo che la sappiano, la risposta. E ne soffrano quanto e più di noi. Anche perché
ne soffrono le conseguenze. La domanda vale, tuttavia, per quei quattro che li seguono.
E per quelli che non li criticano abbastanza.
Ma c’è anche da stigmatizzare il ruolo dei media: di alcuni, almeno. Che proprio questi
vogliono, e quindi proprio a questi danno spazio. Faccio un esempio, tratto dal vero. Un
mio amico, esponente musulmano di rilievo, più volte ospite anche di trasmissioni
televisive, e spesso fotografato e intervistato sulla stampa, ha una posizione fuori dal
coro, o di quello che si dice sia il coro: è favorevole a che si attacchi Bin Laden, anche
in Afghanistan se necessario, perché lo considera un terrorista e considera il regime in
questione indifendibile, e colpevole di atti criminosi. Bene. E’ stato chiamato per
partecipare a un noto salotto televisivo. Si erano già messi d’accordo. Poi gli hanno
chiesto cosa ne pensava delle vicende in corso: lui gliel’ha detto, e non l’hanno invitato
più. Del resto, anche a parlare a nome dei cristiani invitano più volentieri Baget Bozzo.
Logica perversa – comprensibile, visto che i media funzionano così (ma funzionano
male: si può dire?), ma oltre certi limiti anche irresponsabile e deontologicamente
reprensibile: chi le dice più grosse, ha più spazio, chi alza di più la voce, ha più voce,
più megafono, offerto da noi. Poi gli stessi media si lamentano che i musulmani sono
fanatici. E via così…
! 71
C’è una responsabilità grave, allora, di questi media. Che comincia dall’abc della serietà
professionale. Alcuni testimonial islamici finiscono in tv in qualità della sigla che
ostentano: Unione Musulmani d’Italia, per dire, suona autorevole. Ma un giornalista
avrebbe il dovere, prima di invitarli, di chiedersi e di chiedere in giro (è troppo chiedere
a un giornalista di informarsi, prima di informare o disinformare, se è questo il
risultato?), per sapere di che si tratta. Perché sennò sarebbe come se io mi inventassi una
Unione dei Cattolici d’Italia, e allora, a rappresentare il mondo cattolico, invitassero me.
O, per buttarla in politica, visto che questo molti di questi giornalisti fanno, si facesse
una trasmissione o un articolo sulla destra e si intervistasse solo il leader di un gruppetto
neonazista, o sulla sinistra e si invitassero solo i black bloc: Fini e Berlusconi nel primo
caso, o Bertinotti e Rutelli nel secondo, avrebbero giustamente qualcosa da ridire. Così
come avrebbero da dire, e giustamente, non solo Ruini e Sodano, ma anche il mondo
dell’associazionismo, dalla Caritas alle Acli, o gli ordini religiosi, se a parlare a nome
dei cattolici italiani ci andassi io, o il primo imbecille che passa per strada.
Mi arrogo il diritto di un’altra domanda: ma si può, fare i giornalisti così?
Belle invece le interviste volanti raccolte nelle moschee del nordest. Intrise di saggezza
popolare. E sobrie, nonostante siano state raccolte nel pieno del dopo-Berlusconi. “Il
pesce puzza dalla testa” (ogni riferimento a presidenti del consiglio realmente esistenti
immaginiamo sia puramente casuale); “Non sono medico e non mi sognerei di parlare di
medicina” (idem); “Quando Berlusconi sarà dimenticato, l’islam esisterà ancora”.
Saggezza antica: quella che avrebbero potuto esprimere i nostri nonni, e forse anche
qualcuno dei nostri padri. Che sia vero, come diceva Louis Massignon, che i musulmani
sono “i nostri antenati contemporanei”?
Ancora: “Che senso ha confrontare occidente e islam? Il primo è un luogo geografico, il
secondo è una fede. Se discrimini il secondo, che ne fai degli islamici che abitano e
sono nati in occidente?” (beh, Baget e la Fallaci una risposta ce l’avrebbero…).
Ancora: “Noi siamo contro il terrorismo, siamo stanchi di dirlo, non possiamo sentirci
continuamente sotto osservazione. E poi, questo clima di crociata. Che senso hanno le
bombe sull’Afghanistan? Sarebbe come bombardare la Sicilia perché c’è la mafia”.
Ancora: la logica semplice, stringente, dell’imam di Vicenza: “Qui tutti hanno capito
che fra noi e gli attentatori di New York non c’è legame alcuno. Il permesso di
soggiorno è il nostro contratto con lo stato italiano, ed è proprio l’islam a dirci che le
leggi del paese che ti ospita non si discutono. La gente ha capito: non c’è scontro di
civiltà”. Già: i musulmani sembrano essere meglio di come li dipingiamo, o di come si
manifestano alcuni loro leaders o aspiranti tali. E per i leghisti è uguale. A dispetto dei
Borghezio, dopo tutto, neanche qui succede nulla: non si bruciano moschee, non si
organizza la caccia al marocchino. Saggezza popolare.
Chissà se le semine di questi giorni peggioreranno la situazione?
Chiappori, sul Corriere (a pagina 39, però): “Ha ragione il premier Berlusconi…” “…
l’occidente è al di sopra dell’islam”. “Come il premier è al di sopra di ogni sospetto!”
Ma una pagina intera, la 10, è dedicata alle reazioni allo scritto dell’Oriana: “Cara
Oriana, ho pianto”. Anche io. Ma per motivi diversi.
Si parla di migliaia di messaggi. Accuratamente scelti, mi dirà qualcuno dall’interno,
giorni dopo. Anche se non dubito che in maggioranza siano rimasti entusiasti.
! 72
Altrimenti non avremmo il governo che abbiamo. E non circolerebbe la cultura che
circola.
Qualcuno osa ricordare che “basterebbero una ventina di lettere così per causare nuovi
guai, perché, chi legge odio, odio raccoglie e odio diffonde a sua volta, in nuove e non
sempre prevedibili forme”. Vorrei baciare l’autore. Ma anche dirgli che si sbaglia, che
sono più pessimista di lui: ne basta una, di lettera così. E avanza.
Vado sui titoletti dati agli interventi dei lettori: un italiano con gli attributi [e che li
mostra, sporcacciona]; peccato non averti letto prima; un testo per le scuole [contiamo
su quelle private, almeno]; da conservare [lontano dalla portata dei bambini,
possibilmente]; coerenza da premio Montanelli [poveraccio, che compagnia, per uno
che quelle cose non le avrebbe mai scritte]; datele la medaglia d’oro; un nuovo faro
liberale [e luce fu]; pane al pane [e piombo al piombo]; Dio la benedica [e stramaledica
gli islamici]; una voce rivoluzionaria; il nuovo tricolore…
No (other) comment.
Nella pagina a fianco gli intellettuali (che la Fallaci tanto strapazza) dicono la loro. Con
poche eccezioni (Dacia Maraini, ad esempio) è un coro di superlativi. E che bei nomi,
Oriana! Vittorio Feltri (“Mi ha chiarito idee che avevo in testa”; persino, lui di solito
così umile…), Giuliano Urbani (“condivido dalla prima all’ultima parola”; è abituato,
del resto, a condividere), Carlo Rossella (“un grandissimo articolo, tra i più belli che
abbia mai letto”), Baget, ovviamente (“finalmente qualcuno dice la verità sul pericolo
islamico”. Ora siete in due. Milioni. Solo tra gli intellettuali). Come si dice: “dagli amici
mi guardi Iddio, che dai nemici mi guardo io…”
Il controcanto: Massimo Fini (“una visione manichea”), Dario Fo, Gad Lerner, e un
sorprendente Roberto Calderoli, forse memore delle ironie su Bossi. Manca Franco
Cardini, uno dei pochi intellettuali che, dall’inizio, abbia rifiutato esplicitamente il
manicheismo corrente nei confronti dell’islam. Si saranno dimenticati.
Al centro della pagina, un riquadrato, piccolo ma visibile, con la notizia peggiore di
tutte, ma che non ci sorprende neanche un po’: la Lettera da New York diventerà un
libro. “Il volume sarà arricchito da un’ampia introduzione a cui Oriana Fallaci sta già
lavorando”. Ci toccherà di lavorare ancora anche noi…
Il più bel commento degli altri giornali? Su Avvenire, Lupus in Pagina. Perché è un
riassunto dell’Oriana con le parole dell’Oriana, ridotto a pochissime righe. Fa ridere da
solo. E conclude: “Nostalgia di Montanelli…” Già. Se ne vanno sempre i migliori.
Intanto si incontrano un centinaio di esponenti religiosi in Campidoglio. E Ratzinger
riesce a fare la lezione a Berlusconi: insegnando almeno a distinguere, quando si parla
di superiorità (e lui non ne parla: magari lo pensa, ma rinvia il discorso ai necessari
approfondimenti), il piano storico da quello culturale. Quello che troppi non hanno
fatto, in questi giorni.
Pensare che è l’abc. Grazie anche a Ratzinger (chi l’avrebbe mai detto?).
C’era bisogno, soprattutto oggi, soprattutto qui, in Italia, che si rendesse visibile un
gesto reciproco di riconoscimento. E’ quello che hanno compiuto quei responsabili
religiosi che si sono incontrati tra loro. Mi permetto qualche riflessione più ‘larga’, sul tema dei rapporti tra cristiani e
musulmani. Partendo da un gesto. Quello del Papa in visita alla moschea di Damasco.
! 73
Lo ammetto, mi fa comodo parlarne adesso. E’ biecamente strumentale. Lo uso per
rivolgermi ad alcuni esponenti cristiani. Anche autorevoli. Come quel vescovo di
Bologna, tanto per non far nomi, che ha pensato bene, nel pieno di questa crisi, poco
dopo l’attentato al WTC, di maramaldeggiare ritirando fuori le sue note posizioni
sull’islam. Un gesto non solo cinico, ma irresponsabile: quasi una chiamata allo scontro.
Mi viene facile, di fronte a queste reazioni nervose, pensare al gesto, pacato, del Papa, a
Damasco: roba di poche settimane fa, dopo tutto, mica preistoria. Sì, perché più che la
parola, conta il gesto. E il gesto, per una volta, è stato chiaro, visibile – e visto.
Come a Roma, quando fece visita alla sinagoga, come a Gerusalemme, quando si
raccolse in preghiera al Muro del Pianto, forse anche come ad Assisi, dove tuttavia la
chiarezza del messaggio, forse troppo generico, è stata inferiore, così a Damasco: la
visita del Papa alla grande moschea omayyade si offre con la pedagogia comprensibile a
tutti e l’efficacia simbolica immediata di un gesto.
Non era la prima volta che il Papa si rivolgeva a un pubblico musulmano, e in terra
d’islam (era già accaduto in Marocco, e altrove). Ma il gesto di Damasco, questo gesto
semplice quanto impegnativo, conta, e resterà. Qui il Papa – con la scusa, ci verrebbe da
dire, del pellegrinaggio sulle tracce di un testimone cristiano, Paolo l’evangelizzatore, e
della visita alla tomba di quel Giovanni il Battista che la tradizione islamica venera
nello stesso luogo sotto il nome di Yahya – è entrato in una moschea, ha pregato in essa:
l’ha riconosciuta dunque, implicitamente, come luogo di preghiera, come luogo
religioso, come luogo di rapporto con Dio. Niente di eccezionale, verrebbe da dire a un osservatore esterno. Eppure eccezionale lo
è. Perché è un po’ come riconoscere in chi lo compie come gesto ordinario della propria
fede quella legittimità (la parola è brutta, e ha un sapore orrendamente legalistico, ma
rende l’idea sottesa di un riconoscimento di diritti posseduti, come dire, in essenza) che
significa dire: sì, anche tu, in questo, sei come me, e ti rivolgi a modo tuo allo stesso
Altro che io riconosco come tale. Ma compiuto dal Papa, per quello che rappresenta, è
ovviamente altra cosa.
Conta più delle parole, questo semplice gesto, ai nostri occhi dovuto, e che tuttavia si è
fatto attendere così tanto: quattordici secoli… Più delle parole pronunciate, che sono
state comunque parole di pace, e soprattutto di pace religiosa (quella richiesta ad altri –
alla politica, agli eserciti – è più scontata, e fin troppo facile). Parole che cozzavano con
la povertà spirituale, per non dire altro, delle improvvide e tutte politiche, anche se
religiosamente mascherate, parole del presidente siriano, che accoglieva il Papa, sugli
ebrei popolo deicida: un salto indietro teologico non giustificabile nemmeno dal
tremendo salto indietro sulle vie della pace concreta (tra israeliani e palestinesi, non tra
ebrei, cristiani e musulmani) che l’Israele odierno, purtroppo, ci mostra.
E’ dunque per quel gesto di un Papa dentro una moschea, e non più contro l’islam, che
questo viaggio, nel declinare e nel progressivo spegnersi di questo papato, sarà
ricordato. I cristiani non dovrebbero aver bisogno delle parole e dei gesti di un Papa, o di una
qualsiasi altra autorità religiosa, per giustificare ciò che dovrebbe trovare già sufficienti
ragioni, e sostegni, e giustificazioni nei Vangeli. La parola di Dio potrebbe bastare, per
giustificare il dialogo con tutti, anche con i musulmani. Ma è nel dialogo all’interno
stesso delle comunità cristiane, ci sembra, nel dialogo tra chi vuole aprirsi ad un
confronto con l’islam e chi nei confronti dell’islam e dei musulmani si pone in maniera
conflittuale, che questo non bastava più. Ed è in questo dialogo interno – che non poche
! 74
volte, ultimamente, ci è parso di intuire come più difficile e faticoso di quello con
l’islam medesimo – che il gesto del Papa, oltre a gratificare e rincuorare i primi, serve,
fa comodo.
Oggi, talvolta, il confronto con l’islam sembra essersi fatto più duro, e spesso si
trasforma in scontro. Sul piano internazionale, dove al di là di luoghi e momenti di
scontro reale, una volontà potente e ‘interessata’ spinge nella direzione del conflitto, sia
in occidente sia nel mondo islamico. E sul piano interno, in Europa e in Italia, dove la
presenza di minoranze musulmane sempre più numerose e radicate (di fatto, ormai, la
seconda religione in tutti i paesi europei), e ormai definitivamente e irreversibilmente
‘europee’ (ché tali diventano nel passaggio dalla prima generazione di immigrati alle
successive, nate qui), comincia a suscitare, pur in presenza di processi di inserimento
globalmente positivi, reazioni inquiete, nervose, talvolta scomposte, in settori
significativi del mondo laico, della politica, dei media, ma anche degli ambienti religiosi
e delle chiese.
In Italia ne abbiamo avuti recenti e significativi esempi con le prese di posizione,
tutt’altro che isolate, del cardinal Biffi, di cui si è già parlato, e a seguire dei vescovi
dell’Emilia-Romagna (neanche uno che esplicitasse un dissenso pur ammesso magari in
privato, in altre forme, le solite: velate, nascoste, ambigue… quelle che hanno dato il
senso odierno e diffuso, giustamente squalificante, alla parola ‘curiale’): posizioni che
hanno rappresentato la riconferma di una certa refrattarietà di alcuni ambienti ecclesiali
a un dialogo, interno prima ancora che esterno, franco ed esplicito – a una elementare
dialettica democratica, vorremo dire, o almeno a un po’ di quella che nel linguaggio
neotestamentario si chiama correzione fraterna.
Non è, questa, la posizione della chiesa cattolica in quanto tale. Le parole e i gesti stessi
del Papa, persino del Papa, l’hanno mostrato e dimostrato (e, a voler usare, ancora una
volta tatticamente, un argomento che ci è estraneo, quello autoritativo, ricordiamo che
un Papa conta più di un cardinale …). Tuttavia è la posizione di una fetta tutt’altro che
trascurabile di clero, di credenti – non solo cattolici, peraltro –, e pure di parecchi non
credenti, come abbiamo abbondantemente visto in questi giorni.
E’ bene che sia così, dopo tutto: che le posizioni siano chiare, senza equivoci, e che si
sappia che ce ne sono (almeno) due – nelle chiese come nella società. E che queste
posizioni discutano, litighino anche. E’ così che crescono e si rinforzano, comunque
vada. E’ così che deve essere. 1 ottobre
“E l’Italia si divise nel segno di Oriana”. E’ il solito paginone del Corriere. Con pareri
effettivamente divisi. Quasi equamente. Mentre quelli scelti tra i lettori lo sono assai
meno. I soliti titolini: indifferenti, leggetela!; fuori dal coro; ora conosco la libertà; ieri
pecoroni oggi orgogliosi; una sveglia per gli italiani; parole chiarificatrici; esempio per i
giovani; contro le ipocrisie; una strigliata ai politici – la solita retorica solfa.
La più bella eccezione? E’ intitolata “Se picchieranno mio padre”: “Se ora, quando mio
padre esce per strada viene chiamato sporco arabo o nel peggiore dei casi picchiato, stia
pur certa che nel profondo del mio cuore La ringrazierò a vita. Io non sono altro che una
diciottenne italiana, cattolica, che come unica colpa ha quella di avere origini arabe”.
Firmato Yasmine Kredi.
! 75
2 ottobre
“Ormai l’attacco non può più tardare”. “La pazienza dei media ha un limite”. Ancora
Ellekappa, pungente come al solito.
Il fronte di guerra si muove, intanto. Si parla di un secondo paese musulmano nel
mirino. Un po’ di talebani disertano. Una scheda sul paese mi ricorda che l’aspettativa
di vita in Afghanistan è di 46 anni. E destinata a scendere. La nostra è di una trentina
d’anni più alta. E’ vero, allora: siamo superiori. Perché dunque ci abbassiamo ad
attaccare degli inferiori? A ridurgli ulteriormente una vita già corta? Parole sante? Quelle del vescovo di New York, Edward Egan, al sinodo. Chiaro e
schietto, come si dice debba essere un degno americano. Parla della missione USA
chiamandola job. Testimonia dei soccorsi dicendo di aver visto “un sacco di santità. Una
quantità tremenda di santità”. E aggiunge: “Certo che vogliamo giustizia. Se possiamo
identificare i responsabili, individui o gruppi che siano, vogliamo che siano portati
davanti alla giustizia. Ma non vogliamo essere coinvolti in un’altra ingiustizia”. E
chiude: “Dovremo anche fare un esame di coscienza. Chiederci: dove abbiamo
sbagliato?”.
Un imbelle pacifista, un pavido intellettuale, uno che cala le braghe di fronte al nemico?
O, lui sì, un sano patriota, e un decente cristiano?
Altro paginone sul Corrierone. Altri titolini sulla Fallaci: mia figlia la leggerà fra
vent’anni; finalmente una fonte autorevole; ecco la nostra civiltà; portiamolo nelle
scuole; come il discorso di Solzenicyn; Oriana senatore a vita; l’orgoglio di essere
italiana; ora ho la forza di parlare; il coraggio di pensare; non ritorni nel suo silenzio.
Più due o tre critiche.
Come si costruisce un successo editoriale.
Quasi mi dimenticavo di Sartori. Imperdonabile.
Eh sì, perché il nostro illustre politologo si mette a discettare di nuovo, come nel recente
passato, quando era in tamdem con Biffi (il diavolo e l’acquasanta per una volta
d’accordo), sull’islam, anche se lo spunto, che sarebbe stato interessante, sono i perché
dell’antiamericanismo. Con questi risultati, sempre sulla prima pagina del Corriere (e a
proposito, ci piacerebbe che qualcuno ci spiegasse il perché di quella che sembra essere
diventata una campagna di stampa in piena regola del nostro maggiore quotidiano):
“Nemmeno è vero che l’America è odiata perché sostiene governi corrotti e repressivi
che conculcano i loro popoli. Questa poi [strano, manca il punto esclamativo, ndr.
Notoriamente non è mai successo che l’America conculcasse…]. I musulmani si
iscrivono a una civiltà teocratica che rifiuta frontalmente la laicità, le libertà individuali
e la democrazia”. Eccoteli sistemati.
Vale la pena andare a vedere le radici profonde dell’anti-islam(neanche -ismo) di
Sartori, per parafrasare Sartori e le sue radici dell’antiamericanismo. Forse c’è caso che
impariamo qualcosa su un modo di ragionare assai diffuso (che spiega il successo del
Sartori esso medesimo). Vediamo.
! 76
La presunzione e le certezze di Sartori sono le stesse della Fallaci, che Sartori ha
espresso prima di lei nel suo Pluralismo, multiculturalismo e estranei, uno dei bestseller dell’ultimo anno. Non hanno in comune solo le idee. Anche qualche aspetto
fattuale, come l’editore, e incidentalmente il fatto di fare soldi sfruttando il pregiudizio.
Hanno in comune, anche, di abitare entrambi a Manhattan: ma questo non è che un
caso, immagino. E di disattendere, entrambi, a uno dei doveri dell’intellettuale: la
verifica delle proprie opinioni. Almeno, quando pretendono di essere de-scrizioni di ciò
che veramente accade.
Sartori è la versione più dotta, in quanto non letteraria ma, solo presuntivamente,
scientifica, della Fallaci. Ma non meno menzognera. Anche Sartori, del resto, come la
Fallaci, mette insieme islam e migrazione, confondendo i piani ma rendendo chiaro il
suo obiettivo.
Sono andato a rivedermi la lista che ne avevo fatto, degli ‘errori’ di Sartori, per una
recensione. E’ lunga, ma forse può servire da meditazione retroattiva. Eccola.
! 77
Risposta al professor Sartori su islam e dintorni
Molti sono coloro che, nel mondo della cultura, sostengono di andare controcorrente: un
numero così ampio di persone, e che si muovono in così disparate direzioni, da
domandarsi come possa esservi ancora una corrente, da qualche parte. Talvolta si tratta
di prodotti (culturali, s’intende) molto mediatizzati e nello stesso tempo autorevoli: di
quelli che quando se ne parla lo si fa togliendosi preventivamente il cappello, specie se
il ‘prodotto’ in questione insegna alla Columbia University, i suoi libri sono tradotti in
28 paesi e, come ancora ci informa il risvolto di copertina con toccante modestia, è “il
più eminente e il più noto politologo italiano”.
La ‘tesi controcorrente’ che presenta Giovanni Sartori in quest’ultimo suo libro tocca un
tema caldo e cruciale, che impone una riflessione attenta. Ci proponiamo di esaminarla
nuotando, per così dire, contro-controcorrente.
Un noto artificio della letteratura polemica consiste nel costruirsi l’immagine del
nemico, descriverne gli argomenti, distruggerli, e naturalmente uscire vincitore dal
duello. Non è difficile: specie se, come di solito accade, il nemico è più immaginario
che reale, viene descritto in modo che ne esca peggio di quello che è, al punto da non
potersi riconoscere nell’immagine che ne viene data, e si ha comunque qualche buona
freccia al proprio arco (ma non sarebbe così buona senza un nemico contro cui
scagliarsi). Di trovarci all’interno di una trappola retorica di questo genere è la sensazione che
abbiamo avuto leggendo il pamphlet di Sartori: che, a dispetto del titolo ‘accademico’, è
appunto più un pamphlet di polemica politica e di (auto-)collocazione ideologica che un
saggio scientifico, con il quale lo studioso della Columbia sembra più aver voluto
mettere i piedi nel piatto del dibattito politico e quasi, cossighianamente, togliersi
qualche ‘sassolino dalla scarpa’, che fondare il proprio discorso sul piano delle idee.
E’ probabilmente a causa di questo taglio che si spiega il salto, evidentissimo al lettore
non del tutto sprovveduto, tra una prima parte, dedicata alle definizioni del pluralismo,
di taglio ‘fondativo’, anche se un po’ troppo ‘leggera’ in certe sue formulazioni, e una
seconda parte tutta volta a ridicolizzare posizioni altrui, superficialmente analizzate ma
anche discusse con tanta acrimonia da far fare all’autore alcuni grossolani scivoloni.
Parte che, lo diciamo per inciso, è stata quella più apprezzata e valorizzata nel
superficialissimo dibattito politico-culturale che si è aperto intorno ad alcune
affermazioni del libro, opportunamente sollecitate in interventi sul Corriere e
L’Espresso dello stesso Sartori e in svariate interviste.
Sartori dichiara subito i suoi nemici, fin dai titoli. La prima parte, dove l’autore si
autocolloca, si intitola “Pluralismo e società aperta”; la seconda, dove si descrive e alla
fin della tenzone si vince il nemico, “Multiculturalismo e società smembrata”. Facile
bersaglio: chi può volerla, una società così?
La situazione, per il povero lettore che nella fattispecie è il sottoscritto, è ulteriormente
complicata dal fatto che lui stesso credeva, fino a ieri, di essere un pluralista, parla e
scrive più volentieri di società plurale che di società multiculturale, e ha molte e gravi
riserve su certa letteratura multiculturalista. Ma non si ritrova proprio nel ‘pluralismo’ di
Sartori, tanto condivisibile sul piano teorico quanto inaccettabile sul piano delle
conseguenze che se ne traggono: contrastanti al punto da creare una dissonanza
! 78
concettuale insostenibile. O per dirla più sbrigativamente, diverse quanto la predica e la
‘razzola’ proverbiali. Ci limitiamo ad alcuni nodi fondamentali. Sartori punta a distinguere la concezione
pluralista della società da quella multiculturalista. Della parte sul pluralismo diremo
quindi solo che essa è concettualmente chiara e convincente nel descriverlo come un
concetto che “si sviluppa lungo la traiettoria che va dall’intolleranza alla tolleranza,
dalla tolleranza al rispetto del dissenso e poi, tramite quel rispetto, al credere nel valore
della diversità” (il corsivo è nel testo, p.25). Fin qui tutto bene, anche se qualche dubbio
ci viene quando leggiamo che il pluralismo postula una società di associazioni multiple,
che è verissimo, e purché siano volontarie e aperte ad affiliazioni multiple, il che già
potrebbe porre qualche problema (ci sono affiliazioni ad ‘associazioni’ perfettamente
volontarie ma che non prevedono una facile ‘multiplicità’, dall’iscrizione ai partiti
politici all’ingresso in un ordine religioso); ma, specifica Sartori, “una società multigruppo è pluralistica se, e soltanto se, i gruppi in questione non sono tradizionali” (p.
35), dove per tradizionali pare intendere religiosi: la sua polemica verterà tutta su questo
punto, poco più avanti. Ora, poiché le società pluralistiche sono piene di associazioni
‘tradizionali’ e tuttavia non sono per questo meno pluralistiche, ma semmai lo sono di
più, come la mettiamo?
Date le premesse definitorie che abbiamo citato, tuttavia, non si spiega il salto logico
che lo porta, come vedremo, a rifiutare quegli ‘estranei’ che sono poi i diversi di cui
sopra, o per lo meno quelli tra loro che credono in valori diversi da quelli dell’autore
(ché alla fine questo sembra essere il criterio dirimente che si desume dal libro). Un
pluralismo, quindi, contraddittorio, condivisibile sul piano dei fondamenti ma
inaccettabile su quello delle deduzioni: non legittimabile scientificamente, in questo
‘salto’, né sul piano dei principi né su quello empirico. Già estranei è parola poco
pertinente. Ma ci torneremo sopra dopo aver detto della bestia nera di Sartori: il
multiculturalismo.
Partiamo dalla descrizione, innanzitutto. L’esame che ne fa Sartori rasenta la caricatura.
In un libro che si rivolge alla società italiana, e ad essa fa riferimento e dà consigli, si
occupa esclusivamente del multiculturalismo anglosassone, in specie proveniente dal
continente americano. Che è bersaglio più facile, e che per molti versi condividiamo,
ma che ha poco a che fare con la nostra situazione: e che soprattutto non esaurisce la
produzione teorica multiculturalista. L’avvertenza vale anche per i multiculturalisti
entusiasti e acritici nostrani: il noto libretto di Taylor parla di multiculturalismo
pensando al Quebec e alle minoranze francofone del Canada, o agli aborigeni
australiani. Cose che hanno poco a che fare con la situazione europea. Va anche detto,
però, che pochi, in Europa, propongono questo multiculturalismo, almeno per come
viene qui descritto, con la sua zavorra tipicamente americana di promozione delle
culture native e importate, linguaggio politically correct e autocensura. Né si alzano
voci per proporre “un multiculturalismo che rivendica la secessione culturale, e che si
risolve in una tribalizzazione della cultura” (p.31). D’accordo: ma chi lo vuole? Semmai
chi lo proclama, talvolta, sono degli autoctoni, magari padani, loro sì profondamente
anti-pluralistici, e perciò più pertinente bersaglio di Sartori.
Il problema più serio tuttavia sta nella sua definizione degli ‘estranei’, che definisce
“persone che non sono ‘come noi’” (p.10). Una prima osservazione viene d’obbligo: noi
chi? Europei, occidentali, bianchi, liberali, cristiani, ricchi o cos’altro? Non è
! 79
un’astrazione, quel ‘noi’, come è un assunto quello di ‘estranei’? E infatti non c’è
traccia di una definizione purchessia.
Ma la seconda, sul perché della loro estraneità, apparentemente radicale e insuperabile,
è ancora più seria e stridente con i principi del buon pluralismo che Sartori descrive. Cominciamo dagli immigrati in generale. Sartori dice che gli Stati europei “si stanno
imbattendo in contro-nazionalità, in immigrazioni sempre più massicce che ne negano
l’identità nazionale” (p.47). Ora, perché definirli una contro-nazionalità, lasciando
intendere che siano contro di noi? Fino a prova contraria gli immigrati hanno una loro
nazionalità, possono talvolta ma non sempre desiderare la nostra, qualche volta – e in
alcuni paesi, nella maggioranza dei casi – la ottengono o l’hanno ottenuta magari per
nascita, per matrimonio, o per altri motivi (e allora diventa difficile comprendere perché
dovrebbero essere contro), ma in ogni caso ragionano più in termini di utilità economica
e sociale che di storia patria e simbologia (non diversamente da molti dei nostri, del
resto): a loro può anche andare benissimo di mantenere la propria nazionalità d’origine
e risiedere da noi. Il che non significa essere ‘contro’ di noi. Ma ancor meno,
ovviamente, sono contro di noi quando la ottengono, quando la desiderano, la nostra
cittadinanza. Che anche a noi, del resto, non spetta per diritto divino: ci è capitata per
caso, dopo tutto, anche se ce ne facciamo un merito.
Ma il discorso potrebbe essere affrontato su un piano più generale, facendo riferimento
ai cambiamenti fattuali in corso: diffusione di doppie nazionalità, attraverso migrazioni,
matrimoni misti, nascite al di fuori del paese d’origine dei genitori, non sempre per
migrazione stabile; processi di unificazione tra stati come quello europeo, e processi di
frantumazione interna degli stati medesimi, che entrambi cambiano il concetto di
cittadinanza, se non quello di nazionalità, moltiplicandone i livelli e i riferimenti;
accresciuta mobilità anche da parte delle élites, di cui l’autore del volume è un esempio
– se non andiamo errati, pur vivendo e lavorando essenzialmente negli Stati Uniti ha
mantenuto la cittadinanza italiana. Su questo tema si è sviluppato un ampio dibattito
teorico – cui Sartori non fa alcun riferimento – intorno a concetti come ‘cittadinanza
transnazionale’ ed altre forme di partecipazione multipla o differenziata: concetti certo
discutibili, ma che sarebbe opportuno almeno analizzare, o ricordarsi se non altro di
menzionare. Ma Sartori specifica anche meglio cosa intende per estranei. Con un rapido (un po’
troppo rapido) ragionamento sostiene che “oggi in Europa la xenofobia si concentra
sugli immigrati africani e islamici”, e poco oltre “sugli africani e sugli arabi soprattutto
se e quando sono islamici” (p.48). Un primo riferimento alla genericità delle definizioni, alla Huntington, si impone: come
quella secondo cui la cultura asiatica sarebbe ‘laica’ e “non è caratterizzata da nessun
fanatismo o comunque militanza religiosa. Invece la cultura islamica lo è”. È
considerato uno snobismo intellettuale domandarsi che cosa è, se esiste, un universale
chiamato cultura asiatica? E se anche esistesse, dove metterebbe il prof. Sartori, che so,
il fondamentalismo hindu, tanto per citare un esempio? Peraltro, ricordiamo che la
maggioranza dei musulmani del mondo vive per l’appunto in Asia, e che l’Indonesia da
sola ha tanti musulmani quanti tutti i paesi arabi messi insieme, il che crea qualche
problema alla distinzione proposta. E infine, proprio sicuro che la cultura islamica lo è,
come dire, in sé? Il fatto che ce lo raccontiamo e ripetiamo, fa di questo assunto una
verità?
! 80
Il fatto è, sostiene Sartori, che “la visione del mondo islamica è teocratica e che non
accoglie la separazione tra Stato e Chiesa, tra politica e religione” (p.49). Non possiamo
addentrarci qui in una specificazione di dettaglio: il tema è vasto, e andrebbe comunque
affrontato. Ma siamo sicuri che noi, questa separazione, la accettiamo sempre? Per
rimanere sullo stesso piano di Sartori, polemica per polemica: come è intesa la
separazione tra Stato e Chiesa, che so, in buona parte del mondo ortodosso? Per non
entrare neanche nel mondo slavo, bersaglio fin troppo facile, in Grecia, paese membro
dell’Unione Europea, la recente proposta di introdurre la carta d’identità europea, che
prevede la facoltatività dell’indicazione della religione di appartenenza, e non la sua
obbligatorietà, come accade attualmente nel paese, ha scatenato la reazione della Chiesa
locale, con concili, scomuniche e persino manifestazioni di piazza, che hanno costretto
il governo a una precipitosa marcia indietro. E che ne direbbe la regina d’Inghilterra,
capo della Chiesa anglicana? Certo, il suo ruolo è essenzialmente simbolico: ma alla
Camera dei Lords siedono per statuto 26 vescovi e arcivescovi, e il privilegio della
Chiesa dominante, nella scuola come in altre istituzioni, è incontestabile. E come la
mettiamo con quelle Chiese luterane del nord Europa che sono Chiese di Stato? E in
Italia? Dopo tutto ci sono anche molti cattolici che non la sostengono con entusiasmo, la
separazione tra Stato e Chiesa, e fanno di tutto, anzi, per ribaltarne la logica: anche,
laddove sono politicamente dominanti, con concretissimi atti di governo, Comuni o
Regioni che siano. Torniamo alla concezione teocratica dell’islam: sì, è vero, la troviamo in qualsiasi
manuale di introduzione all’islam, perché è effettivamente presente nella vita di
Muhammad, dalla sua Egira a Medina in avanti, se ne parla nel Corano, è presente dagli
inizi della storia islamica. Ma non c’è un modello di rapporto tra islam e politica:
semmai ce ne sono molti, diversi secondo la situazione e il periodo storico. E in ogni
caso non è possibile né legittimo dedurre dai testi i comportamenti. E nemmeno da
quanto succede all’inizio. Esattamente come per il mondo cristiano. Nei Vangeli si parla
a chiare lettere di separazione tra le due sfere: a Dio quello che è di Dio, a Cesare quello
che è di Cesare. Come dedurne la svolta costantiniana, la cristianità trionfante, l’impero
cristiano? Eppure ci sono stati. Ma sono anche finiti. E oggi il modello dominante nelle
terre cristiane è diverso – e peraltro è diverso anche tra terre cristiane. Dunque non c’è
una coerenza inevitabile, ineluttabile, tra modello fondativo e storia, e nemmeno nella
storia, che poi sono storie diverse, nel mondo cristiano. Perché assumiamo che invece ci
sia nell’islam? Ne siamo certi? Non c’è bisogno, anche in questo caso, di storicizzare, di
contestualizzare, dunque di pretendere un po’ meno dalle proprie supposte spiegazioni e
deduzioni?
Ma la concezione di Sartori è criticabile anche sul piano dei principi. Rimaniamo quindi
sul piano dei principi, dove l’argomentazione sembra avvitarsi in un serio problema
teorico: è inaccettabile infatti per un pluralista che ci sia qualcuno che, per rimanere
all’esempio di Sartori, la separazione tra Stato e Chiesa non la ritiene auspicabile? Il
pluralismo non può arrivare fino a lì? Ci pare una concezione ben limitata del
pluralismo. Di quanti cattolici italiani, o ortodossi slavi, o anglicani inglesi, o luterani
scandinavi dovrebbe liberarsi l’Europa per rispondere ai canoni qui descritti? Ci pare
una definizione concettualmente problematica del pluralismo: limitata, per l’appunto, a
chi la pensa come noi (o come Sartori). Poco democratica, anche. Poco ‘aperta’,
nonostante i rituali richiami a Popper. ! 81
“L’occidentale – sostiene Sartori – non vede l’islamico come un ‘infedele’. Ma per
l’islamico l’occidentale lo è” (p.49). Già abbiamo qualche dubbio anche sul primo, di
postulato: molti occidentali vedono gli islamici precisamente come degli infedeli, e ne
sono prova le attuali polemiche in cui anche Sartori si è volentieri invischiato, e a cui ha
coscientemente fornito una – scientificamente debole, ma nel dibattito politico poco
importa – sponda accademica e autorevolezza basata sul suo prestigio di studioso. Ma
limitiamoci pure al secondo. Dunque, come accettare questi “aperti e aggressivi ‘nemici
culturali’”? Il problema allora è l’islam. Bene, buono a sapersi (anche se lo
sapevamo…). In base a questa estraneità ontologica dell’islam, postulata anch’essa a
priori, Sartori ritiene che “il contro-cittadino è inaccettabile” (p.50). Ci limitiamo a
porre un immediato problema giuridico, tutt’altro che teorico. E i cittadini europei che
sono diventati musulmani? Gliela togliamo, a loro, la cittadinanza? Tra convertiti
(pochi) e naturalizzati (molti, e alcuni anche da due o tre generazioni) sono stimabili tra
i 4 e i 6 milioni i cittadini europei di fede musulmana: che facciamo, li rimandiamo a
casa loro? Il problema è che sono a casa loro… E sarebbe interessante andare a vedere
se hanno davvero creato qualche problema di incompatibilità con gli stati in cui
risiedono, e se davvero si comportano come “aggressivi nemici culturali”: un conto è
immaginarlo, un altro verificarlo sul terreno – ma per questo occorrerebbero delle pezze
d’appoggio, non delle semplici opinioni preconcette e, letteralmente, pre-giudiziali (in
cui il giudizio è dato prima di aver affrontato l’analisi di realtà).
Così impostato il dibattito, insomma, non fa buon gioco nemmeno ad altre critiche al
multiculturalismo (sempre nella sua versione anglosassone), pure invece fondate, che
Sartori avanza e che volentieri ci sarebbe piaciuto vedere approfondite, sia nel
distinguere diversità etnica e diversità culturale, sia nelle critiche all’enfasi che il
multiculturalismo spesso propone sul valore della differenza in quanto tale, senza
troppo riflettere sulle sue conseguenze e sulla gestione pratica delle medesime, sia
ancora nel ruolo che gli attori sociali che al multiculturalismo si ispirano hanno nel
‘produrre’ e al limite ‘inventare’ le differenze culturali stesse (p.78). Su questo sì che ci
sarebbe da aprire un dibattito, serio ma anche pacato nei toni, raffreddato rispetto alle
polemiche del quotidiano, per capire dove stiamo andando, quale tipo di società stiamo
costruendo. Ma andrebbe fatto con altre modalità e un altro linguaggio: e con gli
opportuni riferimenti alla già cospicua letteratura in materia che, nel testo di Sartori,
mancano quasi del tutto.
Un problema generale del testo è che molto del ragionare di Sartori sulle culture altre si
fonda su una peraltro diffusa concezione essenzialista delle medesime, che parte da
un’immagine astorica, intemporale e ‘cartacea’ di individui che sono invece
storicamente situati, che vivono nel tempo e sono di sostanza ‘carnacea’, come abbiamo
già avuto modo di dire a proposito del rapporto tra religione e politica. Dire per esempio
che i musulmani sono fatti a una certa maniera perché una certa interpretazione
(occidentale, spesso: e l’autorefenzialità dell’operazione, cruciale, passa solitamente
inosservata) del Corano o della tradizione così sostiene, e dedurne i musulmani di oggi,
a prescindere per giunta dal contesto in cui vivono, come fa d’abitudine un dotto e
influente orientalista come Bernard Lewis o, più di recente, con notevole successo, il
politologo Samuel Huntington – che stanno benissimo in compagnia di Sartori per la
somiglianza dell’argomentare, l’autorevolezza delle cattedre e, incidentalmente, la
latitudine della loro collocazione – sarebbe come dedurre dalla lettura di San Tomaso, o
più probabilmente da un suo ‘bigino’, o se si preferisce del Catechismo universale, o più
! 82
probabilmente da un suo sunto, i cattolici di oggi, ovunque si trovino (e a prescindere
dal livello di istruzione, dalla classe sociale, dal sesso, dalle opinioni politiche, ecc.:
insomma da tutte quelle variabili che costituiscono l’abc dello strumentario sociologico
– e che purtroppo, è vero, ci complicano la vita e non ci consentono, per onestà
scientifica, troppo facili ‘deduzioni’). O, per prendere un esempio più vicino a Sartori,
sarebbe come dedurre dalla lettura di Locke, Rousseau e Tocqueville, autori che ama
citare, i liberali di oggi: purtroppo non si assomigliano un granché (almeno!, ci verrebbe
da dire…). Ci sono dei nessi, questo sì. Ma non si corrispondono. Ammesso e non
concesso che l’immagine che abbiamo dei musulmani sia corretta.
Basti pensare alle differenze, anche nel modo di concepire e di vivere la propria fede,
tra i musulmani europei di prima e seconda generazione, immigrati in Europa o nati in
essa. Tali da contraddire qualsiasi immagine unitaria e appunto essenzialista, del resto
inaccettabile anche per i cattolici e per chiunque altro, liberali inclusi.
Dove sta scritto poi che mentre le diversità linguistiche e di costumi sarebbero
superabili, quelle etniche e religiose “pongono invece in essere estraneità radicali”? (p.
94). La ‘balcanizzazione delle coscienze’ nasce proprio da questo genere di
considerazioni, ben più che dal pensiero multiculturalista cui Sartori muove analoga
accusa. Inoltre questi ‘culturalismi’ (anche senza essere ‘multi’) sono di per sé
concettualmente problematici. Essi non possono essere postulati. Al contrario, sono essi
ad avere bisogno di un fondamento, che sono lungi dal poter dimostrare. Non sono
dunque la conclusione di un processo conoscitivo, ma semmai ne costituiscono il
(discutibile) inizio.
In base a questa concezione culturalista degli ‘estranei’, tra l’altro, il prof. Sartori, e con
lui milioni di altri italiani, in quanto presuntivamente cattolici (così come, alla stessa
stregua, Sartori presume che tutti i provenienti da paesi islamici corrispondano a un
certo tipo ideale di musulmano, e se anche così fosse non siano suscettibili di
cambiamento – tutti, come ognun vede, assunti aprioristici, non osservazioni empiriche)
e dunque, per un buon liberale americano protestante, integralisti e ignari della
separazione tra stato e chiesa, non avrebbero neanche dovuto mettere piede in un paese
come gli Stati Uniti. Come integrare dei fondamentalisti cattolici, papisti, con una
teologia illiberale, una gerarchia cui devono obbedienza e quindi una lealtà al di fuori
del paese, nei confronti di una potenza terza, la Santa Sede, e che per giunta sono
ignoranti, fanno troppi figli, e alla lunga, moltiplicandosi come conigli, ci
sommergerebbero? Ricordo che con questi argomenti, all’inizio del secolo, un paese
peraltro cattolico, ma cattolico ‘diversamente’, la Francia, si poneva, in dibattiti
appassionati sulla stampa dell’epoca, il problema se fosse possibile integrare gli italiani.
Oggi sappiamo la risposta, che è nei fatti: per esempio nella cattedra alla Columbia del
prof. Sartori.
Risibili, infine, alcuni frettolosi giudizi sulla povertà in Africa, espressi per manifestare
sprezzo dell’argomentare progressista: “Se è peggiorata è soprattutto per colpa
dell’esplosione demografica (che la Chiesa cattolica si ostina irresponsabilmente a
promuovere)” (p.96). Non per fare del terzomondismo che certamente il prof. Sartori
aborre: ma i debiti dei paesi in via di sviluppo? E le politiche di aggiustamento del
Fondo Monetario Internazionale? E i commerci iniqui, aperti alle armi, che mandiamo
noi, e chiusi ai prodotti agricoli perché concorrenziali con i nostri? Non c’entrano niente
con la povertà? Così, tanto per dire. Del resto non stupisce questa presa di posizione,
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visto che si ironizza (p.67) contro i pensatori, come Galtung, che ritengono esistano
cose come la violenza strutturale e altri problemi, sempre strutturali, di oppressione.
Nella parte finale del libro si coglie poi una scivolata, anche di gusto, che peraltro, in
uno studioso serio quale il prof. Sartori, per la sua influenza, non è possibile considerare
del tutto veniale, anche se mostra meglio di altre pagine il carattere pamphlettistico del
testo; laddove, dopo aver paventato senza analizzarle, e con scarni riferimenti alla
letteratura, le sciagure del diritto di voto agli immigrati, e aver proposto un discutibile
parallelo tra un sindaco colluso con la mafia e un ipotetico sindaco eletto con il
concorso delle comunità extracomunitarie, “specie se islamiche” naturalmente, si dice:
“Quel voto servirà, con ogni probabilità, per renderli intoccabili sui marciapiedi, per
imporre le loro feste religiose (il venerdì), e magari (sono i problemi in ebollizione in
Francia) il chador alle donne, la poligamia e la clitoridectomia” (p.103). Bossi
ringrazia, Baget Bozzo esulta, e La Padania gli offrirebbe un ruolo di columnist, se non
avesse già quello al Corriere della Sera, assai più inquietante, se questi sono i contenuti.
Se fosse come dice Sartori, in Francia e Gran Bretagna, dove la maggior parte degli eximmigrati è cittadina e vota, o in Olanda, dove gli immigrati, senza esser cittadini,
votano a livello locale, tutto ciò sarebbe già successo o starebbe per succedere, cosa che
qualsiasi analisi dei comportamenti di voto e dei risultati elettorali, o anche solo un
giretto nei paesi suddetti, invece smentisce categoricamente, riducendo l’argomento a
quello che è: asserzioni senza alcun fondamento empirico – o, per usare una parola più
brutale, propaganda (incidentalmente, di tali sindaci ce ne sono già, in Europa:
basterebbe andare a vedere se lì è successo quanto è qui paventato).
E se proprio si vuole specificare, allora ricordiamo innanzitutto che i problemi in
ebollizione in Francia, a proposito dell’islam, sono tutt’altri: non di questo, e non con
questo linguaggio (che viene lasciato a Le Pen e ai politici che lo rincorrono sul suo
stesso terreno), si occupa di islam il tavolo di lavoro aperto dal ministro Chevènement,
con l’obiettivo esplicito di arrivare a un qualche riconoscimento dell’islam medesimo
nel paese europeo che di musulmani ne ospita il maggior numero. Né di questo, e a
questo modo, si parla di islam in Belgio, che l’islam l’ha riconosciuto come una delle
religioni dello stato nel 1974 e sta arrivando oggi alle conseguenze applicative di quel
riconoscimento, seppure tra lungaggini e oggettivi problemi. E peraltro non sono questi
i problemi reali nemmeno in Germania, che pure non vuole riconoscere nemmeno di
avere degli immigrati, ma che silenziosamente è il paese che ha il maggior numero di
moschee vere e proprie, con tanto di cupola, minareto, e mezzaluna sul tetto, sul proprio
territorio (una sessantina, per ora). Quelle cui Sartori fa riferimento, ovunque, sono le
cose che si evocano in certo linguaggio giornalistico e politico (non in tutto – e di rado
con un tale entusiastico avallo da parte di intellettuali di prestigio: ma sarà perché gli
altri non hanno il coraggio di andare controcorrente…), non i problemi reali: anche
perché alcuni non sono nemmeno problemi particolarmente seri, o lo sono solo in
alcune loro percezioni particolarmente ‘nervose’, ad esempio in Francia, come il
cosiddetto chador (che peraltro lì chiamano quasi sempre per quello che è: foulard, il
che forse sdrammatizzerebbe di per sé il dibattito); e altri non sono imputabili in
specifico all’islam, ma ad alcune barbare tradizioni, di alcune popolazioni, neanche tutte
e solo musulmane, come la clitoridectomia, giustamente considerate inaccettabili in
Europa, e giustissimamente stigmatizzate.
Non si avrebbe voglia di scendere su questo terreno, letteralmente fangoso, per non
lasciarsi sporcare dagli schizzi e non imbrattare a nostra volta – certi discorsi li lasciamo
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volentieri ai genericismi da bar, perdonabili forse davanti a un cappuccino, o al
giornalismo alla Feltri, già preoccupante di per sé. Ma tant’è, non ci si può sottrarre. Sartori del resto sbaglia anche sul piano politico. Facciamo un esempio. In Gran
Bretagna ci sono oltre 150 consiglieri comunali musulmani, alcuni sindaci, un
parlamentare, nonché un tale che si chiama Lord Ahmed (che quando l’abbiamo
incontrato alla Camera dei Lords stava amabilmente prendendo il thé con il vescovo di
Bradford, tanto per dire dell’incomunicabilità e dell’incompatibilità culturale), che in
quella Camera legittimamente siede insieme ad altri due Lords e una Baroness
musulmani. Ora, potrà stupire, ma pare che nessuno di questi si sia mai presentato
armato, né tra i consiglieri comunali di piccole realtà periferiche della Scozia né tra i
ben inseriti e compassati Lords di Londra, pare anche che nessuno sostenga
l’obbligatorietà della clitoridectomia (limitata, su un miliardo e duecentomila
musulmani del mondo, al corno d’Africa, il Sudan, il sud dell’Egitto e poco altro, e in
quelle zone non appannaggio dei soli musulmani), la baronessa non porta il chador (ma
se anche lo portasse non darebbe fastidio a nessuno, in Inghilterra), non sostengono
movimenti fondamentalisti (sono tutti laburisti o al massimo conservatori), si
presentano regolarmente al lavoro il venerdì, e nessuno ha la minima intenzione di
instaurare la shari’a: nessuno, insomma, ha una concezione teocratica della società,
almeno per come viene qui descritta. Si figuri, professor Sartori: pare che nessuno sia
nemmeno poligamo. Che peraltro, anche nell’islam, è semmai una facoltà, peraltro in
progressivo declino, e non un obbligo. E a proposito, ci piacerebbe proprio conoscere la
fonte della stupefacente notizia secondo cui la poligamia sarebbe “praticata attualmente
a Parigi da circa duecentomila famiglie islamiche” (p.103 in nota); il che, se l’aritmetica
non ci fa difetto, dovendo essere delle famiglie poligame, per definizione, composte da
almeno tre persone adulte, significherebbe almeno sei-ottocentomila poligami, più i loro
figli, il che porterebbe il conto ad almeno un milione e duecentomila persone (anzi,
essendo i musulmani più prolifici di noi, come certamente ritiene Sartori, immaginiamo,
anche di più) coinvolte in ménages poligami nella pur notoriamente decadente Parigi,
non si capisce come sfuggiti fino ad ora alle statistiche e alle ricerche dei pur numerosi
ed attenti studiosi francesi… Sarà perché, da pervertiti quali sono, essendo viveurs e
forse tendenzialmente poligami anche loro (i ricercatori, dico) non ce lo vengono a dire?
Come la mettiamo? E come la mettiamo con il fatto che anche in Olanda, dove c’è il
diritto di voto a livello locale, pare che questo non abbia provocato guasti devastanti, e
al massimo abbia favorito un po’ di mentalità ‘integrativa’ e l’impegno civico di
qualcuno? E col fatto che in Germania nessuno dei due parlamentari di origine turca
abbia dichiarato guerra agli infedeli, né lo abbiano fatto i parlamentari d’origine
maghrebina eletti al Parlamento Europeo in Francia (e, a proposito, la Francia ha avuto
un parlamentare musulmano, un convertito, addirittura all’inizio del secolo), e
nemmeno lo abbiano fatto gli altri parlamentari dichiaratamente musulmani del
Parlamento Europeo, provenienti dalla Spagna e dalla Gran Bretagna?
Infine, per concludere. “Una popolazione allogena del dieci per cento può costituire una
quantità accoglibile; del venti per cento probabilmente no; e se fosse del trenta per cento
è pressoché sicuro che verrebbe fortemente resistita. Resisterle sarebbe ‘razzismo’?
Ammesso (ma non concesso) che lo sia, allora la colpa di questo razzismo è di chi lo ha
creato” (p.106). Magari Sartori ha ragione, ma anche ammesso (ma non concesso) che
sia così, palesemente confonde gli Stati Uniti, dove vive, con l’Italia, su cui dice di
riflettere. Qui infatti siamo al 2-3% (inclusi gli immigrati dai paesi sviluppati, e
! 85
comunque per due terzi non musulmani): non è un po’ presto per manifestare questo
genere di preoccupazioni?
Il capitolo si chiude poi con questa affermazione, una perla preziosa che lasciamo alla
riflessione dei lettori: “Il razzismo nasce in Italia con il fascismo, e muore con lui. Se
rinascesse non sarebbe perché gli italiani sono razzisti, ma perché un razzismo altrui
genera sempre, a un certo punto, reazioni di contro-razzismo. Stiamo attenti: il vero
razzismo è di chi provoca il razzismo”. Ovvero, la colpa delle botte è di chi le prende. E
io l’ho violentata, signor giudice, sì, ma lei mi ha provocato: aveva la minigonna ed è
uscita sola la sera…
Con tanti saluti al liberalismo illuminato e alla società pluralista.
! 86
Diario di guerra: …segue
3 ottobre
Ancora annunci di attacco. Ma senza attacchi. Mi sembra di intuire – per quel che
possiamo saperne noi comuni mortali – man mano che passano i giorni, una virata di
intelligenza e di sobrietà nella politica americana. Politica di forza, sì. Politica di
potenza, perché di una grande potenza, della grande potenza, si tratta. Ma consapevole
di una parte almeno delle implicazioni dell’esserlo, ciò che non era prima. Attenzione e
cautela su quanto succede in Palestina (al punto, clamoroso, che Bush comincia a
dichiararsi pronto a “riconoscere una Palestina indipendente” e sembra aver più voglia
di incontrare Arafat che Sharon). Riflessioni sui rapporti con l’islam. Pazienza nel
tessere una rete di legami, non solo con gli alleati europei, ma con la Russia, persino
con i paesi musulmani. E redini tese per evitare di dare sfogo all’istinto della corsa al
galoppo… Speriamo che duri.
Si moltiplicano intanto veri e falsi allarmi. “L’Italia nel mirino dei terroristi”. “A rischio
i simboli del capitalismo americano”. E l’Italia si gode il suo piccolo momento di
notorietà (meglio che niente) divenendo l’unico paese europeo iscritto, come dire, nel
registro degli indagati, come possibile luogo di ‘rischi’. Anche questa, con il passare
delle ore, si scoprirà essere una bufala sostanziale. Ma intanto i paginoni sono usciti. E
qualcosa resterà.
E per rimanere in Italia, affrontando argomenti importanti, Berlusconi accusa la sinistra
di aver montato un caso inesistente, ‘inventando’ le sue parole. More solito. Peccato si
siano potute sentire tali e quali al telegiornale di Fede. Peccato che all’estero, dove sono
state pronunciate, fossero presenti gli altri capi di governo europei, che hanno rilasciato
un’intervista dopo l’altra per condannarle, a cominciare dal di solito pacato padrone di
casa, Schroeder. Per non parlare delle prese di posizioni non solo della stampa, ma
dell’amministrazione americana. Tutta gente che, come noto, legge solo il Manifesto.
Ma questa è la parte meno interessante. La polemicuzza. La parte più interessante è che
ha dovuto incontrare gli ambasciatori di alcuni importanti paesi musulmani per
smentirsi: Arabia Saudita, Egitto, Tunisia, Marocco, Senegal, Pakistan, Indonesia e
Autorità Palestinese. Riconoscimento dei valori dell’islam, della pari dignità dei sistemi
di valore, e dei paesi che vi fanno riferimento. Questa è la diplomazia, la sua legge.
Dura lex sed lex.
Peccato, alla fine, tuttavia, che il Berlusconi diplomatico e capo di governo abbia
dovuto rimangiarsi alcune altre cose, che il Berlusconi uomo qualunque aveva
accennato il 26 settembre a Berlino, e che erano assai sensate, anche se un capo di
governo non può permettersi di dirle. Perché, dopo tutto, viene tristezza a pensare che il
rappresentante dell’Italia si sia dovuto sostanzialmente scusare di fronte al
rappresentante dell’Arabia Saudita: un regime autocratico, oscurantistico, totalmente
non democratico, pesantemente discriminante sul piano dei sessi come su quello
religioso (la stampa cristiana, per dire, è equiparata, con soave delicatezza, a quella
pornografica, tra le merci di cui è vietato l’ingresso…); un regime dunque sul quale sì, a
parte il reddito pro capite, potremmo vantare notevoli superiorità sul piano istituzionale,
! 87
dei diritti e delle libertà, al di là della pur buona educazione di alcuni membri della
famiglia reale e del governo (quasi la stessa cosa…), che almeno hanno fatto scuole
migliori di Berlusconi. Peccato che sull’Arabia Saudita, uno dei peggiori regimi
islamici, nessuno in occidente e negli USA dica mai niente: perché dell’occidente è il
migliore alleato e un eccellente compratore, oltre che un investitore in un buon numero
di sue imprese (incluse, by the way, quelle del cavaliere).
Peccato che Berlusconi si sia dovuto rimangiare alcune spiacevoli verità sul regime di
Mubarak, su cui invece aveva detto il vero: concernenti la sua democraticità, ma anche
le discriminazioni nei confronti della comunità copta, argomento tabù non solo nelle
relazioni internazionali, ma anche tra i musulmani egiziani, che in proposito negano
anche l’evidenza. Un mio stimato collega, sociologo conosciutissimo anche all’estero,
che ho avuto il piacere di incontrare a lungo al Cairo poco prima che lo arrestassero, e
che temo di aver visto per l’ultima volta, uomo integerrimo e di straordinario impegno,
Saad Eddin Ibrahim, si trova da molti mesi in carcere, senza che gli si faccia uno
straccio di processo, e il suo centro di ricerca, lo Ibn Khaldoun Center, cui molti
brillanti ed entusiasti giovani ricercatori collaboravano, è stato chiuso. Tutto questo per
due semplici ragioni. Perché, con i finanziamenti della Ford Foundation, nota
organizzazione eversiva, assicurava il monitoraggio della regolarità delle elezioni (e
infatti, siccome lo aveva fatto già nella tornata elettorale precedente, denunciando una
barcata di brogli e la sostanziale falsità del risultato finale, non foss’altro che quello sul
numero dei votanti, è stato arrestato, guarda caso, a poche settimane dalle elezioni che
stavano per svolgersi…). E perché, lui musulmano, ma di impostazione e di pensiero
laico, peraltro in collaborazione con il ministero dell’educazione, faceva in Egitto, sul
rapporto tra copti e musulmani, degli esperimenti educativi volti alla conoscenza
reciproca, nelle classi elementari e medie; ne più ne meno quello che facciamo noi
quando tentiamo di fare didattica interculturale – ma questo dava fastidio a un sacco di
gente, e di musulmani, nel paese.
Peccato che, per carità di patria, si debba sorvolare sul regime tunisino: una dittatura
travestita da democrazia (il cui presidente viene dai servizi segreti: come Mubarak,
come Putin e tanti altri amici dell’occidente. Che sarebbe come se un capo attuale del
SISDE – anche senza star lì a pensare al peggio del passato, tipo Vito Miceli –
diventasse presidente della repubblica italiana), che lucra il suo essere vicino ma in
situazione diversa dall’Algeria come un’arma per ottenere finanziamenti e sostegno
politico, anche se ha fatto terra bruciata dell’opposizione interna, anche moderata. Paese
intoccabile, tuttavia, anche per Berlusconi. Ci ha tenuto lui stesso, per accreditarsi, a
dire che era un buon amico di Craxi, e Craxi il perseguitato (anche se, per l’Italia, era
Craxi il latitante) in Tunisia aveva per l’appunto trovato asilo.
Sui giornali un altro segno, piccolo ma indicativo, della campagna ‘culturale’ in atto.
“Nel ’95 volevano avvelenare i nostri acquedotti”. Chi? Bin Laden, naturalmente, che in
quell’anno avrebbe incaricato un marocchino, tale Madid Abdellah, dell’inquietante
strage di massa, che neanche Nerone…
Niente di strano, ovviamente: in tempi di guerra bisogna dipingere peggio che si può il
nemico. La persona indicata come incaricata della tentata strage (presunta si può ancora
dire?), è probabilmente qualcuno implicato davvero nella Spectre islamica, sembra sia
stato arrestato in Italia in quell’anno per detenzione di esplosivo e sostituzione di
persona, e dopo espatriato. E tutto può essere, per carità: fuorilegge, terroristi e amici
! 88
dei terroristi esistono davvero, e ne abbiamo del resto avuto una ben clamorosa prova
l’11 settembre e in tante altre occasioni.
Quello che ci fa pensare, e ci farebbe sorridere, se non fosse che non c’è proprio niente
da ridere, è l’autorevolezza della fonte. Da dove viene infatti la notizia, che pure tutti i
giornali hanno piazzato tra le loro pagine? Dal notissimo settimanale serbo Nadeljni
Telegraf. Una fonte che in tempi normali un giornalista normale – con tutto il rispetto
per chi ci lavora – ci si sarebbe al massimo pulito il sedere, e che sicuramente nessuno,
nemmeno dei redattori di esteri, ha mai sentito nominare, o anche solo visto. Ma tant’è,
in questo clima, non si va tanto per il sottile.
Continua intanto la speculazione numerologica, iniziata già poco dopo l’attentato.
Gira da un po’, ma oggi il Corriere ci dedica una pagina. In cosa consiste? L’attentato è
dell’11 settembre: 11/9, cioè 9+1+1=11. Le torri gemelle assomigliavano a un 11 (sic).
Il prefisso dell’Iran e dell’Iraq (e che c’entra?) è 119, per cui vale il giochino
precedente. New York City ha 11 lettere, e Afghanistan pure. Ecc. ecc. Cosa c’entra?
Nulla. Cosa dimostra? Ancor meno di nulla. Vale la pena di parlarne? No.
Solo una battuta. Superiore razionalità dell’occidente?
4 ottobre
Strage a Tolosa. Salta per aria una fabbrica. 29 morti e centinaia di feriti (a proposito,
per i cultori di Nostradamus: 9+2 fa 11 – e di questo inquietante segno non si è accorto
nessuno…). Sì, ma… il fatto è accaduto il 21 settembre, due settimane fa: un po’
stagionato per un quotidiano. Per un quotidiano normale. Ma non per il Giornale. Il
titolo è: “Strage di Tolosa, l’ombra di un kamikaze”. Nel sottotitolo: “Torna la pista
islamica”. Il sommario in quinta: “Tra le 29 vittime anche un estremista islamico con
l’abbigliamento tipico dei kamikaze” – il corsivo è mio. Nel testo si nota l’inquietante
dettaglio che “Hassan portava su di sé cinque paia di mutande, circostanza che fa
pensare proprio al singolare rituale di determinati kamikaze affiliati al fanatismo
mediorientale”. Di più non si spiega: e infatti è una bufala. Mi viene una spiegazione
possibile: le mutande sono 5, ma essendo due le gambe hanno 10 buchi di sotto, il corpo
del kamikaze è 1, 10+1=11: tutto torna. La pista islamica risulta attendibile. Chiaro no? Secondo titolo: “Dirottato in India un Boeing di linea”. Questa ce l’hanno tutti. Si
pensa, ovvio, al terrorismo islamico. Ma non era vero. Nemmeno che l’aereo era stato
dirottato… Nell’articolo di fondo, Baget Bozzo, con straordinario sprezzo del ridicolo, accusa la
chiesa di subire “Il fascino dell’islam” (questo il titolo del pezzo), e il Papa di essere
scismatico, o giù di lì. “La Chiesa cattolica poteva essere la forza spirituale
dell’Occidente nell’ora della jihad islamica contro l’Occidente”. Ma non lo sarà, per
colpa del Papa. “La Chiesa perse la religione [nient’altro?, ndr] nel Vaticano II [niente
di nuovo: lo dice anche Lefebvre. E lo diceva Siri, maestro di Baget, e qualche altro che
è ancora cardinale, ndr]: ne soffrii molto” (un altro che, come la Fallaci, si considera
l’ombelico del mondo. O della Chiesa). Meno male che c’è Baget a metterci in guardia.
L’unico che vede ciò che tutti non vedono (i miopi son sempre gli altri, come ci insegna
Mr. Magoo), e che interpreta correttamente ciò che succede. Proprio come i
fondamentalisti islamici. La differenza però resta enorme. Baget Bozzo, grazie a Dio,
! 89
non spara altro che cazzate. E non è miliardario: è solo amico e consigliere di un
miliardario.
Cominciano a uscire le risposte alla Fallaci. Sul Corriere, in forma diretta, per mano di
Dacia Maraini (grazie). Su Repubblica, senza nemmeno nominarla, per mano di
Umberto Eco (grazie).
La prima è sanamente esplicita: “L’ammirazione per il tuo coraggio [inevitabile
pedaggio iniziale, ndr] si è trasformata presto in allarme per la tua incoscienza”.
Ricorda che nelle Twin Towers sono morti anche 400 musulmani. Sottolinea
quell’aspetto banale della civiltà giuridica non solo occidentale, per cui la responsabilità
(penale e non) è sempre personale: “Non sono stati gli islamici in generale a fare
l’eccidio, come non sono stati gli italiani in generale a buttare la bomba alla Banca
dell’Agricoltura di Milano o alla stazione di Bologna, ma persone con nome e
cognome”. Le ricorda, tra molte altre sagge cose, che “è folle attribuire ai poveri la
colpa di essere tali”. E che “dopo millenni di odii e di guerre per lo meno dovremmo
avere imparato questo: che il dolore non ha bandiera. Che ciò a cui aspira la
maggioranza delle persone è una convivenza pacifica fra individui di diversa cultura e
diversa fede”. Che “saper accogliere il diverso è una conquista, una forza, non una
debolezza”. Eccetera. Grazie.
Eco va più nel profondo del rapporto tra culture, e di cosa è cultura. Ricorda, per dire,
che anche essere all’avanguardia, anche solo nella tecnologia, non è un criterio di
superiorità: “Il Pakistan ha la bomba atomica e l’Italia no. Dunque noi siamo una civiltà
inferiore? Meglio vivere ad Islamabad che ad Arcore?”.
Critica, finalmente, anche la pochezza del discorso buonista, filo-islamico o da quelle
fila proveniente, che ci ricorda ripetitivamente i fasti, innegabili, della cultura islamica.
Medievale. “Tutte cose verissime, ma questi non sono argomenti, perché a ragionare
così si dovrebbe dire che Vinci, nobile comune toscano, è superiore a New York, perché
a Vinci nasceva Leonardo quando a Manhattan quattro indiani stavano seduti per terra
ad aspettare per più di centocinquant’anni che arrivassero gli olandesi a comperargli
l’intera penisola per ventiquattro dollari”. Non è proprio così, ma quasi. E comunque il
discorso è quanto mai opportuno. La vulgata democratica e progressista ha irriso le
parole di Berlusconi, ma non sembra aver capito perché: per lo più ha solo colto che
erano inopportune. Ma, sotto sotto, subendone il semplificatorio fascino. Ricorda – e fa tristezza che si debbano ripetere ovvietà che, purtroppo, non lo sono –
che “noi siamo una civiltà pluralistica perché consentiamo che a casa nostra vengano
erette delle moschee, e non possiamo rinunciarvi solo perché a Kabul mettono in
prigione i propagandisti cristiani. Se lo facessimo diventeremmo talebani anche noi”. Se
proprio si vuole, è questa una delle forme della superiorità culturale. Non solo
occidentale. Neanche questa è una esclusiva. Grazie anche a Eco.
Mi permetto una sola notazione a margine. Si chiede Eco: “ma cosa facciamo per
esempio con la richiesta che le donne musulmane possano essere fotografate sul
passaporto col velo?”. E si spinge fino a notare che ci possono essere altre forme di
riconoscimento, magari con tessere magnetiche che reagiscano all’impronta del pollice,
semmai specificando che “chi vuole questo trattamento privilegiato ne paghi l’eventuale
sovrapprezzo”. Non c’è bisogno di arrivare a tanto. L’Eco semiologo troverà forse
interessante l’equivoco ingenerato dall’uso della parola velo. In Francia, per dire, usano
(non sempre, ma spesso) la parola araba hijab o l’esatto corrispondente francese, che è
! 90
foulard, non voile, anche se talvolta viene usato anche questo. Dire velo, o chador, come
spesso fanno i giornalisti italiani per far vedere che sanno le lingue, usando oltretutto
una parola persiana e non araba, che caratterizza un tipo, fra i tanti, di hijab, di per sé
dice un’altra cosa: e fa pensare a qualcosa che copre anche il volto, ciò che non è.
L’hijab è, appunto, solo un foulard, che copre i capelli, non il viso. E le donne
musulmane italiane, e di altri paesi europei, hanno già ottenuto, se vogliono, di tenerlo
in testa per le foto del passaporto, che non dipenderebbe dalla nostra legislazione
(tranne che per le cittadine italiane), ma anche, più comunemente, della carta d’identità.
Semplicemente con una interpretazione estensiva della circolare ministeriale che lo
consente alle suore. Del resto, in termini di modifica della fisionomia, è come indossare
un cappello, tagliarsi i baffi o farsi crescere la barba. Tutti comportamenti leciti, grazie a
Dio.
Intanto esplode un aereo russo. Ma è stato, pare, un missile ucraino. E la Gran Bretagna
fa filtrare la notizia che l’attacco all’Afghanistan sarebbe già dovuto partire, ma è stato
rinviato per piegare la riottosità relativa di paesi come l’Arabia Saudita e l’Egitto, pure
alleati dell’occidente. Sembra che il consenso, obtorto collo, arrivi, ma con la garanzia
che non sarà attaccato nessun altro ‘secondo paese’, specie se arabo.
E fa bene, è bello, vedere il gigante americano trattare con quelli che i più considerano
dei rozzi levantini, anziché imporre la propria volontà.
Andreotti trova il modo di smarcarsi dal coro ricordando che nell’ormai lontano 10
marzo 1994 fu il leader libico Gheddafi a emettere il primo mandato di cattura
internazionale nei confronti di Osama Bin Laden. E si chiede come mai gli Stati Uniti e
i loro alleati non abbiano tentato di perseguirlo sulla base di questa già esistente
legittimità giuridica internazionale. Complimenti anche alla vecchia volpe grigia.
Il presidente iraniano Khatami telefona al Papa. Una notizia che ci inquieta. Non
vorremmo che Baget la prendesse per la prova provata che ha ragione lui…
6 ottobre
Il governo di Israele ha i nervi a fior di pelle. L’attentato alle Twin Towers sembra aver
scombussolato gli equilibri internazionali, e Arafat viene corteggiato dagli americani
come non mai. Se non altro abbiamo la prova, in negativo, che l’attentato non è stato
frutto di un complotto sionista, come pure qualcuno ha favoleggiato all’inizio, e non
solo tra i musulmani. A proposito: Magdi Allam su Repubblica denuncia che la
menzogna che ‘stranamente’ non c’erano ebrei né nelle Twin Towers né sugli aerei
suicidi circola ancora, nel mondo arabo, anche su autorevoli quotidiani. Il che deve far
riflettere: in primo luogo i musulmani che non si riconoscono in queste posizioni.
Parlate, perdio! – per dirla alla Fallaci. Ma il discorso è terribilmente serio. Per inciso,
qualche cifra: nella strage sono morti circa 200 ebrei con passaporto israeliano, e altre
centinaia si ritiene siano fra le vittime, e pure sugli aerei; si stimano in circa diecimila
gli ebrei che lavoravano alle torri gemelle, dove c’era una sinagoga in ciascuna di esse.
E New York è peraltro, di fatto, la maggiore città ebraica del mondo, con circa tre
milioni di ebrei – non ci sta solo Woody Allen, la sua mamma e i suoi molti psicanalisti. Non ci hanno guadagnato nulla, gli israeliani. Anzi. Anche Berlusconi, per una volta in
sintonia reale con la politica della Casa Bianca, durante l’incontro con gli ambasciatori
! 91
arabi, ha chiamato, con un gesto eclatante, Arafat: il bello della diretta. E Sharon allora
se la prende con il suo grande alleato. Accusando gli Stati Uniti di viltà accomodante
nei confronti degli arabi, di vendere la pelle di Israele “come l’Europa democratica
vendette la Cecoslovacchia ai nazisti”. Bush come Chamberlain, anche se Bin Laden
non è certo assimilabile a Hitler (meno di lui ha, tra le altre cose, uno stato in grado di
trattare con un Chamberlain). Accadono cose interessanti, da qualche tempo a questa
parte, non c’è che dire. Stanno davvero cambiando gli equilibri del mondo. Alla fine si
scoprirà che Bin Laden ha fatto davvero un favore alla causa palestinese, ma senza
volerlo e senza averlo minimamente previsto. Effetti perversi dell’azione sociale, li
chiamiamo in sociologia. Che vuol dire che alle volte accade il contrario di quel che ti
aspettavi…
E a proposito: qualche considerazione sulle reazioni dei musulmani. Di casa nostra e
d’altrove.
Non mi piacciono certi “Né con Bin Laden, né con Bush” che si sentono qua e là. Tanto
più perché si intuisce neanche tanto tra le righe che comunque, tra non pochi di coloro
che scelgono questa posizione, la preferenza è per il primo. Neanche tanto velatamente.
Mi piace poco questa ambiguità. Che non è contiguità in termini operativi, ma è
comunque preoccupante, perché più pervasiva. C’è chi non si accorge nemmeno delle
ricorrenze storiche: della somiglianza, inquietante, con il “Né con lo stato, né con le Br”
di un passato da cui alcuni, convertiti, che mi sembra esprimano implicitamente o
esplicitamente queste posizioni, provengono. Non in termini di contiguità, ancora una
volta. Ma di ambiguità. Diseducativa. Inaccettabile.
C’è un problema, sotteso a queste posizioni. Che cercherò di esplicitare.
Non è accettabile del resto nemmeno la posizione, che sento talvolta in ambienti,
diciamo così, giustificazionisti, anche filo-islamici, oltre che islamici: “Un buon
musulmano non uccide innocenti. Non si suicida. Il Corano non lo ammette. Dunque
non sono stati dei musulmani. E poiché Bin Laden è un buon musulmano, non può
essere stato lui”. Sillogismi inquietanti. Che, oltre tutto, denotano un livello di credulità,
di ingenuità, è il minimo che si possa dire, stupefacente (se uno si beve questa, può bersi
davvero di tutto, per parafrasare il duca di Wellington). Anche se pure queste le abbiamo
già sentite, e non sono certo prerogative dei soli musulmani: “Un comunista non uccide.
Un vero compagno non lo farebbe. Mai contro un operaio, poi. Le Brigate Rosse sono
comunisti. Dunque non sono stati loro”. Poi si scopre che uccidevano anche operai,
come Guido Rossa, i veri compagni. Ci è utile a ricordare una cosa, agli amici musulmani, questo atteggiamento: che forse la
paura dell’islam non è solo colpa dei non musulmani. Che in parte è anche colpa
proprio di altri musulmani. Che forse c’è da regolare qualche conto interno. E tirare
fuori la voglia di lottare – all’interno – e capire che viene il momento che bisogna fare
chiarezza, e nel caso schierarsi. Come qualcuno peraltro ha già cominciato a fare.
Chi, da sinistra, è andato in piazza dopo il rapimento di Moro non era per la DC, e
avrebbe continuato a lottare contro di essa, con coerenza. Ma aveva capito che non
poteva non schierarsi, quel giorno, contro chi aveva rapito Moro, contro chi usava quel
metodo di lotta politica. E fosse stata religiosa sarebbe stato uguale. Nonostante le molte
ingiustizie che il sistema, quotidianamente, perpetrava. Ringrazio chi c’è andato, quel
giorno, in piazza. Io, allora giovane universitario, rimpiango ancora di non avere avuto
! 92
la sensibilità politica necessaria. E quella umana. Anche se non ero certo con quelli che
l’avevano rapito. E non avevo nessun problema a criticarli e condannarli. Anzi.
Capisco non si voglia stare con Bush. Capisco meno il fatto di aver udito poche parole,
se non di circostanza, in qualche modo obbligate, contro Bin Laden. Come non capisco,
e mi inquieta, la difficoltà di distinguere, ad esempio, nella situazione afghana, tra la
difesa, doverosa, di una popolazione, e la condanna – che non si vede, o si vede poco –
di un regime infame, che dovrebbe vedere proprio i musulmani in prima fila nella
condanna e nel desiderio di distinguersi da esso: perché diffama l’islam.
Così come coloro che credevano davvero negli ideali del socialismo erano in prima fila
contro i regimi che, dicendosi di ispirarsene, ne facevano strame, volgendoli in
inquietante ed efferata caricatura: da Ceasescu a Pol Pot. Il regime imposto dai talebani
sta all’islam come Ceasescu, se non Pol Pot, stava al socialismo: perché così pochi
musulmani che lo dicano pubblicamente?
Anche la pietas nei confronti delle vittime delle Twin Towers si è sentita poco, anche se
la condanna dell’attentato, va detto, c’è stata: quella pietas pure così presente quando
esse sono palestinesi. Qui tuttavia c’è un problema oggettivo: perché, è vero, quella
stessa pietas manca spesso in occidente, quando i morti non stanno a New York, ma a
Baghdad, a Gerusalemme o altrove. Vale dunque per entrambi gli interlocutori: ma
vogliamo continuare in questa spirale? Vogliamo continuare con questa forma
rovesciata della legge del taglione, con la pietà a senso unico, così ignobilmente
‘politica’, per nulla umana? Lo dico anche a noi stessi, naturalmente. Riusciamo a commuoverci anche per le vittime del nemico, o di quello che consideriamo tale? O anche le
vittime sono diverse, secondo la nazione e la religione? Certo, purtroppo qui nessuno dà
il buon esempio. Ma è anche vero che l’occidente non è i cristiani. E questi ultimi
sembrano smarcarsi, almeno un po’, almeno alcuni, dalla logica guerriera comune.
Vorremmo sentire più spesso anche voci musulmane capaci di fare altrettanto. Alcune le
abbiamo sentite, con sincero piacere: anche perché ne comprendiamo la difficoltà.
Auspichiamo che diventino più alte, oltre che più frequenti. Capaci di sovrastare i
pensieri e le parole di guerra altrui. Ma questo lo auguriamo anche ai cristiani. E,
altrove, agli ebrei.
Forse queste reazioni sono, in parte, anche il frutto di una certa debolezza organizzativa
dei musulmani in Italia. In certa misura è voluta, questa debolezza: o, almeno, è colpa
dei dirigenti musulmani. Continuerà a essere così finché ci si occuperà più di quello che
succede in Palestina, in Bosnia o in Cecenia (già meno in altri paesi: l’Arabia Saudita, o
il Kuwait, per dire, a parole li criticano tutti – ma quando si tratta di chiedere soldi, è
sempre lì che si finisce), e poco, colpevolmente poco, dell’integrazione delle
popolazioni musulmane in Europa. E questo mostra l’incapacità non di distaccarsi dalle
proprie origine – che non è richiesto né auspicabile – ma di avere un rapporto non solo
tattico e strumentale (mordi e fuggi) con la realtà in cui si vive. Che, oltre tutto, non
corrisponde alla realtà dell’immigrazione islamica: che, in gran parte, non tornerà
indietro – che ha qui il suo futuro, il suo destino.
Non è inevitabile, questo interesse preponderante per i paesi d’origine, pur vivendo in
Europa. Anche se, va detto, è caratteristico delle prime generazioni di immigrati, come
lo era per i nostri emigranti. E in Italia siamo maggioritariamente dopo tutto ancora a
questa, di situazione. Faccio un esempio di integrazione positiva, riferendomi ad una realtà da un lato
avanzata e più ‘antica’ quanto a periodo di immigrazione, dall’altro con ampie sacche di
! 93
marginalità, a rischio sociale alto. Questo esempio è il Regno Unito. Oltre tutto delicato,
visto che la maggioranza dei musulmani qui residenti viene dai paesi oggi sotto stress,
come il Pakistan. E la Gran Bretagna è in prima fila a sostegno degli USA: con i fatti e
con le armi.
Anche i musulmani inglesi condannano gli annunciati bombardamenti in Afghanistan.
Ma nel giro di poche ore dagli attentati del WTC l’organismo più rappresentativo dei
musulmani di Sua Maestà, il Muslim Council of Britain, aveva emesso un comunicato
di condanna dell’attentato, senza ambiguità, ed è andato in tempi rapidi a presentare le
proprie condoglianze all’ambasciata americana. E non solo tatticamente: perché ci
credono, perché è così che vivono e pensano, in questo paese. Questo è saper fare
politica, e tenere alta la morale e il morale, ed essere buoni musulmani, incidentalmente
– essere capaci di distinguere i due livelli: quello della pietà per le vittime, della
condanna senza possibile dubbio del terrorismo, e quello dell’analisi politica. E’ vero,
ancora una volta: non la stanno facendo nemmeno molti occidentali, questa distinzione.
Ma è giusto rinfacciarci reciprocamente la critica: forse, così, reciprocamente ci
miglioriamo.
Tra l’altro il giornale dell’MCB, che ha l’intelligenza di non chiamarsi Jihad, come ha
preferito un sito web islamico italiano, ma The Common Good (Il Bene Comune: non
solo quello dei musulmani – il che anche fa vedere subito il proprio senso della
cittadinanza) ha suggerito azioni possibili di rapporto con la popolazione non
musulmana. Più ancora, l’MCB, in silenzio e senza tante fanfare, ha organizzato
riunioni con gli imam, per discutere insieme della situazione e far emergere posizioni
attente, meditate, e fare gli interessi della propria comunità – il che non significa
sdraiarsi sulle posizioni dell’amministrazione Bush, ma nemmeno su quelle di Bin
Laden, e ancor meno limitarsi ad un agnosticismo equidistante e inattivo, inconcludente.
Questo deve fare e fa una leadership responsabile. Oppure può fare chiacchiere. Con
tanti saluti all’integrazione. Il risultato di questo responsabile attivismo? Dopo
l’attentato dell’11 settembre hanno cominciato a ricevere decine di hate mail. Si sono
limitati a farlo sapere, in tutta pacatezza. E ne hanno ricevute a centinaia di solidarietà,
in proporzione di 1 a 4 (20% di odio, e 80% di solidarietà): le une e le altre pubblicate
sul proprio sito.
Mi duole dirlo, ma si sono viste di rado posizioni analoghe sul continente. E non si sono
viste con sufficiente chiarezza, con la lucidità che ci si sarebbe dovuti aspettare in un
momento eccezionale, nemmeno in Italia. Un altro esempio. In Olanda un parlamentare di origine marocchina il 12 settembre è
entrato in parlamento con una cravatta con la bandiera a stelle e strisce. Un modo di
ricordare che si sta comunque dalla parte delle vittime, per principio. Anche sfidando
l’impopolarità, visto che la comunità marocchina è in Olanda la più fieramente
antiamericana, tra quelle islamiche. Del resto, non riguarda solo i musulmani, questo
discorso. Da noi ci sono ancora in giro degli idioti, del tutto autoctoni, che le bandiere
americane sono capaci di bruciarle in un corteo per la pace: e senza nemmeno
accorgersi della contraddizione...
Discutevo con un amico musulmano, un dirigente islamico. Bravo, anche. E che stimo.
Parlavamo di un altro musulmano, conoscenza comune, che in questi giorni ha
dichiarato anche in pubblico, in televisione e sui giornali, che sta contro Bin Laden, che
approva l’attacco all’Afghanistan, che si sente occidentale, ma non per questo meno
musulmano, anche se è contro quell’islam lì, senza ambiguità. Mi ha detto: “si è
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arruolato”. Come a dire: è passato dall’altra parte, ha tradito. Come se uno debba
comunque stare prioritariamente contro l’America in ogni caso. Indicativo. Segno,
quanto meno, della carenza di una franca dialettica interna tra posizioni diverse, come si
diceva una volta. Segno di una logica gruppettara, come si diceva sempre quella volta lì.
Di una mentalità ancora movimentista, poco istituzionale, direi. Lo dico da osservatore
pacato e decentemente onesto dell’islam, come credo d’aver dimostrato di essere in
questi anni: sono preoccupato. Per la sconcezza di una certa aggressione culturale antiislamica, che ho ampiamente denunciato qui ed altrove. Ma anche, in alcuni casi, per il
livello del dibattito interno alla comunità islamica: anche se, è vero, a essere
mediatizzati sono sempre e solo i casi estremi (ma questo vale anche nel caso di Biffi,
per dire). L’una più l’altra possono essere un cocktail micidiale: gli opposti estremismi,
si diceva una volta. Quello che fa specie è tuttavia, per tornare a noi, che talvolta uno
degli estremisti sia lo stato, o certe amministrazioni locali… E’ più grave, se l’esempio
viene da lì.
C’è una debolezza organizzativa interna che va dunque risolta. L’unico modo, del resto,
per sfuggire ai personalismi di alcuni, magari più abili o semplicemente più spericolati e
vanesi nell’uso dei media; e a quella litigiosità organizzativa frutto della logica per cui
ci si illude che a parlar male degli altri ci si ritaglia un ruolo più grande per sé (mentre
invece il risultato è che si penalizza quello di tutti, e più in generale l’immagine
dell’islam in Italia – che infatti è litigiosa). Ma c’è anche una responsabilità esterna,
nostra, non meno grave, che ha di fatto favorito questa situazione. Troppo spesso infatti
le istituzioni, e magari anche gli altri interlocutori religiosi, sono stati sordi alle richieste
di ascolto – anche quelle più ordinarie, e più che legittime – provenienti dalle fila
musulmane. Non capendo che hanno interesse ad una leadership autorevole e
responsabile, sembra che troppi ci godano nel metterla in difficoltà, e così facendo (o
più spesso magari non facendo – nulla) spingono alla radicalizzazione e al conflitto. Un
po’ quello che accade quando gli imprenditori passano il tempo a delegittimare il
sindacato, senza capire che è loro interesse che ci sia, e sia autorevole, rappresentativo.
Inevitabile, se non c’è possibilità di discutere, di dialogare, che prevalga la logica
contrappositiva, la radicalizzazione, e magari il conflitto. Purtroppo, è questo che fanno
certi leader politici. E anche certi vescovi. Oltre che certi esponenti musulmani.
C’è anche un problema di ricambio di leadership: è sempre un segno di debolezza
quando i personaggi in vista sono più o meno sempre gli stessi, tanto più se non è
necessariamente per loro volontà, ma talvolta anche per oggettiva difficoltà a trovare
alternative. Qualcosa si muove, ma lentamente. E probabilmente per avere un ricambio
vero bisognerà aspettare il ricambio generazionale. Solo le nuove generazioni,
probabilmente, potranno tagliare il cordone ombelicale che lega i primo-migranti al
paese d’origine, anche culturalmente e politicamente. Sta succedendo anche negli altri
paesi europei: succederà anche da noi. Solo con loro, probabilmente, si potrà cominciare
ad avere una comunità credibile, autorevole. Alla cui esistenza abbiamo interesse tutti,
non solo i musulmani. Perché tutti – non solo i musulmani, il cui destino potrebbe anche
non interessare – abbiamo interesse a vivere in una società migliore, più aperta, più
capace di dialogare e di saper ascoltare. Capacità di dialogo e di ascolto di cui, peraltro,
anche in questi frangenti, si comincia a vedere qualche segno, da ambo le parti.
Nonostante tutto.
Del resto, è accaduto anche in Gran Bretagna, durante l’affaire Rushdie. Qui alcuni
musulmani, a Bradford, sono arrivati a bruciare i Versi satanici per strada. E sono stati,
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giustamente, paragonati ai nazisti e ai loro roghi di libri. E’ un gesto, questo, che non si
può fare impunemente, in occidente. Non più, grazie a Dio. Credo che molti musulmani,
in quel periodo, fossero onestamente convinti di essere perfettamente nel giusto, e molti
nemmeno capivano come mai gli inglesi ce l’avessero tanto con loro: per il rogo, per le
manifestazioni, per la mobilitazione su tutta la faccenda. Storie diverse e sensibilità
diverse su questioni da noi ormai ‘sacre’, come la libertà d’espressione e la sua assoluta
garanzia, come principio cardine e fondante, hanno fatto il resto. Bene, a partire da
questo problema – molto serio e assai imbarazzante – i musulmani hanno capito che
dovevano riunirsi tra loro, discuterne: capirsi, capire, e poi, se ne fossero stati capaci, far
capire. Da questa esigenza è nato l’UKACIA, che stava per United Kingdom Action
Committee on Islamic Affairs, e da questo primo tentativo di organizzazione è nato a
sua volta l’MCB, di cui abbiamo già parlato: oggi probabilmente la più autorevole e
ascoltata – anche dal proprio governo – tra le organizzazioni islamiche europee.
E’ questa, del resto, la funzione sociale delle crisi. La crisi, dopo tutto, serve per
discutere – sempre troppo tardi, ma sempre meglio tardi che mai – di un problema. La
crisi, il conflitto, serve anche per scoprire i limiti fino ai quali ci si può spingere, e i
confini sociali che non è possibile oltrepassare. La crisi, inoltre è un mezzo per far
affiorare alla superficie della coscienza ciò che giace e ribolle in profondità.
L’estremizzazione delle opinioni ha dopo tutto una funzione, ed è precisamente questa:
rendere visibile il non solitamente visibile, conscio l’inconscio, e consapevole
l’inconsapevole. Lasciare che le parole dicano il non abitualmente detto, più che
l’indicibile. In questo senso, forse, in mezzo a questa crisi, si può persino tentare di
essere ottimisti, e guardare alla fuoriuscita dalla crisi con qualche ragionevole speranza.
Potrebbe uscirne un nuovo livello di equilibrio. Più equilibrato, appunto.
Si nota anche sempre più, in questi giorni, quella che appare come una sorprendente e
inaspettata saggezza americana. All’emotività e ai proclami dei primi giorni, del resto
comprensibili, si è sostituito il passo, pesante ma lento e circospetto, della grande
potenza.
E si notano delle novità. Non si era mai sentito, per dire, che un paese preannunciasse il
lancio di aiuti umanitari alle popolazioni del paese che si appresta a colpire: con tutto
quello che di propagandistico evidentemente c’è, e facciamone pure la tara, in queste
affermazioni. O che si predisponesse un piano di aiuti economici e sostegno politico ad
altri paesi coinvolti, addirittura prima dell’inizio delle operazioni militari vere e proprie.
Effetto anche questo di questa nuova guerra fredda, come è stata chiamata, per
giustificare che sarà lunga come la precedente. Ma che si preannuncia diversa. In
definitiva, forse, persino più ‘democratica’, per quanto una guerra possa esserlo. Anche
se, prima di crederci, vogliamo vedere.
Gli Stati Uniti possono permetterselo, del resto. Se la condurranno bene, questa guerra,
si confermeranno definitivamente come la potenza egemone, il vero (grande) fratello
maggiore del mondo. Per giunta, in maggiore sicurezza che per il passato. Ma forse ci
guadagneranno anche i fratelli minori, da questo nuovo equilibrio. Non è escluso. Ed è
allettante sperarci, oggi, che siamo ancora, siamo sempre, in attesa che le armi parlino e
taccia la ragione.
! 96
Intanto, sempre dal Corriere, scopriamo, sempre in prima pagina, che “Bin Laden
voleva uccidere i reali di Giordania”. Oltre un anno fa. L’intera pagina 5 ci racconta i
dettagli della rivelazione. Aspettiamo con ansia la prossima puntata.
A pagina 6 si leggono altre rivelazioni su Osama Bin Laden, provenienti da Lilian Cuk,
una bella signora russa ex moglie del cugino del colonnello Gheddafi, e che si dichiara
grande amica del nemico pubblico n.1 dell’occidente. Divertente: pare che si fosse
americanizzato il nome e si facesse chiamare Sammy. Sammy Bin Laden – non male.
“E fino a qualche anno fa ammirava re Hussein di Giordania”. Tirare un dado o tornare
a pagina 5.
Arrivano anche le prime notizie che disturbano: che girano magari alla radio, ma che
poi i giornali più o meno nascondono.
Certo, ci sono i talebani che disertano, forse un migliaio, e saranno certamente di più
domani. Dunque abbiamo ragione noi. Anche se l’amore per l’occidente c’entra meno
che nulla: come se non si potesse capire, di fronte all’inevitabile che tutti sanno
accadrà…
Ma ci sono anche i musulmani pakistani che partono volontari per l’Afghanistan – si
parla di cinquemila, cioè molti di più di quelli che fanno la scelta opposta. Dunque chi
ha ragione?
E nell’ennesima manifestazione pro Bin Laden, in Pakistan, sono a migliaia, forse a
decine di migliaia.
C’è un interrogativo, in questi volontari del jihad, quello vero, quello che può essere
mortale per chi lo combatte e per chi è combattuto. Un interrogativo per l’occidente. E
un interrogativo per l’islam, o meglio per i musulmani, gli altri, quelli per esempio che
stanno da noi. Da un lato, possiamo immaginare che tutti fanatici non saranno, quelli
che odiano l’occidente e ci vorrebbero veder morti: e che il loro comportamento non si
spiega solo con l’analfabetismo e l’indigenza – ci rifletta l’occidente. Dall’altro, c’è un
problema che è insieme di forme e di contenuti (e la forma è, in certa misura, il
contenuto). Brucia, ad esempio, l’ennesimo pupazzo di Bush, accompagnato stavolta
anche da quello di Blair, in visita in Pakistan; ed è evidente il desiderio di veder scorrere
sangue infedele (anzi, di farlo scorrere): e neanche questo si spiega solo con
l’analfabetismo e l’indigenza – ci riflettano i musulmani. Specie quelli che stanno in
occidente. E si facciano sentire, anche. Ci dicano cosa ne pensano, che lezioni ne
traggono, se ne sono fieri o se ne vergognano, di questi loro correligionari. Ci dicano,
davvero, cosa ne pensano: di loro, e anche di noi. Rispondano, in primo luogo di fronte
a se stessi, a questa domanda. Ma poi ci dicano qualcosa. Vogliamo sapere cosa ne
pensano di noi, del nostro modo di vita, delle nostre istituzioni. Per tirare, a nostra volta,
le nostre conclusioni.
7 ottobre
Pare che abbiano individuato il nascondiglio di Bin Laden. Che sappiano dov’è,
finalmente. Così almeno ci dicono, forse per tranquillizarci. Da qualche parte
nell’Oruzgan, che non sappiamo dov’è, ma ci assicurano essere la regione dove più
duramente fu sconfitta l’Armata Rossa.
! 97
Mi chiedo solo una cosa, adesso che l’ora X si avvicina. Cosa succederà quando
l’avremo preso? Cosa succederà quando, magari, sarà morto?
Voglio dire: a quel punto ci sveglieremo come da un brutto sonno abitato da un orribile
incubo, riprenderemo coscienza e conoscenza, e… cosa sentiremo? cosa penseremo? Oggi vogliamo Bin Laden. E la strategia sembra tutta lì. Ai media è necessario, le
pubbliche opinioni lo pretendono, gli stati ne hanno bisogno. E sia. Come i cani
nell’ansia della caccia, tutti proiettati sulla preda, non pensiamo ad altro che al nostro
obiettivo: che ci sta davanti, di cui sentiamo già l’odore. Ma una volta agguantata la
preda, che faremo? Una volta, magari, uccisala, squartatala? La solleveremo davanti alle
telecamere, come un cinghiale sanguinante, come un lupo ieri sanguinario e oggi
sconfitto, e sarà come un grande rito purificatore: probabilmente necessario, forse
inevitabile. Ma dopo? Cosa faremo dopo?
I leader talebani mostrano intanto tutta la loro povertà morale, una volta di più. L’hanno
mostrata all’interno, con le loro donne, ad esempio – so di non dire nulla di originale –
togliendo loro il diritto di studiare, di lavorare, impedendo i contatti tra i sessi; il burqa
obbligatorio, alla fine, pure un simbolo da cui non si può prescindere, si scopre essere il
meno. Oggi lo mostrano con dei patetici, capziosi legalismi, che ricorderebbero tanto le
giustificazioni del bambino scoperto con le dita nella marmellata, se non ci fosse in
gioco il destino di milioni di innocenti: quelli che loro governano.
Il primo. “Nessuno si uccide per fare piacere a qualcun altro. Il Corano condanna il
suicidio. Bin Laden è un fedele del Corano. Ergo Bin Laden non c’entra niente. E
nemmeno noi”. Come se fossimo tutti così ciechi da non sapere quanti hanno invocato e
preteso il martirio in nome dell’islam, e quanti l’hanno accolto: in Iran, in Algeria, in
Palestina, da ultimo sulle montagne dell’Afghanistan, e infine in direzione di New York.
Il secondo, anche peggiore. “Gli Stati Uniti dicono che i criminali erano i kamikaze.
Bene, sono tutti morti. Cosa vogliono ora da noi?”
In Arabia Saudita, intanto, una bomba fa saltare per aria un americano e un inglese,
ferendone qualche altro, dalle parti della base di Dahran. A proposito: forse è un
kamikaze anche qui. Ma i sauditi sono alleati, non si può dire, non conviene. E allora la
finzione arriva a dire che non si tratta nemmeno di un attentato antiamericano. Il gesto
di uno squilibrato, al massimo. Così, senza motivo. Tanto per continuare a non riflettere
sulle radici dell’odio.
Bush ripete per l’ennesima volta – dev’essere la ventesima, questo mese – che l’ora
dell’attacco è vicina, che il tempo sta per scadere. E’ sorprendente il numero di volte
che è stato detto che stava per scadere, che mancavano cinque giorni, tre, quarantotto
ore, che l’attacco era imminente, previsto per oggi stesso. Loro saranno di dura cervice,
ma noi di memoria corta. Anche se continua a sembrarmi che ci sia del bello, del buono,
in questo. E’ bello che si combattano altre guerre, diplomatiche, finanziarie, magari
psicologiche, prima di quella tradizionale, quella che fa bang e crash, ma con morti
veri, che dopo aver detto agh! muoiono per davvero, e non ci sono più, e qualcuno li
piange, e ci soffre, e rimane colpito anche lui. Quasi vorremmo che durasse, questo
clima irreale, questa strana guerra di parole. Fosse sempre così…
! 98
Fine? Conclusione?
E invece è scoppiata la guerra. Quella vera. Quella che aspettavamo. Alle 12,30 ora di
Washington, le 9,30 di sera ora di Kabul, piena notte in un Afghanistan senza luci, le
18,30 da noi. L’ora giusta per sentirsi poi con comodo l’integrale dei discorsi di Bush e
di Bin Laden al momento del telegiornale. A cena.
Che dire? L’aspettavamo tutti. Io l’aspettavo da quando ho iniziato a scrivere queste
righe. Come tutti, l’ho sentita arrivare. Come molti – no, forse non molti – ho sperato
che non arrivasse. Naturalmente, come doveva essere, è stato: è arrivata. Era ingenuo
sperare che il mondo si sarebbe aggiustato da solo, o magari distrutto da solo. No,
dobbiamo dare il nostro contributo: siamo o non siamo una civiltà superiore? La guerra è arrivata, dunque. E la sua apparizione fa sempre una gran scena, non c’è che
dire. Il più grande spettacolo del mondo. Anche se non ne vedremo un granché.
Potrei andare avanti a registrare il mio diario. Stavo per farlo: il discorso di Bush, il
proclama di Bin Laden, i primi commenti, e il ferro e il fuoco che comincia a cadere,
una volta di più... ce ne sarebbe di materiale, per esercitare la propria disillusione, la
propria ironia, il proprio chissà cosa. Ma a che pro? Con quale senso? Diventerebbe, in
pochi giorni, un gigante di carta. Inservibile. Illeggibile.
E poi non ce la faccio. Bisogna pur finire, dice una sana regola metodologica, buona per qualsiasi ricerca – così
ho imparato nel mio mestiere (è la regola principale, dopo tutto, anche se nessuno ce la
racconta, all’università). Certo, possiamo inventarci i motivi buoni, dotti, per cui si
dovrebbe finire. Perché sappiamo quello che volevamo, perché abbiamo testato il
campione necessario, perché abbiamo raggiunto delle conclusioni attendibili.
Niente di tutto questo è vero, alla fine. Certamente non in questo caso.
Bisogna finire perché bisogna pur finire. Perché il committente vuole il suo testo,
perché i soldi sono finiti, perché non c’è più tempo, perché si ha voglia di voltare
pagina. Questo anche nelle ricerche serie. Figuriamoci qui.
Qui non ci sono committenti, e nemmeno soldi in ballo. Tempo un po’ sì, anzi molto.
Ho rimandato tante cose, per tenere questo inutile diario, che mi ero commissionato da
solo. E bisogna pur ricominciare a vivere, noi che abbiamo la fortuna di vivere ancora –
e le cose da fare sono pur sempre tante. Lo sono per davvero.
Ma la cosa più vera di tutte è forse l’ultima. Alla fine si ha voglia di voltare pagina. Non
ce la si fa più a continuare a concentrarsi su questo, in questa maniera. Non si riesce a
reggere, alla lunga. Ho voglia di smettere di riflettere su queste cose, di dimettermi da
questo mondo per tornare nell’altro, quello che vale la pena vivere: sì, proprio oggi. Ho
voglia di rimettermi a ridere, di sentire qualcosa di bello, di passeggiare in un bosco, di
ascoltare buona musica, di vedere gli amici, di leggere un buon libro anziché sporcarmi
le dita con l’inchiostro e forse altro della carta di giornale, di fare l’amore. Voglia di fare
un figlio: l’unica insensata forma di speranza di fronte alla morte spettacolo, e
all’insensatezza che porta alla disperazione. E di educarlo in maniera diversa dalla
morale e dai valori correnti. La vita continua. La mia, almeno, continua, grazie a Dio.
Lo dico con un po’ di vergogna – ma poca poca, appena accennata. Anche se so che,
proprio ora, come già l’11 settembre, migliaia di vite umane stanno per accorciarsi
brutalmente. Anche se so, come sappiamo tutti, che moriranno in tanti altri: in
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Afghanistan, e forse, per rappresaglia della rappresaglia, negli Stati Uniti, in altri paesi
alleati o coinvolti, magari in lotte interne e in manifestazioni in qualche paese
musulmano, e in Israele e in Palestina – ma tanto lì ci sono abituati… Anche se mi
rendo conto di questa terribile ingiustizia, che non mi saprò mai spiegare. Che io,
invece, vivo. Altri sono morti e muoiono. Io vivo.
Vado avanti, allora. Perché sento che devo anch’io aiutare a far girare il mondo, anche
se sembra che giri da solo. Con un ultimo pensiero a quelli che non ci sono più. Alle
vittime di ieri. E a quelle di oggi. E di domani.
La vita continua. La guerra, purtroppo, anche.
Già. Continua…
Segue dalla prima. Continua in seconda.
Continuerà a lungo.
!
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