FATTO SUL SERIO, FATTO PER SPORT Consulenza psicologica

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FATTO SUL SERIO, FATTO PER SPORT Consulenza psicologica
FATTO SUL SERIO, FATTO PER SPORT
Consulenza psicologica online in tema di sport
50 risposte 2008-2012
Obiettivi del progetto
Offrire un’attività di consulenza in tema di psicologia dello sport, allo scopo di:
1) attraverso la consulenza online, aiutare i cittadini (atleti, allenatori/istruttori, genitori,
amatori, dirigenti di associazioni sportive o di enti pubblici) a comprendere e attraversare
gli ostacoli che si presentano durante la pratica di uno sport;
2) facilitare la possibilità che i cittadini richiedano consulenze online, con fiducia rispetto
al fatto che il problema possa essere ascoltato;
3) facilitare nei cittadini di Parma uno stato di benessere psico-fisico, individuale e di
gruppo e attraverso la pratica sportiva
Com’è nata la domanda
Associazioni sportive ed atleti di Parma hanno richiesto all’Assessore allo Sport del
Comune di Parma una migliore comunicazione tra comune e cittadini sui temi riguardanti
lo sport, in particolare richiedevano uno sportello informazioni a cui le persone
interessate potessero rivolgersi.
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Che cos’è il progetto
Si tratta di un progetto di consulenza psicologica online in tema di sport, su committenza
di Edicta, che gestisce un’iniziativa più articolata per conto dell’Assessorato allo Sport del
Comune di Parma.
Metodologia di consulenza
La metodologia si basa inoltre sui seguenti presupposti:
-
importanza della soggettività
-
considera il nesso esistente tra individuo, gruppo, istituzione
-
l’ascolto che si attiva è di tipo clinico, focalizzato sulla relazione
-
le modalità di risposta tengono presente il livello di partenza del progetto, che
prevede che l’utenza formuli domande strettamente operative.
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FATTO SUL SERIO, FATTO PER SPORT
Consulenza psicologica online in tema di sport
50 risposte 2008-2012
INDICE DI TEMATICHE
ALLENAMENTO INEFFICACE
ALLENATORE DI BASKET
AMBIZIONE E GINNASTICA
ANORESSIA E SPORT
ANSIA IN PORTA
APPROCCIO ALLO SPORT
ASSECONDARE O INSISTERE?
ATTEGGIAMENTO ALLENATORE
AUTOSTIMA E PRESTAZIONE
AVRA’ UN PROBLEMA?
CALCIO DI RIGORE
CALCIO PER PARTECIPARE?
CSALCIO PER VINCERE?
CALCIO SENZA GRINTA
CALCIO: CAMBIO ALLENATORE
CALCIO: PAURA DELLA PARTITA A 8A
CALCIO: PAURA DELLA PARTITA A 18A
CALCIO, COMPETIZIONE E REGOLE
CAMBIAMENTI
CAMMINARE
CONCENTRAZIONE NELLO SPORT
CONCILIAZIONE SPORT E STUDIO
DANZA
DANZA CLASSICA
DIVERTIMENTO O PRESTAZIONE?
DOPING
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EX FUMATORE
FARO’ IL CALCIATORE?
MATURARE SCELTE
NON E’ PORTATO PER LO SPORT
NUOTO AMATORI
NUOTO BAMBINI
OMOSESSUALITA’ E SPORT
PALLAVOLO AGGRESSIVITA’
PARTECIPARE O VINCERE
PAURA DELL’ACQUA
PAURA DELLO SPORT
QUALE SPORT A 7A?
RIMOTIVARE LA SQUADRA
SPORT CON COSTANZA
SPORT E ADOLESCENZA
SPORT INDIVIDUALE E DI SQUADRA
STAFF DEGLI ALLENATORI
STRESS DA AGONISMO
TENNIS
TENNIS –ANSIA DA PRESTAZIONE
UN CORPO A DISAGIO
UNA VITA PER IL BASKET
VALVOLA DI SFOGO
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ALLENAMENTO INEFFICACE
Alleno un gruppo di ragazzi di 10 anni. Ad inizio stagione si impegnavano al massimo
durante le partite riportando anche risultati. Premetto che il mio compito si orienta alla
loro crescita tecnica, tattica ed educativa dando poca rilevanza ai risultati. Comunque i
ragazzi non riescono a mettere in campo i movimenti e le abilità che provano in
allenamento. A lungo termine nel gruppo è entrata una involuzione ad esprimere
impegno, subendo quasi in forma abituale il gioco avversario. Si dice che a questa età si
deve imparare a perdere, ma il prolungarsi di questa situazione rende difficile per il
momento anche il nostro lavoro di tecnici. Chiedo a Voi alcuni consigli pur pensando che
il lavoro alla distanza dovrà pagare. cordiali saluti
Gentile allenatore,
dalla descrizione che lei riporta pare che il suo gruppo di bambini stia sperimentando una
fase di insicurezza, mostrando demotivazione e non riuscendo a trasformare una
sconfitta con una squadra avversaria in un'opportunità di crescita.
A questo proposito potrebbe esserle utile sapere che i bambini vivono le esperienze
emotive in modo totalizzante, dirompente e coinvolgente. E' possibile che si possano
essere sentiti sopraffatti da qualcosa che per la prima volta hanno sperimentato con
grande intensità. Attraverso il loro comportamento le stanno comunicando un malessere
che deve poter essere visto e contenuto. Cosa significa questo? Che i bambini hanno
bisogno di imparare, attraverso l'adulto, a modulare le loro emozioni, quelle positive e
quelle negative, comprese, in questo caso, quelle legate alla mancate vittorie. Come lei
dice, il suo compito non è tanto puntare al risultato, ma svolgere una funzione educativa
insegnando la tecnica sportiva. La bellezza e la difficoltà del ruolo educativo sta nel fatto
che è richiesto un coinvolgimento con tutta la propria umanità. Questo per dirle che i
bambini le stanno in qualche modo facendo sperimentare il loro stato emotivo. Allora,
come lei saprà, perdere può rendere insicuri e abbattere il morale. Di fronte a ciò,
l'allenatore può fare tantissimo, riconoscendo la portata del dolore legato alla sconfitta, e
la fatica e la frustrazione che può comportare apprendere una disciplina sportiva. Allo
stesso tempo è fondamentale infondere nei bambini un sentimento di fiducia in sé stessi,
facendo loro sentire che lei crede nelle loro capacità perché riconosce i passi fatti in
avanti (e li può elencare, ad esempio, evidenziando le abilità acquisite durante
l'allenamento). A 10 anni i bambini si affidano molto all'adulto, e se sentono che lei tiene
a loro, che riconosce i loro successi, si sentiranno più fiduciosi e vedrà che troveranno la
forza per risollevarsi.
Dr.ssa Silvia Marchesini
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ALLENATORE DI BACKET
Lavoro come allenatore di basket e da anni mi accorgo che durante la partita, sia perchè
ci tengo molto, sia per paura di fare scelte che condizionino il risultato della squadra, in
alcuni momenti vengo preso da uno stato di forte ansia e perdo lucidità non riuscendo a
essere utile alla squadra. Mi farebbe piacere avere qualche consiglio su come superare
questa cosa. Grazie Cordiali saluti.
Gentile allenatore,
innanzi tutto mi sembra di avere colto dalla sua domanda una forte passione per la sua
attività sportiva e questa è sicuramente una importante risorsa, sia per lei che per la
squadra che allena, al fine di trovare motivazione e piacere nel perseguire i vostri
progetti e sfide. Allo stesso tempo, questo aspetto contiene in sé un possibile rischio:
quello di identificarsi eccessivamente in quello che si sta facendo e quindi vivere ogni
momento di prova come una possibile minaccia di fallimento, che coinvolge tutta la
persona nella sua interezza. A questo si può accompagnare l'idea che tutto dipende da
noi e che, se le cose non vanno come desideriamo o ci aspettiamo, avvenga qualcosa di
irreparabile.
La partita rappresenta inoltre un momento di prova che normalmente attiva ansie di
prestazione e un forte desiderio di ottenere un esito positivo. L'ansia è un sentimento
assolutamente normale e necessario per potersi preparare e attivare adeguatamente ad
affrontare le sfide quotidiane della vita. Quando, però, ci si carica di attese nei confronti
di noi stessi e/o degli altri molto grandi e si cerca in tutti i modi di evitare di sbagliare,
allora l'ansia può diventare eccessiva e quindi portare la persona alla confusione, alla
sensazione di essere bloccati dalla paura.
Alla luce di queste considerazioni, si possono fare alcuni pensieri che possono essere utili
per alleviare il forte stato d'ansia.
Innanzi tutto si può prendere in considerazione l'idea che non tutto dipende da noi.
Anche se lei svolge la funzione specifica di allenatore, le sue scelte, indicazioni e modalità
di agire hanno sempre a che fare con la specificità della sua squadra e dei singoli
componenti; come certo lei sa, ogni giocatore dovrà fare la sua fondamentale parte,
interagendo con gli altri, per mettere in pratica ciò che lei trasmette. L'esito della partita,
positivo o negativo che sia, è il frutto di un lavoro di gruppo al quale ognuno deve
contribuire con la propria specifica funzione e competenza. L'allenatore è una parte del
gruppo, ma non può avere tanto potere da governare interamente l'azione degli
integranti della squadra e condizionare l'esito delle partite. Questo è comunque vero in
tutte le situazioni umane di gruppo.
Infine credo sia importante pensare che è possibile sbagliare e considerare l'errore non
come un evento irreparabile e da evitare a tutti i costi, ma come una fondamentale
occasione di apprendimento, senza la quale non sarebbe possibile crescere, apprendere e
creare le condizioni per vincere. Legittimarsi a perdere, ad accettare che gli eventi
possono avere esiti non previsti, aiuta a rischiare con più serenità e sicurezza e quindi
favorisce la possibilità di sorprendersi e avere buoni risultati.
Rimango a sua disposizione nel caso in cui volesse scrivere di nuovo.
Cordiali saluti
Sabrina Ferrari
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AMBIZIONE E GINNASTICA
Buongiorno, Ho 14 anni appena compiuti e faccio ginnastica ritmica da quando ne avevo
quattro. A me piace molto questo sport e il mio sogno sarebbe quello di andare alle
Olimpiadi. Però io non riesco a ottenere i risultati che vorrei e vedo che le altre mie
amiche sono più brave di me. Questo mi fa sofrire molto. So che lo sport non è tutto
nella vita, ma per me è molto importante perchè è proprio un sogno. Come osso
affrontare meglio la mia attività? Grazie
Cara ginnasta,
com’è difficile perseguire i propri sogni! A volte proprio quando ci si tiene di più, ci si
impegna tanto, i sogni sembra che si allontanino invece che avvicinarsi…quanti ostacoli si
devono superare, il rischio è quello di scoraggiarsi.
Ma sai, un sogno sta là in alto, è il massimo, è un po’ astratto, invece l’allenamento si fa
tutti i giorni. La realtà è diversa da un sogno e spesso è piuttosto difficile, però può dare
delle soddisfazioni.
Vediamo se ci sono degli atteggiamenti che ti potrebbero aiutare mentre ti alleni.
Innanzitutto mi sembra che ti senti un po’ giù e forse questo ti porta a confrontarti con
gli altri…non è che per caso quando non ottieni il tuo risultato ti intristisci o ti indispettisci
un pò? Succede a molte persone. Con tutto l’impegno che ci hai messo forse adesso
vorresti portare a casa di più, come fanno le altre?
Tutto questo potrebbe deconcentrarti durante l’allenamento. Ascolta te stessa per sentire
bene quello che stai facendo, i tuoi esercizi, gli aspetti che devi migliorare e i risultati che
hai raggiunto alla fine dell’allenamento. Considera le tue fatiche e il piacere che provi
tante volte a raggiungere i tuoi traguardi. E’ l’amore per questo sport che ti può
trascinare.
Inoltre potresti provare ad allearti con la bravura delle tue amiche: prendi le cose che ti
piacciono di loro e prova a metterle in pratica anche tu.
E poi potresti dare valore ai tuoi punti di debolezza. Ascolta bene il tuo allenatore e
accetta di imparare. Bisognerà che ti affidi a lui per capire come prepararti per le
prossime gare. Ogni difficoltà che riesci a superare è un tuo grande traguardo. Fanne il
tuo tesoro personale da tenere stretto. Ogni persona è diversa dall’altra, ognuna ha
qualcosa di solo suo da dare, ma ci vuole un po’ di tempo e di raccoglimento perché
questo possa diventare evidente.
Penso che questi possano essere dei segreti per non demoralizzarsi e per recuperare il
piacere di muoverti, avendo come meta il fatto di migliorarti. Non preoccuparti di tutto il
resto: i risultati arriveranno! Ascolta te stessa, come hai fatto scrivendo, è la ginnasta la
parte più importante della ginnastica.
Un caro saluto e se vuoi fatti sentire ancora,
ciao
Giuliana Nico
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ANORESSIA E SPORT
Gentile psicologo, le sottopongo un problema che non è strettamente legato allo sport,
ma in qualità di allenatore sento la responsabilità almeno di informarmi sui rischi e i
pericoli legati alla salute delle mie atlete. La domanda è questa: quali sono i sintomi
dell''anoressia? Come è possibile individuare se esiste un serio problema legato
all''alimentazione? E come mi suggerisce di intervenire? devo parlare con i genitori
oppure direttamente con l''interessata? La ringrazio in anticipo.
Gentile allenatore l’interessamento ai temi che propone nella sua domanda mi sembra
davvero di grande valore perché indica un’attenzione particolare al rapporto che le sue
atlete hanno con il proprio corpo oltre all’attività sportiva in quanto tale.
Il termine anoressia si riferisce ad una definizione diagnostica all’interno di un gruppo più
vasto di disturbi definiti Disturbi del Comportamento Alimentare. In particolare chi ne
soffre, generalmente donne (ma non solo) ha la tendenza ad astenersi o controllare
eccessivamente l’assunzione di cibo. L’aspetto più evidente è spesso la magrezza
eccessiva mantenuta appunto attraverso diete drastiche e ossessivamente controllate,
oppure disordine alimentare fatto ad esempio di abbuffate e poi eliminazione autoindotta
di ciò che si è ingerito, iperattività fisica e anche mentale.
Questi aspetti più
direttamente osservabili da chi circonda queste persone, accompagnano un’esperienza
quotidiana di sofferenza che ha molte sfaccettature e di cui la persona è più o meno
consapevole. Le relazioni, gli affetti, il modo di affrontare la vita quotidiana sono
generalmente aree di difficoltà e di emozioni dolorose (per queste persone), che si
traducono in un rapporto complicato e disturbato con il cibo. Diciamo che quest’ultimo è
solo la punta di un iceberg sotto il quale spesso si cela la fatica ad entrare in relazione
serenamente con se stessi e con gli altri.
Anoressia e bulimia (le due categorie più generiche di questo gruppo di disturbi)
rappresentano un modo per dare un nome unico a tanti diversi (e unici) modi di
sperimentare la difficoltà di stare bene nell’incontro con gli altri, soprattutto quando sono
significativi e vicini, quando è in gioco il bisogno di dare e ricevere, di dipendere e di
essere autonomi, di riconoscersi aspetti positivi e negativi, di sentirsi apprezzabili e degni
di amore.
Chi è vicino a queste persone può sospettare che vi sia un problema di questo tipo e,
come lei, avere il desiderio di intervenire. In queste situazioni non esiste un modo giusto
o sbagliato di rendersi disponibili ad aiutare perché ogni situazione è unica e complessa.
L’indicazione che mi sento di darle riguarda il fatto che, soprattutto se le sue atlete sono
adolescenti o giovani adulte, è molto importante confrontarsi prima con loro e ad
esempio informarle (ancor meglio avere il loro consenso) della sua intenzione di parlare
ai genitori. Questo a salvaguardia del vostro rapporto di alleanza sportiva e personale.
Può accadere infatti, in caso contrario, che la ragazza si senta scavalcata e non
considerata, aspetto molto significativo in questo tipo di disturbi, attivato ancor di più se
la persona non accetta di soffrirne. Sarebbe ovviamente opportuno che la ragazza si
rivolgesse ad un professionista (se minorenne insieme ai genitori) per verificare l’entità e
l’esistenza stessa del problema.
Infine le consiglio, nel caso in cui decida di parlare direttamente alla sua atleta, di
esplicitarle soprattutto il malessere emotivo che lei, in qualita’ di persona vicina,
sicuramente nota, e non tanto di puntare sull’idea di doversi alimentare di più.
Quest’ultima osservazione infatti può non giovare alle persone che hanno problemi con il
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cibo, anzi può portare al rifiuto di qualsiasi consiglio e supporto: i disturbi del
comportamento alimentare, infatti, non dipendono dalla volontà o dalla convinzione
razionale di doversi alimentare diversamente, ma attengono alla sfera più profonda e a
volte incontrollabile delle emozioni.
Dr.ssa Sabrina Ferrari
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ANSIA IN PORTA
Mio figlio di 7 anni l''anno scorso ha cominciato a scuola un corso di calcio; la squadra
dopo pochi allenamenti è stata iscritta ad un torneo di calcio e il mio bimbo ne era
entusiasta; alle prime partite dato che era il più bravo in porta è stato messo sempre in
porta; lui si è lamentato dicendo che non gli piaceva ma dato che era il più bravo sempre
lì finiva, la squadra non era pronta per un torneo si erano allenati poco ed hanno sempref
perso: risultato; alle ultime partite si è rifiutato di partecipare e quest''anno vuole fare
solo gli allenamenti ma in campo per una partita non ci entra, se insistiamo, si angoscia e
si mette a piangere; premetto che non mi importa se gioca o no ma evidentemente
l''idea della partita lo angoscia profondamente; meglio non farlo giocare e lasciar cadere
l''argomento o cercare di affrontare l''angoscia non per ricominciare a giocare ma per
aiutarlo a farla diminuire? una mamma che vuol capire come aiutare il suo bimbo
angosciato.
Cara mamma,
La sua domanda meriterebbe un approfondimento, ma le poche righe che possiamo
dedicare in questa sede penso possano servirle comunque ad accompagnarla, seppur
brevemente, nelle sue riflessioni.
Capita spesso che lo sport, iniziato per motivi ludici, si trasformi in qualcosa d'altro,
generando emozioni che vanno capite. Non é facile resistere alla pressione del torneo, del
gruppo che inevitabilmente assegna un ruolo sociale in base alla performance, degli
allenatori più o meno orgogliosi del bambino o della squadra, degli altri genitori che
guardano la partita, della frustrazione di perdere sistematicamente.
Questi elementi, già faticosi se presi singolarmente e per un adulto, possono essere
pesanti per un bambino, ma a volte risultano di difficile comprensione per un genitore,
perché il suo ruolo prevede di incoraggiare i figli ad andare avanti e a lottare per avere
dei risultati. Anche mollare può non essere semplice, in ballo ci può essere la paura del
senso di fallimento e il desiderio di frequentare i propri amici.
Questa situazione può far sentire parecchio compressi, come se non ci fosse nessuna
soluzione percorribile. Forse la sua angoscia é condizionata da una situazione in cui sente
premere su di sé delle spinte contraddittorie, conflittuali.
Visto che come mamma lei chiede come fare, le proporrei di ascoltare le sue stesse
emozioni e di provare a immedesimarsi in quelle di suo figlio. Per fare questo penso che
sia necessario cercare di non esercitare alcuna influenza sul gioco di suo figlio, ma
"mollare", non esercitare forzature. Sopportare le iniziali emozioni forse disagevoli di
questo atteggiamento apparentemente passivo potrebbe non essere facile nemmeno per
lei...potrebbe provare imbarazzo verso gli altri genitori nello spiegare cosa sta
succedendo...oppure temere che suo figlio si comporti così di fronte a tutte le
difficoltà...temere che la sua angoscia non cali...venirle in mente altre difficoltà di suo
figlio che potrebbero essere reali. Darsi il modo di capire queste sensazioni difficili é utile
a suo figlio. Sono sensazioni preziose perché offrono una nuova visuale sulle cose, ma
soprattutto danno la possibilità a lei di sperimentare quello che forse sente suo figlio.
Servono a comunicargli che lei si sta avvicinando a lui dal punto di vista emotivo per
risolvere il problema. A partire da questo contatto emotivo ritrovato che é possibile
capirsi tra lei e suo figlio, e poi, con calma, trovare la soluzione più appropriata. Vedrà
che funziona.
Dott.ssa Giuliana Nico
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L’APPROCCIO ALLO SPORT
Io sono un ex pallavolista semi professionista, ho smesso per un infortunio due mesi fa
adesso che ho ripreso non mi sento più all'altezza delle mie compagne, non gioco più
come prima. Mi sembra che il problema non sia tanto nella preparazione fisica, ma nel
mio approccio allo sport... Cosa posso fare?
Gentile sportiva,
da quello che mi scrive mi sembra di capire che questo infortunio avvenuto due mesi fa
ha messo in qualche modo in discussione la sua identità di pallavolista semi
professionista, al punto che inizia la sua lettera dicendo "io sono un ex…".
L'idea che mi sono fatta è che l'infortunio - rispetto al quale mi sembra di capire che ha
avuto una buona ripresa fisica - superato il disorientamento iniziale legato alla difficoltà
di rendersi conto che il proprio corpo (che nel suo caso è un vero e proprio strumento di
lavoro) non è controllabile in tutto e per tutto, ma si può "rompere", sia stato
un'opportunità per riflettere sul "proprio approccio allo sport". Dati i livelli raggiunti ho
pensato che da molti anni molto del suo tempo sia dedicato all'attività sportiva, e che
questi due mesi "vuoti" siano stati riempiti da tanti pensieri rispetto al significato che
questo sport ha per lei oggi? E allora forse si è trovata a pensare a chi è lei oltre ad "un
ex pallavolista semi professionista"? Succede spesso, soprattutto se un'attività occupa
gran parte del tempo personale e lo fa per un lungo periodo della vita, che un ruolo si
confonda con la persona nel suo insieme, dentro cui certamente c'è anche la parte, in
questo caso, sportiva ma insieme a tante altre parti che magari hanno poca possibilità di
potere essere espresse. Se una parte, in questo caso quella sportiva, è bloccata perché
infortunata, è possibile che le altre parti trovino lo spazio per venire fuori portando alla
luce bisogni che possono essere più o meno coerenti tra di loro (es. la parte di donna che
vuole passare più tempo con un fidanzato con cui non è possibile trascorrere il week-end
perché c'è la partita; la parte che avrebbe voglia di un po' di tempo libero da dedicare ad
altri interessi, amici, etc.). E possiamo pensare che il conflitto tra queste diverse parti sia
stato da lei vissuto come un cambiamento ne "l'approccio allo sport", in cui il "non
sentirsi più all'altezza delle proprie compagne" può avere il significato di essersi resa
conto che forse nella propria vita lo sport non è al primo posto, o lo è, ma insieme ad
altre cose altrettanto importanti.
Si tratta ora di trovare un nuovo equilibrio tra le parti, nella consapevolezza che questo
infortunio, come ogni cambiamento, le ha dato la possibilità di ripensare a sé, e a tutte
quelle parti che costituiscono la sua complessità di persona e che forse, in qualche modo
schiacciate dalla parte sportiva, avevano bisogno di un'opportunità per venire fuori.
Concludendo, mi sembra che il suo definirsi "un ex…" abbia il significato di mettere in
discussione il fatto di volere o meno oggi essere una pallavolista semi professionista. Se
capirà che per lei la parte sportiva è importante e deciderà di continuare a giocare, nel
momento in cui avrà trovato un nuovo equilibrio in cui sentirà che per la parte "sportiva"
non sacrifica la altre, posso ipotizzare che sentirà di giocare come prima, se non meglio.
Buon lavoro. A cura della dott.ssa Elisa Ceci
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ASSECONDARE O INSISTERE?
Buongiorno, sono la mamma di un bambino di 7 anni che ad ottobre dovrebbe cominciare
un corso di baseball. l'abbiamo iscritto qualche tempo fa insieme ad un suo compagno di
classe: è stato proprio mio figlio, entusiasta, a chiederci di farlo. qualche giorno fa l'altro
bambino ha dovuto rinunciare all'iscrizione, per motivi di salute: ora anche mio figlio si
rifiuta categoricamente di iniziare il corso, con capricci, scenate ecc. non solo: rifiuta
qualunque altra alternativa noi gli proponiamo (basket, calcio e simili). dovrei
assecondarlo oppure forse sarebbe meglio insistere? il mio timore è che rinunci ad
un'occasione per appassionarsi ad uno sport che magari gli potrebbe piacere
molto...grazie dell'aiuto. saluti
Gentile mamma,
benvenuta in questo spazio.
Spesso molti genitori si trovano davanti ad un interrogativo: fino a che punto è bene
insistere, intervenire con i propri figli ?
Spesso i bambini quando fanno delle scelte utilizzano criteri e valutazioni che non sempre
sono paragonabili a quelli dei genitori, sono allora le motivazioni che vanno comprese.
Leggendo la sua lettera mi sembra di capire che la richiesta entusiastica di suo figlio di
giocare a baseball, sia stata in qualche modo legata alla presenza del suo compagno di
classe.
I bambini nei primi anni scolastici (tra i 6/7 anni), cominciano a vivere le loro prime
esperienze di amicizia, trovano l’amico del cuore con il quale stringono un legame
particolare, e cominciano a sviluppare un’autentica sensibilità. L’amicizia diviene
profonda e duratura, si comincia ad entrare in empatia e a comprendere l’altrui
sofferenza. I bambini grazie al rapporto che instaurano con i loro compagni sperimentano
la loro capacità di destreggiarsi nel mondo, imparano modalità di convivenza, scoprono
come difendere ciò che gli è caro, inventano strategie per farsi rispettare, collaudano
sentimenti ed emozioni.
Quando i bambini sperimentano una frustrazione come “la perdita” di un amico fanno per
la prima volta conoscenza con sentimenti dolorosi, come la delusione, la tristezza.
Forse attraverso i capricci e le scenate suo figlio sta esprimendo queste emozioni.
E’ possibile inoltre che il rifiuto categorico di partecipare a qualunque altro sport,
nasconda il suo timore di affrontare un’esperienza nella quale non si sente del tutto
adeguato.
In questi casi il sostegno maggiore per il bambino, è dato dall'essere ascoltato, dal
sentirsi compreso, appoggiato e contenuto, e dalla possibilità di confrontarsi con l'adulto
anche
quando
questi
ha
un'opinione
diversa
dalla
sua.
E’ importante che il bambino si senta accettato, accolto e compreso pienamente in tutte
le sue emozioni.
Tornando allora alla sua domanda “meglio assecondare o insistere”, penso sia importante
trovare una mediazione tra questi due comportamenti, aiutando ed incoraggiando suo
figlio ad esprimere i suoi sentimenti e punti vista.
Dott.ssa Alessandra Mirabella da Vico
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ATTEGGIAMENTO ALLENATORE
Vorrei capire se il mio atteggiamento influisce al meglio sulle ragazze che alleno, perché
ho il dubbio che quando le stimolo a concentrarsi reagiscano scoraggiandosi invece che
impegnandosi di più. Quando ho iniziato con la pallavolo io ascoltavo molto il mio
allenatore, ma ora vedo che le ragazze sono diverse. Ci sono dei metodi che mi potete
insegnare?
Come giustamente si sottolinea e comprende dalla domanda, l`atteggiamento
dell`allenatore influisce notevolmente sulla motivazione della squadra.
Nella domanda si parla genericamente di “stimolo alla concentrazione”, che cosa si
intende? Si tratta di un invito ad impegnarsi di più? In che termini e modi questo
avviene? Il come vengono incentivate le atlete potrebbe influire molto sul loro senso di
partecipazione nell`attività.
In questo caso potrebbe essere che lo stimolo che si propone provochi “ansia da
prestazione” alle ragazze. Provo a spiegarmi con più chiarezza, le atlete potrebbero
temere così tanto di deludere le aspettative, o di non essere all`altezza del compito da
assumere un atteggiamento di rifiuto, che si esprime con lo scoraggiamento, per
difendersi da un sentimento di inadeguatezza. A questo scopo potrebbe essere utile
parlare con le ragazze, cercando un confronto che chiarisca e espliciti i motivi sottostanti
sia al comportamento dell'allenatore, che si esprime con lo stimolo, sia a quello delle
atlete, che manifestano lo scoraggiamento. L'obiettivo è di chiarire le intenzioni e
sgombrare il campo da fraintendimenti.
Per quanto riguarda i metodi, potrebbe essere che una modalità più partecipata e
condivisa, che renda possibile anche l`ascolto e l`espressione delle difficoltà inerenti alla
vita di squadra potrebbe essere d`aiuto.
Esistono alcuni giochi di gruppo che possono essere utilizzati a questo fine (bibliografia:
“Giochi di gruppo”, Margherita Sberna. Ed. Città Studi, Torino. 1993. La parte terza in
generale e in particolare le proposte n.ro 12 e 21).
Film di Al Pacino “Quella maledetta domenica”
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AVRA’ UN PROBLEMA?
Sono l'allenatore di una squadra di ragazzi di 16 anni e ho l'impressione che uno di loro
abbia qualche serio problema. Da qualche tempo (saranno ormai tre mesi e dopo la
pausa natalizia la situazione è peggiorata) non va più d'accordo con i compagni (con
l'eccezione di uno solo) e ha atteggiamenti provocatori e antisociali. Ho provato a
parlargli, ma si è chiuso nel silenzio. Allora ho provato a contattare la famiglia (prima il
padre e poi la madre) ma ho avuto un brusco rifiuto a parlare del figlio. Tenga presente
che fino all'anno scorso il ragazzo era socievole, aperto e disponibile. Non vorrei che si
fosse messo in qualche brutta compagnia o che avesse dei problemi molto gravi con la
famiglia. In questo caso, in qualità di allenatore e quindi anche di educatore, è possibile
fare qualcosa?
Gentile allenatore, la questione che si pone è davvero importante e le confermo subito
che la via del dialogo consiste proprio in quel "qualcosa che si può fare" di cui lei parla.
Cambiamenti repentini in adolescenza sono abbastanza frequenti. Ci sono aspetti della
personalità a questa età che possono crescere in maniera discontinua e disomogenea,
l'integrazione delle nuove acquisizioni richiede movimenti di assestamento che possono
manifestarsi con comportamenti apparentemente incomprensibili, ma nel caso che lei
descrive l'atteggiamento del ragazzo sembra le abbia procurato più preoccupazioni del
previsto. Mi sento di dire che ha fatto bene a cercare una forma di dialogo con il ragazzo,
con la famiglia e in ultimo con noi. Dal suo racconto stupisce molto il comportamento
della famiglia che rifiuta di parlare del figlio. È alquanto strano che i genitori si rifiutino di
parlare del proprio figlio, di fronte ad un adulto educatore-allenatore che li interpella
perchè preoccupato per il ragazzo. Sembra che la famiglia si sottragga di fronte alla
responsabilità di affrontare la situazione. Si tratta di un importante indicatore da tenere
presente. Le sue preoccupazioni potrebbero essere effettivamente campanelli d'allarme
che è giusto ascoltare.
A questo proposito sarebbe importante capire in che senso lei si sente preoccupato, così
tanto più del solito, da sentirsi di dover contattare i genitori e scrivere a noi. Il mio
intento è cercare di aiutarla a riflettere sui suoi sentimenti e sulle sue emozioni riguardo
alla relazione con il ragazzo. Questo le potrebbe essere utile proprio per mettersi in
sintonia con lui. Ad esempio, se lei si dovesse rendere conto di provare rabbia e senso di
impotenza ogni qualvolta parla con il ragazzo, o quando fa un tentativo di avvicinamento
nei suoi confronti, allora potrebbe essere che sono queste le emozioni che prova anche il
ragazzo, e che in qualche distorto modo arrivano a lei.
Credo che lei potrebbe provare a parlare nuovamente al ragazzo, cercando anche di
esplicitare che emozioni lui le suscita. Potrebbe darsi che lei si sia sentito caricato di una
responsabilità e di un peso che non la fa stare bene. Questo potrebbe essere dovuto in
parte al fatto che sia la famiglia sia il ragazzo si sottraggono dal compito di riflettere e di
affrontare la difficile situazione di cui parla e lei finisce per essere l'unica persona sulla
quale ricade la responsabilità degli eventi. Questi sentimenti che non la fanno stare bene
è importante riuscire a focalizzarli e provare a comunicarli. Tutto questo può essere
terreno di confronto con il ragazzo, più che centrare l'attenzione sui fatti (cosa fa il
ragazzo, chi frequenta, ecc.).
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Dal suo breve racconto non è semplice capire la gravità della situazione, mancano alcuni
elementi che mi permetterebbero di indirizzarla al meglio, ad esempio sarebbe
importante capire in cosa consiste effettivamente l'atteggiamento antisociale e oppositivo
che manifesta il ragazzo, perchè potrebbe essere che egli ripeta fuori di casa una
tensione che vive all'interno della famiglia. Interessante sarebbe pure cercare di capire
come la famiglia ha manifestato chiusura.
In ogni caso è possibile abbozzare a tre ipotesi:
1) Come le accennavo più sopra l'adolescenza è un periodo particolare della vita
caratterizzato dall'acquisizione di nuove competenze sul piano emotivo e da cambiamenti
legati all'aspetto fisico. La gestione di questi aspetti nuovi della personalità può provocare
tensioni interne, la cui manifestazione potrebbero anche essere i comportamenti
oppositivi che manifesta il ragazzo.
2) La famiglia vive tensioni interne molto forti e il ragazzo esprime la sofferenza che vive
a casa, mettendo in atto comportamenti oppositivi e antisociali al di fuori della famiglia,
esprimendo così una sofferenza che non riesce a gestire, quasi come per richiamare
l'attenzione di qualcuno che lo possa aiutare. A sostegno di questa ipotesi c'è
l'atteggiamento di rifiuto e di chiusura da parte della famiglia e del ragazzo. In questo
caso non solo il ragazzo avrebbe bisogno di aiuto, ma anche la stessa famiglia.
3) Il ragazzo sta iniziando a frequentare cattive compagnie e ad essere coinvolto in brutti
traffici, ecc. In questo modo si potrebbe spiegare l'atteggiamento oppositivo e di chiusura
nei suoi confronti.
Tutte e tre le ipotesi potrebbero essere valide, ma nel caso fossero giusta la seconda o la
terza ipotesi, credo occorra approfondire la situazione per capire come affrontarla al
meglio. Se così fosse e se lo desiderasse, ci puo` contattare nuovamente.
A cura della dr.ssa Silvia Marchesini
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CALCIO DI RIGORE
Non ho mai sbagliato un tiro in porta, vorrei fare il calciatore da grande. Però la scorsa
partita, c’erano i miei a guardare, ho sbagliato a tirare un rigore, l’allenatore insiste, ma
io non voglio più tirare i rigori perché so già che li sbaglio. Non ce la faccio più a
continuare così perché non lo voglio fare ma lui insiste.
A volte ci aspettiamo tanto da noi e pensiamo che anche per gli altri (genitori e
allenatori) sia lo stesso, soprattutto se “non abbiamo mai sbagliato un tiro in porta” e se
teniamo tanto a qualcosa. Forse possiamo pensare che i genitori vengano a vederci non
tanto per vederci “non sbagliare”, ma per condividere con te un aspetto importante della
vita e sostenerti sul campo. Quindi quando li vedi a bordo campo o sulla tribuna prova a
non pensare al loro giudizio, ma alla forza del loro tifo per te.
Così per l’allenatore: forse in un modo un po’ insistente ti sta dicendo che non ha
importanza il rigore sbagliato, che il tirare il rigore è solo una delle tante cose che fa un
bravo giocatore e tu per lui sei un bravo giocatore e vuole che continui a crederci.
Inoltre sia con i tuoi genitori che con il tuo allenatore puoi dire se ci sono modi di fare
(es. tipo di tifo del papà, insistenza eccessiva dell’allenatore, etc.) che in qualche modo
inibiscono la tua libera espressione nel gioco del calcio in campo: è possibile che per un
periodo si chieda ai genitori di non venire a vedere le partite, come all’allenatore di non
tirare più rigori per un po’.
E per te, è bellissimo che tu stia lavorando a un sogno, fare il giocatore da grande, ma
prova a entrare in campo ogni volta per il solo piacere di giocare e divertirti, e il resto
verrà da sé.
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CALCIO PER PARTECIPARE?
Sono la mamma di Riccardo, un bambino di 12 anni. Riccardo da quando ha scoperto il
gioco del calcio non fa altro che giocare trascurando tutto il resto. Inizialmente ero
contenta perché in questo modo conosceva altri bambini e faceva un po'' di movimento
(prima era sempre davanti al computer), ma ora sembra completamente assorbito da
questa nuova attività. E'' molto competitivo e il suo umore dipende dal fatto che vinca o
perda. Ho cercato di ridimensionare l''importanza che sta dando al calcio, ma senza
risultati. la domanda che volevo rivolgere allo psicologo è questa: devo preoccuparmi
oppure è una fase normale? ci sono segnali a cui devo stare attenta? come si fa a capire
quando un genitore deve intervenire e quando invece è meglio che se a sbrighi da solo?
Cara Mamma di Riccardo, benvenuta in questo spazio.
Da quello che scrive mi sembra di capire che il fatto che Riccardo abbia cominciato a
giocare a calcio è una attività del tutto nuova, sia per lui che per la vostra famiglia, non
tanto per il gioco in se stesso, ma per il coinvolgimento che Riccardo ci mette.
Credo che per un ragazzino l’attività fisica con i coetanei sia molto importante perché
permette il confronto con gli altri circa le proprie capacità, la valutazione delle proprie
potenzialità e del contributo che si riesce a dare alla squadra, il fatto di rendersi visibili,
di cominciare ad inserirsi in un gruppo nel quale entrare nel gioco dei ruoli sociali. Spesso
la partecipazione ad una attività sportiva è un primo ingresso “in società”, in un contesto
dove è possibile “fare delle prove” rispetto alla posizione sociale che si potrà occupare in
futuro.
Forse la preoccupazione che sente è dovuta al passaggio che suo figlio sta attuando da
attività più solitarie ad attività di gioco con gli altri, un debutto sociale che Lei descrive
come senza tappe intermedie. E’ difficile valutare se “oggettivamente” il modo di
coinvolgersi di Riccardo nel gioco del calcio sia eccessivo oppure no. In ogni caso,
l’importante è che Lei ha notato alcuni segni ed ha cominciato ad ascoltarli, chiedendo un
aiuto per la loro interpretazione.
Sembra che Lei avverta che improvvisamente i punti di riferimento di Riccardo sono
cambiati e che suo figlio potrebbe correre il rischio di non dosare a sufficienza il credito
che attribuisce al gioco e ai suoi compagni di squadra, come se dall’affidamento alla
famiglia fosse passato ad un affidamento alla squadra di calcio, senza soluzione di
continuità.
Credo che sia importante che continui a farsi delle domande, con rispetto per i nuovi
spazi che suo figlio si sta ritagliando, con fiducia, mantenendo l’attenzione che già mostra
di avere. Se, per esempio, sia abituale per lui investire completamente le sue energie in
una cosa sola, se invece ci sono anche altri interessi oltre al calcio, che significato questo
atteggiamento totalizzante possa avere per lui, che significato possa avere nella vostra
famiglia.
Mi pare di leggere nelle sue domande che anche Lei è molto coinvolta in questa fase di
passaggio e che giustamente sta “sentendo” il cambiamento in atto… in alcuni punti (è
normale oppure è segno di patologia? Meglio intervenire o lasciare che faccia solo?)
sembra che Lei stessa tenda ad impostare la questione come se si trattasse di scegliere
tra modalità alternative di azione di tipo “tutto-o-niente”. A volte un modo di agire del
figlio genera nel genitore atteggiamento per certi versi analogo, nel caso questo si
verifichi, è molto utile poterlo osservare.
Dott.ssa Giuliana Nico
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CALCIO PER VINCERE?
Sono un allenatore di una squadra di calcio di ragazzi dai 14 ai 18 anni. La nostra
squadra non è certo una squadra importante, ma una società di quartiere che fa i
campionati provinciali. Però arivati a questa età io credo che non è sbagliato insegnare ai
ragazzi che bisogna giocare per vincere. E' vero, l'importante è partecipare, ma non sono
d'accordo con tanti miei colleghi e genitori. Si fa sport agonistico per vincere, altrimenti si
gioca ai campetti. Sbaglio? Se no, mi piacerebbe avere consigli per trasmettere ai miei
ragazzi come la penso nel modo giusto. Potete darmi consigli?
Gentile allenatore,
a mio avviso il cuore della sua questione è in parte indipendente dal contenuto e riguarda
piuttosto il modo in cui lei si pone e mi propone il problema. Mi vengono allora subito in
mente altre domande, che mi aiutano a darle degli spunti che mi sembrano utili: perché il
mio interlocutore crede di non essere in grado di trasmettere il suo pensiero? Cosa
intenderà dicendo che vuole trasmettere come la pensa “nel modo giusto”? Come mai si
chiede questa cosa in questo momento?
Il modo in cui si pone il problema mi fa pensare che “vincere o partecipare” siano due
poli di un dibattito esterno con i genitori o gli altri allenatori, ma anche un dilemma che si
è aperto dentro di lei. E, se le è venuto un dubbio, ne faccia tesoro, al giorno d’oggi i
dubbi sono una cosa molto sana, se ci si dà il tempo di affrontarli, ma non troppo
velocemente, perché portano a capire meglio le cose e ad assumersi la responsabilità
delle proprie scelte in modo più profondo e maturo. Mi permetta dunque di spostare la
questione: prima si tratta di accogliere il suo dilemma come una cosa utile e buona e di
lavorare per far nascere dentro di sé un pensiero più articolato e che la convince, poi
vedrà che non le sarà difficile comunicare ciò che pensa ai suoi ragazzi.
Le propongo la mia idea su come, al giorno d’oggi, può essere utile affrontare un
dilemma. Nel mondo molto complesso in cui viviamo non sono più sufficienti strumenti
educativi semplici e un po’ riduttivi come “l’importante è vincere” o “l’importante è
partecipare”. Dobbiamo tutti attrezzarci con pensieri e strumenti all’altezza dei tempi,
che siano a loro volta più complessi. Mentre i pensieri forti e ideologici degli anni passati
erano basati su contrapposizioni dualistiche “o–vincere-o-partecipare”, i pensieri adatti ai
nostri tempi sono pensieri relazionali, frutto di faticosi accomodamenti e contrattazioni in
ogni situazione specifica, e si presentano come “e-vincere-e-partecipare”.
Come esercitarsi ad avere pensieri più complessi, che tengano conto della pluralità di
facce dei problemi?
Innanzitutto, non si dovrebbe mai partire pensando che ci sia una soluzione giusta in
assoluto.
In secondo luogo, per trovare nuove articolazioni di un problema, può essere
interessante un confronto aperto e non pregiudiziale con gli altri. Potrebbe parlarne con i
suoi colleghi e/o con i genitori, e chiedervi cosa spaventa della competitività, del vincere,
quali siano i limiti del non confrontarsi con l’agonismo, ma anche cosa voglia dire
partecipare davvero.
Poi è utile responsabilizzare gli altri, per la parte che li riguarda. Potrebbe pensare di
farlo con i suoi ragazzi, facendo all’inizio del campionato una sorta di contratto, che
significa decidere insieme che compito porsi e impegnarsi tutti a raggiungerlo.
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Infine, può essere prezioso gestire il gruppo in modo più complesso e “plurale”, facendo
coaching, che significa sviluppo degli altri tenendo a cuore le esigenze, le risorse e i limiti
di ogni singolo ragazzo, e insieme tenendo a mente anche l’obiettivo di fare goal.
Cordiali saluti, dott.ssa Sara Fallini
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CALCIO: CAMBIO ALLENATORE
Mio figlio di 12 anni 2 anni fà è stato chiamato in una società professionistica di calcio e
lui chiaramente ha voluto andarci, si era inserito bene sia come compagni che come
allenatore. Purtroppo quest''anno ha cambiato allenatore, ed inizialmente sembrava che
fosse tutto ok, poi ha subito 2 fratture a distanza di 2 mesi una dall''altra e qualcosa è
cambiato. Inizialmente aveva molta paura di rifarsi male, ma nonostante questo ha
cercato di dare il massimo per recuperare, l''allenatore invece non gli ha più dimostrato
la minima fiducia e quindi lo faceva giocare solo nelle partite meno importanti e magari
solo per pochi minuti. Ho cercato di spiegare al mio figlio che sono momenti che si
passano ma se ci tiene deve continuare a lottare, lui ci tiene molto e me lo ha
confessato, ma ora è avvilito perchè psicologicamente non supportato dall''allenatore.
Cosa possiamo fare per aiutarlo ad affrontare questa situazione ?
Caro genitore,
l’allenatore è giustamente visto come punto di riferimento sia dai ragazzi che dai genitori
per essere rassicurati sul percorso che stanno facendo. Spesso si richiede che sia un
referente non solo tecnico ma anche “affettivo”, che aiuti i ragazzi ad amalgamarsi tra di
loro, ma anche ad infondere valori e coraggio, voglia di farcela e fiducia.
Sembra che questo momento sia piuttosto difficile per suo figlio per un insieme di
elementi. Mi pare che vi aspettiate dall’attuale allenatore che riesca a capire la situazione
senza farla pesare a suo figlio più di quanto già non avvenga.
Mi sembra infatti che suo figlio stia lottando a più non posso: la novità, la tensione,
l’aspettativa del salto al professionismo, unite alle ben 2 fratture nell’arco di qualche
mese, possono suscitare molta rabbia e frustrazione, soprattutto se poi l’andamento del
recupero non è del tutto liscio e l’allenatore sembra non capire completamente cosa sta
passando. Dopo tanto penare, forse sia lei che suo figlio vorreste essere capiti e
sostenuti, vorreste che l’allenatore vi comunicasse chiaramente la sua fiducia sulle
possibilità di suo figlio.
Forse l’interruzione del rapporto con l’allenatore precedente per suo figlio è stata una
vera e propria frattura, che ora rende più difficile accettare il nuovo allenatore e le sue
regole. La pratica calcistica è entusiasmante ma anche molto faticosa, a volte sembra
“poco umana”, e include il rischio di farsi male. Perché non si verifichino problemi, sia lo
sviluppo fisico che quello mentale hanno bisogno di tempo. A volte è difficile accettare le
limitazioni che inevitabilmente si impongono.
Credo che un modo per aiutare suo figlio sia prima di tutto quello di capire le emozioni
che prova e stargli vicino. Potrebbe essere utile anche che venisse aiutato ad esprimere
le differenze tra il vecchio e il nuovo allenatore, per trovare il modo migliore per
attraversare questo passaggio. Inoltre penso sia il caso di decidere, sia voi che vostro
figlio, se ci sono gli estremi sufficienti per costruire una relazione di fiducia con il nuovo
allenatore; credo infatti che una certa quota di alleanza sia indispensabile per affrontare
l’attività agonistica. Penso anche che potreste organizzare un momento di dialogo con
l’allenatore con lo scopo di capire insieme cosa sta succedendo e trovare una soluzione.
Dott.ssa Giuliana Nico
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CALCIO: PAURA DELLA PARTITA A 8A
Buongiorno. Sono la mamma di un bambino di 8 anni che l''anno scorso ha frequentato
una scuola calcio "primicalci" e quest''anno si appresta a diventare un "pulcino" e quindi,
oltre agli allenamenti, dovrà disputare ogni settimana una partita di campionato. Lui
adora il calcio, ma é un bambino introverso e, quindi, per il momento in partita é
intimidito e bloccato. Tutti gli hanno detto che é molto bravo e che deve avere fiducia in
se stesso; sia per l''allenatore che per noi genitori bisogna "dare tempo al tempo" ed
aspettare che maturi da solo. Il problema sorge in quanto ora ci ha messo 2 mesi a
decidere se abbandonare o meno il suo sport preferito, perché lui vorrebbe fare solo gli
allenamenti e non le partite. Per aiutarlo io e suo padre gli abbiamo detto che poteva
benissimo abbandonare il calcio, ma in questo caso avrebbe dovuto scegliere un nuovo
sport da provare. Indeciso per due mesi, ora ha acconsentito a continuare calcio, perché
dice che gli piace solo questo sport. In realtà so che è spaventato, dice che non gli
piacciono le partite perché non conosce i bambini dell’altra squadra….sicuramente non ha
fiducia in se stesso e nelle sue capacità. Come aiutarlo? Abbiamo fatto male a spingerlo?
Lo abbiamo fatto perché sicuramente il prossimo anno avrebbe voluto ricominciare e si
sarebbe trovato un passo “indietro” rispetto ai suoi compagni con ulteriori danni per la
sua autostima. Io confido che man mano la paura delle partite scomparirà…..sto male
pensando all’ansia che prova, ma senza stimoli, lui ha la tendenza ad isolarsi dagli altri.
L’anno scorso invece grazie alla scuola ed al calcio l’ho visto felice e in sintonia con i suoi
coetanei. E lo sport serviva anche come momento di sfogo dopo tutta la gg scolastica.
Grazie della vs. risposta
Gentile signora, potremmo pensare all'atteggiamento dell'essere umano verso il mondo
esterno come caratterizzato da due polarità opposte: apertura e chiusura. Dal punto di
vista evolutivo ha senso che l'estraneità susciti prudenza. Lo sconosciuto può turbare il
nostro equilibrio, farci del male, determinare uno scontro, ecc. Il sentimento di chiusura
nasce, infatti, dalla considerazione che non possiamo sapere cosa ci può portare l'altro,
sia che si tratti, ad esempio, di un avversario in partita o di un nuovo sport. D'altra parte,
se ci si sente fiduciosi, l'incontro con l'estraneo può anche stimolare la curiosità,
l'apertura e il desiderio di conoscenza. Diventare grande implica un'altalenanza di questi
due movimenti. L'acquisizione di qualcosa (anche in termini positivi) richiede un
atteggiamento di apertura e il tempo per assimilarla. A questo proposito trovo molto
bella la vostra frase “dare tempo al tempo”. Ciò, peraltro, richiede di tollerare e sostare
nell'incertezza di non sapere, una condizione con cui nella vita ci dobbiamo confrontare.
A volte i genitori vorrebbero evitare le esperienze dolorose ai propri figli, che invece
devono proprio imparare ad affrontare. Questo nulla toglie al fatto che, in questo
processo, i bambini devono poter essere sostenuti e accompagnati dagli adulti. Possiamo
dire che le mele maturano da sole, i bambini non tanto. Le paure difficilmente
scompaiono nel nulla, mentre se condivise, riconosciute e legittimate possono essere
risolte e ridimensionate. Nelle sue note lei scrive di stare male pensando all'ansia che
prova suo figlio, ma che senza stimoli lui ha la tendenza ad isolarsi. Provi a pensare che,
dietro l'atteggiamento di chiusura, il suo bambino possa nascondere una legittima
preoccupazione o sentimenti di insicurezza. In tal caso è indicato l'ascolto e la ricerca di
un dialogo. E' così che le emozioni più scomode diventano fonte di apprendimento.
Come ultima nota, le sue affermazioni - “sicuramente non ha fiducia in se stesso..” e “..si
sarebbe trovato indietro rispetto ai suoi compagni”- lasciano intravedere una
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preoccupazione, un timore da parte sua. Come mai non ha fiducia che suo figlio possa
trovare autonomamente il desiderio di stare con gli altri? Questo è un fattore cruciale, i
bambini traggono dai genitori il loro sentimento di sicurezza. Pertanto nel suo caso
sarebbe importante capire meglio dove hanno origine questi suoi pensieri, per ascoltarli
e prendersene cura. In altre parole i bambini risuonano fortemente con l'immagine che il
genitore ha di loro, e sono molto sensibili alle sue aspettative (e ansie). Se crediamo e
abbiamo fiducia nelle capacità dei nostri bambini, corrisponderanno e viceversa.
Dott.ssa Silvia Marchesini
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CALCIO: PAURA DELLA PARTITA A 18A
Salve,
io gioco a calcio in una squadra giovanile (ho 18 anni appena compiuti). Quando
giochiamo le partitelle in allenamento sono sempre fra i migliori, perchè sono tranquillo e
non avverto la pressione della partita. Quando invece al sabato scendo in campo non
riesco a dare il meglio di me. Io so di essere bravo, e anche il mio allenatore me lo dice.
Ma in campo ho paura e, o faccio molti errori, oppure mi estranio anche dal gioco. Non
ho paura di qualcosa in particolare, è una sensazione strana. Io ce la metto tutta, mi
carico, ma non riesco a giocare tranquillo e giocare come vorrei.
Cosa posso fare?
Gentile sportivo,
Quella che descrive è un'esperienza che mi sembra le provochi una certa preoccupazione
soprattutto perché le appare strana e forse incomprensibile. Come se qualcosa sfuggisse
alla volontà e alla capacità di gestire pienamente le sue abilità sportive, evidenti e
tranquillamente attive durante gli allenamenti e invece stranamente indebolite durante le
partite di gara. Credo che il fattore che distingue queste due situazioni sia la
competizione agonistica e quindi il fatto che in gara ci si espone alla possibile valutazione
della propria prestazione e del risultato. Mi chiedo allora se non sia l'ansia legata alla
necessità di ottenere un risultato positivo e di evitare a tutti i costi di perdere quella
sensazione strana di cui parla.
Effettivamente l'ansia, se supera certi livelli, può essere "paralizzante" e invece di
potenziare le capacità e la loro applicazione nel gioco, può ostacolarle diminuendo
l'efficienza. Questo non ha niente a che fare con l'essere bravi e capaci nella disciplina
sportiva che si sta svolgendo, ma bensì appartiene alla sfera delle emozioni personali e
soggettive le quali hanno un ruolo importante quando ci si misura nel gioco e nelle
relazioni con gli altri (con i componenti della squadra di apparenenza e di quella con cui si
compete, il pubblico, l'allenatore, le regole del gioco ecc). L'ansia che aiuta ad essere
vigili e concentrati diventa ansia da prestazione; questo sembra portare con sé proprio
tutti quegli errori e impedimenti che scendendo in campo si vorrebbero evitare per poter
vincere e divertirsi. Una specie di "autosabotaggio" un po’ inconsapevole al quale più si
cerca di porre rimedio mentre si gioca e più aumenta l'ansia e la voglia di estraniarsi dal
gioco stesso. Insomma come se per paura del fallimento si anticipasse il fallimento stesso
rinunciando a vincere. Sembra paradossale, ma succede proprio così.
Ma allora che fare? Credo che il principale pensiero che può dar sollievo a questa
situazione abbia a che vedere con il concedersi la possibilità di sbagliare, di mettere in
conto il fallimento come uno dei possibili esiti della competizione di due gruppi in campo.
Questo perché può accadere che il singolo senta su di sé il peso della riuscita e quindi sia
convinto che perdere significhi mettere in discussione in modo determinante le proprie
individuali capacità. E' importante pensare, come certo lei saprà meglio di me, che nei
giochi di squadra il risultato sia esso positivo o negativo dipende dal gruppo e che il
fallimento è una necessaria e importante occasione di apprendimento e di miglioramento
di sé e delle proprie capacità di gioco individuali e di squadra. Come il detto "sbagliando
si impara!". Certo perdere provoca emozioni di delusione e tristezza tutt'altro che
piacevoli ma che possono essere il motore per cercare di migliorarsi e crescere e per
considerare che per tutto c'è un limite.
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Infine mi chiedevo quanto influisse il contesto proprio del mondo calcistico che,
soprattutto ad alti lvelli e attraverso i media, si mostra spesso ricco di giudizi definitivi ed
estremi per i quali si può passare dalla gloria alle più dure e crudeli critiche spesso non
così giustificate.
Cordiali saluti
Dr.ssa Sabrina Ferrari
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CALCIO, COMPETIZIONE E REGOLE
Alleno una squadra di calcio under 16. In squadra c''è un ragazzo molto bravo che è
arrivato nel gruppo da circa un anno e mezzo. Ha prospettive altissime. Faccio fatica a
gestirlo in quanto è molto competitivo, ha un carattere forte, è molto presuntuoso e non
accetta nessun mio richiamo e soprattutto non sta alle regole. Come mi devo approcciare
a lui? Come lo posso stimolare per impegnarsi sempre al massimo? Come posso
coinvolgerlo? Come posso far crescere il nostro rapporto che purtroppo non decolla?
Grazie.
Caro allenatore, la sua domanda esprime una buona capacità di osservazione ed una
grande attenzione sia alle dinamiche del suo gruppo-squadra, che a quelle del singolo
all’interno del gruppo; questi aspetti credo siano già buoni presupposti da cui partire per
lavorare sul suo rapporto con i ragazzi in genere e con quello di cui ci racconta, in modo
particolare.
Per affrontare nello specifico i temi della “competizione”, della “presunzione”, del “non
rispetto delle regole”, potrebbe pensare di creare uno spazio, alla fine di un allenamento
ad esempio, in cui ci si confronta in gruppo su quelle che sono le caratteristiche (tecniche
e trasversali) che un giocatore deve sviluppare per potere diventare un bravo giocatore.
Utilizzando anche esempi concreti, facendo visionare filmati in cui giocatori professionisti
mostrano nel loro modo di giocare a calcio le caratteristiche di cui lei parla.
Potrebbe essere anche utile che ogni ragazzo avesse la possibilità di esprimere le sue
aspettative, i suoi sogni rispetto al gioco del calcio; quali sono secondo lui gli obiettivi
della squadra, e quali invece i suoi; se crede ci sia coerenza tra gli uni e gli altri; e come
ciascuno porta avanti questi obiettivi.
Penso che in un gioco di squadra sia importante affrontare le problematiche che
emergono, e che magari possono sembrare, come in questo caso, riferite ad un solo
ragazzo, in un assetto di gruppo per dare il senso che tutto quello che uno fa in campo
riguarda anche gli altri, e viceversa tutto quello che gli altri fanno riguarda anche me. In
modo che ci sia da un lato un’assunzione di responsabilità personale, condivisa però
all’interno di un gruppo.
Lei è un bravo allenatore, attento ai suoi ragazzi e consapevole del ruolo educativo che
può avere lo sport se lo si affronta nel giusto modo. Provi a trasmettere qual è questo
modo per lei, e si autorizzi a lasciare in panchina anche il più bravo giocatore se non
rispetta le regole che lei stabilisce e non risponde ai suoi richiami.
E che il gioco cominci.
Dott.ssa Elisa Ceci
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CAMBIAMENTI
Buongiorno, volevo sapere se potevate aiutarmi a risolvere questo problema che ho con
mio figlio più piccolo ..9 anni che gioca a calcio da tre anni. Sia l''altranno (ma molto
meno) che quest''anno in questo periodo mio figlio in campo sembra non esserci con la
testa sia in allenamento che in partita...in tilt completo paura di contrastare un
avversario paura quando riceve la palla (non vede ora di scaricarla ad un compagno ) fa
di tutto per non giocare. Non riusciamo a capire cosa gli succeda sia io che mia moglie
con allenatore e amici cerchiamo di aiutarlo di non fargli pesare questa situazione ,anche
perchè se il problema fosse che non gli piace il calcio sarei il primo lasciarlo a casa, o
trovare qualcosa che gli piace fare, ma lui vive per questo sport lo guarda si interessa e
vuole andare allenamento, cerco di dirgli che deve giocare per divertirsi come fa a casa
senza nessun problema...ma quando va ad allenamento o partita.. in TILT.....mi ero
dimenticato di dirvi che lui prima giocava alla grande senza paura ed era il più bravo di
tutti (non detto da me!!ma dagli addetti ai lavori) Cordialmente ringrazio e atteso
fiducioso GRAZIE
Caro Genitore, sembra che suo figlio abbia perso la spontaneità dell'inizio, non tanto
perché non è motivato ma proprio per il contrario: perché è coinvolto e interessato agli
effetti delle sue azioni. Sembra che suo figlio da un po' di tempo tenda a concentrare la
sua attenzione sui risultati piuttosto che sul gioco in sé e credo che questa tendenza
possa persistere in modo particolarmente tenace a causa di alcune condizioni. Una
riguarda il contesto che circonda i ragazzi che giocano a calcio, che generalmente
subiscono estreme pressioni ad orientare le loro azioni al risultato piuttosto che al piacere
di giocare, di relazionarsi con i compagni, di uscire all'aperto, divertirsi alle trasferte ecc.
Spesso il piacere di giocare e la performance agonistica sembrano situarsi su poli opposti
difficilmente conciliabili. È una situazione da analizzare e capire, senza dimenticare che
proprio lo sport è una importante occasione di collocamento nel contesto sociale, e come
tale importante strumento di misura del proprio valore e delle proprie capacità di
affrontare i compiti evolutivi tipici dell'età. Il modo di giocare, visibile a compagni ed
adulti, incide sulla popolarità e sulla leadership, sulla clemenza degli insegnanti a scuola,
sull'autostima, sul sentimento di efficacia e sui vissuti relativi al proprio corpo. Anche il
vissuto dei genitori influisce notevolmente su questo quadro. Seguendo questo
ragionamento, credo che sarebbe utile a suo figlio se voi riconosceste il più possibile
l'importanza di ciò che sta vivendo. Infatti, come avete già potuto constatare, di fronte
all'ansia da prestazione raramente è utile sdrammatizzare, perché l'ansia è un segnale
che sta al posto di una serie di bisogni che premono per essere compresi, e che non
mollano la presa fino a che non vengono ascoltati. Non si tratta tanto di cercare di
aiutare suo figlio ad evitare il problema, cosa che lui stesso forse sta cercando di fare,
ma ad affrontarlo, cioè a gestirlo insieme nei momenti in cui solitamente si presenta,
dandosi tempo e fiducia per comprenderne i significati.
E con questo veniamo alle condizioni che penso siano le più importanti, quelle legate a
cosa succede "dentro" suo figlio. Le ragioni di un blocco possono essere tante e potrebbe
essere molto utile rivolgersi ad uno psicologo che possa aiutarvi a capirne il significato
più personale, mentre qui possiamo fare delle supposizioni. La sua età precede
l'adolescenza, un momento di cambiamento piuttosto radicale e di rivisitazione di... tutto.
Le emozioni e l'energia che i ragazzi adolescenti sentono sono ormai quelle di un adulto,
ma loro stessi sono alla ricerca del giusto modo di utilizzarle per raggiungere i loro scopi.
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A volte alcune spinte generano paura, a volte i problema è la rabbia. Anche il fatto che
suo figlio possieda delle ottime capacità tecniche non deve portare a minimizzare, perché
talvolta la consapevolezza della possibilità di successo, pur entusiasmante, è difficile da
sostenere. A volte è particolarmente difficile mostrare bravura e competenza, perché
questo fa sentire lontani dal bambino che si era poco tempo prima. A volte invece la
bravura fa sentire un pò soli, oppure rende evidente la delusione per la scarsità degli
altri. Tutte queste sensazioni possono portare ad evitare di esprimere il proprio
potenziale, e, come vede, queste ipotesi vanno inserite nella situazione esistenziale più
generale, che va capita con curiosità ed apertura.
Ora la devo salutare. In bocca la lupo a voi e a vostro figlio. Dott.ssa Giuliana Nico
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CAMMINARE
Il medico mi ha ordinato di camminare tutti i giorni ma io mi annoio tremendamente.
Sono sempre stanca e preferirei riposarmi e stare in casa, soprattutto con questo caldo,
ma temo anche che non mi faccia bene non uscire mai. C'è una alternativa al consiglio
del dottore?
In primo luogo mi sembra che sia importante che lei possa condividere con il suo medico
il fatto che si annoia a camminare, in modo che insieme, tenendo conto sia dell'obiettivo
terapeutico per cui le era stata proposta la camminata che del suo "piacere" (perché lo
sport deve essere soprattutto piacere), possiate pensare ad un'attività alternativa che le
faccia bene, ma che non l'annoi.
Da quello che mi racconta posso anche immaginare che se durante la giornata ha tante
cose da fare la camminata giornaliera le possa sembrare un impegno in più a cui fare
fronte e che solo l'idea le costi fatica. In realtà vedrà che il praticare un'attività fisica,
oltre ad arrecarle benefici a livello corporeo, offrendole l'opportunità di "cambiare aria",
di uscire di casa e di ritagliarsi uno spazio per sé un po' "spensierato" le permetterà di
"scaricarsi" delle fatiche quotidiane e di sperimentare una piacevole sensazione di
benessere psico-fisico di cui difficilmente riuscirà poi a fare a meno.
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CONCENTRAZIONE NELLO SPORT
Non riesco a concentrarmi a sufficienza nelle mie attività sportive, come posso fare per
concentrarmi di più?
Gentile sportivo/a,
dato che ogni sintomo, se riusciamo a leggerlo, può essere un’opportunità per capire
alcune cose di noi, possiamo cercare di vedere che significato può avere per lei oggi la
difficoltà a concentrarsi a sufficienza nelle sue attività sportive.
Innanzitutto le chiedo se questa difficoltà è sorta di recente? E se è sorta di recente, può
collegarla a qualche evento particolare della sua vita? Se invece non è sorta di recente e
la riconosce come un aspetto che in qualche modo la caratterizza, perché è diventata per
lei motivo di sofferenza oggi? E riconosce questa difficoltà di concentrazione come
specifica dell’ambito sportivo, o la ritrova in altri ambiti (studio, lavoro, relazioni, etc.)?
Provi a pensare se in questo periodo nella sua vita è avvenuto qualche cambiamento che
la può impensierire distogliendo la sua attenzione dalle ordinarie attività e rendendole
difficile la concentrazione.
Credo che sia importante riuscire a collocare questa sua difficoltà all’interno di uno
scenario più complesso e articolato come è quello della sua vita, in modo da provare a
capire che significato ha per lei come persona nella suo insieme “non riuscire a
concentrasi a sufficienza”.
E penso che nel momento stesso in cui questo problema diventerà più chiaro e
comprensibile non si porrà più come ostacolo allo svolgimento delle sue attività.
E’ importante ricordare che l’attività sportiva è una parte, spesso molto importante, della
vita di una persona, sempre in relazione con altre parti, non meno importanti, che
possono essere capite ed elaborate solo se considerate tutte insieme e in riferimento ad
una persona specifica in uno specifico momento della sua vita.
Cordiali saluti
Risposta a cura della Dott.ssa Elisa Ceci
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CONCILIAZIONE SPORT E STUDIO
Mio figlio ha 14 anni e gioca in una squadra di calcio importante. Quest'anno deve
iniziare la prima superiore, ma non ne ha voglia. Vorrei aiutarlo a conciliare lo sport e lo
studio.
Caro genitore, mi pare che, a prescindere dall’attività e dal tipo di “gruppo” al quale
appartiene, a suo figlio stia succedendo una cosa molto comune ai ragazzi della sua età.
La tendenza a prediligere ed estremizzare alcune parti di sé, a scapito, e anche in
conflitto, con le altre, è il modo con cui gli adolescenti cercano se stessi, e solo con il
tempo integreranno i vari aspetti della loro identità.
In genere, in questa fase della crescita, molti ragazzi, dopo aver fatto attività sportiva
nell’infanzia e nella pre-adolescenza, perdono motivazione e interesse per lo sport, nel
momento in cui si devono confrontare anche con fatiche e frustrazioni e non solo con dei
successi. Per quanto riguarda invece suo figlio, l’attività sportiva che svolge è così
gratificante, sia per l’identità “forte” che offre, che per l’ottima prospettiva lavorativa che
potrebbe rappresentare, che è comprensibile che sia un po’ demotivato ad investire nella
scuola superiore.
Detto questo, il vostro atteggiamento di genitori sarà fondamentale. Se, oltre ad essere
orgoglioso delle sue prestazioni sportive, lei per primo sarà profondamente convinto
dell’importanza della scuola, intesa non solo come luogo di studio e di performance, ma
anche come “palestra di dialogo”, dove i ragazzi possono imparare ad esprimere e
affermare se stessi anche attraverso le proprie idee, sono certa che i dubbi di suo figlio si
risolveranno. Presti dunque attenzione alla modalità con cui incoraggia la sua
prosecuzione degli studi e che ci sia il più possibile un confronto tra voi genitori e gli altri
adulti di riferimento, ovvero gli insegnati e l’allenatore. Questo sarà di grosso aiuto in
quei momenti di “crisi” tipici dell’adolescenza o nei momenti di stress connaturati
all’agonismo, in cui può venir spontaneo “tagliar via” le attività più faticose o in cui ci si
sente più vulnerabili, rallentando quel faticoso processo di sviluppo armonioso della
personalità che ogni adolescente deve affrontare per diventare adulto.
In ultimo, forse vi incoraggerà sapere che, a differenza di quanto spesso si pensa, la
pratica di uno sport solitamente migliora tutte le facoltà cognitive, come ad esempio l’
attenzione, la concentrazione o la capacità di organizzarsi. Insomma è possibile che il suo
calciatore a scuola faccia meno fatica di altri ragazzi che non fanno sport.
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DANZA
Sono una ragazza e faccio danza da anni, mi piace molto, vivo per la danza. Però
ultimamente ho problemi alle gambe, mi fanno male, non capisco perché. Se lo dico ai
miei mi fanno smettere perché dicono che penso solo a quello e che mi fa andare male a
scuola. Non so a chi rivolgermi, mi potete aiutare voi?
Cara danzatrice, è bello che tu ti sia dedicata così tanto alla danza, magari la prossima
volta potresti scrivere che tipo di danza fai, a quali spettacoli hai partecipato, che cosa
desideri per il futuro. E’ importante avere una passione che ci fa faticare, allenare,
continuare, e che poi alla fine ci ripaga con delle soddisfazioni. Non capita sempre!
Mi sento però di dirti che, anche se ci sono delle mete che sono molto importanti, la vita
è fatta di tante cose. In che senso dici che “vivi per la danza”? Ho immaginato che tu
tenda a rinunciare al resto. Come mai?
A volte una passione molto intensa prende lo spazio anche di altre cose, che mancano. A
volte la dedizione è così assoluta che il corpo fatica a sopportare i pesi eccessivi a cui è
sottoposto, e alcune parti del corpo si possono usurare e cedere, a causa di questo
atteggiamento mentale e fisico molto esigente. Il tuo problema alle gambe potrebbe
avere tante cause che non si possono sapere senza una visita e un colloquio con persone
esperte. E’ assolutamente fondamentale che tu possa capire meglio che cosa ti succede,
sia dal punto di vista fisico che mentale, in modo che tu possa trovare una buona
soluzione per te e per continuare a danzare, senza dimenticare le altre parti di te.
Purtroppo ti devo avvisare che, non sapendo che cos’è questo dolore, anche la danza
potrebbe risultarne compromessa.
I genitori e la maestra/maestro di ballo di solito servono per queste situazioni, credo che
potresti provare a parlarne con chi ti sembra almeno un po’ più disponibile, è una cosa
seria. Pensa che, dopo una prima reazione magari un po’ “fuori tono”, ti possono aiutare.
Se ti vedono preoccupata e motivata a stare meglio, e se resisti a “non rispondere
indietro” alla prima loro frase sbagliata, di solito funziona; altrimenti, se credi, mettili in
contatto con noi.
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DANZA CLASSICA
Ho fatto danza classica in modo non professionale per molti anni, da quando ne avevo 5
ai 16-17; poi ho dovuto mollare per impegni di studio. Ora vorrei ricominciare, sempre
nella stessa scuola che frequentavo da piccola, ma il mio gruppo è ovviamente andato
avanti, e l''insegnante mi ha suggerito di inserirmi in un altro gruppo: sono tutte
ragazzine di 12-13 anni, io invece ne ho ventidue. La cosa mi spaventa, perché sono
abbastanza suscettibile a prese in giro e cose simili...d''altra parte l''idea di provare a
rientrare nel mio gruppo mi spaventa ugualmente, perché mi sentirei inadeguata…cos'è
meglio fare?
Gentile visitatrice del sito,
la questione che lei pone è interessante e mi sembra importante che per orientare la sua
scelta lei stia provando ad ascoltare le sue emozioni, quello che le si muove dentro.
Spero di poterla aiutare in questo.
Mi pare di aver capito che la pratica della danza ha occupato un perido lungo della sua
vita, dopo di che ha dovuto mollare per dedicarsi ad impegni scolastici. Oggi invece vuole
ricominciare, come se desiderasse riprendere in mano un filo, lasciato per qualche anno
ad aspettarla.
Quando nella vita abbiamo un desiderio, non è sempre detto che lo possiamo pienamente
realizzare, ma la prospettiva che ci si apre è a mio avviso favorevole: abbiamo la libertà
e la facoltà di farcene qualcosa sia del nostro desiderio che delle emozioni che la
situazione ci suscita, possiamo metterle a fuoco, capirle per cercare di padroneggiarle un
po’ di più.
Nell’immaginarsi inserita nei due gruppi di danza, mi pare che provi delle emozioni che in
entrambi i casi la spaventano e la fanno sentire inadeguata, direi quasi, penalizzata.
Come mai succede questo e come districarsi? Penso c’entri dove lei si aspetta di ritrovare
quel “filo” che vuole riprendere.
La mia impressione è che il cambiamento rappresentato dalla sua interruzione della
attività di danza, con investimento di maggiori energie nello studio, sia da lei vissuto
come una sorta di sbaglio, come una perdita, come un “segno meno”, piuttosto che come
una cosa normale e buona della sua vita.
Probabilmente ha già avuto modo di constatare che la vita presenta aspetti di grande
continuità ma anche altrettanto grande discontinuità. Di fatto cambiamo, e forse proprio
quando tante cose cambiano e sentiamo di doverci comunque adattare a ciò che ci
circonda, è più facile diventare un po’ suscettibili o anche sentirci inadeguati.
E proprio per questo che comprendere e accogliere i nostri cambiamenti - anche le
deviazioni dal percorso -, vederli come una cosa positiva, come una risorsa, piuttosto che
come una perdita, ci permette di crescere più armoniosi, credendo nel nostro valore. Se
lei potesse riuscire a vivere così il suo “filo” lasciato e poi ripreso, penso che entrambi i
gruppi nei quali dovesse decidere di entrare potrebbero essere per lei una risorsa, così
come potrebbe esserlo per loro la presenza di una ventiduenne con 12 anni di danza sulle
punte dei piedi.
Detto questo, proprio per il fatto che nei cinque anni di pausa lei ha sicuramente
continuato a crescere, a cambiare, a fare esperienze, le suggerirei di riconsiderare con la
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sua insegnante la proposta di inserirla in gruppo con ragazzine tanto più giovani di lei per
età, anche se tecnicamente comparabili. Una cosa che potreste tenere in considerazione,
a favore della scelta del gruppo delle coetanee, è il fatto che, al di là della preparazione
nella danza, con queste ultime sta vivendo la stessa fase della vita, che significa simili
esperienze affettive e relazionali. Che si tratti di danza o di altre pratiche sportive, sono
convinta che ciò che si sperimenta con i propri compagni di palestra, non sono solo le
prestazioni, ma anche altre cose, tra cui la possibilità di frequentarsi, di diventare amici,
di condividere esperienze. E che ci sia qualcuno che ha la stessa età, soprattutto quando
si è giovani, credo aiuti.
Dott.ssa Sara Fallini
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DIVERIMENTO O PRESTAZIONE?
Mi sono accorto che mio figlio non si diverte più come prima a giocare a calcio, non
capisco perché. Lo vedo teso alle partite, a volte cerca di inscenare un malore, mi
arrabbio tantissimo per queste esagerazioni, ma vedo anche che è come se la luna di
miele fosse finita e non so cosa fare. Devo ritirarlo dalla squadra?
“Giocare” all’interno di una squadra con regole ben precise e con ruoli ben definiti non
sempre è così facile.
Dalle sue parole posso immaginare che in questo momento suo figlio stia vivendo un
momento di difficoltà, i vari malori e la tensione che ha descritto sono infatti segnali di un
disagio che sta attraversando. Le motivazioni possono essere diverse: possono essere
presenti conflitti e diverbi tra i vari membri del gruppo o con l’allenatore che mettono in
ansia e tensione, si possono attraversare momenti di crisi perché non si vince e si resta
spesso in panchina, ci possono essere pressioni che spingono alla competizione e
trasformano un gioco in qualcosa di molto diverso.
Rispetto alla sua domanda (“devo ritirarlo dalla squadra”), mi sembra prematuro
prendere una decisione in merito. Mi sembra di capire infatti, che non ci sia stato un
momento di confronto tra di voi nel quale poter parlare apertamente di quanto sta
succedendo. Ritengo sia importante provare a farlo, così da darvi uno spazio ed un
tempo nel quale attraversare insieme le emozioni e i vissuti che state vivendo. Questo le
permetterà di prendere una decisione più consapevole e meno dettata dall’istinto.
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DOPING
Lo sport è sempre stato tutto per me, fino a poco fa giocavo a pallacanestro in una
squadra di serie B. Durante un periodo di forte carico mi è stato proposto di utilizzare
uno “specifico integratore”. L'ho assunto e per tre giorni non ho dormito, così ho capito
che si trattava di una sostanza dopante. Da allora mi sono rifiutato di farne uso, ma non
ho più avuto la possibilità di giocare una partita. Sono passati pochi mesi da allora, ma
lavorare, dormire, vedere gli amici è diventato sempre più difficile, se non impossibile. Mi
chiedo cosa mi stia succedendo, non mi riconosco più, ho perso il contatto con me
stesso, la mia testa si è ammalata?
Lo sport è una pratica molto coinvolgente, sia dal punto di vista fisico che psicologico.
Soprattutto quando lo si fa a livello agonistico, può essere una fonte di energia e di
“carica” ma anche un motivo di ansia, un “carico” che ci si sente addosso, il cui peso
viene esaltato proprio dal fatto che ci si tiene o che l’obiettivo è importante. Forse è
questo che intendi quando dici “lo sport è sempre stato tutto per me”?
Sembra che tu stia attribuendo alla sostanza che hai preso un valore assoluto nell’aver
determinato alcuni problemi, cosa che ad uno sguardo esterno appare improbabile,
perché di solito ci sono una serie di cause che devono essere prese in considerazione con
calma e fiducia nella possibilità di capire, senza spaventarsi. Avere una difficoltà o
sentirsi diversi dal solito può essere spiacevole, ma non è una malattia, anzi, a volte è
segno di un importante cambiamento in atto.
Quando si persegue un obiettivo spesso si generano aspettative elevate (anche nella
squadra) che possono appesantire i giocatori o determinare reazioni inaspettate, di cui è
necessario poter parlare estesamente con i tecnici e l’allenatore. Forse potresti
approfondire quale può essere stata natura del “carico” a cui eri sottoposto, per poter
richiedere la necessaria dose di sostegno materiale e mentale di cui ogni atleta ha
bisogno, ma che sia un aiuto concordato tra te e chi ti segue, in modo che si “integri” in
modo adatto al sia tuo fisico sia alla tua persona.
Se lo ritieni opportuno puoi scrivere ancora e comunicare come sta andando.
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EX FUMATORE
Buonasera, sono un ex fumatore da una sera dello scorso gennaio 2008 quando, dopo
uno sforzo fisico (flessioni alla sbarra) effettuato poco dopo aver fumato una sigaretta,
non sono riuscito a riprendere fiato, anche a causa del crescente spavento, per più di
un'’ora. Il ricordo di questo "shock", che è coinciso con un lungo periodo di stress
lavorativo accompagnato anche da lievi crisi di panico, mi blocca da allora nello
svolgimento di una normale attività sportiva. Sono un ex-agonista a cui è capitato già
in precedenti circostanze di superare la soglia aerobica (con conseguente timore di
malore per carenza respiratoria), già dall''infanzia. Sto portando avanti tutti i controlli
medici del caso per scongiurare eventuali motivazioni fisiche alla base del mio
problema: sono tuttavia convinto si tratti solo di un blocco psicologico che non so come
superare (anche dopo un paio di minuti di corsa leggera ho il terrore del cosiddetto
fiatone). Potete consigliarmi qualcosa?
Gentile ex-fumatore, benvenuto in questo spazio.
Leggendo la sua domanda mi è sembrato che lei mi accompagnasse passo passo nella
sua difficoltà, che descrive con grande precisione, come se avesse lei stesso dovuto
attraversare varie fasi nella definizione di ciò che le sta accadendo, sino a sporgersi a
considerare una causa psicologica sconosciuta. Quando le persone sperimentano
sensazioni fisiche nuove, funzionali o disfunzionali, è importante che si rivolgano ad un
collega medico per tutti gli accertamenti, penso che abbia fatto molto bene, in modo da
togliersi ogni dubbio.
Il nostro corpo siamo noi, il corpo è un importantissimo canale di espressione di noi
stessi che dobbiamo ascoltare con cura. E poi nella storia di ciascuno di noi il primo modo
che abbiamo per far capire agli altri quello che ci succede quando ancora non lo
comprendiamo è un modo di tipo fisico-concreto, perché è un linguaggio di base,
implicito, il linguaggio della sopravvivenza. Le emozioni che non conosciamo, o le
difficoltà che stiamo attraversando che ancora non padroneggiamo bene, proprio perché
non sono ancora state comprese da noi attraverso le parole, si devono per forza
esprimere in questo modo psico-fisico, si tratta quindi di imparare un nuovo linguaggio.
Innanzitutto si può cominciare a pensare a questo modo di comunicare: il fatto stesso
di avere delle crisi, può esprimere “qualcosa” che, proprio attraverso questi shock che ha
vissuto, diventa così più padroneggiabile. E’ come se, di fronte a qualcosa che non
conosce, scattasse ripetutamente un segnale di allarme per chiedere aiuto, e questo
segnale diventasse così forte da fomentare esso stesso la paura. Lo shock, la crisi
d’ansia, l’attacco di panico, possono essere considerati un modo per cercare di controllare
la situazione rendendola “d’emergenza”; sono degli strumenti di difesa verso quello che è
sentito come un attacco allarmante che spaventa, che può così “emergere” senza essere
troppo dannoso, ma imporsi all’attenzione per essere “curato”. Forse la mancanza d’aria
può dire qualcosa in più circa momenti della giornata in cui è costretto ad attingere alla
sua riserva di energia facendo a meno di qualcosa che è invece indispensabile. Mi fa
pensare a una situazione inaccettabile.
Che fare? Al momento le direi che, per affrontare le situazione, è necessario
momentaneamente accogliere questi sintomi, anche se è da tempo che li prova. Credo
che abbia già avuto modo di vedere, proprio perché li già ha provati nell’infanzia, che poi
lei ne riemerge: accadrà anche questa volta. Se sono soverchianti non solo durante
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l’attività sportiva, ma anche in generale, ci sono dei farmaci efficaci che si potrebbero
prendere, solo temporaneamente, su consiglio di un medico esperto in psicofarmacologia.
Mi pare però fondamentale considerare anche altri elementi, oltre a quelli
esclusivamente medici e farmacologici. Sto ipotizzando che lei desideri che questa crisi
possa essere qualcosa da cui imparare, in un campo che conosce parzialmente, affinché
non si ripeta uguale in futuro. Se dovesse occuparsi dei suoi sintomi solo dal punto di
vista fisico, mi pare che la modalità di cura potrebbe fomentare la reazione di auto-difesa
che si è attivata, più che cercare di scioglierla. Mi pare serva qualcosa di diverso da
soluzioni a lei già note, che le dia una boccata d’aria. Credo che gli aspetti emotivi che
suscitano timore vadano ascoltati in contesti deputati, non in solitudine, contesti che
permettano una maggiore “integrazione”, perché questi elementi della vita preziosi e
indispensabili. Così lei sperimenterà gradualmente che se ne può parlare, darà loro diritto
di esistenza, e credo che potrà tornare a praticare sport con un po’ più di serenità.
Se vorrà ci faccia sapere gli sviluppi o ci contatti privatamente in modo che possiamo
consigliarla secondo il suo bisogno, anche localmente esistono molte realtà in grado di
aiutarla.
Dott.ssa Giuliana Nico
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FARO’ IL CALCIATORE?
Mio figlio di 9 anni è veramente bravo nel gioco del calcio al punto che è stato ingaggiato
da una squadra della nostra città di serie A. Da quando ha iniziato a giocare lì però non
riesce a sbloccarsi in campo, forse per timidezza o paura, sta di fatto che le sue
prestazioni sono scese in modo notevole. Dobbiamo spronarlo spingendolo a fare meglio
e confermandogli che crediamo in lui e sappiamo che può farcela, o è meglio lasciare che
il tempo faccia il suo corso e vada come vada??? Sappiamo che ha delle ottime qualità
ma a volte in campo sembra un vero "baccalà"; poi alla fine conclude anche con un goal
ma il punto è che non è sciolto e libero. So già che ci vorrà un po’ di tempo ma è meglio
non spingerlo e lasciarlo fare oppure è giusto spronarlo?? La nostra paura è che rimanga
fortemente deluso se nel tempo fosse confermato. Tengo a precisare che non l''abbiamo
mai spinto, anche quando dice che da grande farà il calciatore, prospettiamo sempre il
piano "b", "c", ecc.
Gentile genitore,
le riflessioni che avete già messo in campo per provare a comprendere la difficoltà di
vostro figlio mi fanno ipotizzare che stia facendo molta fatica a passare dal gioco non
agonistico, dove prevale il divertimento, lo stare con i compagni e il piacere di essere
bravo, all’attività strettamente agonistica. Come anche voi dite, potrebbe essere solo una
questione di tempo e di maturazione che arriva da sé; ma come succede per altri
momenti di passaggio che incontriamo nella vita, anche questo lo si può un po’ favorire.
Nella vostra domanda manca completamente il riferimento a ciò che vede e pensa
l’allenatore. Se non lo avete ancora fatto, provate a capire se nella sua esperienza ha già
incontrato una problematica simile, cosa che potrebbe tranquillizzarvi. L’altra cosa molto
importante è cercare di capire, senza allarmarlo o colpevolizzarlo, cosa sente vostro figlio
quando è in campo. E’ soddisfatto di sé, e, soprattutto, riesce ancora a divertirsi,
nonostante sembri un po’ rigido? Una volta appurata questa cosa importante, che a 9
anni deve essere assolutamente garantita, dovreste aiutarlo a prender coscienza del fatto
che, oltre al talento naturale, per poter diventare da grande un calciatore professionista,
è richiesto grande impegno e capacità di tollerare gli insuccessi, apprendendo dagli errori
o dai limiti senza farsene spaventare.
Dott.ssa Sara Fallini
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MATURARE SCELTE
Mio Figlio, ora ha quasi 6 anni, lo scorso anno, ha iniziato, a 4 anni e mezzo a giocare a
calcio (agosto settembre)in modo entusiastico, a settembre poi è stato stoppato in
quanto, non avendo compiuto i 5 anni non poteva continuare. ha quindi ripreso l''attività
a gennaio, non ha mancato un''allenamento, pioggia neve freddo, sempre contento e
felice in ogni singola partita o allenamento. ora, al primo allenamento ha cominciato a
piangere ed non vuole più giocare a calcio.
Gentile genitore, le propongo alcune considerazioni tutt’altro che esaustive, ma che
traggono spunto da alcune informazioni che mi pare lei metta in evidenza.
La prima informazione è che il bambino di cui stiamo parlando è “suo figlio” , ovvero che
c’è tra voi una importante relazione di parentela, l’altra è rappresentata dall’età in cui il
suo bambino ha affrontato certi passaggi. Io mi sono immaginata che lei sia un papà,
forse per l’attività sportiva di cui si parla e per il tema sottostante che mi pare sia quello
di mettere e di porsi dei limiti, ma quanto le dico va benissimo anche per una mamma.
Da quello che scrive mi è parso che suo figlio l’abbia molto gratificata come genitore,
come a dire che un bimbo così appassionato ed entusiasta verso uno sport, e al calcio in
particolare, è proprio figlio suo e che lei si riconosca in un esserino così coraggioso e
determinato, mentre adesso che il suo atteggiamento è cambiato, lei forse si domanda
cosa stia succedendo.
Di fronte a situazioni come quella che lei pone, che frequentemente ci sono portate da
genitori e da altre figure educative, noi psicologi siamo abituati a partire chiedendoci
insieme al nostro interlocutore: secondo lei di chi è il problema di cui mi sta parlando?
Proprio in linguaggio calcistico, lei dice che a quattro anni e mezzo suo figlio è stato
“stoppato”. Si ricorda per caso qual è stata la sua emozione di genitore in quel
momento? Si è sentito più stoppato il bambino che “gioca” e dà i suoi primi calci al
pallone o il genitore che già da tempo è lanciato nella “partita” della vita adulta, ma che
ha bisogno di riflettere e farsi delle domande su quale sia la tempistica con cui è meglio
far crescere i propri piccoli, proponendo loro con gradualità attività sportive e non? A suo
avviso è plausibile leggere il pianto e il rifiuto del suo bambino come una indicazione
molto concreta che, se raccolta, può aiutare noi adulti a capire meglio i suoi tempi di
crescita? Ho infatti l’impressione che ci sia stata, per qualche motivo che non posso
sapere ma che forse lei ha modo di individuare, una precoce convergenza tra il gioco e
l’attività sportiva vera e propria. Mi viene inoltre in mente che, se suo figlio ha quasi 6
anni, forse ha appena iniziato la prima elementare… Se così fosse, questa può essere
un’ulteriore situazione che lo impegna molto emotivamente e si può ipotizzare che per il
momento ne abbia a sufficienza di “partite”.
Se alcune di queste riflessioni hanno per lei qualche senso, forse ciò che si potrebbe
“stoppare” o limitare per il momento sono gli allenamenti, l’attività sportiva più
strutturata, e data la tenera età proteggere e garantire invece l’attività di “gioco”. Tenga
conto che tutto ciò vale anche quando sono i figli ad insistere per fare sport presto e
molto sul serio. Talora i bambini per indole, o perché vogliono fare felici gli adulti,
tendono a confrontarsi con impegni o prove per le quali non sono ancora del tutto pronti
e che per questo possono farli soffrire. Nel momento in cui si intuisce qualcosa di questo
genere, fa parte del compito genitoriale alleggerirli ed assumersi la responsabilità di farli
attendere e maturare ancora un po’, senza paura di perdere delle occasioni evitando di
anticipare le tappe. Dott.ssa Sara Fallini
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NON E’ PORTATO PER LO SPORT
Mio figlio ha 9 anni. Anche se non ha predisposizione per l'attività fisica , ho cercato di
fargli praticare molti sport (fin da piccolo) per aiutarlo a migliorare la coordinazione
motoria. Quest'anno ha voluto iscriversi ad una scuola di calcio e finora la frequenta
molto volentieri. Purtroppo quando partecipa alle partite o agli allenamenti, emerge la
sua 'incapacità', per cui si trova ad essere o a sentirsi trascurato. Qualche volta nelle
ultime settimane ha cominciato a rendersi conto di questo e mi ha espresso il suo
disagio. La mia difficoltà sta nel fatto che non so come comportarmi, perché non posso
dirgli che ciò succede perché lui non è portato per lo sport. Temo, inoltre, che da un
momento all'altro i compagni di squadra lo possano bollare come 'scarso', portandolo ad
isolarsi e non saprei davvero come intervenire. La ringrazio anticipatamente per i consigli
che vorrà darmi sulla migliore maniera per affrontare la situazione: vorrei cercare di
limitare o tamponare l'effetto di disistima in se stesso che si potrebbe creare. Spero di
avere una risposta anche se non sono di Parma.
Gentile genitore,
leggendo la sua lettera non ho potuto fare a meno di sentire la sua preoccupazione. Mi
sembra che in qualche modo mi stia esprimendo il suo disagio di fronte a questo
momento di “incapacità” e difficoltà che sta attraversando suo figlio. Vedere i propri figli
che incontrano e si scontrano con le prime delusioni, non è mai facile. Il desiderio è
quello di poterli proteggere dalle situazioni che riteniamo dolorose. Allora come
comportarci con loro, come stargli vicino permettendogli di crescere? Sicuramente è
importante che i ragazzi vengano accompagnati nelle prime esperienze di condivisione e
di gioco, da una figura adulta (genitore, allenatore, insegnante..) che funga da guida e
da modello. La sua funzione sarà quella di aiutare a dare una forma ed un significato a
quello che succede, di modulare e contenere quanto accade, di aiutare ad elaborare e
metabolizzare le emozioni che circolano, così che possano riconoscere i propri vissuti e i
propri bisogni. I bambini grazie al rapporto che instaurano con i compagni sperimentano
la loro capacità di destreggiarsi nel mondo, imparano modalità di convivenza, scoprono
come difendere ciò che gli è caro, inventano strategie per farsi rispettare, collaudano
sentimenti ed emozioni. Quando i bambini sperimentano una frustrazione fanno per la
prima volta conoscenza con sentimenti dolorosi, come la delusione, la tristezza.
Le delusioni e le frustrazioni che sono presenti, e fanno parte della vita, vanno anch’esse
sperimentate ed affrontate, sono un passaggio fondamentale ed inevitabile lungo il
cammino della crescita. In questi casi il sostegno maggiore per il bambino, è dato
dall'essere ascoltato, dal sentirsi compreso, appoggiato, e dalla possibilità di confrontarsi
con l'adulto.
E’ importante quindi dare loro uno spazio, fisico e mentale, che permetta un confronto ed
una condivisione così da poterle superare.
Non abbia timore a parlare con suo figlio di ciò che vede e sente, lo aiuti a dare un senso
a quello che sta capitando, ma sia anche fiduciosa rispetto alla possibilità che trovi da sé
una soluzione.
Dott.ssa Alessandra Mirabella Da Vico
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NUOTO AMATORI
Ho 35 anni e so nuotare discretamente. Ultimamente sono andata regolarmente in
piscina perché il nuoto mi fa sentire meglio e mi fa anche passare un mal di schiena che
soprattutto di inverno mi accompagna abbastanza spesso. A volte però mi capita che mi
sento soffocare e che, se non mi trattengo, mi viene da scappare fuori dalla vasca. In
certi periodi è una vera e propria paura, so che non ci devo pensare altrimenti non vado
più a nuotare. La mia amica dice che è semplicemente dovuto al fatto che, allenandomi
adesso di più, quando sto facendo uno sforzo mi manca l’aria, e questo mi dà
l’impressione di stare male. A me viene in mente che anche quando ero piccola mi
capitava, anche se l’acqua mi è sempre piaciuta moltissimo (e mi piace tutt’ora). Può
essere una reazione passeggera? Devo fare un controllo medico generale? E’ una cosa
che può capitare anche se mi allenassi tutti i giorni?
La nostra vita ha origine in acqua, ma l’uomo si è evoluto come essere terrestre, lo stare
in acqua non è naturale per noi, quindi quando siamo immersi in una piscina tendiamo
giustamente a mantenere uno stato di allerta. Nel suo caso ci potrebbe essere un altro
aspetto di cui tenere conto e che mi sembra lei abbia rilevato. La sensazione di fatica e di
affanno, unita al fatto di essere immersi in acqua, potrebbe innescare una reazione a
catena che, dallo stato di allerta, si trasforma in vera e propria paura e/o panico. La
mancanza di aria provoca un disagio nel corpo, e, se non riusciamo a collegare la fatica
agli eventi che ci stanno capitando, possiamo pensare che il nostro malessere sia dovuto
a chissà cosa, ci spaventiamo e ci viene l’ansia.
Penso però che la domanda su cui soffermarsi a riflettere non sia tanto la frequenza con
cui lei va in piscina. Più importante sarebbe cercare di capire se si è verificato qualcosa
nella sua vita che l’ha resa più vulnerabile o fragile. In altre parole non è solo il rapporto
con l’acqua che va indagato, ma la sua vita in generale, il suo modo di affrontare gli
eventi, ecc. Questo perché tutti noi abbiamo punti deboli, paure o ansie che sono in
relazione alla nostra storia personale. Potrebbe essere che le sue difficoltà o
preoccupazioni nell’affrontare situazioni difficili si rivelino nel rapporto con l’acqua, come
se questo fosse una specie di “anello debole della catena” (per qualcun altro potrebbe
essere una paura che insorge per la notte, o il bosco, o gli spazi chiusi, o le piazze, o
altro ancora). Lo stato di ansia è difficile da sopportare, perché non si sa a cosa
attribuirlo, e, se aumenta, si fa pressante il bisogno di trovare una spiegazione. Spesso
si pensa di avere una malattia fisica e ci si rivolge al medico. Il medico potrà prescriverle
tutti gli esami che ritiene, ma quasi sicuramente risulteranno negativi, e questo potrebbe
comunque non rassicurarla perché rimane non affrontato, non capito, il motivo a monte
che in questo periodo l’ha resa vulnerabile.
Se le interessa cercare il significato che possono avere le sue paure, un colloquio con
uno psicologo potrebbe aiutarla a capire meglio e a cercare un collegamento con le
esperienze che vive.
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NUOTO BAMBINI
Trovo che mio figlio sia molto più goffo degli altri a nuotare, non è disinvolto, gli altri
imparano un nuovo stile e lui ancora non sa fare i movimenti di base. Non so se sarebbe
meglio rinunciare a iscriverlo ai corsi oppure portarlo ad allenarsi di più?
Lo sport in generale richiede sicuramente una certa predisposizione fisica e mentale, ma
anche molto impegno e dedizione se si vogliono ottenere dei risultati.
Una componente che ritengo però essenziale ed importante, soprattutto con i ragazzi, è
quella inerente al “piacere di fare qualcosa”.
Lo sport non deve essere solo allenamento, competizione con i compagni, o il saper fare
bene determinati movimenti, ma anche divertimento, gioco. Spesso gli adulti
dimenticano questa parte, prestando attenzione solo ai risultati e alla prestazione.
Dalle sue parole mi sembra di capire che lei sia un genitore presente e attento alle
necessità e ai bisogni di suo figlio. Rispetto alla domanda che pone, se rinunciare ad
iscrivere suo figlio ai corsi, o portarlo ad allenarsi di più, ritengo importante, prima di
tutto, capire quanto suo figlio si diverta nel praticare il nuoto, se va volentieri o se invece
lo fa controvoglia.
A volte i figli non riescono a fare le cose così come vorremmo, sono goffi ed impacciati,
ma quello che per loro è importante, è che sentano e vedano riconosciuto il loro sforzo e
l’impegno che ci mettono, sapendo di essere comunque accettati ed amati anche nei loro
difetti.
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OMOSESSUALITA’ E SPORT
Sono l'allenatore di una squadra di calcio di ragazzi di quattordici anni. Uno dei ragazzini
sembra avere manifestato tendenze omosessuali e per questo motivo è stato fatto
oggetto di scherno da parte dei compagni, per cui ha smesso di venire e mi ha chiesto di
non dire nulla ai genitori. I genitori si sono invece rivolti a me accusandomi di non essere
un buon educatore e di avere costretto il loro figliuolo ad abbandonare il calcio perché io
sarei incapace di gestire i ragazzi più arroganti. Lei come mi consiglia di comportarmi?
Gentile Allenatore,
leggendo le sue parole ho avvertito immediatamente la sua preoccupazione e l'urgenza di
capire come gestire una situazione delicata e complessa, che vede coinvolte diverse
persone in relazione tra loro.
Nella sua descrizione emergono due momenti importanti: nel primo abbiamo una
squadra di calcio all'interno della quale un ragazzino viene fatto oggetto di scherno da
parte dei compagni, perché sembra avere manifestato tendenze omosessuali. Questo lo
porta a decidere di lasciare la squadra, e chiede all'allenatore, con il quale probabilmente
ha instaurato un buon rapporto di fiducia, di non farne parola con i genitori.
Il secondo momento vede come protagonisti, due genitori ed un allenatore che discutono
concitatamente in merito all'abbandono forzato del figlio della squadra. Vengono rivolte
pesanti accuse all'allenatore mettendo in discussione il suo ruolo di educatore.
Da qui nasce la sua domanda: come comportarsi? Come comportarsi con il ragazzo, con i
suoi genitori e con la squadra.
Per quanto riguarda il ragazzo, è importante tenere presente che a 14 anni i ragazzi si
attraversa una fase tumultuosa, quella dell'adolescenza, densa di cambiamenti repentini,
che presenta ostacoli e compiti età-specifici, nella quale si affrontano mutamenti e
trasformazioni. L'adolescenza non trasforma solo il corpo e la mente dei ragazzi, ma
anche la loro identità fisica, psichica e sociale, e le incertezze che ne scaturiscono hanno
spesso a che fare con domande sulla propria identità sessuale. L’adolescente ad esempio,
alle prese con queste sensazioni, può incontrare delle difficoltà nel riconoscersi
nettamente in una categoria o nell’altra. La sperimentazione può portarlo a confrontarsi
con entrambi i sessi alimentando la confusione. L’omosessualità in termini di attività e
fantasia, può essere quindi presente nell’adolescente, ma solo alcuni di essi
svilupperanno in futuro un orientamento omosessuale stabile. Quindi, col passare del
tempo e delle esperienze, l’incertezza dell’adolescente si riduce progressivamente
divenendo più stabile la definizione del proprio orientamento.
Per quanto riguarda i genitori, penso sia importante tenere presente che il ragazzo ha
deciso di parlare con lei forse perché ha sentito che all’interno della vostra relazione c’era
uno spazio di fiducia e di ascolto comprensivo dove si potevano portare anche parti di sé
difficili da dire. Possiamo pensare che non sia così nella relazione con i genitori, e quindi
non parlerei con loro delle tendenze omosessuali del figlio, ma aspetterei che fosse lui ad
affrontare nei modi e nei tempi che riterrà più opportuni, questo delicato argomento con
loro. L’unica cosa con loro potrebbe essere quella di sottolineare l’importanza in questa
difficile fase della vita del figlio – l’adolescenza – di porsi nei suoi confronti in un
atteggiamento di maggiore ascolto e apertura.
Infine, con la squadra potrebbe essere importante aprire una riflessione sul perché
dell’uscita di uno dei membri. Anche qui ponendosi in ascolto ed accogliendo i diversi
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punti di vista, con la funzione di accompagnare i ragazzi in un’elaborazione critica
dell’accaduto.
Trovarsi in un ruolo e-ducativo (e-ducere, condurre) è difficile e complesso, proprio per
questa funzione di condurre ed accompagnare che il ruolo dell’educatore stesso implica e
che si esplica per lo più non solo nella relazione con il singolo e-ducando, ma quasi
sempre all’interno di un gruppo e in relazione con altri (genitori, etc.) di cui non possibile
non tenere conto.
L’attenzione che lei pone nello svolgere la sua funzione (testimoniata dal fatto che il
ragazzo con lei riesce ad aprirsi e parlare) e la capacità di prendere in considerazione
tutte le variabili in gioco, ci dicono che la sua direzione è quella giusta. Buon lavoro.
Dr.ssa Alessandra Mirabella da Vico
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PALLAVOLO AGGRESSIVITA’
Gioco in una squadra di pallavolo locale, ci tengo molto e non perdo un allenamento.
Quando c'è la partita prevista dal torneo sono ansioso di dare il mio contributo, tuttavia,
se penso che l'arbitro non sia stato corretto, urlo e mi arrabbio tanto da essere
immancabilmente espulso. Sono molto infastidito dal fatto che perdo il controllo di me,
quindi non posso più giocare, e i miei compagni di squadra finiscono per essere risentiti
per il mio comportamento. Come posso imparare a trattenere la mia rabbia?
La rabbia spesso viene percepita come un’emozione difficile da gestire. E’ risaputo,
anche, che spesso gli arbitri abusano del potere derivato dal loro ruolo e stuzzicano i
giocatori, soprattutto quelli con i quali hanno maggiori possibilità di manovra, ad esempio
quelli che rispondono alle loro provocazioni, così riescono a “punirli” con l’espulsione. E’
interessante come tu affermi di voler trattenere la tua rabbia e come ciò finisca per
essere autodistruttivo per te, la tua relazione con i compagni e la squadra. Purtroppo,
quando si ha a che fare con le emozioni, più si tenta di controllarle più scappano via e
sembrano fare i dispetti. Sarebbe piuttosto auspicabile cercare di capire meglio che senso
ha la tua rabbia. Forse ci tieni molto al gioco e questo ti provoca una forte tensione?
Forse ci sono in ballo due sentimenti per cui da un lato alla partita ci tieni molto, ma
dall’altro temi molto anche qualcosa d'altro e quindi la partita ti fa stare un po’ male? Ad
esempio il desiderio di dare il tuo contributo alla partita si potrebbe scontrare con la forte
preoccupazione di non fare bene. Questo potrebbe dare luogo ad un malessere che
potrebbe portarti involontariamente a sottrarti al compito.
Sarebbe importante riflettere se questo problema della rabbia, che tu riferisci in merito
alla partita, si verifica anche in altri campi, ad esempio nel lavoro, nella vita di coppia o
in famiglia, ecc. Se dovesse essere così, potrebbe essere il tuo un modo di funzionare in
situazioni che ti coinvolgono molto. Certo non è facile riuscire a dare voce ad aspetti
contrastanti e apparentemente opposti che coesistono dentro di noi. Tuttavia
l’atteggiamento opposto (non vederli, non ascoltarli, ecc.) determina un modo di
funzionare che alla lunga non paga.
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PARTECIPARE O VINCERE?
Sono un allenatore di una squadra di calcio di ragazzi dai 14 ai 18 anni. La nostra
squadra non è certo una squadra importante, ma una società di quartiere che fa i
campionati provinciali. Però arivati a questa età io credo che non è sbagliato insegnare ai
ragazzi che bisogna giocare per vincere. E' vero, l'importante è partecipare, ma non sono
d'accordo con tanti miei colleghi e genitori. Si fa sport agonistico per vincere, altrimenti si
gioca ai campetti. Sbaglio? Se no, mi piacerebbe avere consigli per trasmettere ai miei
ragazzi come la penso nel modo giusto. Potete darmi consigli?
Gentile allenatore,
a mio avviso il cuore della sua questione è in parte indipendente dal contenuto e riguarda
piuttosto il modo in cui lei si pone e mi propone il problema. Mi vengono allora subito in
mente altre domande, che mi aiutano a darle degli spunti che mi sembrano utili: perché il
mio interlocutore crede di non essere in grado di trasmettere il suo pensiero? Cosa
intenderà dicendo che vuole trasmettere come la pensa “nel modo giusto”? Come mai si
chiede questa cosa in questo momento?
Il modo in cui si pone il problema mi fa pensare che “vincere o partecipare” siano due
poli di un dibattito esterno con i genitori o gli altri allenatori, ma anche un dilemma che si
è aperto dentro di lei. E, se le è venuto un dubbio, ne faccia tesoro, al giorno d’oggi i
dubbi sono una cosa molto sana, se ci si dà il tempo di affrontarli, ma non troppo
velocemente, perché portano a capire meglio le cose e ad assumersi la responsabilità
delle proprie scelte in modo più profondo e maturo. Mi permetta dunque di spostare la
questione: prima si tratta di accogliere il suo dilemma come una cosa utile e buona e di
lavorare per far nascere dentro di sé un pensiero più articolato e che la convince, poi
vedrà che non le sarà difficile comunicare ciò che pensa ai suoi ragazzi.
Le propongo la mia idea su come, al giorno d’oggi, può essere utile affrontare un
dilemma. Nel mondo molto complesso in cui viviamo non sono più sufficienti strumenti
educativi semplici e un po’ riduttivi come “l’importante è vincere” o “l’importante è
partecipare”. Dobbiamo tutti attrezzarci con pensieri e strumenti all’altezza dei tempi,
che siano a loro volta più complessi. Mentre i pensieri forti e ideologici degli anni passati
erano basati su contrapposizioni dualistiche “o–vincere-o-partecipare”, i pensieri adatti ai
nostri tempi sono pensieri relazionali, frutto di faticosi accomodamenti e contrattazioni in
ogni situazione specifica, e si presentano come “e-vincere-e-partecipare”.
Come esercitarsi ad avere pensieri più complessi, che tengano conto della pluralità di
facce dei problemi?
Innanzitutto, non si dovrebbe mai partire pensando che ci sia una soluzione giusta in
assoluto. In secondo luogo, per trovare nuove articolazioni di un problema, può essere
interessante un confronto aperto e non pregiudiziale con gli altri. Potrebbe parlarne con i
suoi colleghi e/o con i genitori, e chiedervi cosa spaventa della competitività, del vincere,
quali siano i limiti del non confrontarsi con l’agonismo, ma anche cosa voglia dire
partecipare davvero. Poi è utile responsabilizzare gli altri, per la parte che li riguarda.
Potrebbe pensare di farlo con i suoi ragazzi, facendo all’inizio del campionato una sorta di
contratto, che significa decidere insieme che compito porsi e impegnarsi tutti a
raggiungerlo. Infine, può essere prezioso gestire il gruppo in modo più complesso e
“plurale”, facendo coaching, che significa sviluppo degli altri tenendo a cuore le esigenze,
le risorse e i limiti di ogni singolo ragazzo, e insieme tenendo a mente anche l’obiettivo
di fare goal. Dott.ssa Sara Fallini
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PAURA DELL’ACQUA
Gent.ma dottoressa, sono una mamma di due bambini rispettivamente di 10
e 6 anni. Premetto che non ho un buon rapporto con l''acqua e proprio
per
questo
ho
creduto
opportuno
delegare
ai
vari
corsi
invernali
l''insegnamento del nuoto ai miei figli. Mentre con la primogenita non
ci sono mai stati problemi, con il piccolo è stato più complicato sin dall''inizio. Ha
manifestato
paura
dell''acqua
e
non
voleva
stare
nel
corso con bambini e insegnanti con cui non aveva confidenza. Questo
accadeva all''età di 5 anni, quando abbiamo iniziato i corsi. Superate
queste prime difficoltà ora va senza piangere e sta imparando: sta a
galla
si
butta,
nuota
sott''acqua.
Nonostante
questo
mi
continua
a
chiedere
di
smettere
e
a
volte
è
molto
triste
mentre
andiamo
in
piscina. La domanda quindi è questa: persisto o rischio di creargli un
rifiuto
che
persisterà
negli
anni
futuri?
Mi
sembra
importante
aggiungere che quando andiamo al mare, gioca e si diverte nell'acqua
sperimentando quello che ha appreso.
Gent.ma mamma benvenuta in questo spazio.
Leggendo la sua lettera noto come sia un genitore attento e premuroso nei riguardi dei
suoi figli, in grado di cogliere sfumature importanti del suo rapporto con loro, sfumature
che è riuscita bene a trasmettere attraverso le sue parole . Partiamo dall’inizio: mi
racconta di non avere un buon rapporto con l’acqua e quindi proprio per questo motivo
ha deciso di delegare l’insegnamento del nuoto ai vari corsi invernali. Mentre con la
primogenita non ci sono mai stati problemi, con il più piccolo le cose sono state più
difficili: ha avuto fin da subito paura dell’acqua, piangeva, non si trovava a proprio agio
nel corso con i bambini e gli insegnanti con cui non aveva confidenza. Ora dopo le prime
difficoltà sembra andare meglio ed imparare senza problemi. Nonostante questo le
continua a chiedere di smettere e le appare triste. Mi sembra che suo figlio attraverso
questo atteggiamento le stia comunicando un disagio che ritengo non vada ignorato, ma
accolto ed ascoltato. Proprio per questo motivo non insisterei troppo sui corsi di nuoto,
ma cercherei di capire cosa desidera fare, cosa lo stimola e lo diverte. Una componente
importante, soprattutto con i bambini, è quella inerente al “piacere di fare qualcosa”,
praticare un’attività sportiva non deve essere soltanto imparare a fare bene determinati
movimenti, ma anche divertimento e gioco. Probabilmente l’attività del nuoto non è una
pratica sportiva che lo appassiona e lo diverte, o per la quale si sente portato. Nei limiti
del possibile, sarebbe importante allora lasciare che suo figlio scelga lo sport da
praticare, tra quelli che sono disponibili nella vostra zona, uno sport dove possa imparare
ad esprimere ed affermare se stesso. Tenga inoltre presente che il modo con cui il
bambino pratica lo sport dipende molto anche dall'istruttore-allenatore, che pur mirando
all'apprendimento e all’insegnamento, dovrebbe porre attenzione al gioco e alla creatività
del bambino, questo per evitare situazioni frustranti che spesso sono il preludio
dell’abbandono.
Dott.ssa Alessandra Mirabella da Vico
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PAURA DELLO SPORT
Salve, ho sofferto di anoressia per 2 anni, ne sono uscita nel ''06. Avevo ripreso a
mangiare normalmente, e l''anno scorso ho terminato la psicoterapia. Il problema è che
ora sono un po'' sovrappeso e la vita che conduco ora mi sta portando stress e una
specie di ricaduta. Vorrei dimagrire in maniera giusta e raggiungere un peso forma non
patologico, ma lavoro in un bar mio e del mio ragazzo e sono chiusa qui dentro dalle 7
alle 23:30. Vorrei praticare uno sport, ma mi blocco psicologicamente. All''inizio pensavo
fosse perchè associo lo sport, all''attività estrema che facevo durante la malattia, ora
credo sia anche perchè dopo aver fatto sport, dovrei farmi la doccia e odio questo tipo di
contatto col corpo perchè non mi piace (o non riesco a prendermene cura). Poi c''è un
altro problema, siccome non ho possibilità economiche di iscrivermi in palestra (vorrei
tornare a fare equitazione), dovrei praticare qualcosa come corsa o bici e entrambi mi
annoiano. Come faccio?
Gentile signora,
ha fatto bene a scrivere: la psicoterapia è un percorso impegnativo e arrivare al punto in
cui si fa da soli è un momento delicato e importante. Dalle sue parole sembra che in
effetti ci siano alcune connessioni tra il problema che l’aveva spinta in terapia e il disagio
che sta vivendo ora, come per esempio le sue emozioni verso le attività che in qualche
modo coinvolgono il corpo.
Contrariamente a quanto accade di solito in un primo contatto mail, lei che scrive ha già
fatto una esperienza significativa, dunque il suo problema, che non è da sottovalutare, è
affrontabile proprio con gli strumenti e con la consapevolezza che lei ha acquisito anche
attraverso quel percorso. Forse la difficoltà più grande ora, che la porta a scrivere qui, è
il fatto di dover riprendere in mano nuovamente i problemi che l’hanno già fatta soffrire,
il fatto di dover in qualche modo ricominciare ad occuparsene. Le persone reagiscono in
modi molto diversi alla fine di una terapia. Generalmente è necessario un periodo di
elaborazione in cui si fa un bilancio della propria storia, di quello che è emerso attraverso
il percorso, delle possibilità nuove che si possono aprire al momento attuale, dei bisogni
ancora inespressi, delle potenzialità che possono ancora sbocciare. I problemi non
possono essere cancellati come se non fossero mai esistiti (come giustamente fa notare
lei), ma diventano un punto da cui ripartire, anche se questo inizialmente può suscitare
un po’ di irritazione per la fatica che si è costretti nuovamente a fare. E a volte è
necessario fare un “richiamo” della terapia, che può risolversi in un messaggio mail
oppure in qualcosa di più impegnativo.
Detto questo, le devo segnalare alcuni elementi che emergono dalla sua domanda. Pur
tenendo presente l’importanza del suo lavoro e degli equilibri con il suo fidanzato, forse
può cercare di tenere un po’ di tempo per fare qualcosa che le piace, prima di pensare ad
una attività faticosa. Penso che sia d’accordo sul fatto che l’obiettivo non è il peso ma il
suo star bene, la sua voglia di giocare, di sentire l’aria fresca sulla pelle, il rumore
dell’acqua che scorre, vissute magari con qualcuno con cui ha voglia di passare un po’ di
tempo insieme. Riuscire ad accettare questa leggerezza è già un bel traguardo (non così
diffuso peraltro), non crede?
Dott.ssa Giuliana Nico
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QUALE SPORT A 7A?
Mio figlio ha 7 anni e questa è la seconda stagione in cui lo iscrivo alla squadra di calcio
dei piccoli del paese. in precedenza ha frequentato regolarmente per un anno una
squadra di rugby. In ambedue le esperienze non solo non ha ottenuto risultati
apprezzabili ma ha sempre dimostrato poco entusiasmo. l’anno scorso era l’unico della
sua classe ma con l’inizio del nuovo anno scolastico quasi tutti i suoi compagni di scuola
si sono iscritti alla squadra di calcio. io speravo che almeno, con un anno di vantaggio di
allenamenti, avrebbe potuto ben figurare e invece no. E’ il peggiore sia negli allenamenti
che in partita. la cosa che più mi preoccupa è l’atteggiamento che assume di fronte ai
propri compagni e al proprio allenatore: ubbidisce a fatica, non si integra, disturba, non
collabora in niente e si distrae con cose che nulla hanno a che fare col calcio. in partita la
palla gli arriva sotto i piedi e lui sembra stia guardando le farfalle. ho l’impressione che
pensi continuamente alle costruzioni della lego che lo fanno rimanere seduto a terra a
giocare anche per ore e sono diventate per lui una vera ossessione. io non sono un
appassionato di calcio ma quello che vorrei è vederlo praticare uno sport qualsiasi con
entusiasmo. Inoltre sono molto preoccupato perché penso che a soprattutto a quell’età si
svolga una specie di selezione naturale: il più forte diventa il capo, i mediocri trovano
comunque integrazione nel clan e i deboli vengono emarginati. oltre a questo penso
anche che una sana attività fisica possa contribuire a tenere lontani i ragazzi dalle cattiva
strade. tengo a precisare che è figlio unico, adorato da genitori e nonni.
Gentile papà,
tra le tante cose che scrive ho scelto di concentrarmi sul suo desiderio molto
comprensibile di vedere suo figlio praticare un’attività sportiva con entusiasmo.
L’entusiasmo con cui si fanno le cose è davvero un ottimo carburante, è un buon
presupposto per arrivare a farle bene, per riuscire anche a divertirsi e a trarne
soddisfazione. Da quel che lei racconta sembra in effetti che suo figlio non sia entusiasta
dell’attività sportiva che svolge, anche se non è privo di entusiasmo, ma lo manifesta, ad
esempio, per le costruzioni della Lego, a cui sembra dedicarsi con molta concentrazione e
passione.
La passione è come l’amore: deve essere in buona parte spontaneo, e lo si può favorire,
indirizzare, far crescere, coltivare. Bene, a me sembra proprio che, tra le righe, lei si stia
chiedendo come favorire in suo figlio il nascere di una nuova passione.
Prima di tutto è necessario che nella scelta dell’attività, sportiva o non sportiva che sia,
l’addestramento all’impegno e alla disciplina, s’incontrino con l’attenzione, da parte
dell’adulto, per la predisposizione e per i gusti personali del bambino. Per favorire questo
incontro virtuoso, in molte scuole o società sportive, a bambini dell’età di suo figlio, viene
proposta un’attività propedeutica allo sport chiamata “gioco-sport” che, mettendo in
primo piano il gioco, permette contemporaneamente ai bambini di avere un assaggio di
discipline diverse per poter poi eventualmente scegliere quale approfondire.
In mancanza di questa offerta formativa, dovreste essere voi genitori ad aiutarlo.
Potreste partire chiedendogli, ad esempio, cos’è che gli piace tanto dei giochi della Lego e
farvi raccontare a cosa pensa quando sembra “guardar farfalle”, perso nelle sue fantasie.
Potreste scoprire che sta immaginando di fare altre attività, pur trovandosi con tacchetti
sotto le scarpe e con un pallone tra i piedi.
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Potete poi farvi raccontare da lui quali giochi fa a scuola durante l’ora di ginnastica, quale
gli piace di più e provare a capire insieme a lui se gli piacerebbe praticarne uno in
particolare.
Una volta arrivati a mettere a fuoco lo sport prescelto, avvicinatevi con gradualità, fate
delle prove. La avverto che, anche seguendo tutti questi accorgimenti, è possibile che,
sorretto dalle proprie aspettative magari un po’ fantastiche, nell’immediato suo figlio sia
entusiasta ma che dopo un po’ avverta la fatica di imparare cose nuove e di stare alle
regole. E’ a quel punto, una volta iscritto, che gli si può chiedere di metterci impegno e
costanza, facendo leva sul fatto che lo sport che pratica in linea di massima lo attira. Si
tratterà sicuramente di incoraggiarlo e supportarlo a tollerare delle piccole frustrazioni,
esperienza molto normale e istruttiva, e potrete presentargli come “ricompensa” la
possibilità di diventare, col tempo, grande, forte e bravo come i suoi allenatori e come il
suo papà.
Ho dovuto sintetizzare molto le mie considerazioni. Se dovesse interessarle la chiave di
lettura proposta e volesse approfondire qualche passaggio, riscriva, le risponderò
volentieri.
Dott.ssa Sara Fallini
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RIMOTIVARE LA SQUADRA
Sono il Capitano di una squadra di calcio, tutti i miei compagni hanno un età compresa
tra i 15 e i 16 anni, ieri abbiamo disputato una partita molto importante per il nostro
campionato ed è finita nel peggiore dei modi con la nostra sconfitta. Nello spogliatoio
tutti si addossavano le colpe ognuno con l''altro e nessuno si è preso la responsabilità
degli errori commessi. Domenica ci aspetta un match molto più importante con una
diretta concorrente sulla carta più preparata di noi, io volevo chiedere se gentilmente lei
mi potesse aiutare a motivare i miei ragazzi e fargli un''iniezione di attributi cosi da
risollevare la squadra. Grazie in anticipo.
Gentile Capitano, purtroppo le rispondo solo ora, nonostante la sua domanda chiedesse
un aiuto per una partita che in questo momento è già stata disputata da tempo. Siccome
le questioni che poneva sono importanti, e spesso restano latenti in una squadra, anche
quando sembrano temporaneamente superate, le rispondo comunque, convinta che
possa essere d’aiuto a Lei e agli altri lettori.
Quando si perde una partita si sperimentano emozioni di tristezza e contrizione, e così
probabilmente anche lei era (o è tutt’ora) molto rattristato per l’andamento della
squadra. Anche se faticose, queste emozioni non sono inutili: favoriscono la ricerca di un
miglioramento, si possono cercare di capire i limiti nella situazione per poterli gestire al
meglio, si può cercare di “smussarli”, di prepararsi perché possano comunque emergere
le risorse su cui si può contare. Certamente la differenza di età tra Lei e i suoi compagni
può favorire una differenza nel modo di affrontare l’evento e forse il modo che hanno
avuto i ragazzi non l’ha rassicurata sull’atteggiamento con il quale tenderanno ad
affrontare i problemi nel prossimo futuro. Forse l’hanno fatta sentire come se fosse
rimasto con la pagliuzza corta in mano, a cercare le soluzioni.
Accusandosi l’un l’altro hanno reagito come se l’avversario non fosse più esterno al
gruppo, impersonato per esempio dalla sfida verso la vittoria, ma come se fosse
diventato interno al gruppo, impersonato dai limiti di ciascun compagno che non
permette al singolo di salvarsi dall’onta della sconfitta.
Allora, pur sapendo che queste reazioni sono comunissime, la cosa più importante è
capire se questa situazione è ancora presente e che cosa la mantiene attiva. E’
necessario lavorare sul clima relazionale tra i ragazzi e sul clima tra Lei e loro, affinché
possiate, tutti insieme, arrivare ad adottare un atteggiamento che vi permette di
imparare dagli errori insieme.
Potrebbe essere che gli errori vengano vissuti dai suoi ragazzi con vergogna, come cose
da femminucce che non vanno assecondate, da cui bisogna distogliere l’attenzione per
essere veramente incisivi. Questo tipo di atteggiamento può portare alla convinzione
latente che per essere veri calciatori bisogna essere sempre bravi, duri, sicuri di sé,
tonici, mentre il segreto è saper unire a questo la capacità di accettare di essere anche
deboli, fragili, di avere delle mancanze. Può essere utile per esempio verificare se nel
vostro linguaggio ci sono espressioni che valorizzano solo certe capacità, come quella di
essere vincenti, sicuri, assertivi, forti, e raramente viene visto come positivo il fatto di
aspettare, di sentirsi limitati e deboli. Sono convinta che la motivazione al lavoro duro
nasca proprio dall’unione dei due atteggiamenti: la valorizzazione dei propri punti di forza
insieme alla valorizzazione dei proprio punti di mancanza, con la fiducia che siano
anch’essi utili.
Dott.ssa Giuliana Nico
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SPORT CON COSTANZA
Buongiorno, ho 26 anni e finora ho cambiato otto sport. Dopo qualche tempo (a volte
anni) mi stufo, perdo la motivazione per continuare a impegnarmi nella stessa disciplina.
I risultati poi non sono molto incoraggianti, ma sento che non è soltanto quello... é un
problema di "costanza" o non sono portato per lo sport? è meglio continuare a cercare lo
sport per me o provare a fare altro?
Gentile signore, la ringrazio per la sua domanda. Ci sono alcuni aspetti sui quali la
inviterei a riflettere. Quale è il motivo per cui decide di fare uno sport? Che cosa
desidererebbe acquisire dalla pratica sportiva? La mia domanda nasce dalla sensazione
che la sua scelta di dedicarsi ad uno sport sia originata da un senso del “dovere”, come
se dovesse fare sport per motivi esterni a lei. Tante persone ad esempio dicono: “non
faccio sport perché sono pigro” e non se ne fanno troppi problemi. Mi viene in mente
anche che cambiare sport potrebbe non essere qualcosa di negativo, e le potrebbe
permettere di entrare in contatto e arricchirsi con un’ampia variabilità di specialità. Lei
ipotizza che il motivo per cui cambia tanti sport non sia legato ai risultati, ma a qualcosa
d’altro. In effetti, solitamente, la riuscita e la tenuta in una disciplina non è legata ai
risultati esterni, ma a motivazioni intrinseche, ad esempio la piacevolezza nell’esercizio,
nel mettersi alla prova, nel fare un’attività in una squadra o in un gruppo di amici, ecc.
Più che cercare un altro sport e rischiare di cadere nella stessa frustrante situazione di
abbandonare la disciplina e pensare di non essere costante, proverei a riflettere su questi
aspetti che le segnalo. Per ciò che riguarda la costanza invece ne terrei conto come
possibile problema solo nel caso in cui lei si fosse accorto che si presenta anche in altri
settori della sua vita.
Forse lei è una persona che pretende molto da sé e deve riuscire in tutti i campi? O forse
non ha un’altissima considerazione di sé e si mette in condizioni di autocriticarsi, o
autoaccusarsi, o non riuscire come pensa che dovrebbe?
In fondo non crede anche lei come me che l’attività sportiva debba essere fatta per
sviluppare condizioni di benessere e non per biasimarsi di non riuscire a tenere?
Dott.ssa Silvia Marchesini
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SPORT E ADOLESCENZA
Buongiorno, ho scoperto oggi questo servizio molto interessante cercando qualche
risposta al problema che ha evidenziato mio figlio ieri. Il ragazzo ha 15 anni e gioca da
diversi anni a basket. Quest''anno è stato richiesto da una società ad un livello più alto.
Da subito ha giocato a buonissimi livelli dimostrandosi il migliore del gruppo. Ora da
qualche mese alterna gare molto positive ad altre in cui non riesce ad entrare in partita e
si estranea quasi dal gioco nonostante negli allenamenti si dimostri tecnicamente molto
migliorato. Ieri dopo una gara non buona mi ha detto che quando è entrato in campo
"non c''era proprio con la testa" e avrebbe voluto solo dormire perchè era molto stanco.
Credo fosse una stanchezza più mentale che fisica. Aggiungo che adora il basket (la
scelta di aderire a questa nuova convocazione è stata sua) e sono numerosi i sacrifici che
fa per poter conciliare studio e basket. Vi ringrazio per la disponibilità e per i consigli che
mi vorrete dare.
Caro genitore,
benvenuto in questo spazio.
Credo sia importante per ogni genitore farsi delle domande e porsi all’ascolto dei segnali,
spesso di difficile interpretazione, che i figli emettono.
Le sue parole lasciano trasparire quanta attenzione ponga nei riguardi dei comportamenti
ed atteggiamenti che suo figlio mette in gioco, e la sua disponibilità a parlarne. Descrive
con precisione ciò che sta accadendo, sino a considerare una causa di natura psicologica
e mi parla di “stanchezza mentale”.
Mi pare fondamentale soffermarmi su alcuni elementi.
Dal suo racconto mi sembra emerga con chiarezza come suo figlio stia attraversando in
questo momento una “fase di passaggio” legata sia all’età (fase adolescenziale), che
all’attività sportiva (passaggio da una squadra ad un’altra), e che giustamente stia
“sentendo “ il cambiamento in atto. L'adolescenza è un periodo particolare della vita
caratterizzato dall'acquisizione di nuove competenze sul piano emotivo, cognitivo, sociale
e da cambiamenti legati all'aspetto fisico. La gestione di questi aspetti nuovi della
personalità, i compiti che questi cambiamenti impongono, le responsabilità che
richiedono e le conseguenze che comportano possono provocare delle tensioni interne.
A livello interno, questi cambiamenti aprono problemi relativi all’identità: ”Chi sono ora
?”,”Chi sarò ?”, vissuti emotivamente con paura, con il desiderio di arrestare tutto e
ritornare nelle sicurezze del bambino, ma anche con la gioia e speranza per l’adulto che
si spera di diventare. In questa fase l’attività sportiva con i coetanei è molto importante
perché permette di confrontarsi con gli altri circa le proprie capacità e potenzialità,
permette di inserirsi all’interno di un gruppo e di mettersi alla prova.
Nell’ultimo anno suo figlio ha lasciato la squadra con la quale aveva giocato per diverso
tempo, per passare ad un gruppo sportivo di livello più alto, passando da un’attività di
tipo amatoriale ad una di tipo semiprofessionale.
Sicuramente questo grosso cambiamento, il passare da una squadra ad un’altra, giocare
campionati diversi, cambiare istruttore e i compagni di squadra, cambiare la struttura e
la qualità degli allenamenti, sono tutti “eventi significativi e critici” che per la loro carica
emotiva e per il vissuto che suscitano possono determinare una regressione e alcuni
momenti di difficoltà.
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Nei momenti di “crisi” tipici dell’adolescenza o nei momenti di stress connaturati
dall’agonismo in cui ci si deve confrontare con fatiche e frustrazioni e non solo con dei
successi, può venir spontaneo sentirsi più vulnerabili.
Provi a porre attenzione a cosa accade anche in altri contesti di vita, come la scuola, gli
amici, nei momenti in cui raggiunge risultati positivi e quando invece li ha negativi.
Probabilmente suo figlio sta comunicando attraverso il proprio corpo "non c'era proprio
con la testa.. e avrebbe voluto solo dormire perchè era molto stanco " questa sua
difficoltà. Quando non comprendiamo quello che ci sta succedendo, l’unico modo che
abbiamo per far capire agli altri come stiamo è un modo di tipo fisico-concreto.
Mi sembra di capire che suo figlio non abbia mai sperimentato degli insuccessi, sia in
ambito sportivo che in altri, e che sia sempre stato “il migliore del gruppo” giocando a
buonissimi livelli. Forse per la prima volta sta vivendo e conoscendo la frustrazione.
Per aiutare suo figlio ad affrontare questa situazione ritengo sia importante poter
accogliere ed ascoltare questi suoi sintomi, così come gli aspetti emotivi che gli suscitano
timore.
In questo modo sperimenterà gradualmente che se ne può parlare, e credo potrà tornare
a praticare sport con più di serenità.
D.ssa Alessandra Mirabella da Vico
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SPORT INDIVIDUALE O DI SQUADRA?
Mio figlio ha 8 anni, è un po' sovrappeso, il medico ci ha consigliato di fargli iniziare
un'attività sportiva, lui non è molto convinto e si rifiuta di fare qualunque sport di
squadra. In questo caso è meglio "forzarlo" o lasciare che scelga un'attività individuale? A
quest'età non sarebbe meglio spingerlo a socializzare?
Gentile genitore,
la sua domanda mi ha suscitato molto interesse, perché lei si sta interrogando su aspetti
veramente importanti del rapporto tra genitore e figlio. E’ su questo rapporto che ho
concentrato la mia attenzione, nella speranza di poterle essere di aiuto.
La prima questione che mi sembra di cogliere è: come riuscire a conquistarsi la
collaborazione di un bambino, come convincerlo ad intraprendere un’attività che “gli fa
bene ma non gli piace”?
Non so se è la prima volta che prova ad affrontare con suo figlio l’argomento, ma
potrebbe essere prezioso cercare di ricordarsi come lei ha accolto il consiglio del medico,
che emozioni ha provato, che cosa ha pensato. Se, pur consapevole del problema di suo
figlio, come genitore si è sentito spinto a “fare qualcosa”, se si è sentito un po’ a disagio,
un po’ allarmato, può comprendere che emozioni simili può averle provate anche il suo
bambino, rendendolo poco disponibile alla proposta di iniziare uno sport. Anche se
sappiamo che lo sport per i bambini in età scolare è assolutamente da intendersi e da
proporre come gioco, come divertimento, come attività ricreativa e mai come impegno
agonistico, potrebbe, se consigliato per motivi di salute, essere da loro sentito come un
dovere, come una cura, come una sorta di noiosa “ginnastica correttiva”.
La seconda questione mi sembra essere: “forzare un po’ o lasciare che scelga?”.
L’indicazione di fare sport per un problema di sovrappeso, mi fa supporre che suo figlio
sia un bambino, come ce ne sono tanti, non molto amante del movimento e che
preferisce attività casalinghe. Se è così, è probabile che per aiutarlo gli si stia chiedendo
uno sforzo importante, ovvero di modificare un po’ il suo stile personale, dei ritmi e
abitudini acquisite. Tra l’altro anche noi adulti siamo un po’ svogliati quando dobbiamo
fare una cosa nuova che non conosciamo e che pensiamo non ci piaccia.
Partendo da questo presupposto, perché allora non accogliere, almeno in un primo
momento, la disponibilità del bambino a fare sport “a modo suo” e la scelta di un’attività
sportiva individuale, che per lui potrebbe essere il “male minore”? E’ possibile che il
rifiuto deciso di qualunque sport di squadra esprima, più che chiarezza di idee, delle
paure, un bisogno di proteggersi da un’esperienza nella quale può, ad esempio, temere di
sentirsi inadeguato e di deludere le aspettative dei grandi. E allora, come giustamente lei
si chiede, avrebbe senso forzarlo? Credo che si rischierebbe di non ascoltare e di non
accogliere i suoi timori, i suoi bisogni che anzi, mentre lo incoraggia a impegnarsi
nell’attività che sceglierete, potrebbe essere importante capire meglio, per favorire anche
in lui l’espressione e la comprensione dei propri sentimenti e punti di vista.
L’ultima questione relativa alla “necessità di socializzazione” nei bambini mi suscita
ancora una riflessione. Mi piacerebbe poterle chiederle come è sorto l’interrogativo sulla
socializzazione di suo figlio. Chissà se se l’è posto in concomitanza con il problema del
peso. Comunque sia, mi sembra di capire che lei sente di “dover fare qualcosa” per suo
figlio anche da questo punto di vista.
Ciò che posso dirle è che fortunatamente non è necessario prevedere un’occasione
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speciale, o provvedere ad attivare un certo tipo di attività sportiva per favorire e
accrescere nei bambini una buona socializzazione. E’ rassicurante su questo ciò che da
tempo ci dicono gli studi di psicologia, confermati dalle recenti scoperte sui “neuroni
specchio” dei nostri concittadini Rizzolatti e colleghi: l’essere umano non nasce solo, è sin
dall’inizio in relazione con altri e dentro ad una fittissima socialità, tanto che la fatica che
piuttosto deve fare per crescere è quella di trovare una propria individualità e una propria
autonomia nella relazione con gli altri. Ecco perché per questo aspetto le opportunità di
crescita sono continue e la questione impegnativa che si devono porre i genitori, gli
educatori, così come mi pare se la ponga lei, è quella di riuscire a vivere il meglio
possibile la relazione con i loro bambini, renderla viva e nutriente, così come di favorire
la relazione con i fratelli, con i nonni, i vicini, con i compagni di classe. Ciò vale anche per
la relazione con gli istruttori e i bambini che si incontrano facendo gli sport individuali più
diffusi nell’età scolare, come il judo, il nuoto, l’atletica, che si svolgono insieme ad altri
bambini, iniziando a sperimentare il senso di appartenenza ad un gruppo.
Dott.ssa Sara Fallini
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STAFF DEGLI ALLENATORI
Buongiorno, alleno ragazzi di 10 anni al calcetto dell'' oratorio, e sono al primo anno
come primo allenatore (2 anni in totale). Sono in una situazione difficile, perchè sono l''
unico, su 4 allenatori che dichiarano di giocare per vincere, che cerca invece di vincere
facendo partecipare tutti i ragazzi, uno è mio figlio, (anche i meno "bravi" e i 6 al primo
anno di calcio su 10) e ponendo il loro divertimento prima del risultato. Quindi poche
vittorie ma i genitori sono contenti, però io no, perchè mi sento escluso e sento troppo lo
stress (infatti ho discusso 2 volte con gli altri allenatori) e ho perso la mia serenità. Così
a giugno voglio smettere e portare mio figlio altrove. Consigli? Grazie.
Mi sembra che lei abbia alcune idee molto chiare su come vorrebbe rivestire il ruolo di
allenatore: l’obiettivo è quello di vincere, tenendo conto dei giocatori, in campo e in
panchina, vedendo nella loro partecipazione e divertimento un tassello importante del
gioco. Personalmente condivido questo suo atteggiamento, per il quale non è certo
irrilevante il fatto che lei sia un papà e infatti lei è apprezzato dai genitori dei ragazzi.
Detto questo, da persona sensibile quale mostra di essere, lei però non è contento: si
sente escluso, sente troppo lo stress e discute con gli altri allenatori senza però riuscire a
recuperare la serenità che vorrebbe.
A questo punto non si comprende chiaramente su quale questione lei desideri ricevere
dei consigli. Si sta chiedendo se la situazione è recuperabile? Se ha senso andarsene e
smettere di allenare? Se sia meglio cercare un contesto più consono alla sua visione dello
sport non agonistico in età evolutiva? Oppure si sta chiedendo quali sono i requisiti
perché uno staff di allenatori lavori di concerto e non provochi così tanti conflitti e stress?
Mentre mi mancano le informazioni di base per rispondere alle prime domande, rispondo
all’ultima, che forse le può dare qualche spunto di riflessione.
Il ruolo di allenatore, sia esso volontariato o attività professionale, non è assoluto, ma
dipende molto dagli obiettivi che s’intende perseguire, dalle altre persone con cui si ha a
che fare (ragazzi, genitori, colleghi) e dal contesto in cui lo si svolge.
Per riorganizzare, o costruire, un gruppo di allenatori sarebbe necessario descrivere
insieme e con molta cura ciascuno di questi punti.
1) Come intendono gli interessati il ruolo di allenatore? E’ un ruolo educativo, che
accompagna alla crescita attraverso il processo del gioco, il confronto col gruppo, la
competizione e la collaborazione o è principalmente produttivo, cioè calibrato sul
raggiungimento di un risultato finale, come in questo caso potrebbe essere il
conseguimento del goal o la vittoria di un campionato? Uno non è meglio dell’altro in
assoluto, ma bisogna capire, scegliere.
2) Se una attività sportiva viene organizzata nell’oratorio di una parrocchia, il contesto è
chiaramente molto diverso dalla stessa attività organizzata in una società sportiva con
finalità agonistiche. Come inserirsi in questi diversi contesti che hanno referenti e finalità
molto diverse?
3) E’ molto importante che gli allenatori si confrontino, chiariscano, condividano e
esplicitino l’obiettivo di una attività. Se decidono che l’obiettivo è “fare goal divertendo e
coinvolgendo”, la vera vittoria alla fine è conseguire tutti e tre questi punti. Se tutto ciò
non è né chiaro, né dichiarato, né tantomeno condiviso, un allenatore potrebbe essere
legittimato a trovare gratificante lavorare solo per il goal.
4) Questa esplicitazione è importante per un lavoro di concerto degli allenatori, ma anche
per presentare l’attività ai ragazzi e ai genitori, per “fare contratto” sin dall’inizio, che
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significa condividere le regole e gli obiettivi, dicendo cosa si possono aspettare e anche
cosa ci si aspetta da loro.
Per concludere con una battuta, se l’arbitro delle vostre partite fosse uno
psicosocioanalista, ovvero un esperto di psicologia applicata a individui, gruppi e
organizzazioni che si relazionano tra loro e lavorano insieme, vi assegnerebbe un goal
solo a partire dall’attenzione a questi “paletti” e sarebbe un goal del quale essere
davvero soddisfatti!
dott.ssa Sara Fallini
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STRESS DA AGONISMO
Salve... ho 17 anni e gioco a calcio, ma da sempre ho avuto un problema... quando gioco
in qualche squadra non riesco ad esprimermi!! per esempio quando gioco con gli amici in
qualunque posto, riesco a giocare spensierato e come so.. quando invece vado a giocare
in una squadra a livello agonistico mi viene un blocco psicologico e non riesco a
esprimere le mie qualità al 100%. con gli amici faccio sempre la cosa giusta in campo e
so che giudizio hanno di me. invece quando devo dimostrare le mie qualità a gente che
non mi conosce e il cui parere è fondamentale (mister, compagni ecc) mi "impallo".
questa cosa va avanti da sempre.. come risolverla)
Gentile sportivo, il tuo racconto mi fa pensare a quella categoria di disturbi
genericamente definiti come “ansia da prestazione”. Tanti possono riconoscersi nei
sintomi connessi a questi, che però assumono per ciascuno personali significati, diversa
gravità e estensione ad altre aree di funzionamento.
Una prima distinzione che vorrei proporti riguarda la portata di questo ”impallo” nella tua
vita complessiva. Quanto incide sulla tua autostima, l'equilibrio interno, il desiderio di
conoscere, gli obiettivi di vita, la percezione del tuo futuro, ecc.? Ovviamente se la
problematica è pressante, il parere di un esperto non può limitarsi al sostegno epistolare.
Ma torniamo al caso. Ritieni che la faccenda vada avanti da sempre, come in modo
predestinato. Eppure fino ad ora sei riuscito a mostrare il tuo valore, a guadagnarti la
stima di persone che sono diventate amiche, a raggiungere un livello calcistico da
“squadra agonistica”.
Il fatto che ora l'estraneo incuta timore, senso di sconfitta e non desiderio di confronto,
competizione e spirito di rivalsa segnala una fatica nel processo di crescita e di
separazione da qual che è già noto (familiare). Diventare adulto significa lasciare il
mondo delle sicurezze infantili, in cui l'adulto provvede, e avere la forza, la libertà e la
capacità di tollerare l'incertezza ( e fascino) di ciò che non è noto.
Tanti altri elementi che non conosco potrebbero entrare in gioco in questa dinamica, ma
sembra che tante parti di te entrino in contrasto.
Mi chiedo se ci sia qualcosa che ha a che fare con il significato che attribuisci a calciatore
di “livello agonistico”. Nel senso che questo “mi impallo” mi fa pensare a un conflitto tra
immagini che potresti avere di te, o tra pressioni e aspettative esterne o interne,
riguardanti, per esempio, la percezione del tuo valore, la tua identità, cosa pensi di te,
che aspettative ha la famiglia, ecc.
Mi viene da formulare questa ipotesi su cui magari puoi riflettere, dietro al gioco bloccato
sembra si nasconda un'idea di te svalutata, di un calciatore che non ce la fa, dopodiché il
comportamento conferma la credenza. Di fronte allo spettro del giudizio dell'altro appari
disorientato, non sai più chi sei, potrebbe essere che ti domandi in modo più pressante
se veramente vorresti diventare un calciatore di livello agonistico, se lo desideri davvero
tu o influiscono le pressioni familiari, se poi sarai in grado, e così via. Tutte questioni che
interrogano l'essere umano nel cammino per diventare adulto (o sempre) e che ora
premono per una tua attenzione.
Dott.ssa Silvia Marchesini
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TENNIS
Sto allenando un ragazzo promettente che sta attraversando un periodo di crisi con il
tennis. C'è qualcosa che posso fare o qualcosa che devo evitare di fare, per far si che si
rappacifichi "con la racchetta"?
Prima di capire cosa fare o non fare, credo sia importante soffermarsi su alcuni punti
che emergono dalle sue parole.
Nella sua domanda, non menziona l'età del ragazzo che sta allenando, e che potrebbe
in parte aiutarci a capire la crisi che sta attraversando" con la racchetta".
Ci sono momenti (una di queste è la fase adolescenziale 14-20 anni) durante i quali i
ragazzi affrontano tappe fondamentali nella loro vita e cambiamenti importanti che
mettono a dura prova non solo loro, ma anche le persone di riferimento che gli sono
vicine (genitori, nonni, insegnanti, allenatori).
Durante questa fase i ragazzi cominciano a sondare ed esplorare "nuovi terreni" a
propria disposizione, domandandosi chi sono e chi vogliono essere, a porsi la domanda
della propria identità. Molte carte vengono rimescolate e il disorientamento è di casa.
Forse questo momento di crisi con la racchetta rientra in questo stato generale di
cambiamenti e messe in discussione: forse quello che è cambiato non è soltanto quello
che questo ragazzo sa o sa fare, ma anche e principalmente ciò che è e come si vede.
Rispetto allora alla domanda iniziale su cosa sia meglio fare o evitare di fare, ritengo sia
importante consentire, favorire, sostenere questo ragazzo nella possibilità di sentire,
vivere e dunque pronunciarsi in prima persona su quanto gli sta accadendo, dedicare
quindi una parte dell'allenamento per domandarvi insieme che cosa è cambiato, anche
nel vostro rapporto, se ancora il tennis lo appassiona come un tempo, quali sono le
difficoltà che state attraversando. Questo vi permetterà di capire insieme quale strada
percorrere per superare questo periodo di crisi.
Rispetto alle cose da evitare, sicuramente è importante non colpevolizzarlo se non
riesce a giocare più come prima, o forzarlo con estenuanti allenamenti.
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TENNIS: ANSIA DA PRESTAZIONE
Gioco a tennis da quattro anni e da tre mi alleno per migliorarmi tecnicamente 1 volta a
settimana con un maestro, e gioco con amici nei week end, a detta di tutti sono
migliorato tanto, tantissimo e posseggo tutti i colpi con stile e padronanza ma.... ogni
volta che gioco veramente in qualche torneo ho un blocco psicologico che mi porta a
giocare malissimo, a perdere con persone meno preparate, a non "sentire la partita" ... è
come se tutto mi sfuggisse, come se il cervello non riuscisse a comandare i movimenti,
sento a volte il cuore battere fortissimo, mille pensieri affollano la mente...è qualcosa di
strano, molto. Debbo premettere che nonostante il lavoro che faccio (rappresentante) sin
da piccolo sono molto timido, tale problema però non si pone invece nel lavoro. Grazie
sin d''ora per la gentile risposta
Tutti noi abbiamo delle aree di fragilità, chi più chi meno. Lei ha la fortuna di non esserne
ostacolato sul piano lavorativo. Da come lei descrive il suo problema sembra che sia
l’ansia, un’eccessiva preoccupazione, a coprire le emozioni riguardo al “sentire la partita”.
Sembrerebbe che non siano mai sufficienti le rassicurazioni sulla sua padronanza tecnica
e di stile che provengono da esperienze recenti. La sfida della partita la induce a
sperimentare sempre di nuovo una antica condizione di insicurezza, che affonda, come
ha giustamente intuito, le radici nel suo passato. Ora si chiede come mai le sta capitando
tutto ciò. Penso che le nostre esperienze infantili condizionino il nostro modo di essere,
cioè si costituiscono come schemi di comportamento e rappresentazioni interne che ci
caratterizzano e che sono difficili da modificare. E` però possibile affiancare a vecchi
modi di funzionare (o di funzionare in modo che ci danneggia) modi nuovi più
soddisfacenti. Il precorso richiede pazienza dato che ogni aspetto nuovo, anche che ci fa
stare meglio, necessita di essere integrato nella nostra personalità Per darle un’idea le
propongo l’esempio abbastanza tipico del manager depresso che si lamenta perchè pensa
di non valere molto e infatti ha scarsi riconoscimenti. Ad un certo punto ottiene sul lavoro
la promozione tanto desiderata e che dovrebbe disconfermare le sue percezioni negative,
solo che paradossalmente crolla e si sente ancora peggio, perchè dentro di lui si consuma
un conflitto. Cioè lui ha la percezione di essere immeritevole e non può avere successo.
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UN CORPO A DISAGIO
Salve, ho 30 anni e da tempo frequento corsi in palestra di fitness, pilates, aerobica,
insomma ho provato un po'' di tutto, per fare un po'' di sana attività e tenermi in forma e
migliorare il mio aspetto. Ma il punto è questo: possibile che a 30 anni mi sento ancora
adisagio con il corpo sopratutto se devo stare insieme ad altre donne o ragazze?
Gentile signora, le propongo alcune considerazioni che mi sono sorte nel leggere il suo
interessante quesito. Più avanti troverà un riferimento ad alcune ricerche, che mi è parso
potrebbero offrirle spunti di riflessione e che potrà utilizzare come crede. Sembra che lei
si sia impegnata da diverso tempo in varie attività che hanno fortemente impegnato il
suo corpo, come se fosse alla ricerca di qualcosa e cercasse di trovare un alleggerimento
da un’idea negativa che riguarda il suo stare in mezzo ad altre. Proprio per questo
sarebbe importante capire meglio cosa sta cercando e cosa la ostacola in questa ricerca.
Mi pare che ora, dopo tanti anni dedicati al modellamento del fisico, si stia rendendo
conto che il suo non è un problema del corpo, ma è un problema che riguarda come lei
vede sè stessa ed è qui che ha senso iniziare ad interrogarsi. Ad esempio lei
obiettivamente come si vede? Si sente bella o brutta? Comunque sia, mi dice che non sta
bene in presenza di altre donne, e anzichè cogliere la complicità da parte delle sue simili,
sente uno sguardo che la fa stare male. Ha qualche idea sul perché le accade questo? Mi
verrebbe da pensare che quel che vede nello sguardo di altre donne riguardi più che altro
qualcosa che appartiene a lei, qualcosa che sente lei stessa nei suoi confronti e che non
le dà pace da ormai tanti anni, almeno da tanti anni quanti sono quelli che lei ha dedicato
all’attività fisica nella speranza di modificare qualcosa. Il fatto di stare bene nel proprio
corpo non dipende tanto da fattori esterni e dai risultati che si ottengono con gli esercizi
fisici, come infatti ha lei stessa giustamente constatato. Sono tante, ad esempio, le
modelle bellissime che non riescono mai ad essere soddisfatte del loro aspetto fisico. Il
senso di disagio, che lei prova nel suo corpo, penso che abbia maggiormente a che fare
in qualche modo con una immagine negativa che lei ha di sè, qualcosa di negativo che
potrebbe affondare le radici nel passato, nelle sue prime esperienze di cura, e in
particolare nel fatto di essersi sentita criticata o non accettata da chi si prendeva cura di
lei. Nella vita adulta le circostanze contestuali che in qualche modo si riallacciano alla
situazione di vergogna passata possono attivare un sistema di svalutazione che si
evidenzia nel non stare bene nella propria pelle. Lo stare in mezzo agli altri ci procura
emozioni e potrebbe essere che lo sguardo di altre donne su di lei mobiliti situazioni
passate, che ora intrudono sotto forma di pensieri svalutanti il suo corpo. Ora sarebbe
importante capire che entità assume il suo senso di malessere nel corpo. Ad esempio mi
domando che pensieri fa sulle altre donne, se prova sentimenti di vergogna e si sottrae
ad alcune esperienze che pure la interesserebbero a causa di questi disagi. Mi chiedo,
pure, se il suo malessere è circoscritto al corpo e che cosa non le vada bene. Infine
sarebbe interessante capire cosa prova in presenza di uomini, che intensità assume la
sua sofferenza nella sua vita complessiva, e se ci sono momenti in cui il suo disagio è
più marcato Le pongo questi spunti perché è possibile dare un senso e lavorare sulla sua
intima difficoltà, se sente che intralcia e impedisce la sua emancipazione personale. In
altre parole il disagio che lei sente attraverso il rapporto con il suo corpo, può assumere
significati molto personali, che lei potrebbe decidere di approfondire, ad esempio con un
percorso terapeutico. È possibile, in questo modo, innalzare la sua autostima e
modificare la percezione che lei può avere del suo corpo. Dr.ssa Silvia Marchesini
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UNA VITA PER IL BASKET
Buongiorno, sono una ragazza di 27 anni che pratica il basket da almeno 16 anni. Da
quando ho iniziato a giocare fino ai miei 22 anni circa sono sempre stata una punta di
diamante per la mia squadra nella quale sono cresciuta. Quando questa si è sciolta sono
andata a giocare con grandissime aspettative in un''altra squadra, dove invece mi sono
vista escludere e non considerare, dove ho fatto praticamente quasi sempre panchina e
così via per altre società...praticamente massacrandomi e considerandomi non all''altezza
e una perdente.Quest''anno con grande gioia abbiamo riformato la squadra di un tempo,
con le mie vecchie compagne, tornando a giocare nel nostro vecchio campo, ma io sono
rimasta nella convinzione di non essere più capace.Mi carico di ansia negativa e faccio
tutto male, come se giocassi per la prima volta.Non so più come venirne fuori addirittura
ho pensato di smettere (la via più facile), hanno tutti grandi aspettative e io anche da me
stessa mi aspetto molto. Grazie
Gentile sportiva,
la sua domanda è molto sentita e personale e richiederebbe di essere esplorata
direttamente con lei. Le propongo comunque qualche spunto di riflessione.
Leggendo le sue considerazioni mi sembra che la sua carriera sportiva possa essere
suddivisa in tre fasi: quella “luminosa” prima dei 22 anni, quella “buia” tra i 22 e i 27 e
quella “attuale”. Mi sembra che lei si chieda se quello che è capitato nel periodo “buio”
condizioni, attraverso convinzioni negative, il presente atteso con grande gioia. Forse si
chiede cosa sia accaduto nel passaggio dalla vecchia squadra a quelle successive,
momento accompagnato da grandissime aspettative, che poi invece l’ha fatta sentire così
poco considerata. Nel passaggio finale si chiede come andare avanti, essendo che tutti,
lei compresa, avete grandi aspettative.
Questa sintesi del suo testo mi ha fatto pensare alla difficoltà rappresentata dai passaggi
di crescita e alla difficoltà di apprendere dall’esperienza. Noi psicologi crediamo che
l’apprendimento sia strettamente legato al cambiamento e che i cambiamenti inneschino
sempre delle “crisi”. La crisi è un momento di confusione e di rottura delle certezze
precedenti e può o fare impantanare oppure, grazie all’incontro con il nuovo, può portare
a riorganizzazioni della propria identità, delle proprie convinzioni e delle proprie azioni.
Non è però semplice vedere questi momenti anche una risorsa. Perché? Ciò dipende dal
fatto che l’essere umano è disposto a lavorare molto sodo per tener alte le proprie e
altrui aspettative e promesse, ma non è mai abbastanza allenato alla preziosissima arte
di affrontare l’incertezza, le frustrazioni, gli insuccessi, e il dolore emotivo che ne può
derivare. Questa resistenza a cimentarsi col dolore emotivo fa sì che anche i più bravi e
dotati si ritrovino ad affacciarsi alle burrasche del mondo “là fuori” non sufficientemente
attrezzati e a soffrire molto per gli insuccessi.
Sono quindi d’accordo con lei, smettere il backet non solo sarebbe la via più facile, ma
sarebbe anche un peccato! Fabrizio De André in una famosa canzone diceva
provocatoriamente “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior..”. Le
suggerisco di far tesoro anche della fase “buia” della sua esperienza, di provare,
eventualmente chiedendo aiuto a qualcuno, a far spazio dentro di sè sia alle luci che alle
ombre, alle gratificazioni insieme alle frustrazioni, alle grandi aspettative ma anche alla
consapevolezza dei limiti, ai successi ma anche alle perdite, al ruolo di punta così come al
campo visto dalla panchina. Se ci pensa bene, non solo il basket, ma anche tutte le altre
cose della vita, visti così, suonano un po’ più completi, reali e umani. Dott.ssa Sara Fallini
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VALVOLA DI SFOGO
Lo sport è sempre stata una delle poche ( a volte l''unica) valvola di sfogo nella mia vita,
l'unico appiglio che mi facesse sentire viva e sicura di me. Ultimamente, dopo diverse
crisi di ansia e depressione che di solito si verificavano in altri ambiti ( Il mio lavoro,
l''ambiente in cui vivo) ho notato che anche mentre faccio lo sport che amo accuso una
fortissima carenza di autostima e sfiducia nelle mie capacità. Un blocco psicologico
nell''allenamento che proprio mentre eseguo manovre potenzialmente pericolose rischia
di provocarmi infortuni o brutte cadute. Momenti in cui prima sentivo l''adrenalina che
mi spinge a rischiare per raggiungere un obiettivo sono ora sostituiti da insicurezza,
rigidità mentale e fisica, sfiducia. Mi sto uccidendo in questo modo. Se praticare lo sport
che mi fa amare la vita ora è diventato così , non so più in cosa lottare per vivere. Come
posso superarlo? Grazie.
Gent.ma sportiva,
non so quale sia lo sport che lei pratica da tempo con così tanta passione. Tanto di
cappello! Qualunque esso sia, mi sembra che finora le abbia reso un ottimo servizio,
facendola sentire viva e sicura di sé. Molti psicologi, in effetti, ritengono che le attività del
tempo libero e lo sport siano da percorrere e privilegiare come prima strategia per
fronteggiare lo stress e le ansie, correlate al lavoro ad esempio.
La situazione che descrive ora però fa ritenere che, non solo quest’attività non le
permette più il drenaggio di problematiche originate da altre parti, ma non le dà neanche
quella gratificazione che per tanto tempo l’ha rifornita della carica di autostima
indispensabile per andare avanti.
Da quello che lei racconta, sembra che si sia indebolito l’argine che prima separava bene
lo sport e dagli altri ambiti della sua vita, per cui ora nell’attività fisica si riverberano più
o meno le stesse problematiche che incontra altrove.
Se anche fosse così, non deve assolutamente disperare, ma solo cambiare la strategia
che finora ha naturalmente scelto per affrontare i suoi problemi. Non solo lei deve, ma
può continuare ad amare la vita, solo che probabilmente è giunto il momento di
“alleggerire” la sua attività sportiva da un’aspettativa “salvifica” troppo elevata che, se
può aver rappresentato un’ottima motivazione per la sua attività, ora potrebbe metterla
a repentaglio.
Non si disperda in ricerche di consigli e palliativi. La via più semplice a mio avviso è
quella di individuare un consulente psicologo che la aiuti a comprendere e affrontare la
pressione problematica a cui da tempo si sente soggetta. Sono certa che potrebbe
trovare non solo un’adeguata valvola di sfogo, ma anche un modo per attenuare un
carico di sofferenza che mi pare sia molto alto, restituendole l’autostima e il benessere
che si merita ed evitando di compromettere un ambito della sua vita che le dava così
tanto piacere e soddisfazione.
Dott.ssa Sara Fallini
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