I diversi modelli di integrazione tra professionisti

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I diversi modelli di integrazione tra professionisti
I DIVERSI MODELLI DI INTEGRAZIONE TRA PROFESSIONISTI: ASSOCIAZIONE
PROFESSIONALE E SOCIETA’ TRA PROFESSIONISTI
di Umberto D’Angelo, Notaio in Trentola Ducenta
L’articolo 10 della legge di stabilità n. 183 del 12 novembre 2011 ha dato cittadinanza,
nell’ordinamento giuridico italiano, alla società per l'esercizio di attività professionali
regolamentate nel sistema ordinistico dopo che la stessa per quaranta anni, a partire dalla metà
degli anni settanta, è stata al centro del dibattito dottrinale e giurisprudenziale (per tutti cfr. le
pagine di Carlo Ibba, Professione Intellettuale e impresa).
Riassuntivamente (poiché ad altri, nel corso della presente giornata, è stato affidato il compito di
trattare il tema, più diffusamente e meglio di come potrebbe farlo il sottoscritto) non può comunque
tacersi (per tutti v. in dottrina: G.F. Campobasso, Diritto Commerciale 2, diritto delle società e, in
giurisprudenza: Corte di Cassazione Civile, sez. I, Sentenza 12 marzo 1987, n. 2555, in Le Società,
1987) che gli ostacoli alla ammissibilità della società tra professionisti riposavano:
1) nel regime di personalità della assunzione e dello svolgimento dell’incarico (art. 2232 cod. civ.)
con la connessa responsabilità personale del prestatore d’opera (art. 2236 cod. civ.)
2) nella identificazione della attività economica, di cui all’articolo 2247 cod. civ., con la attività di
impresa e nella differenza tra quest’ultima e la attività del professionista
3) nella legge 23 novembre 1939, n. 1815, segnatamente nell’articolo 1, comma 1, e nell’articolo 2,
del seguente letterale tenore:
Articolo 1:
1. Le persone che, munite dei necessari titoli di abilitazione professionale, ovvero autorizzate
all’esercizio di specifiche attività in forza di particolari disposizioni di legge, si associano per
l’esercizio delle professioni o delle altre attività per cui sono abilitate o autorizzate, debbono usare,
nella denominazione del loro ufficio e nei rapporti coi terzi, esclusivamente la dizione di “studio
tecnico, legale, commerciale, contabile, amministrativo o tributario”, seguito dal nome e cognome,
coi titoli professionali, dei singoli associati.
2. (…)
Articolo 2:
E’ vietato costituire, esercire o dirigere, sotto qualsiasi forma diversa da quella di cui al
precedente articolo, società, istituti, uffici, agenzie od enti, i quali abbiano lo scopo di dare, anche
gratuitamente, ai propri consociati od ai terzi, prestazioni di assistenza o consulenza in materia
tecnica, legale, commerciale, amministrativa, contabile o tributaria.
Detti articoli - nel prevedere la figura dello studio associato, per affermarne la legittimità (articolo
1), come sola forma consentita per l’esercizio in forma pluripersonale dell’attività professionale
(articolo 2) - ci davano anche la unica norma disciplinante in via generale il fenomeno delle così
dette “Associazioni Professionali”, che saranno l’oggetto della presente relazione, stabilendo i
criteri per la formazione della denominazione.
Non era stato, dalla Legge, regolato alcun altro aspetto, cosicché quasi esclusivamente al lavoro
degli interpreti e all’opera dei giudici, di legittimità e di merito, si è dovuto fare riferimento per
tracciare i confini dell’istituto giuridico ed individuare le regole, per interpretazione analogica o
estensiva, applicabili per colmare le lacune normative o contrattuali. Peraltro la figura dello studio
associato, pure diffusissima nella realtà, non è riuscita a mobilitare una attenzione proporzionata
presso i civilisti (Andrea Fusaro, Natura Giuridica e disciplina dello Studio professionale
Associato, Nota a Cass. Civ., Sez. I, 16 aprile 1991, n. 4032, in Giur. It., 1991). E spesso
l’attenzione degli autori si è concentrata su questo argomento solo marginalmente, nell’ambito
dell’analisi del tema della società tra professionisti (sintomaticamente, peraltro, anche la presente
relazione si colloca quasi alla fine della odierna giornata di studi).
Prendiamo, doverosamente, le mosse da questa unica norma di contenuto positivo a nostra
disposizione, in tema, appunto di denominazione dello Studio Associato: con la Sentenza n. 2555
del 12 marzo 1987 la Suprema Corte chiarisce benissimo che la necessità della indicazione dei nomi
e dei titoli di tutti gli associati è stata prescritta dal legislatore del 1939 allo scopo di evitare “che
persone non provviste della necessaria abilitazione intraprendano l'esercizio di professioni
riservate associandosi con persone legittimate e, quindi, usufruendo dell'abilitazione o
dell'autorizzazione di queste ultime, o celandosi dietro lo schermo di un ente collettivo del quale la
rappresentanza e l'amministrazione siano magari affidate a persona legittimata o, infine,
presentandosi all'esterno sotto denominazioni equivoche o apparentemente neutre”.
La norma in esame è venuta in rilievo anche nella nota controversia originata dalle doglianze dei
familiari del professor Francesco Carnelutti scaturite dal fatto che, pur dopo la morte dell'avv. Tito
Carnelutti (figlio dell'illustre professore), i suoi Colleghi di studio hanno continuato ad utilizzare la
denominazione "Studio Carnelutti".
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, adite dal Consiglio Nazionale Forense, nella sentenza n.
1706 del 30 maggio 2003, hanno individuato lo scopo perseguito dal legislatore nell’evitare che una
denominazione diversa dalla qualificazione professionale risultante dai titoli o dalle autorizzazioni
degli associati possa indurre in equivoco i terzi, coprendo un'attività non corrispondente a quella
abilitata e, quindi, sfornita delle necessarie garanzie tecniche.
Già l’interpretazione letterale della norma chiarisce che la denominazione dell'ufficio, nel caso
dello Studio Associato, serve esclusivamente alla semplice individuazione (…), con esclusione di
ogni diversa funzione di "richiamo", nei confronti dei terzi, correlata ad elementi in qualche
misura caratterizzanti, ma estranei all'individualità e professionalità "attuali" dei partecipanti alla
associazione.
La Sentenza pone la disposizione di cui all'art. 1 in relazione col divieto, di cui al successivo
articolo 2, di costituire società per l'esercizio delle professioni c.d. "protette", in virtù del carattere
rigorosamente personale delle prestazioni professionali che, se non escludeva in modo assoluto la
possibilità dell'esercizio professionale in forma associativa, condizionava peraltro detto esercizio
all'uso di rigidi mezzi di individuazione dell'ufficio associato, a tutela degli interessi, non solo
economici o corporativi, di categoria ed a garanzia del corretto esercizio professionale, nei confronti
di terzi, alla stregua della qualificazione e della responsabilità personale del singolo professionista
(vedasi, in tal senso, anche la sentenza della Corte Costituzionale n. 17 del 1976).
D'altronde, concludono le Sezioni Unite, l'uso del cognome del fondatore deceduto nella
denominazione dell'associazione, non potendo avere funzione di individuazione nel senso voluto
dalla legge, assumerebbe il ruolo di una pubblicità persuasiva o di un segno distintivo, entrambi
incompatibili, oltreché con i principi enunciati in precedenza, anche con l'indirizzo normativo che
nega la qualità di imprenditore al professionista e, conseguentemente, la qualifica di azienda allo
studio professionale; ed esclude che, con riferimento a quest'ultimo, si possa parlare, in senso
proprio, di avviamento, ponendosi il fattore "organizzazione" in posizione di mera ausiliarità
rispetto all'attività personale del professionista.
C'è una sensibile differenza con la disciplina codicistica della ragione e della denominazione sociale
per le quali possiamo sinteticamente dire che è prescritta la indicazione del tipo sociale prescelto,
con indicazione altresì - per le società commerciali personali - del nome di almeno un socio (socio
accomandatario per le S.A.S.); e con la necessità di non utilizzare una formula uguale o simile a
quella utilizzata da altro imprenditore
(secondo quanto l'articolo 2564 cod. civ. statuisce a
proposito della ditta, "nome commerciale dell'imprenditore").
Queste stesse regole valgono anche con riferimento alle neonate società per l'esercizio di attività
professionali regolamentate nel sistema ordinistico, limitandosi il comma 5 dell’articolo 10 della
Legge n. 183 del 2011 a stabilire che
5. La denominazione sociale, in qualunque modo formata, deve contenere l'indicazione di società
tra professionisti.
Non è esclusa la possibilità di utilizzare elementi che possano esercitare una funzione di
"richiamo", nei confronti dei terzi, né è imposta la indicazione dei nomi e dei titoli di tutti i soci
(o almeno dei soci professionisti). Viene solo prescritto l’utilizzo della locuzione società tra
professionisti con riferimento alla quale autorevole autore (Carlo Ibba, Le societa' tra
professionisti: ancora una falsa partenza ? in Dottrina e problemi del Notariato, argomenti e
attualità, Riv. del Notariato - 2012) ha parlato di mera “etichetta”, per lo più non veritiera e
inopportuna, potendo la società correre non solo tra professionisti, per l’apertura della stessa ai soci
di capitale, figura viceversa non contemplata in seno alle Associazioni Professionali.
Minore attenzione, evidentemente, dedica all’affidamento del pubblico che necessita di una
prestazione professionale, rispetto al legislatore del 1939, quello del 2011, alla cui “sciatteria” i
primi commentatori della legge hanno pressoché unanimemente attribuito il riferimento alla sola
"denominazione sociale" per una società che può essere costituita secondo uno dei modelli societari
regolati dai titoli V e VI del libro V del codice civile, pertanto anche nella forma delle società
personali. Non è escluso conseguentemente, per completare il parallelo, sul punto, con la normativa
sulla associazione professionale, che nella ragione sociale la nuova società tra professionisti
conservi il nome del socio receduto o defunto, a condizione che il primo o gli eredi del secondo vi
consentano.
Le Sezioni Unite concludono, comunque, la propria sentenza rinvenendo la ratio sottostante ai
rigorosi requisiti formali richiesti dall'art. 1 della legge 25 novembre 1939, n. 1815 per la
formazione della denominazione dell’unica forma, allora possibile, per l'esercizio in forma
associata delle c.d. professioni protette, nel principio della personalità della prestazione
professionale nei rapporti con i clienti che si sovrappone ad un contratto associativo con
rilevanza interna.
Diverse altre volte la Suprema Corte ha affermato la rilevanza meramente interna dello Studio
Professionale associato, negando che lo stesso dia vita ad un centro di imputazione di interessi o ad
un ente collettivo, con autonomia strutturale e funzionale, in grado di sostituirsi ai suoi membri,
assumendo la titolarità dei rapporti con i clienti, che invece resta in capo agli associati (cfr. Cass.,
sez. II, 10 luglio 2006, n. 15633, in Rass. forense, 2006, 1734).
Questa affermazione la si ritrova anche con riguardo ad associazioni professionali tra notai, laddove
sembra, tuttavia, ineluttabile conseguenza dalla pubblica funzione di cui i notai sono
(necessariamente come singoli) investiti dallo Stato e che svolgono nell’esercizio della loro attività
intellettuale/professionale. E’ questa la ratio sottesa alla previsione dell’articolo 82 della Legge
Notarile n. 89 del 1913, tuttora vigente, che dispone: Sono permesse associazioni di notari, purché
appartenenti allo stesso distretto di Corte d'Appello, per mettere in comune, in tutto o in parte, i
proventi delle loro funzioni e ripartirli poi in tutto o in parte, per quote uguali o disuguali. Non può
darsi, dunque, alcun ente o azienda professionale, che rivesta una sua autonomia strutturale e
funzionale, in grado di sostituire la persona dei singoli notai, nei rapporti con i terzi (siano essi i
clienti o i lavoratori dipendenti) ma soltanto un patto, meramente interno, e privo di riflessi esterni
sull’esercizio della pubblica funzione e sulle modalità di esso, avente a contenuto anche la divisione
delle spese, tra cui i compensi del personale: l’associazione tra notai non assume la titolarità del
relativo obbligo, continuante a gravare sui notai associati, anche se tenuti all’apporto contabile
relativo (Cass., sez. lav., 21 novembre 1997, n. 10354. in Vita not., 1998, 1113; Cass., sez. lav., 5
marzo 1997, n. 1933, in Giust. civ., 1997, I, 2834). Il complesso di doveri che ineriscono alla
funzione notarile (come ad esempio, in tema di ufficio secondario, illecita concorrenza, permessi di
assenza, dovere di assistenza, residenza) non sono scalfiti dalla esistenza della associazione
professionale (Casu – Sicchieri, La legge notarile commentata). Queste conclusioni, che hanno
determinato anche l’impermeabilità della professione notarile alle previsioni del D.L. 4 luglio 2006,
n. 223, articolo 2 comma 1, lett. C, di cui in prosieguo, sono tuttora valide, pur dopo la Legge 183
del 2011; nel ricostruire i caratteri dell’istituto generale della Associazione Professionale di cui
all’articolo 1 della Legge 1815 del 1939, però, va tenuto in debito conto la circostanza che, per
quanto ispirata anch’essa al principio di personalità della prestazione (oggi calato nell’articolo 2232
cod. civ.), per le peculiarità della attività e della pubblica funzione che svolge il notaio,
l’associazione di cui all’articolo 82 della Legge notarile è cosa diversa da quella della Legge n.
1815 del 1939 (così Lops, nello Studio del Consiglio Nazionale del Notariato in data 11 gennaio
1991, In tema di Associazioni Notarili e Studi Associati: ove viene esclusa la configurabilità di una
associazione tra notaio in esercizio e notaio in pensione, in quanto non più munito del necessario
titolo di notaio né della abilitazione; nonché la configurabilità di una associazione di un notaio con
altro professionista, anche attraverso il riferimento a precedenti giurisprudenziali).
Riassuntivamente, comunque, potremmo dire che per un filone della giurisprudenza,
l’associazione professionale, più che individuare un autonomo centro di imputazione di
rapporti giuridici, pare rappresentare semplicemente un fascio di rapporti obbligatori interni
tra gli associati, una somma di obbligazioni solidali nei confronti dei terzi, una situazione di
comproprietà per quanto concerne i beni acquistati, priva quindi di rilevanza esterna (Ufficio
Studi del Consiglio Nazionale del Notariato, Risposta a Quesito n. 11-2008/I - Associazione fra
professionisti socio di società di capitali).
La rilevanza meramente interna del contratto associativo riporta alla mente la società civile
disciplinata dal Codice Civile del 1865 (che, va ricordato, era il codice in vigore al
tempo della comparsa della Legge 1815 del 1939 e della Legge Notarile).
Per l’articolo 1697 c.c. 1865, infatti, era società anche la società civile, ovvero
il contratto con il quale due o più persone convengono di mettere qualche cosa in
comunione, al fine di dividere il guadagno che ne può derivare. L’articolo 1705 c.c.
1865, poi, al secondo comma, chiariva che E’ parimenti società particolare il contratto,
con cui più persone si associano per una impresa determinata, o per l’esercizio di
qualche mestiere o professione.
La società ritenuta dal legislatore dell’epoca idonea a soddisfare le esigenze delle
attività non commerciali era ancora, sostanzialmente, l'antica societas del diritto
romano, ovvero un contratto consensuale con il quale le parti si obbligavano a mettere in comune
beni e attività onde ripartire tra loro guadagni e perdite, che non creava alcun ente dotato di
soggettività giuridica, limitandosi a regolare i soli rapporti interni tra i soci, ciascuno dei quali,
all’esterno, assumeva (e senza vincolo di solidarietà) i propri obblighi in confronto dei terzi con i
quali veniva in contatto.
Fino agli anni novanta quella sopra illustrata sembra essere la posizione predominante in
giurisprudenza ed è sintomatica, al riguardo, la sentenza della Cassazione Civile, Sez. I, 16 aprile
1991, n. 4032 (innanzi citata): la Suprema Corte qualifica il contratto di Associazione
Professionale, direi “pilatescamente” contratto associativo atipico di carattere misto,
guardandosi dal prendere posizione circa la natura della associazione nei rapporti con i terzi, pur
stabilendo che relativamente ai rapporti interni intercorrenti tra i professionisti di associazioni
impostate su un piano di assoluta pariteticità – nelle quali gli associati si obbligano a prestare
collaborazione professionale nelle cause e negli incarichi affidati ai singoli e a ripartirsi spese ed
incarichi – possono essere adottate anche regole pattizie organizzative tipiche dello schema della
società di persone, senza per ciò contrastare con alcun divieto espresso dalla legge o qualificare il
contratto quale struttura.
Dalla metà degli anni novanta, tuttavia, si assiste alla formazione di un nuovo filone
giurisprudenziale e la Sentenza della Cassazione civile del 23 maggio 1997, n. 4628 (Rel. Rordorf)
è fra le prime ad affermare il principio (dalla stessa Corte di Cassazione più volte richiamato
successivamente: cfr. Cass., sez. II, 16 novembre 2006, n. 24410; Cass., sez. III, 13 aprile 2007, n.
8853; Cass., 15 luglio 2011, n. 15964) della soggettività giuridica dello studio associato, in questi
termini:
“Quantunque privo di personalità giuridica, lo studio professionale associato rientra a pieno
titolo nel novero di quei fenomeni di aggregazione di interessi (quali le società personali, le
associazioni non riconosciute, i condomini edilizi, i consorzi con attività esterna e i gruppi europei
di interesse economico di cui anche i liberi professionisti possono essere membri) cui la legge
attribuisce la capacità di porsi come autonomi centri di imputazione di rapporti giuridici, e che
sono perciò dotati di capacità di stare in giudizio come tali, in persona dei loro componenti o di
chi, comunque, ne abbia la legale rappresentanza secondo il paradigma indicato dall'art. 36 c.c.”;
avendo però cura di completare subito la propria affermazione nei seguenti termini: “fermo
restando che il suddetto studio professionale associato non può legittimamente sostituirsi ai
singoli professionisti nei rapporti con la clientela, ove si tratti di prestazioni per l'espletamento
delle quali la legge richiede particolari titoli di abilitazione di cui soltanto il singolo può essere in
possesso (Cassazione civile - Sentenza 23 maggio 1997, n. 4628 con commento di Giorgio Schiano
di Pepe - Società professionali: una pronuncia della cassazione alla luce della legge Bersani, in Le
Società, 1997).
Più che di rottura rispetto all’indirizzo precedentemente esaminato, può parlarsi di una evoluzione
dello stesso che ci consente di concludere, sul punto delle “entificazione” o meno della associazione
professionale, che la stessa viene negata quanto alla possibilità per lo Studio Associato di assumere
la titolarità del contratto d’opera professionale con i clienti, come controparte dei quali vi è
necessariamente il professionista persona fisica; allorché, invece, si discuta di questioni non
attinenti al rapporto di prestazione dell’opera professionale, come la capacità di essere parte di un
contratto di locazione di immobile ad uso diverso da quello abitativo, adibito a sede dello studio
professionale o come la legittimazione processuale passiva (per l’assoggettamento a revocatoria
fallimentare) o attiva (per il recupero di un credito di un avvocato dello studio associato; per la
verità su questo tema si riscontrano pronunce contrastanti), lo Studio associato viene visto come
autonomo centro di imputazione di diritti, come soggetto giuridico (Ufficio Studi del Consiglio
Nazionale del Notariato, Risposta a Quesito n. 11-2008/I - Associazione fra professionisti socio di
società di capitali).
Quanto alla natura di tale soggetto, cospicua parte della giurisprudenza ha ravvisato nello Studio
associato necessariamente una associazione senza personalità giuridica, di cui al Libro I del codice
civile, ritenendo di dover fare riferimento alle norme di tale istituto, per disciplinare gli aspetti non
coperti dalla legge 1815 del 1939. La Sentenza del 23 maggio 1997, n. 4628, innanzi citata,
affermata la soggettività giuridica dello studio associato, ritiene si debba fare riferimento
all’articolo 36 in tema di associazione, allo scopo di individuare chi sia investito della legale
rappresentanza dello stesso. Adeguatamente rappresentativa di questa posizione è anche
l’Ordinanza in data 4 ottobre 1995, del Tribunale Roma (pubblicata in Le società, 1995 con
commento di Giorgio Schiano di Pepe) secondo la quale Poiché l'associazione professionale si
configura come una associazione, benché atipica, in cui lo scopo sociale è l'esercizio «collettivo»
della professione, la sua natura è ben distinta da quella di una società, sia pure del tipo personale e
non può dunque farsi, nello statuto, un rinvio recettizio alle norme del codice civile sulla società
semplice; tale rinvio, infatti, snaturerebbe l'associazione e rischierebbe di violare il divieto di
costituzione di società professionali.
I giudici, in questo caso, non leggono, nel richiamo alla normativa delle società semplice, un mero
rinvio recettizio effettuato in funzione di eterointegrazione della disciplina statutaria, ma vi
attribuiscono una valenza tipizzante, tale da rischiare di trasformare in società - con la conseguente
violazione del divieto di costituire società professionali - quella che naturalmente è una
associazione ed alla quale pertanto vanno, in difetto di previsione statutaria e secondo i principi
generali applicate le norme in materia di associazione.
Non mancano, tuttavia, decisioni di segno opposto ed esemplare, in proposito, è la Sentenza 19
aprile 1996 della Corte di Appello di Milano (resa in tema di liquidazione della quota agli eredi del
partecipate ad una associazione professionale e pubblicata in Le società, 1996) secondo la quale la
disciplina dettata in tema di società semplice è applicabile alla associazione tra professionisti (…)
in quanto questa costituisce una delle più rilevanti concrete manifestazioni di detto tipo di società.
Alla maggioranza della dottrina, la riconduzione dello studio tecnico, legale, commerciale,
contabile, amministrativo o tributario nell’alveo delle associazioni è parsa (sempre più, con il
passare del tempo), essere stato il frutto di un equivoco linguistico, causato dall’espressione “si
associano” dell’articolo 1 della Legge 1815 del 1939, tanto sono evidenti le incompatibilità
genetiche e funzionali che contrappongono l'associazione di cui al libro I del codice civile alle
associazioni professionali, essendo in queste ultime assenti quelle finalità altruistiche e ideali che
caratterizzano le associazioni vere e proprie. Da un punto di vista storico, questa dottrina richiama
la società civile particolare, che era il modello in vigore nel 1939; il modello che, pertanto, doveva
avere in mente il Legislatore, il quale dettò solo delle prescrizioni di carattere formale in ordine alla
composizione della denominazione della associazione professionale, per conseguire gli obiettivi
precedentemente indicati, evidentemente per il resto facendo affidamento sulla disciplina di fondo
esistente. La figura della società civile particolare non è trasmigrata tal quale nel codice civile del
1942: il suo contenuto è stato trasfuso in altre figure giuridiche e - almeno in parte - sopravvive
nella società semplice che le è succeduta, quantomeno quale figura collettiva dell'esercizio di
imprese non commerciali (così Giorgio Schiano di Pepe nella nota alla citata Ordinanza Tribunale
di Roma, 4 ottobre 1995 pubblicata in Le società, 1995. Sottolinea le dette differenze genetiche e
funzionali anche Alberto Toffoletto, Commento alla Legge 12 novembre 2011, n. 183, in Le
Società, 2012)).
Abbiamo, tuttavia, sopra ricordato che la società civile era un contratto ma non dava vita ad un ente:
il richiamo ad essa, peraltro, se non pare idoneo a risolvere con certezza in favore della società
semplice il quesito circa la natura dell’ ‘Ente Studio Professionale Associato’, nei rapporti con i
terzi, è certamente suggestivo essendo toccato in sorte alla associazione professionale di vivere
sull’incerta linea di spartiacque tra il diritto degli enti e quello dei contratti, minato nelle sue basi
dagli articoli 2232 e 2238 c.c., afflitto dalle incombenti preclusioni della Legge n. 1815 del 1939
(così testualmente: Andrea Fusaro, Natura Giuridica e disciplina dello Studio professionale
Associato, cit.).
Un tratto hanno in comune praticamente tutte le sentenze passate in rassegna ed è rappresentato
dalla affermazione per cui l’esercizio della attività professionale è ad esclusivo appannaggio del
libero professionista persona fisica, così che al gruppo di professionisti associatisi è inibito di
sperimentare la propria “entificazione” nell’esercizio dell’attività professionale pur senza essere
per questo esso condannato alla parcellizzazione (così ancora: Andrea Fusaro, Natura Giuridica e
disciplina dello Studio professionale Associato, cit.).
Viene allora da chiedersi se sia vera l’affermazione con la quale si è aperta la presente relazione e
cioè che gli articoli 1 e 2 della Legge 1815 del 1939 prevedevano la figura dello studio associato,
per affermarne la legittimità (articolo 1), come sola forma consentita per l’esercizio in forma
pluripersonale della attività professionale (articolo 2).
Con la Sentenza n. 2555 del 12 marzo 1987 (pubblicata in Le Società, 1987, cit.) la Suprema Corte
afferma che “è evidente la differenza fra «esercizio associato» ed «esercizio in comune», proprio
della società, di una attività” ed afferma la validità di quegli accordi conclusi soltanto tra
professionisti legittimati per l'esercizio congiunto di professioni tutelate, che non si risolva
nell'esercizio comune di cui all’articolo 2247 cod. civ. (che, in quanto tale, dovrebbe imputarsi
all’ente che trascende le persone dei singoli professionisti): un professionista può associare nella
propria attività, con il patto della ripartizione delle spese e dei compensi, un altro collega, che si
obbliga a prestare la propria collaborazione nello svolgimento della detta attività; e questo può
anche accadere vicendevolmente. In tali ipotesi non si avrebbe violazione del principio della
personalità della prestazione, in quanto l'associante rimane l'unico titolare dell'attività affidatagli e
l'esclusivo responsabile (oltre che il solo creditore del compenso: siamo ancora nel 1987) nei
confronti del cliente, stabilisce l'impostazione e la linea dello svolgimento dell'opera, dirige ed
indirizza il lavoro degli associati, i quali assumono la veste di sostituti o di ausiliari ai sensi dell'art.
2232, codice civile, ossia di collaboratori tecnici. Tutta l’attività, compresa quella svolta dagli
associati, fa capo intellettualmente (e giuridicamente) all'associante e ne rivela l'impronta
personale. Appunto perché l'associato riveste la qualifica di sostituto dell'associante nell'esercizio
dell’attività professionale di quest'ultimo, egli, sempre sotto la direzione del medesimo, può
intrattenere colloqui e rapporti con il cliente e svolgere anche quei compiti professionali che vanno
eventualmente compiuti fuori dello studio (ad es. attività procuratoria e di difesa legale). Il cliente,
che continua ad avere come controparte il solo professionista al quale ha affidato l'incarico, sa,
d'altra parte, che il predetto professionista può avvalersi, nell'espletamento dell'incarico, di
sostituti ed ausiliari e perciò anche di colleghi associati (indicati, peraltro, nell'intestazione dello
studio), per cui egli non può pretendere, se non risulti diversamente dal contratto o dalla natura
dell'opera, che all'esecuzione di questa provveda in via esclusiva, personalmente, il professionista
prescelto. Può dirsi, quindi che il tratto della personalità della prestazione permane ma è
attenuato dal vincolo di associazione.
La stessa sentenza si occupa anche della qualificazione di questo contratto per escludere che esso,
come fatto da parte della dottrina ed anche nella giurisprudenza della Corte di Legittimità
(incidentalmente, la sentenza n. 268 del 1973), possa essere ricondotto allo schema
dell'associazione in partecipazione (o di rapporti reciproci di associazione in partecipazione per
l'ipotesi in cui ciascun professionista è a un tempo associante ed associato). Secondo la Corte, per
quanto l'art. 2549, codice civile, nel definire l'associazione in partecipazione, preveda che essa, oltre
che con riferimento ad una data attività di impresa, possa darsi anche con riguardo ad uno o più
affari, presuppone che sempre di affari economici si tratti. Nella associazione in partecipazione
manca il tratto dell’esercizio in comune della attività tipico della società (che l'art. 2247, codice
civile, peraltro, non esclude possa avere per oggetto uno o più affari), che si scontra con il principio
di personalità della prestazione, ma anch’essa, come la società, implica l’esercizio di un’attività
economica che è in rapporto di alterità ed incompatibilità con l’attività tipica delle professioni c.d.
“protette”.
Ad ogni modo, posta nei suddetti termini, la differenza tra esercizio comune dell’attività
professionale precluso, vigente la Legge 1815 del 1939, alla società ed esercizio associato
(consentito) della medesima attività pare piuttosto chiara.
E’ possibile, tuttavia, che il cliente si rivolga non ad un solo professionista, facente parte di uno
studio associato, ma allo studio associato: il rapporto che si instaura in tal caso (Cfr. Sentenza
Corte di Cassazione, 31 luglio 1987, n. 6636, in Giust. civ., 1988) si differenzia da quello che si
costituisce tra il cliente e più professionisti non associati, collegialmente ma separatamente
incaricati di svolgere, insieme, la stessa prestazione, poiché in quest'ultimo caso si hanno tanti
separati rapporti quanti sono i professionisti, laddove nel primo caso si ha un unico rapporto
tra il cliente e i professionisti associati, di talché questi si presentano al cliente e per esso
operano come un'unica parte contrattuale,
hanno diritto ad un solo compenso e la
prestazione ad essi unitariamente chiesta può essere disimpegnata dall'uno o dall'altro o da tutti
congiuntamente (Cfr. Sentenza Corte di Cassazione, 4 luglio 1974, n. 1936). Nella prospettiva e
sul piano della bilateralità del rapporto, che si instaura tra il cliente e i professionisti associati in
un unico studio professionale, la Suprema Corte ha più volte affermato che, nell'ambito di tale
rapporto, ciascuno dei professionisti nell'espletamento dell'incarico ricevuto insieme con i suoi
colleghi, agisce oltre che per sé anche per gli altri secondo il principio della rappresentanza, che
per simile rapporto si presume (Cfr. anche Sentenza Corte di Cassazione, 21 novembre 1979, n.
6065): in forza di questo potere di rappresentanza reciproca, in mancanza di esplicite contraria
previsione, in giurisprudenza si è ritenuto correttamente indirizzato il pagamento del compenso
nelle mani di uno solo dei professionisti (con effetti liberatori nei confronti degli altri) e viceversa
legittimato ciascuno dei professionisti a chiedere l'intero compenso per l'opera prestata. E poiché
simile rapporto di mandato e rappresentanza è ovviamente costituito anche nell'interesse del
mandatario, la morte del mandante, che sopravvenga, non lo estingue (art. 1723, comma 2,
c.c.). Alla luce di quanto sopra, per parte autorevole della dottrina i clienti sono clienti dello studio,
ellitticamente considerato, non dei singoli avvocati, e la facoltà di sostituzione reciproca fra i
professionisti associati rende ormai superato il principio della personalità della prestazione
(così F. Galgano, Le professioni intellettuali e il concetto comunitario di impresa). E’ innegabile
che questo modo di svolgere l’attività professionale può indurre a tale conclusione che, invero, pare
al sottoscritto comunque non necessitata ed eccessiva: non per forza vi è un superamento
dell’intuitus personae, essendovi spazio per ipotizzare, più semplicemente, un riporre la fiducia, da
parte del cliente, in più personae (ed eventualmente anche nella loro capacità di ripartirsi o
organizzare il lavoro), costituenti parte complessa, e non un ente sovraordinato rispetto ad esse,
anche per l’intrinseco difetto del presupposto della imputabilità, a detto ente, di una attività che
resta propria delle più personae; ciascuna di esse si pone in confronto di chi ha conferito l’incarico,
assumendo il compito di portarlo a compimento, sia pure interagendo con altri colleghi, e la
conseguente e personale responsabilità. La solidarietà ed il principio di rappresentanza reciproca
spiegano adeguatamente l’agire di un professionista per tutti gli altri o il rivolgersi ad uno di essi, in
luogo che a tutti, da parte del cliente, senza necessità di ritenere esistente un soggetto giuridico
sovraordinato al quale riferire anche l’attività strictu sensu professionale.
In questo incerto contesto, che ho modestamente provato ad illustrare, intervengono, negli ultimi
anni:
1) la così detta “Legge Bersani” n. 266 del 7 agosto 1997, che all’articolo 24 abroga l’articolo 2
della Legge 1815 del 1939, nell’intento di aprire l’esercizio delle attività professionali al mondo
delle società, ciò che avrebbe dovuto determinare l’affiancamento, agli Studi Professionali
Associati, di altri e diversi soggetti giuridici operanti nel medesimo ambito, con il conseguente
venir meno della esclusiva dei primi (in via generale ed al di là, quindi, dei singoli settori in cui
leggi speciali già avevano ridimensionato tale primato, l’analisi dei quali esula dalla presente
relazione); la fissazione dei requisiti per lo svolgimento in forma societaria delle attività tipiche
delle professioni protette fu, tuttavia, affidata ad un Regolamento che, per un noto problema di
ordinamento delle fonti - evidentemente non soppesato a sufficienza dagli autori della normativa in
questione – dopo due pareri negativi del Consiglio di Stato – non vide mai la luce;
2) la così detta “Seconda Legge Bersani”, ovvero il D.L. 4 luglio 2006, n. 223, che all’articolo 2
comma 1, lett. C, come sostituito in sede di conversione dalla Legge 4 agosto 2006, n. 248, dispose
la abrogazione delle disposizioni legislative e regolamentari che prevedessero, con riferimento alle
attività libero professionali ed intellettuali, il divieto di fornire all’utenza servizi di tipo
interdisciplinare, da parte di società di persone o associazioni di professionisti, fermi restando la
esclusività dell’oggetto sociale, il divieto per il professionista di partecipare a più di una società e la
necessità che la prestazione professionale fosse posta in essere, sotto la propria responsabilità, da
uno o più soci professionisti; questa norma, tuttora vigente, ha suscitato notevoli perplessità con
riferimento alla prestazione di servizi professionali di tipo interdisciplinare da parte di società di
persone o associazioni tra professionisti; se per il notariato la lex specialis contenuta nell’articolo 82
della legge notarile e la ratio ad essa sottesa hanno fatto sì che un problema di compatibilità
neanche potesse porsi, per il contrasto della essenza stessa dell’attività notarile con la logica sottesa
al provvedimento in discorso, anche quanto alla professione di avvocato, posizione negativa fu
assunta dal Consiglio Nazionale Forense, nella circolare del 4 settembre 2006, n. 22-C/2006, con la
quale furono sottolineati la possibile lesione della imparzialità e della indipendenza dell’avvocato e
il contrasto con la disciplina della società tra avvocati di cui al d.lgs. 96/2001, che comunque
prevedeva l’esclusività dell’oggetto sociale;
3) infine la Legge 12 novembre 2011, n. 183, al centro dell’odierno convegno, la quale all’articolo
10, comma 9 dispone che “Restano salve le associazioni professionali, nonché i diversi modelli
societari già vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge”, dettando una norma dal
significato apparentemente chiaro, nel prevedere la possibilità di continuare ad usufruire del
preesistente modello della associazione professionale, mentre conferisce definitivamente diritto di
cittadinanza alla società tra professionisti nell’ordinamento giuridico italiano.
Incredibilmente, però (dopo che già l’articolo 2, comma 1 del D.L. 22 dicembre 2008 n. 200, il c.d.
provvedimento “Taglia-leggi” Calderoli, una prima volta, aveva abrogato integralmente la legge
1815 del 1939, successivamente ripristinata in sede di conversione in Legge 18 febbraio 2009 n. 9),
il comma 11 dello stesso articolo 10 della Legge 183/2011 dispone nuovamente la (definitiva ?)
integrale abrogazione della legge 1815 del 1939.
Si crea il paradosso di un legislatore che fa salve determinate forme associative nello stesso
momento in cui rimuove dall’ordinamento l’unica norma, innanzi esaminata, che le prevede (Carlo
Ibba, Le societa' tra professionisti: ancora una falsa partenza ?, cit).
Per il Professor Giorgio Marasà (nel Commento alla Legge 12 novembre 2011 n. 183, in Le società
4/2012) “al di là del linguaggio approssimativo del legislatore, i modelli societari e associativi fatti
salvi non possono che essere quelli regolati da norme vigenti alla data di entrata in vigore delle
nuova legge. Perciò, tranne le associazioni cui fa riferimento la L. 1815/1939 – che è oggetto di
abrogazione espressa (…) – i modelli societari e associativi regolati da altre disposizioni di legge
(…) sono utilizzabili anche dopo l’entrata in vigore della nuova legge.”
In quest’ottica resterebbe lo spazio solo per quelle Associazioni Professionali esplicitamente
previste da altre leggi, come la associazione professionale (tutta interna) tra notai del medesimo
distretto, di cui alla legge notarile n.ro 89 del 1913; o come la associazione professionale tra
avvocati che è stata successivamente disciplinata dalla legge 31 dicembre 2012, n. 247, contenente
la nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense, fondata sul tradizionale principio
della personalità della prestazione, conseguente al conferimento personale dell’incarico, e sulla
indipendenza intellettuale e di giudizio dell’avvocato. Questa stessa legge apre anche alla
partecipazione degli avvocati ad associazioni che vedano coinvolti altri professionisti, ma
demandando la individuazione delle categorie di appartenenza degli stessi ad un Regolamento da
adottarsi dal Ministro della Giustizia, previo parere del Consiglio Nazionale Forense (su questo
tema cfr. lo Studio 25 gennaio 2013 del Consiglio Nazionale del Notariato: Nuova Disciplina
dell’ordinamento della Professione forense).
Anche il Comitato Unitario Permanente degli Ordini e Collegi Professionali, all’indomani della
Legge 183/2011, rilevava la esistenza di dubbi interpretativi riguardo alla lettura dei commi 9 e 11
dell’art. 10 della Legge stessa:
se appare chiaro l’intento del comma 9 di consentire ai
professionisti associati di “conservare lo status giuridico prescelto; al contempo, però, viene
disposta l’abrogazione della legge 23 novembre 1939, n. 1815, unica fonte che attualmente
disciplina, ancorché in parte, i modi di costituzione degli studi associati. Tale intervento non è
condivisibile
perché
priva
le
associazioni
professionali
esistenti
della
pur
minima
regolamentazione che ne riconosceva almeno la possibilità di esistenza. Inoltre, l’abrogazione
così fatta determina anche l’impossibilità in futuro di scegliere il modello associativo che finora
ha rappresentato l’unica possibilità per l’universo dei professionisti e che ben potrebbe
continuare a rappresentare una forma apprezzabile. La sostituzione del modello associativo,
ancorché auspicata da tempo, non può diventare una costrizione immediata, né si ritiene tale sia
stato l’intento del Legislatore, per cui si evidenzia la necessità di correzione.” (così la circolare del
2 gennaio 2012 “Le società tra professionisti: esame della normativa e proposte di intervento”),
Questa conclusione, tuttavia, melius re perpensa, è stata poi respinta dal mondo delle professioni.
Il Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili, nella Circolare N.
32/IR DEL 12 Luglio 2013, a cura del proprio Istituto di Ricerca, dedicata a “La nuova disciplina
delle società tra professionisti” forse un po’ apoditticamente afferma
“che la definitiva
abrogazione di ciò che residuava della legge n. 1815/1939 – effettuata dall’art. 10, comma 11,
della legge n. 183/2011 – non inficia la validità di associazioni tra professionisti già costituite
prima dell’entrata in vigore della legge n. 183/2011, né vieta la possibilità di costituirne delle
nuove. Vengono meno solo quei requisiti formali previsti per la costituzione di associazioni tra
professionisti iscritti ad albi e contemplati nel menzionato art. 1 della legge n. 1815/1939 che, per
un verso, condizionavano la partecipazione degli associati e che, per altro verso, dovevano
necessariamente comparire nella denominazione dello studio.”
L’Ufficio Studi del Consiglio Nazionale del Notariato, nello Studio di Impresa n. 41-2012/I, Prime
note sulle società tra professionisti (Approvato dalla Commissione Studi d'Impresa il 31 maggio
2012) afferma che: “a) pur essendo venuta meno la disposizione che legittimava l'associazione
professionale, sembra sia ancor oggi legittimo lo schema dello studio professionale associato,
rappresentando un minus rispetto alla figura oggi introdotta, e la cui salvezza è comunque prevista
dal medesimo comma 9, proprio in funzione dell'intervenuta abrogazione della L. 23 novembre
1939 n. 1815 disposta nel successivo comma 11”
Anche in dottrina si è fatta strada l’opinione per cui la sopravvivenza degli studi professionali come
forma associativa (oggi atipica) fra professionisti, nonostante la soppressione della legge 1815/1939
che espressamente li prevedeva, è conclusione imposta non solo dalla salvezza dei modelli
associativi previgenti contenuta nell’art. 10 comma 9, ma anche dalla constatazione che se così
non fosse, mancando nella legge 183/2011 qualsivoglia norma transitoria, si avrebbe che tutti gli
studi professionali esistenti al momento di entrata in vigore della Legge sarebbero coattivamente
trasformati in società semplice: un esito interpretativo tanto assurdo quanto probabilmente
incostituzionale, per la forzata inclusione dei professionisti associati in una organizzazione
societaria che essi non hanno mai inteso creare (così testualmente G.F. Campobasso, Diritto
Commerciale 2, diritto delle società).
L’approdo a questa conclusione pare, viceversa, necessario ed inevitabile ad altra dottrina (Alberto
Toffoletto, Commento alla Legge 12 novembre 2011, n. 183, già citato) per la quale il legislatore
avrebbe fallito l’obiettivo di fare salve tutte le associazioni professionali costituite in base alla legge
del 1939, se questo era il suo intento, nello scrivere il comma 9 dell’articolo 10. L’integrale
abrogazione della legge che ne prevedeva la costituzione determinerebbe la mancanza del
presupposto giuridico del patto associativo, da ricercarsi, quindi, necessariamente nella normativa
assimilabile e, segnatamente, nella normativa in tema di società semplice, con la conseguente
necessità, per tutte le associazioni professionali costituite in base alla legge del 1939, da
considerarsi a tutti gli effetti delle società semplici, di iscriversi nella sezione speciale del Registro
delle Imprese come previsto dall'art. 18 D.P.R. 7 dicembre 1995 n. 581, previa regolarizzazione e
mutamento della "ragione sociale" da studio associato (conforme alle prescrizioni della L. n.
1815/1939) in società semplice tra professionisti.
Personalmente credo che la vicenda degli Studi Professionali già esistenti al momento della entrata
in vigore della Legge 183 del 2011, sia stata chiaramente risolta dal legislatore, che fa salve le
associazioni professionali … già vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge”.
Ritenere che gli associati non possano proseguire il loro rapporto nelle forme che ad esso avevano
dato precedentemente significa, di fatto, fornire una interpretatio abrogans di tale comma. Pertanto,
mi verrebbe da dire, che così come hanno vissuto fino ad oggi al di fuori dal registro delle imprese,
potranno continuare a farlo.
L’abrogazione della Legge 1815 del 1939 crea un vuoto normativo relativo, perché essa dettava, di
fatto due sole regole: un divieto ed una previsione positiva in tema di denominazione. Abbiamo
visto che le regole di funzionamento dello Studio Associato sono il frutto dell’opera degli interpreti
ed a quei risultati potrà continuare ad attingersi, come si sarebbe fatto anche in mancanza
dell’intervento legislativo riformatore. Il venir meno del divieto determinerà che queste realtà si
troveranno ad operare su un palcoscenico occupato anche da altri soggetti, quali le nuove società tra
professionisti (ma a ben riflettere, già coesistevano, quanto meno, con le società tra avvocati,
sebbene esse abbiano avuto una scarsissima diffusione, e tra farmacisti; società di engineering e
società di revisione legale sembrano fenomeni aventi ad oggetto una prestazione più complessa e
diversa da quella tipica del professionista, che di essa pare esaurire solo una parte). L’unico dubbio
si pone, per effetto del venir meno della regola in tema di denominazione, in ordine alla possibilità,
per le realtà già esistenti, di mutare nome. Ritengo possa ipotizzarsi una ultrattività, limitatamente ai
vecchi Studi Associati, della normativa abrogata (la clausola di salvezza potrebbe cioè leggersi
come salvezza delle realtà associative in concreto e delle regole ad esse sottese). Non mi aspetto che
il problema si porrà in concreto, comunque, per l’interesse di qualunque aggregazione che si ponga
in contatto col pubblico, a conservare il proprio nome ed il patrimonio di credibilità (se non
l’avviamento, in senso lato) ad esso connesso.
Più complesso è dire se, pur dopo la abrogazione della Legge 1815 del 1939, si dia ancora la
possibilità per due o più professionisti di costituire, non la società tra professionisti di cui alla Legge
183 del 2011, ma una Associazione Professionale, secondo il paradigma per lungo tempo postosi
come esclusivo ed inaspettatamente, almeno apparentemente, bandito. Questa scelta potrebbe
rispondere ad esigenze connesse con il risparmio di costi, con desiderio di dotarsi di una struttura
più snella e non soggetta ad adempimenti pubblicitari particolari, senza vincoli alla distribuzione
infraannuale di acconti sugli utili.
Va tuttavia sempre tenuto presente che questa scelta postula che l’esercizio della attività
propriamente intellettuale resti ad appannaggio dei membri (anche tutti) della Associazione e non di
essa, in quanto ciò resta, a mio avviso, il presupposto stesso della Associazione Professionale,
mancando il quale, per una contraria volontà degli interessati, dovrebbe dirsi che questi ultimi, al di
là del nomen scelto per il loro connubio, avrebbero voluto una Società tra Professionisti di cui alla
Legge 183 del 2011 (sempre ammettendo che dette società abbiano, effettivamente, ad oggetto lo
svolgimento di attività professionale da parte dell’ente ed all’ente imputabile, dubbio di cui altri è
stato investito nel corso della presente giornata di studi e che rischia di ridimensionare la portata
epocale” della Legge 183, se risolto negativamente).
La complessità della risposta all’ultimo quesito aumenta ed il quadro diviene ancora più oscuro se si
prende in considerazione la circostanza che la formulazione originaria dell’articolo 9 non faceva
salve “le associazioni professionali” ma “i diversi modelli societari ed associativi già vigenti”
(l’attuale formulazione è il frutto della modifica apportata dal Decreto Legge 24 gennaio 2012 n.
1). Se vogliamo attribuire un significato alla modifica, dovremmo concludere che, contrariamente al
presumibile intento originario del legislatore (ed a quanto accade per le società professionali
preesistenti, di cui sono fatti salvi i modelli), per le associazioni professionali, garantita la
sopravvivenza delle aggregazioni in concreto già perfezionate e viventi, non si è inteso
salvaguardare il modello o, se si vuole, il tipo (che fa sorridere se riandiamo alla rassegna di
giurisprudenza innanzi esaminata ed alle innumerevoli volte in cui si è descritta la associazione
professionale come contratto associativo atipico).
Parte della dottrina ha tuttavia rilevato che logica vorrebbe si intendessero comunque fatti salvi i
modelli associativi astrattamente intesi, e non le sole fattispecie in concreto già costituite, così da
privilegiare una interpretazione sistematica rispetto all’interpretazione letterale, che è ormai un
lusso che il Legislatore non concede più al suo interprete. Che senso avrebbe, in presenza di una
disciplina sicuramente più liberalizzatrice, come quella dettata dall’articolo 10 della Legge 183 del
2011, considerare vietata la costituzione di fattispecie associative che, per il loro non intaccare
minimamente i connotati tipici delle attività professionali, erano consentite già vigente la legge
1815 del 1939 ? Prima, quindi, che le moderne logiche del mercato europeo cambiassero la
percezione comune del professionista, sempre più avvertito (anche dallo stesso legislatore: cfr. il
tenore della “seconda legge Bersani”) come fornitore di servizi professionali intellettuali, ormai
lontanissimo dal romano autore di operae liberales, come tali non economiche.
Personalmente ritengo che, se guardiamo alla Associazione professionale come contratto tra
professionisti, volto a dettare regole interne per disciplinare i rapporti (anche economici) tra di essi,
queste ultime conclusioni paiono scontate; d’altro canto, l’articolo 1322 codice civile, disponendo
che le parti possono anche concludere contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina
particolare, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento
giuridico, pone il principio della autonomia negoziale, che vale non solo per i contratti
sinallagmatici ma anche per i contratti associativi. E curiosamente, vigente la legge 1815 del 1939,
il contratto di associazione professionale, pure da essa espressamente contemplato, è stato passato al
vaglio dell’articolo 1322 cod. civ. dalla Giurisprudenza che, forse giustamente, già lo definiva
atipico perché non avente una disciplina particolare. Era, in effetti, un contratto nominato, più che
un contratto tipico, per quanto si tenda a considerare equivalenti le due definizioni. Mi riferisco alla
sentenza della Corte di Cassazione Civile, Sez. I, 16 aprile 1991, n. 4032 (già innanzi citata), la
quale testualmente recita: ”Il doppio controllo che il giudice deve compiere, per i contratti atipici,
ai sensi del primo e del secondo comma dell'art. 1322, codice civile, nella specie è ovviamente
limitato a quello stabilito dal primo comma: nessuno contesta, infatti, che l'associazione fra
professionisti sia «diretta a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l'ordinamento
giuridico»; e quindi il controllo del giudice è limitato al contenuto del contratto, che in via
prioritaria lo disciplina, secondo le previsioni dei patti contrattuali.
Certamente questa affermazione non può essere messa in crisi dall’entrata in vigore della Legge
183 del 2011 che, solo, sopprimendo la norma in tema di denominazione, fa del contratto di
associazione professionale un contratto “più atipico” di quanto non fosse già.
Per la individuazione degli schemi tipici ai quali guardare, per integrare le eventuali lacune pattizie,
ferma la necessità di tenere innanzitutto in considerazione l’eventuale relatio operata dalle parti,
l’interprete potrà rifarsi al “vissuto” della vecchia Associazione Professionale, che precedentemente
abbiamo esaminato: a mio avviso potrà guardarsi alle norme in tema di consorzio tra imprenditori,
senza attività esterna, o, preferibilmente, di associazione in partecipazione. Con riferimento a
quest’ultima, d’altro canto, la innanzi citata Sentenza n. 2555 del 12 marzo 1987 della Corte di
Cassazione rigetta l’accostamento dello Studio Associato con la figura di cui agli articoli 2549 e
seguenti del codice civile, praticamente solo in dipendenza della natura della attività o dell’affare
svolto, che è affare economico.
Occorre però dire che oggi, al cospetto del professionista fornitore di servizi professionali
intellettuali, questa alterità è sempre meno avvertita come “ontologica” e sempre più percepita
come frutto di una scelta di politica legislativa, dipendente da un retaggio storico, quasi come
dogma, dalla stessa Corte di Cassazione: basti pensare alla recente e notissima sentenza n. 2860 del
9 febbraio 2010, che ha affermato, nei fatti, la liceità dell'oggetto del contratto mediante il quale si
trasferisce a titolo oneroso uno studio professionale, sia pure dopo l'affermazione di principio che
non si può normalmente equiparare ad un'azienda - ove la persona dell'imprenditore ha bensì
rilevanza, ma non essenziale - uno studio professionale, nel cui esercizio è elemento di gran lunga
preponderante l'attività personale del professionista, le cui capacità, attività e considerazione
professionale prevalgono sull'organizzazione dei beni materiali e anche sui beni immateriali
rappresentati dal nome, dall'avviamento, dalla clientela. E nella stessa sentenza si legge
che
accanto al permanere dei tradizionali principi della fiduciarietà del rapporto e della personalità
della prestazione, si assiste al superamento della considerazione dell'opera intellettuale come
irrelata
dal
momento
organizzativo,
tenuto
conto
delle
nuove
tendenze
verso
la
commercializzazione, la specializzazione e la socializzazione.
Nonostante quanto sopra detto a proposito della necessità di fornire una interpretazione sistematica
delle norme, che tenga conto anche dell’evoluzione dell’ordinamento, dopo l’abrogazione
dell’articolo 1 della Legge 1815 del 1939, personalmente mi riesce più difficile configurare un
neocostituendo Studio Associato come autonomo soggetto di diritti, dotato di un suo patrimonio, e
rappresentante (al di là della possibilità di attingere alle norme per esse dettate, in via di
interpretazione analogica) figura distinta dalle associazioni del libro primo o dalla società semplice
(perché in caso di identificazione con una di queste figure, il dubbio non avrebbe ragione di porsi).
Queste personali difficoltà nascono dagli insegnamenti del mio manuale di diritto commerciale, che
spero di non aver frainteso, a proposito delle società atipiche, che sono vietate, come si desume
dal’articolo 2249 codice civile (Le società che hanno per oggetto l'esercizio di un'attività
commerciale devono costituirsi secondo uno dei tipi regolati nei capi III e seguenti di questo titolo.
Le società che hanno per oggetto l'esercizio di un'attività diversa sono regolate dalle disposizioni
sulla società semplice, a meno che i soci abbiano voluto costituire la società secondo uno degli altri
tipi regolati nei capi III e seguenti di questo titolo. Sono salve le disposizioni riguardanti le società
cooperative e quelle delle leggi speciali che per l'esercizio di particolari categorie d'imprese
prescrivono la costituzione della società secondo un determinato tipo).
La ratio del divieto riposa nel fatto che il contratto di società è necessariamente destinato a
spiegare i propri effetti non solo tra le parti ma anche nei confronti dei terzi (così G.F.
Campobasso, nel manuale Diritto Commerciale 2 – Diritto delle società).
Ferma restando la possibilità di dar vita, ancora oggi, al contratto (direi “interno”) di Associazione
Professionale, eventualmente affiancando ad esso una società di mezzi, sono incline a pensare che
esigenze di tutela dei terzi e di ordinato svolgimento della vita economica analoghe a quelle che
sbarrano la strada alle società atipiche, possano venire in rilievo anche di fronte ad un ente atipico,
pur se non di natura societaria, quale sarebbe l’ente studio professionale associato, post-abrogazione
della Legge 1815 del 1939, con la conseguente limitazione della operatività del primo comma
dell’art. 1322 codice civile (e della autonomina negoziale da esso riconosciuta alle parti).
Ciò salvo interpretare la regola di cui al comma 11 dell’articolo 10 della Legge 183 del 2011 come
se il legislatore si fosse limitato ad espungere dall’articolo 1 della Legge 1815 del 1939, solo
l’avverbio “esclusivamente” (interpretazione proposta da Carlo Ibba, Le societa' tra professionisti:
ancora una falsa partenza ?, cit).