L`Italia e la prospettiva dell`ampliamento

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L`Italia e la prospettiva dell`ampliamento
SEMINARI EUROPEI, 2
L'AMPLIAMENTO DELL'UNIONE:
PER UNA RIFLESSIONE SULLE CONSEGUENZE ECONOM ICHE PER L'ITALIA
FONDAZIONE GIOVANNI AGNELLI - TORINO, 6 MARZO 2002
L'Italia e l’ampliamento dell’Unione Europea1
Antonio G. Calafati
Università di Ancona e Università Friedrich Schiller, Jena
Sommario
1. Introduzione
2. L'ampliamento dell'Unione Europea e i suoi effetti
3. L'Europa dimenticata
4. Geografia dell'ampliamento: spazio e territorio in Europa
5. L'integrazione economica dell'Europa
6. L'ampliamento e le politiche strutturali dell'Unione
7. La costruzione economica dell'Europa
8. Scenari europei
9. Scenari italiani: l'Italia e l'ampliamento della UE
Riferimenti bibliografici
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Il testo costituisce una versione riveduta e integrata dall’autore dell’intervento presentato nel corso
del seminario.
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1.
Introduzione*
L’ampliamento dell’Unione Europea, imposto dalla fine della divisione politica
dell’Europa simbolizzata dalla caduta del Muro di Berlino (1989) ed avviato con il
Trattato di Maastricht (1991), sta conducendo ad una profonda trasformazione
dell’Unione Europea – che ne cambierà radicalmente il carattere. Quale sia l’esito di
questo cambiamento non è affatto scontato: vi è una rete di possibili sentieri che il
processo di trasformazione potrà seguire e non è chiaro quale effettivamente verrà
percorso. La profonda trasformazione del Progetto europeo richiesta dall’entrata
nell’Unione dei paesi dell’Europa Centrale e Orientale è in effetti già iniziata, benché
non ve ne sia un’ampia consapevolezza nel discorso pubblico – come è sempre accaduto
per gran parte delle trasformazioni che hanno segnato la costruzione economica e
politica dell’Unione Europea. Le implicazioni delle trasformazioni istituzionali iniziano
tuttavia ad apparire evidenti e nei prossimi anni esse saranno un aspetto centrale del
discorso pubblico nei singoli Stati europei.
Non si può affermare che il carattere profondamente e inevitabilmente politico di
questo tema non sia riconosciuto. La discussione su questo punto si sta già svolgendo –
in parte, certo, per il suo fascino culturale, ma anche per la straordinaria importanza
politica e geo-politica delle scelte che si prenderanno. Tuttavia, è un fatto che il tema
dei «confini dell’Europa» – e della struttura di governance che all’interno di questi
confini dovrebbe operare – viene discusso da una limitata minoranza all’interno delle
elité di ciascun paese europeo, sullo sfondo di un dis-interesse della opinione pubblica
*
Non avrei scritto questo saggio se la Fondazione Giovanni Agnelli, che colgo l’occasione per
ringraziare, non mi avesse stimolato a farlo. Non l’avrei scritto in questo modo se non mi avesse costretto
ad un confronto costante con i vincoli della chiarezza espositiva e della rilevanza.
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che oggi è considerato uno dei problemi più spinosi del Progetto europeo2. La rapida
formazione di una «opinione pubblica europea» sembra essere un compito
semplicemente impossibile – anche per la straordinaria complessità, e in molti casi
astrusità, del linguaggio necessario per dibattere i temi europei. Su quale base condurre
una discussione sul Nuovo progetto europeo, quindi, se non attraverso una
rappresentazione degli interessi nazionali, per i quali una opinione pubblica sembra
ancora esistere?
La discussione sugli effetti dell’ampliamento sembra quindi limitata da due fattori
opposti. Da una parte, la normalità delle procedure amministrative che conduce
all’adesione non sembra meritare una discussione e una attenzione; dall’altra, la
eccezionalità del tema della «definizione dei confini e della struttura dell’Unione
Europea», implicito nel progetto di ampliamento, fa sì che esso difficilmente possa
entrare in modo consapevole e informato – e, soprattutto, in termini operativi – nel
discorso politico nazionale.
Gli effetti dell’ampliamento dell’Unione Europea sull’economia dell’Italia – più
precisamente, gli effetti delle trasformazioni istituzionali - è il tema centrale di questo
saggio. Per diverse ragioni – storiche e geografiche in primo luogo – l’Italia è uno dei
paesi dell’Unione Europea nel quale le conseguenze dell’ampliamento saranno più
profonde. Qualunque sia il Nuovo progetto europeo che emergerà, tra quelli oggi
presenti nell’immaginario politico e intellettuale, l’Italia perde, nel dissolversi del
progetto europeo originario, l’ancoraggio che per alcuni decenni aveva costituito lo
standard del processo di modernizzazione del paese. Tuttavia, si ritrova ad avere un
ruolo nella geopolitica e una responsabilità morale – oltre che una posizione di primo
piano nel nuovo sistema delle relazioni economiche.
Nella nuova geografia europea l’Italia ha assunto una fondamentale posizione di
cesura territoriale, con gli effetti economici che ne derivano, le responsabilità politiche
che ne conseguono – e, certo, i vincoli morali che nascono dall’avere ai confini l’area
più povera e politicamente instabile d’Europa. L’ampliamento dell’Unione è quindi per
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Non è casuale che il problema della legittimità politica dell’Unione Europea e, in particolare, del
Progetto Europeo sia esploso dopo il trattato di Maastricht – con il quale il progetto di ampliamento è
stato proposto. Ma, qualsiasi risposta alla questione istituzionale richiede una concezione dell’Unione
Europea che non può essere derivata per estensione, per incrementi – come è accaduto finora – a partire
dall’assetto istituzionale previsto nel trattato di Roma.
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l’Italia un tema molto importante, molto di più di quanto non lo sia per qualsiasi altro
stato europeo – ad eccezione della Germania, naturalmente.
Porsi la domanda delle conseguenze economiche dell’ampliamento per l’Italia
implica di per sé considerare scontato che lo stato-nazione sia, come livello di decisione
e valutazione degli effetti delle politiche, un livello di analisi saliente nel processo di
integrazione politica ed economica dell’Europa. In effetti, l’Unione Europea è un
progetto che si fonda soprattutto sugli stati nazionali e non ci sono ragioni per ritenere
che non sarà ancora così nei prossimi anni – anche se il ruolo degli stati nazionali nel
sistema di regolazione europeo verrà ridiscusso e subirà certamente un cambiamento.
L’obiettivo di questo saggio è comporre un quadro categoriale per cercare di
rispondere alla domanda che è alla sua origine – appunto: quali sono le conseguenze
economiche per l’Italia dall’ampliamento dell’Unione? Si tratta di una esplorazione, da
una prospettiva sistemica, degli effetti che i processi messi in moto dall’ampliamento
stanno producendo in Europa e, specificatamente, in Italia. Naturalmente, molte delle
conseguenze economiche sono prodotte indirettamente da cambiamenti istituzionali –
oltre che direttamente da cause economiche. Piuttosto che suggerire, ciò costringe a
condurre l’esplorazione da una prospettiva transdisciplinare – per quanto l’obiettivo
resti, comunque, l’analisi delle conseguenze economiche dell’ampliamento.
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2. L’ampliamento dell’Unione Europea e i suoi effetti
2.1 Introduzione
L’espressione «ampliamento dell’Unione Europea» sembra rimandare ad un
problema di carattere tecnico che nasce da un obiettivo politico di per sé scontato. E in
questo modo è, in genere, interpretata nella discussione pubblica. In effetti,
l’ampliamento è avvenuto fino ad oggi attraverso delle procedure amministrative e di
decisione politica che, sullo sfondo di un obiettivo definito, sembrano garantire la
soluzione del problema. Tuttavia, se esaminata con maggiore attenzione, l’espressione
«ampliamento dell’Unione Europea» rivela una pluralità di significati e una complessità
inaspettati. Complessità che comincia ora a manifestarsi nelle sue implicazioni politiche
e istituzionali. In effetti, le procedure sin qui seguite hanno di fatto posposto le decisioni
sui problemi fondamentali sollevati all’integrazione istituzionale dell’Europa centrale e
orientale, decisioni che ora si presentano, simultaneamente, per quello che sono: un
momento di passaggio decisivo nel «processo di costruzione dell’Europa», dagli esiti
indeterminati.
2.2 L’ampliamento come insieme di processi
Il processo di ampliamento può dirsi iniziato con la caduta del Muro di Berlino. Sono
trascorsi circa dodici anni da questo evento, certo un tempo non breve misurato con la
metrica dell’economia e della politica economica. Durante questo tempo l’ampliamento
dell’Unione ha seguito il suo corso attraverso almeno tre processi distinti. In primo
luogo, si è avuto un processo di trasformazione istituzionale – o transizione
istituzionale, se si preferisce – dei paesi candidati (che include anche un progressivo
aumento del numero dei paesi candidati). Si è trattato di una transizione istituzionale
che ha avuto il carattere della convergenza, almeno come obiettivo, verso il modello di
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economia di mercato che l’Unione Europea ha definito in questi anni. Ed anche verso il
modello di democrazia politica che ha costituito l’ancoraggio del progetto europeo3.
Ma questo processo – più lento e difficile di quanto si pensasse all’inizio – verso lo
stesso modello di società in Europa si è accompagnato ad un più prosaico ma altrettanto
importante processo di integrazione sociale dell’Europa. In questi dieci anni si sono
costruite – o riattivate – delle interfacce di comunicazione tra i paesi europei, le quali
hanno permesso di aumentare velocemente la scala e la varietà dei flussi di risorse e
informazioni tra individui e imprese in Europa. Si sono ricostituite subito, prima, molto
prima che la trasformazione istituzionale dei paesi dell’Europa Centrale e Orientale
andasse oltre la soglia che permette di chiamarle «economie di mercato» o oltre la
soglia, non ancora raggiunta, che permetterebbe l’entrata nell’Unione.
La densità delle relazioni sociali – economiche e di altra natura – ha un significato in
sé, distinto dal fatto che il suo formarsi è un aspetto del processo che condurrà questi
paesi nell’Unione. Sul piano logico, l’integrazione sociale che si sta realizzando
potrebbe non condurre all’entrata nell’Unione – ma, comunque, ha prodotto i suoi effetti
prima dell’ampliamento in senso istituzionale.
Il termine «ampliamento dell’Unione Europea» rimanda ancora ad un altro processo
– che è quello sul quale stiamo tutti spostando l’attenzione: la trasformazione
dell’Unione Europea. Si tratta di un processo che ora inizia a prendere forma. L’Unione
Europea così come è oggi non può reggere alla scala e alla natura dei problemi che
l’ampliamento introduce – dell’ampliamento come si è andato configurando negli ultimi
anni, via via che il numero dei paesi candidati continuava ad aumentare e l’illusione che
ci si potesse fermare alla Polonia, alla Repubblica Ceca e all’Ungheria svaniva. Via via
che diventava, inoltre, sempre più chiaro che i paesi candidati devono includere anche i
paesi dell’area dei Balcani, perché è insostenibile moralmente prima che socialmente la
presenza di un enclave entro i confini dell’Unione. (E questa insostenibilità farà
precipitare la situazione come è successo per la Romania e la Bulgaria, che sembravano
lontani dall’Unione Europea solo alcuni anni fa e che ora sono saldamente nella lista dei
«paesi candidati»).
Sono, dunque, almeno tre i processi che il termine «ampliamento dell’Unione
Europea» contiene. Il primo – l’adeguamento istituzionale dei paesi candidati – è in
parte concluso per ammissione della Commissione Europea. Il secondo – l’integrazione
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Un aspetto di questo processo è l’emergere e consolidarsi di forme di cooperazione – in sostanza di
aiuto – tra l’Unione Europea e i paesi dell’Europa Centrale e Orientale.
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sociale dell’Europa – può considerarsi molto avanzato. Il terzo – la trasformazione della
struttura istituzionale dell’Unione Europea – è invece appena iniziato, senza che vi sia
ancora un progetto di cambiamento ben delineato.
2.3 Gli effetti dell’ampliamento
Di cosa parliamo, dunque, quando parliamo di «effetti dell’ampliamento dell’Unione
sull’Italia»? Certamente di due cose molte diverse. In primo luogo, degli effetti del
processo di integrazione sociale in Europa che si è avuto nell’ultimo decennio via via
che le interfacce di comunicazione tra i paesi europei si ricreavano e la logica della
prossimità tornava ad essere un vincolo. Secondariamente, degli effetti che la nuova
configurazione delle relazioni istituzionali in Europa – il «nuovo progetto europeo» –
avrà sul sentiero di sviluppo economico e sociale dei paesi europei e dell’Italia nel
prossimo decennio e oltre. Naturalmente, è necessario riflettere su entrambi questi due
livelli di analisi, tenendoli distinti quando necessario e cogliendone l’ interdipendenza
tra di essi – interdipendenza che è uno dei fattori di evoluzione del «progetto europeo».
In attesa che una decisione formale ratifichi la nascita della nuova Unione Europea –
più grande e con una diversa configurazione istituzionale – l’integrazione sociale
produce i suoi effetti economici e non economici. Un attimo dopo la caduta del Muro di
Berlino è iniziato il processo di integrazione in Europa – tanto più rapido proprio per
quanto era stato innaturalmente impedito per trenta anni. Si tratta di un processo di
integrazione che modifica profondamente gli equilibri territoriali, aggiungendo al
Progetto Europeo una dimensione centro-orientale ad una meridionale – ponendo
l’Italia, alla mercé della sua geografia e della sua storia, in una posizione di cesura per
essa nuova. Le conseguenze di questa integrazione non sono state esplorate in Italia e
non hanno una posizione prominente nella discussione pubblica. Ma gli effetti
dell’integrazione sociale si stanno producendo e richiedono una elaborazione nazionale
prima e oltre il fatto istituzionale dell’entrata dei paesi candidati.
Classificato come questione tecnica e procedurale, da affidare alla negoziazione
bilaterale – Unione Europea e paese candidato – nel quadro di ogni singolo «accordo di
associazione», l’ampliamento non è stato neanche discusso nei suoi effetti economici
indiretti, ovvero per le conseguenze economiche che esso avrà imponendo una modifica
della struttura istituzionale dell’Unione. Il fatto è che l’analisi degli effetti indiretti
dell’ampliamento dell’Unione Europea non può essere allo stato attuale ancorata ad un
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«nuovo progetto europeo» – poiché è un progetto che non c’è, non è delineato e neanche
è in elaborazione. Da questo punto di vista si è in una fase di attesa.
D’altra parte, nell’ultimo decennio, l’Unione Europea è stata concentrata sul
processo che ha condotto alla moneta unica, impegnata a metabolizzare le misure di
politica economica imposte dal Trattato di Maastricht ed ha allontanato, finché ha
potuto, il momento di contemplare le implicazioni istituzionali dell’ampliamento –
passo obbligato moralmente ineludibile, per motivi geografici naturale. Tuttavia,
allontanando il momento della decisione ha dilatato le attese e la lista dei paesi candidati
– oltre ad aver dato il tempo al formarsi di densità relazionali così forti da lasciare poche
alternative. Ed ora l’Unione si trova di fronte ad un passaggio decisivo della sua storia,
con (almeno) 15 paesi – considerando, necessariamente, anche i paesi della exYugoslavia (e non includendo Cipro, Turchia e Malta) – sulla soglia dell’Unione
Europea. Ed è difficile pensare di poter evitare un profondo cambiamento istituzionale.
Nel discutere gli effetti di possibili declinazioni del «nuovo progetto europeo» si
conduce, di fatto, una valutazione ex-ante che alimenta la discussione pubblica e le
posizioni su tale progetto in ambito nazionale. In effetti, mentre si può discutere ex-post
degli effetti della ri-costituzione di uno spazio economico europeo, siamo costretti a
discutere ex-ante delle implicazioni dell’ampliamento dell’Unione Europea e così
facendo si contribuisce al processo di elaborazione stesso del «nuovo progetto
europeo». A questo livello non ci sono effetti da derivare ed esplicitare, bensì un
progetto da costruire valutando scenari e proiettandoli sullo sfondo di una visione
politica da articolare.
Nella configurazione di relazioni economiche (e politiche) che si è consolidata in
Europa a partire dal Trattato di Roma, l’Italia ha potuto sviluppare – almeno così
sembra o si ritiene – un’efficace strategia di sviluppo economico e di modernizzazione
sociale (anche se una valutazione critica di queste affermazioni andrebbe condotta).
Chiedersi che cosa cambierà come conseguenza della nuova configurazione che si
annuncia è dunque una domanda pertinente.
2.4 Tempo storico e tempo logico
C’è un’altra prospettiva che è necessario introdurre per provare a rispondere alla
domanda sugli effetti dell’ampliamento dell’Unione: l’ampliamento si svolge nel tempo
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storico e non nel tempo logico. Lungo l’arco di questi dodici anni che ci separano dalla
caduta del Muro di Berlino, mentre i processi sopra richiamati si svolgevano, sono
accaduti dei «fatti rilevanti» di cui dobbiamo tenere conto per l’influenza che essi hanno
avuto sulla funzionalità della struttura istituzionale dell’Unione Europea. In effetti, non
è soltanto l’ampliamento a mettere in discussione la struttura dell’Unione e a
richiederne una riforma.
Ci sono almeno due tipologie di fattori che mettono in discussione la funzionalità
dell’Unione rispetto agli obiettivi che essa si prefigge – essi stessi mutevoli.
Innanzitutto, vi sono fattori esterni: la dinamica sociale – economica, politica (altri
livelli di governo e società civile) e culturale – che segue il suo percorso. In secondo
luogo, vi sono fattori che possiamo chiamare interni: disequilibri della struttura
istituzionale che si alimentano nel tempo generando domande di cambiamento, come in
ogni sistema complesso.
La dinamica sociale costituisce un ancoraggio nell’analisi. Se l’Unione Europea è
una unione di «Stati e cittadini» significa che è aperta ai cambiamenti che avvengono a
livello di Stati e di cittadini. Se il «progetto europeo» è anche un progetto di Stati
nazionali, è difficile immaginare che la storia di questi anni recenti non abbia
modificato la costellazione di interessi nazionali che muove la politica dei paesi europei
e che questa nuova costellazione di interessi trovi nella attuale struttura istituzionale
dell’Unione Europea uno strumento efficace e politicamente legittimato di
composizione. Se l’Unione Europea è anche una unione di cittadini, è difficile credere
che in questi anni non siano cambiate rappresentazioni del mondo, visioni, modelli
interpretativi, economie. In questi anni, la storia «è finita» e poi «è ricominciata». È
difficile ritenere che quanto è accaduto in questo periodo di tempo non abbia
influenzato la funzionalità della struttura istituzionale dell’Unione Europea.
Ma per comprendere i fattori causali della dinamica istituzionale dell’Unione si deve
anche aggiungere che l’Unione Europea ha come ogni altra organizzazione una
dinamica endogena. Proprio per la sua natura, è un sistema istituzionale costantemente
in dis-equilibrio in cui i cambiamenti, sempre parziali, retroagiscono, con un ritardo
temporale difficile da determinare a priori, su altre parti del sistema rendendole obsolete
e avviando in questo modo un processo di revisione. La moneta unica è stata introdotta
senza effettuare contestualmente tutti i cambiamenti necessari per la sua gestione – ad
esempio, predisponendo procedure che garantiscano la legittimità politica delle scelte
della Banca Europea. Ed ora l’esistenza della moneta unica richiede alcuni cambiamenti
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istituzionali. Molti dei cambiamenti che sono oggi in agenda sono l’effetto ritardato – e
spesso non anticipato – di cambiamenti introdotti alcuni anni fa ma che solo ora fanno
apparire obsolete altre parti dell’edificio.
2.5 Conclusioni
Il «nuovo progetto europeo», reso necessario dall’obiettivo – meglio sarebbe dire dal
vincolo – dell’ampliamento, assumerà una forma che non dipenderà soltanto dal tipo di
soluzioni che verranno date ai problemi che l’entrata di 15 nuovi paesi solleva.
L’ampliamento istituzionale dell’Unione è un passaggio complesso, in una intersezione
di processi che vanno ben oltre quelli avviati dall’ampliamento stesso dell’Unione.
L’ampliamento costringere ad aprire la porta in un momento in cui si affollano una
costellazione di problemi che si sono accumulati in questi dieci anni all’interno e
all’esterno del «sistema europeo» e che sono in attesa di una soluzione da trovare,
appunto, in una nuova configurazione istituzionale, la quale deve avere un carattere
generale e per questo, quindi, assume il significato di una ri-fondazione.
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3. L’Europa dimenticata
3.1 L’ampliamento dell’Unione Europea come vincolo
L’ampliamento è inevitabile – non solo l’ampliamento limitato agli attuali paesi
candidati ma quello che includerà tutti i Balcani. Inevitabile perché l’integrazione
sociale ed economica dello spazio europeo non più diviso non poteva e non può essere
fermata. Nella discussione pubblica si tende spesso ad invertire la sequenza causale e a
ritenere la decisione politica di ampliare l’Unione Europea come una opzione originaria.
In verità, in Europa non c’è alcuna possibilità di sfuggire alle ragioni della prossimità
(alle ragioni della geografia, se si vuole) – se non affidandosi ad una divisione politicomilitare come quella che si è avuta tra il 1945 e il 1989 – e che nel 1960, con la
costruzione del Muro di Berlino, ha assunto una forma simbolicamente esasperata.
Il semplice ristabilirsi di relazioni normali tra Stati – come quelle che si sono ristabilite negli ultimi dieci anni e che consentono una libertà minima di effettuare
transazioni di merci e informazione – ha determinato la rapida ricostituzione di estese
densità relazionali. Sullo sfondo di questa integrazione non-istituzionale, anche se
l’Unione Europea non si fosse posta la questione dell’ampliamento, avrebbe dovuto
porsi il problema di governare – in qualche altra forma – l’accresciuta interdipendenza
nel nuovo spazio europeo. Non una generica, localizzata e magari artificiale
integrazione, bensì una integrazione sociale radicata nella geografia e nella storia
d’Europa. L’Europa Centrale e Orientale è innervata nel territorio europeo molto di più
di quanto non lo siano altre parti d’Europa.
C’è un’altra ragione, collegata alla precedente, che rende l’ampliamento istituzionale
inevitabile. Essa consiste nelle caratteristiche socio-economiche di questi paesi: i paesi
dell’Europa Centrale e Sud-orientale hanno dimensioni molto ridotte, con l’eccezione
della Polonia (e della Romania). Molti di essi non hanno neppure la dimensione delle
grandi regioni italiane o tedesche. Sono Stati che non possono in alcun modo
partecipare al «gioco economico» europeo o mondiale. Se non ci fossero stati gli
investimenti diretti della Germania (e, in parte molto inferiore, dell’Italia), come
avrebbero potuto finanziare il disavanzo delle partire correnti in questo difficile
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decennio di transizione? Come avrebbero potuto tenere – o potrebbero tenere in futuro –
sotto controllo il loro tasso di cambio? La stabilità macroeconomica di questi paesi è la
conseguenza di forme di tutoraggio macroeconomico da parte dei paesi dell’Unione,
soprattutto della Germania.
L’ampliamento dell’Unione ai paesi dell’Europa Centrale è parso subito un atto
dovuto – a quei paesi e alla stessa Germania. Ma, ad un certo punto, l’ampliamento al
resto dell’Europa Orientale e Sud-orientale è stato percepito come la modalità più
semplice per dare una cornice istituzionale ai problemi posti dalla integrazione sociale
che si stava realizzando in Europa4.
Se da economisti (ma non solo) si guarda all’Europa – non all’Unione Europea bensì,
appunto, all’Europa, per quanto indeterminati i suoi confini possano essere –, ciò che si
vede è l’evidente manifestazione del valore causale della prossimità, è una densità di
relazioni economiche che si manifesta lungo un gradiente geografico che misura uno
spazio europeo. Ma, in termini dinamici, ciò che si vede è anche uno spazio di blending.
Poiché la prossimità e la storia hanno le loro ragioni, la semplice apertura dello
spazio europeo con o senza ampliamento sta modificando gli equilibri economicoterritoriali in Europa. Per l’Italia – forse quanto la Germania e, comunque, più che per
qualsiasi altro paese dell’Unione – la «riscoperta della geografia dell’Europa»
costituisce un vincolo e una possibilità ineludibili e importanti.
Poiché l’ampliamento dell’Unione Europea è destinato ad avere effetti così profondi
– certo anticipati – ci si può chiedere per quale ragione esso sia stato avviato con tanta
straordinaria rapidità e senza un’aperta discussione sui vantaggi e svantaggi – ai diversi
livelli – delle trasformazioni che avrebbe comportato. In effetti, le radici
dell’ampliamento, prima che in un calcolo – economico o politico –, sono essere
profondamente radicate nella storia recente dell’Europa centrale e orientale. Esse sono
anche radicate nella natura dei problemi economici che avevano caratterizzato le
economie di questi paesi negli anni Ottanta.
Non vi era alcuna alternativa ad un rapido processo di integrazione economica e
civile dell’Europa centrale e orientale con il resto dell’Europa. Se si considera
l’ampliamento dell’Unione Europea come la necessaria risposta istituzionale e politica
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Inutile sottolineare che non ci sono soltanto «problemi economici» ma anche politici a suggerire
l’ampliamento: i temi dei confini e delle minoranze nell’Europa centrale e orientale hanno così segnato la
storia europea di questo secolo da rendere superflua ogni giustificazione per politiche che eliminino ogni
potenziale conflitto.
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all’integrazione sociale non vi era dunque alternativa ad essa. Con la dissoluzione del
Blocco Sovietico, l’ampliamento è diventato una urgenza assoluta – e ciò spiega la
rapidità con cui è stato avviato a partire dall’entrata della Germania orientale
nell’Unione Europea avvenuta nel 1990 effetto della unificazione tedesca. Nel 1989 si
ha la richiesta dell’Austria, che entra a far parte dell’Unione nel 1995, nello stesso anno
della Finlandia (la quale aveva chiesto di aderire solo nel 1992) e della Svezia (che
avevo chiesto di aderire nel 1991).
Innanzitutto, avviare le procedure di ampliamento ha significato, anche nel nuovo
ordine europeo, riconoscere e accettare i confini degli stati dell’Europa centrale e
orientale – chiudendo, prima che potesse riaprirsi, la «questione orientale» in Europa5.
Secondariamente, ha significato ritrovare l’identità europea, tema intorno al quale una
parte importante delle élite dei paesi della «Europa dell’Est» aveva costruito la propria
strategia di opposizione. In terzo luogo, l’ampliamento è stato la risposta istituzionale
ad un processo di integrazione economica necessario per il fondamentale obiettivo della
modernizzazione delle economie dei paesi dell’ex-Blocco sovietico (proprio la fallita
modernizzazione degli anni Ottanta aveva aperto la strada al crollo di questi regimi
politici).
3.2 La «Questione orientale»
Uno degli effetti collaterali dell’esistenza del Blocco sovietico è stato la rimozione,
per cinque decenni, del tema dei «confini dell’Europa» e dei confini all’interno
dell’Europa. Le aree di confine che in Europa nell’ultimo secolo si sono dimostrate più
problematiche – o, semplicemente, intrattabili – sono ricadute per mezzo secolo nel
Blocco sovietico, il quale si era dimostrato capace di congelare il problema dei confini
interni dell’Europa centrale e orientale. Il Blocco sovietico ha congelato la «Questione
orientale» – che fino al transitorio dominio della Germania negli anni Trenta era stata
una fonte continua di conflitto in questo secolo. Essa è riemersa come tale dopo la
dissoluzione del Patto di Varsavia: drammaticamente nei Balcani e, invece, in forme
pacifiche e negoziate in Europa centrale.
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Naturalmente, come è evidente, soltanto una parte della «questione orientale» è stata affrontata con
tempestività. La sorte dei Balcani è stata diversa: questa area è oggi la più lontana dall’Europa.
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L’area cui si fa riferimento con l’espressione Europa centrale e orientale (che
contiene l’Europa sud-orientale o danubiana) ha costituito il maggiore teatro
dell’esperimento hitleriano del Nuovo Ordine Europeo (Mazower, Dark Continent
1999). È stata anche il teatro nel quale l’insostenibilità politica (e poi morale) del Nuovo
Ordine proposto dalla Germania è esplosa. Il progetto hitleriano si fondava, da una
parte, sul concetto di stato-nazione nella sua più stretta connotazione etnica e, dall’altra,
su una concezione razziale delle relazioni tra gli stati. Infine, esso faceva perno sulla
creazione di un Grossraum tedesco. Come è noto, una delle implicazioni pratiche del
progetto hitleriano era la «ristrutturazione etnografica» di questa parte dell’Europa –
una ricollocazione geografica di popolazioni ed etnie di dimensioni forse mai
realizzatisi nella storia.
Uno degli aspetti più paradossali del progetto hitleriano consisteva nel fatto che
avrebbe dovuto realizzarsi nella parte d’Europa etnograficamente più complessa. Su
questo sfondo, il Nuovo Ordine sarebbe dovuto apparire come praticamente
irrealizzabile anche a chi lo ritenesse – come il governo della Germania di quegli anni –
moralmente accettabile.
Il fallimento del progetto hitleriano ha lasciato l’Europa centrale e orientale in una
situazione politica in cui lo stato-nazione non aveva comunque un fondamento politico.
La straordinaria e drammatica «semplificazione etnografica» avvenuta subito dopo la
seconda guerra mondiale – circa 12 milioni di tedeschi espulsi dall’Europa centrale e
orientale – non ha completamente cancellato la complessità sociale e politica di queste
aree. Ha certo rafforzato, in questa parte d’Europa, gli stati-nazione ma non ha
definitivamente chiuso i conflitti creati dal progetto hitleriano e dal concetto di statonazione impostosi comunque. Senza il dominio dell’Unione Sovietica, questo problema
sarebbe esploso già negli anni Cinquanta o Sessanta. È invece rimasto praticamente
congelato fino al 1989, fino alla caduta del Muro di Berlino e alla unificazione della
Germania.
La unificazione della Germania e l’entrata dell’Austria – a lungo ritardata – hanno
riaperto, anche se in forme nuove, la «questione orientale» in Europa. Il confine
orientale della Germania unificata è subito apparso, nella sua labilità culturale e assenza
di radici nella storia, come problematico – anche se immodificabile. Altrettanto
problematici apparivano i confini dell’Austria. Non è casuale che il tema
dell’ampliamento sia stato immediatamente sviluppato con riferimento all’Europa
centrale e che sia stata la Germania ad assumerne la guida. Il riconoscimento dei
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confini stabiliti dopo la seconda guerra mondiale – ri-emersi dopo il dissolvimento del
Blocco sovietico – e il progetto di ampliamento ad est dell’Unione Europea sono stati
due facce dello stesso inevitabile processo.
3.3 L’Europa dimenticata
Uno dei temi più ricorrenti del discorso politico e culturale degli ultimi decenni è
stato quello dell’Europa centrale e orientale come parte integrante dell’Europa. Il tema
della «Europa dimenticata» ha costituito una costante nella riflessione sulla divisione
politica (economica e sociale) avvenuta in seguito alla Guerra Fredda. Nel periodo della
Guerra Fredda, le élite intellettuali dei paesi dell’Europa centrale e orientale hanno
costantemente guardato al Progetto Europeo come ad un progetto incompiuto proprio
perché la loro parte d’Europa non era compresa nell’Unione che si stava formando.
Non può stupire, quindi, che « (…) the newly liberated east Europeans had one dream:
nervous of being left alone, they could hardly wait to ‘rejoin Europe’.» (Mazower cit.,
p. 391).
Il tema dell’identità europea ha costituito l’ancoraggio della discussione condotta per
tutto il periodo della Guerra Fredda sulla insostenibilità della divisione dell’Europa. Il
Trattato di Roma, mai messo in discussione su questo punto, permetteva a qualsiasi
paese europeo – senza che vi fosse un chiaro criterio di discriminazione – di chiedere di
aderire all’Unione. Sullo sfondo della rappresentazione che le élite culturali e politiche
avevano dei propri paesi – per altro difficile da non condividere –, la richiesta di
adesione era nelle cose. Si potrebbe dire che era nella storia, nella geografia
innanzitutto. Naturalmente, l’Unione Europea avrebbe potuto – come in qualche misura
ha fatto e continua a fare – rallentare il processo di adesione. I paesi attualmente
«candidati» hanno richiesto l’adesione tra il 1994 (Ungheria e Polonia) e il 1996
(Slovenia e Repubblica Ceca)6. La Polonia, che dovrebbe essere il primo paese ad
entrare nell’Unione, potrebbe farlo nel 2006. Per gli altri paesi è difficile fare una
previsione sulla data d’entrata.
La lunghezza dei tempi di accesso riflette molti fattori: i necessari (e come
sottolineato ancora indeterminati) cambiamenti nella configurazione istituzionale
dell’Unione Europea; la distanza tra l’assetto istituzionale ed economico di questi paesi
6
Tutti gli altri paesi l’hanno chiesta nel 1995.
15
e quello dell’Unione Europea (le difficoltà del processo di transizione) ed altro ancora.
Ma impedire l’adesione non avrebbe avuto un fondamento giuridico oltre che storico e
morale. Così come sospendere il processo potrebbe avvenire solo sulla base di un
giudizio negativo sulle trasformazioni dell’assetto istituzionale in corso di questi paesi –
e certo non in considerazione delle difficoltà dell’Unione Europea.
3.4 La modernizzazione delle economie dell’Europa centrale e orientale
Oltre alle ragioni politiche di stabilizzazione delle relazioni in Europa e a quelle
culturali profondamente radicate nella storia europea, i paesi dell’Europa centrale e
orientale avevano una urgenza assoluta di integrarsi con i paesi dell’Europa occidentale
per ragioni economiche molto dirette.
La più importante di queste ragioni era l’incremento di benessere immediato che
l’aumento degli scambi commerciali con l’Europa occidentale avrebbe determinato
sulla qualità dei consumi – a partire dagli anni Settanta una delle cause più importanti
della perdita di legittimità politica dei regimi comunisti. Il ritardo che i paesi ad
economie pianificate avevano accumulato nel settore del consumo era maggiore di
quello che avevano accumulato in quello della produzione di base.
La transizione verso un nuovo assetto istituzionale e politico ha determinato una
profonda crisi economica in questi paesi. Allo stesso tempo, tuttavia, il ri-orientamento
delle relazioni commerciali, per quanto drammatico nei suoi effetti di breve periodo, ha
aperto la strada alla modernizzazione del processo economico che sarebbe stata
inattuabile senza tale ri-orientamento. Soprattutto, ha permesso un rapido aumento del
benessere.
L’esportazione di prodotti nel settore della meccanica di base in Germania o in Italia
e l’importazione da questi paesi di beni di consumo hanno significato un aumento
immediato nella qualità del processo di consumo7. Il ri-orientamento degli scambi
commerciali è subito apparso – e, in effetti, è stato – un passo necessario per una rapida
modernizzazione delle economie ex-pianificate.
7
Le Trabant sono, non casualmente, il simbolo di una differenza nella qualità dei consumi semplicemente
insostenibile (e ingiustificabile): in termini di prezzi relativi le Trabant non erano meno costose delle auto
prodotte nella Germania occidentale; in termini di qualità la differenza era enorme.
16
Naturalmente, questo ri-orientmento delle relazioni commerciali non è avvenuto
senza costi e senza l’apparire di fenomeni che richiederanno attenzione e politiche. La
stessa sostenibilità dell’attuale pattern di relazioni economiche è in discussione. Gran
parte dei paesi candidati ha accumulato un debito estero rilevante in termini del loro
prodotto sociale. D’altra parte, i vantaggi dell’apertura ad ovest non si sono equamente
distribuiti e la popolazione che, secondo le stime della Banca Mondiale, si trova è al
disotto della soglia di povertà sembra essere veramente consistente. D’altra parte, anche
mettendo in discussione le modalità con le quali la transizione è stata avviata e condotta
non si devono sottovalutare le difficoltà del processo di transizione.
La seconda ragione per una rapida integrazione economica è stata la possibilità di
contare sul capitale estero – soprattutto tedesco – per la ripresa del processo di
accumulazione. Anche in questa sfera, si trattava di riprendere un pattern di relazioni
economiche, dominante fino alla seconda guerra mondiale – fare affidamento sul
capitale estero –, che ha caratterizzato le economie dell’Europa centrale e orientale8.
Da una prospettiva economica, non è stata tanto la speranza in un nuovo Piano
Marshall a loro favore – comunque non realizzatosi – a far apparire come assolutamente
urgente e vantaggioso ai paesi dell’Europa centrale e orientale il fatto di ri-orientare le
loro economie e le loro società verso l’Europa occidentale. Piuttosto, è stata
l’integrazione commerciale e finanziaria ad apparire come uno strumento di riorganizzazione e modernizzazione accelerate delle loro economie.
3.5 Conclusioni
La Comunità Economica Europea aveva, nel 1989, un assetto istituzionale del tutto
incompatibile con i problemi che l’ampliamento avrebbe posto. Tuttavia, non esisteva
alcuna possibilità di bloccare il processo di integrazione politica, economica e civile. E,
in effetti, i tempi dell’ampliamento non sono tanto i tempi necessari per l’adeguamento
istituzionale dei paesi che entrano quanto i tempi necessari per costruire un apparato
istituzionale per una Unione Europea ampliata. L’ampliamento non è affatto un
«incremento marginale», bensì una profonda revisione del Progetto Europeo.
8
La Germania, ad esempio, nell’ultimo decennio ha modificato il suo «orientamento globale»,
realizzando «investimenti diretti all’estero» nell’America del Nord in un ammontare circa cinque volte
superiore a quello realizzato nei paesi dell’Europa centrale e orientale. Tuttavia, il flusso verso questi
paesi è stato significativo.
17
La rapidità con la quale si è passati a discutere della prima fase dell’ampliamento e
agli aspetti tecnici – le procedure e i tempi – non riflette la ovvietà del tema o la facilità
del Nuovo Progetto Europeo che l’ampliamento implicitamente formula. Da una parte,
essa riflette invece la gravità del problema dell’assetto politico-economico dell’Europa
centrale e orientale sullo sfondo della storia europea dopo Versailles. Dall’altra, essa
riflette il desiderio, compresso per cinque decenni in molte parti della società di questi
paesi, di «riunirsi all’Europa». Le élite che hanno conquistato il potere nei paesi
dell’Europa centrale e orientale avevano, almeno a partire dalla fine degli anni Sessanta,
guardato all’Europa come ancoraggio della loro proposta politica. Non stupisce che non
abbiano voluto attendere «un minuto di più» per chiedere l’adesione all’Unione Europea
dopo la dissoluzione del Blocco sovietico.
Da parte dell’Unione Europea il calcolo economico è stato in qualche misura
residuale, e ciò per due ragioni. Per i paesi dell’Unione Europea, l’integrazione con i
mercati di questi paesi non era certo rischiosa (e ciò per diversi motivi). Per i paesi
dell’ex-Blocco sovietico, le ragioni della politica e della storia non contrastavano con
quelle dell’economia.
Richiamare la forza delle ragioni che sono dietro l’ampliamento serve a ricordare che
esso ha un significato assolutamente straordinario sullo sfondo della storia europea –
molto più di qualsiasi altro ampliamento avvenuto fino ad ora a partire dal Trattato di
Roma. Nel Nuovo Progetto Europeo, gran parte dei paesi – compresa l’Italia – potrebbe
non sentirsi più «a loro agio» come in passato. Nel Nuovo Progetto Europeo, alcuni
temi che fino ad oggi hanno avuto una importanza centrale nell’agenda europea – come
lo sviluppo dell’Europa meridionale – perderanno di importanza, mentre la
riacquisteranno nelle agende nazionali. Certamente, finisce un periodo in cui ogni
problema nazionale sembrava avere una soluzione europea.
18
4. Geografia dell’ampliamento: spazio e territorio in Europa
4.1 Introduzione
L’Unione Europea – spinta dalla forza delle cose oltre che dalle esigenze della
Germania – ha agito con grande rapidità in Europa centrale lungo due fondamentali
linee. Da una parte, ha re-introdotto nell’Unione Europea una «cerniera territoriale e
culturale» di importanza fondamentale nell’Europa centrale e orientale: l’Austria9.
Dall’altra, ha «permesso» l’unificazione della Germania nella forma più estrema: la
dissoluzione della Repubblica Democratica Tedesca. Ma il territorio della Germania
orientale, in una Europa centrale e orientale non più divisa, è una altra fondamentale
cerniera culturale e territoriale, un’altra area di connessione nello spazio europeo.
La tensione tra ampliamento come processo e ampliamento come progetto (che
incorpora la finalité européenne) si palesa anche quando si considera la dimensione
geografica. Per ragioni evidenti, l’ampliamento dell’Unione Europea deve avvenire
sotto il vincolo della contiguità spaziale – e l’entrata nell’Unione Europea dell’Austria e
della ex-DDR ha determinato una «rivoluzione territoriale». Non è necessario porsi
domande sulla geografia dell’Europa per rendersi conto delle difficoltà a delineare i
confini della futura Unione Europea. Sono sufficienti i primi ampliamenti per scoprire
quanto problematiche e profonde siano le conseguenze per l’Unione Europea della
nuova geografia europea che si sta delineando.
Un punto importante – particolarmente importante per l’Italia – è che il primo stadio
dell’ampliamento sta determinando una profonda trasformazione nell’assetto territoriale
dell’Unione Europea (ampliata). Prima ancora che gli effetti dell’ampliamento si
palesino a livello politico, essi si paleseranno – si stanno già palesando – nella
costruzione di una nuova geografia economica, di nuove densità relazionali. A ciò si
accompagneranno, all’interno dell’attuale assetto istituzionale e sulla base degli attuali
9
Una posizione simile a quella dell’Austria è occupata dalla Finlandia entrata a far parte dell’Unione
Europea soltanto nel 1995. Tuttavia la Finlandia era dal 1986 membro a pieno titolo dell’EFTA
(European Free Trade Association) e dal 1992 della EEA (European Economic Area). Ciò le ha garantito
l’integrazione economica senza integrazione politica.
19
strumenti di intervento, uno spostamento dei temi focali dei processi decisionali e una
riformulazione delle priorità di intervento.
La posizione dell’Italia all’interno della nuova geografia europea è ancora
indeterminata. Certamente l’enfasi posta sull’Europa centrale nel processo di
ampliamento assegna alla Germania e all’Austria un ruolo di primo piano – anche se le
connessioni dell’Italia nord-orientale con l’Europa centrale sono storicamente
sedimentate e territorialmente rilevanti. Per questa ragione, come declinare il tema
dell’integrazione dell’Europa centrale, è una questione rilevante anche per l’Italia.
Ma per l’Italia la dimensione geografica dell’ampliamento si esprime anche con
riferimento ai Balcani. Da un punto di vista geografico i Balcani hanno una posizione
chiave in Europa. Estendere l’Unione Europea a oriente senza considerare i Balcani non
ha molto significato. Anche per questa parte d’Europa l’integrazione economica e civile
imporrà le sue logiche alla dinamica istituzionale.
Benché non sia ancora del tutto scontato che cosa ciò possa significare
concretamente, nella nuova geografia europea economica e politica si ridimensiona il
ruolo dell’Italia – più di quanto aumenti quello della Germania e dell’Austria.
4.2 Germania e Austria
Da un punto di vista geografico-territoriale l’avvio del processo di ampliamento ha
messo in evidenza come Germania e Austria siano i due paesi maggiormente coinvolti
nel processo di ampliamento sul piano spaziale e territoriale. I confini economicoterritoriali di Germania e Austria stanno attraversando una fase di radicale
trasformazione. Ciò avviene sullo sfondo di una profondissima integrazione sociale,
economica e territoriale che esisteva prima della divisione tra «blocco occidentale» e
«blocco orientale».
Una misura della forza dei fattori geografico-territoriali con riferimento ai processi di
ampliamento dell’Unione Europea la si può avere notando che la capitale della
Germania, Berlino, si trova a poche decine chilometri dal confine con la Polonia e che
la capitale dell’Austria, Vienna, si trova a poche decine di chilometri dal confine con la
Repubblica Ceca. Il tema dell’impatto economico-territoriale (e sociale)
dell’ampliamento dell’Unione Europea è, per questi due paesi, di importanza centrale.
In particolare, molti degli effetti rilevanti, sullo sfondo di legami storici, sono
direttamente connessi all’operare della contiguità e prossimità spaziale – due fattori che
20
negli ultimi anni hanno ricevuto una crescente importanza come determinanti di
trasformazioni economiche ed anche di performance economiche.
4.3 Ampliamento e regioni trans-nazionali in Europa
L’ampliamento ad Est dell’Unione Europea sta mettendo in discussione i confini
nazionali come ambiti di governance, rafforzando e accelerando il processo di
«regionalizzazione dell’Europa». In effetti, il confine politico-militare imposto per
quattro decenni dalla Guerra Fredda ha nascosto quanto fossero impropri, rispetto ai
problemi posti dalla governance locale, i confini nazionali definiti dopo la seconda
guerra mondiale.
Oggi, i processi di regionalizzazione sono lo strumento per «governare» dei sistemi
territoriali transnazionali che stanno riprendendo forza dopo alcuni decenni di disconnessione forzata. Questi processi si manifestano a scale diverse. La Baltic Sea
Region, con tutti i meccanismi di governance che per essa si stanno progettando
(Progetto VASAB 2010), è un esempio, ad una scala transnazionale molto ampia, di
questi processi di regionalizzazione (come potrebbe essere in futuro la Adriatic Sea
Region). Ma anche la regione che include Vienna e Bratislava o quella che connette
l’Italia alla Slovenia sono esempi di densità relazionali transnazionali per le quali si
pone il tema di una qualche procedura di regolazione che integri i livelli regionali e
nazionali.
(Le problematiche trans-frontaliere e trans-nazionali hanno una posizione preminente
nei programmi ai quali i paesi candidati e i paesi «potenzialmente candidati» hanno
avuto accesso da quando si è posta la problematica dell’ampliamento.)
Lo sfaldamento del Blocco sovietico ha di per sé condotto ad un ri-orientamento
delle relazioni sociali ed economiche verso Ovest di gran parte dei paesi dell’Europa
centrale e sud-orientale. Tale ri-orientamento è stato rafforzato, ovviamente, dalla
prospettiva dell’ampliamento. Ciò ha condotto ad un ripensamento delle politiche
territoriali dell’Unione Europea di scala vasta, nonché alla definizione di un sistema
infrastrutturale adeguato alle dinamiche economico-territoriali attese nel medio-lungo
periodo.
I riflessi per l’Italia delle politiche territoriali dell’Unione Europea (già formalizzate
in documenti ufficiali e persino in corso di realizzazione) sono profondi e importanti (e,
fino ad oggi, veramente poco discussi).
21
4.4 L’Italia nella geografia dell’ampliamento
L’ampliamento dell’Unione Europea collocherebbe l’Italia in una posizione
periferica nella nuova geografia politica ed economica se l’enfasi venisse posta
sull’integrazione dei paesi dell’Europa centrale – in particolare Polonia, paesi Baltici,
Repubblica Ceca, Repubblica Slovacca. Tuttavia, già considerare l’Ungheria e, il ruolo
di cerniera dell’Austria costringe a modificare questa prospettiva. Ma ciò in effetti pone
l’Italia al centro della nuova geografia europea è il considerare paesi come la Romania e
la Bulgaria – in definitiva tutti i Balcani – parte integrante del progetto di ampliamento.
Una Unione Europea in cui vi fossero a pieno titolo tutti i paesi Balcanici –
politicamente ed economicamente stabilizzati – avrebbe una geografia nella quale
l’Italia sarebbe «centrale».
Il fatto che i Balcani costituiscano l’ambito di minore attenzione nelle strategie
europee e che il centro di gravità geografico si sia spostato inizialmente verso Nord
riflette, in parte, le drammatiche conseguenze dello sfaldamento politico della
Yugoslavia – ma anche una scarsa capacità dell’Italia di mettere a fuoco il significato
geopolitico dell’ampliamento e la relazione che esso ha coni suoi interessi nazionali.
Tuttavia, gli equilibri politici si stanno rapidamente adeguando alle ragioni della
geografia.
Lo spostamento della capitale della Germania a Berlino – proprio nella sua natura di
decisione simbolica – manifesta l’intenzione di ricostituire una densità di relazioni
economiche, culturali e civili nell’Europa centrale10. Berlino, su cui si stanno
compiendo grandi investimenti, è collocata perfino più ad est della rete Monaco-PragaDresda-Francoforte. Non è facile identificare gli effetti di questa strategia nel prossimo
decennio. Tuttavia, che l’Italia possa assumere una posizione marginale nelle strategie
di sviluppo spaziale di medio-lungo periodo non è da escludersi. Non è difficile
immaginare quale sarebbe la scelta di fronte all’alternativa, ad esempio, tra il
10
Le relazioni politiche sono invece un tema più controverso (Garton Ash cit). Non è così ovvio se la
Germania possa diventare il punto di aggregazione politica dell’Europa centrale oppure se i paesi
dell’Europa orientale e centrale guardano all’Unione Europea come ad una istituzione che permette loro
di ridurre il peso politico della Germania nell’Europa Centrale.
22
rafforzamento infrastrutturale dell’asse Berlino-Dresda-Praga-Monaco e quello dell’asse
Monaco-Bologna-Bari-Atene11 .
L’incerta posizione dei Balcani nelle strategie di ampliamento dell’Unione Europea
certamente sembra ridurre l’importanza dell’Italia nelle strategie di sviluppo spaziale
europeo. D’altra parte, l’Italia non sembra in grado di proporre una sua specifica
interpretazione della propria posizione nello spazio europeo – che vada oltre una
connessione con la Francia e la Germania. Ma anche queste due connessioni acquistano
rilevanza europea sullo sfondo dell’integrazione territoriale con l’Europa centrale e
balcanica.
La vicenda dello «spazio adriatico» – se confrontata con la vicenda dello «spazio
baltico» – è emblematica della scarsa consapevolezza delle implicazioni territoriali
dell’integrazione sociale dell’Europa. Indipendentemente dai tempi dell’ampliamento, i
paesi che si affacciano sul Baltico hanno subito elaborato un complesso progetto di
collaborazione di sviluppo spaziale, ponendosi al centro dell’attenzione delle politiche
dell’Unione Europea. Su stimolo della Germania e dell’Austria un progetto molto
diverso, ma simile negli obiettivi finali, è stato elaborato per l’area danubiana.
L’Adriatico, invece, nonostante il suo indubbio ruolo di fondamentale e problematico
nodo territoriale nella nuova geografia europea non è ancora un tema adeguatamente
considerato.
Questo tema va interpretato alla luce di un problema generale, che verrà ripreso più
avanti: in una Europa di 27 stati (Trattato di Nizza, 11 dicembre 2001), il peso
dell’Italia nel processo di decisione collettiva sarà fortemente ridotto e i suoi specifici
problemi potrebbero assumere una dimensione «regionale». Il tema dei rapporti tra
Italia e Slovenia può apparire rilevante oggi a noi e nell’attuale assetto istituzionale –
nel quale l’Italia ha un notevole peso (numero di voti ponderati nel Consiglio Europeo e
numero di parlamentari nel Parlamento Europeo) e può essere ancora in grado di farlo
diventare un tema rilevante nell’agenda dell’Unione. Ma, nell’Unione Europea dopo il
progetto di ampliamento, problemi di carattere trans-frontaliero sono dovunque – e di
natura ancora più problematica per ragioni sociali e per salienza economico-territoriale
11
Anche in considerazione del fatto che per la Grecia (e la Turchia) l’asse danubiano – sul quale la
Germania pone per ragioni anche troppo ovvie un grande interesse, e che, per ragioni storiche, ha
comunque un profondo significato storico e culturale – diventa l’ovvio sistema di connessione con
l’Europa orientale.
23
di quelli che l’Italia ha con la Slovenia (ancora una volta considerare i Balcani cambia
profondamente la valutazione).
Da un punto di vista geografico-territoriale, le regioni italiane si trovano in una
posizione molto diversa rispetto al processo di ampliamento. Il coinvolgimento diretto
del Friuli Venezia Giulia è evidente e si basa su ragioni territoriali, sociali ed
economiche. Trieste sintetizza questo insieme di problematiche. Anche il
coinvolgimento territoriale del Veneto è significativo. Territorialmente, il Veneto è
naturalmente connesso all’Europa centrale attraverso il Brennero, ma è altrettanto
naturalmente connesso con l’Europa centrale in direzione ovest-est.
Per tutte le altre regioni adriatiche – Emilia Romagna, Marche, Abruzzo, Molise e
Puglia – , da un punto di vista territoriale, è l’integrazione territoriale con i Balcani – e
la posizione che assumerà la Regione Adriatica – a costituire una importante cesura.
Ciò significa che la contiguità o la prossimità territoriale – che sono i fattori causali
di base nell’analisi degli effetti del processo di ampliamento – sono rilevanti per molte
delle regioni adriatiche. Naturalmente, la stessa valutazione vale per ciò che possiamo
definire contiguità sociale (ed anche cognitiva), di norma il sedime storicizzato di una
contiguità o prossimità spaziale e di una conseguente integrazione sociale ed
economica.
4.5 La politica dei trasporti in Europa e il processo di ampliamento
Il principale ancoraggio della politica dei trasporti dell’Unione Europea è costituito
allo stato attuale dalla cosiddetta Trans-European Network, che si compone di 14
progetti ciascuno dei quali ad un diverso stato di avanzamento. Tra il 2000 e il 2006
gran parte dei progetti dovrebbero essere completati o entrare in una fase di
completamento – anche se si prevede il completamento oltre questa data. Dei 14
progetti i seguenti interessano direttamente e intensamente l’Italia: 1) la linea ferroviaria
di alta velocità Lione-Trieste; 2) la linea ferroviaria di alta velocità Berlino-Verona; 3)
l’aereoporto Malpensa 2000. Un altro progetto di particolare rilevanza per l’Italia, sullo
sfondo del processo di ampliamento ad est è quello delle «autostrade della Grecia»
(progetto n. 7). Nel connettere di fatto l’Albania alla Grecia questo progetto prefigura
un collegamento con l’Italia meridionale e con i porti del medio e alto Adriatico.
Naturalmente, il processo di integrazione commerciale con i paesi dell’Europa
centrale e orientale ha posto l’esigenza di un riesame della politica dei trasporti
24
dell’Unione Europea oltre che una riflessione sullo stato delle infrastrutture per il
trasporto nei paesi candidati.
Il documento fondamentale per la politica dei trasporti dell’Unione Europea è
denominato «European Spatial Development Perspective. Towards Balanced and
Sustainable Development of the Territory of the EU», Postdam 1999. Si tratta di un
documento molto importante che sta dando luogo ad un complesso processo di
ripensamento del sistema dei trasporti in Europa. In questo documento un capitolo viene
dedicato al problema dello sviluppo spaziale con riferimento al processo di
ampliamento. Da esso si ricava, da una parte, una certa cautela nell’affrontare il
problema e, dall’altra, la necessità di approfondirne il tema alla ricerca di una strategia.
Considerando che il completamento dei progetti previsti dalla Trans-European Network
impegnerà l’Unione Europea per molti anni ancora – il completamento dei progetti è
previsto per il 2010 – non è contraddittorio che si proceda con molta lentezza. Ciò,
peraltro, permette la costruzione di strategie condivise e la responsabilizzazione dei
paesi candidati in un settore che richiede investimenti ingenti.12.
Sul piano operativo, l’obiettivo della integrazione infrastrutturale è stato affrontato
dalla Commissione Europea (1996) attraverso il lancio del Transport Infrastructure
Needs Assessment (TINA) che ha il suo segretariato a Vienna. Del TINA fanno parte i
paesi dell’Unione Europea e tutti i paesi candidati (compreso Cipro). L’obiettivo
principale è di costruire in Europa centrale e orientale una rete di infrastrutture per il
trasporto coerente con la Trans-European Network.
Un punto fondamentale da richiamare è che l’ammodernamento della rete di trasporti
nei paesi candidati resta un compito soprattutto nazionale. Nell’ambito del Programma
Phare – il programma lanciato dall’Unione Europea nel 1996 per l’assistenza ai paesi
dell’Europa centrale e orientale nella fase di transizione – sono previsti degli aiuti per
investimenti in infrastrutture e per l’assistenza tecnica. Tuttavia, un impegno finanziario
ed organizzativo più consistente si avrà soltanto a partire dal 2010 quando saranno
completati i progetti della Trans-European Network e quando alcuni dei paesi candidati
saranno membri dell’Unione.
Osservando le mappe TINA dalla prospettiva italiana il «vuoto» dei Balcani risulta
evidente ed anche difficile da giustificare. Si tratta di un vuoto di difficile
12
Su questo tema specifico della politica dei trasporti si possono segnalare almeno tre iniziative di
riflessione strategica a carattere transnazionale: 1) The Vision Planet Project; 2) the ESPON 2006
Programme: 3) the ESTIA Project.
25
interpretazione per l’Italia. Comunque, allo stato attuale per l’Italia le implicazioni
dell’ampliamento nelle politiche dell’Unione Europea sono legate soprattutto
all’interpretazione del cosiddetto «corridoio pan-europeo n. 5) che, per la parte italiana,
corre da Torino a Trieste lungo lo stesso percorso della linea di alta velocità del progetto
n. 6 del TEN (vedi sopra). A Trieste questo corridoio si innerva nella rete
infrastrutturale delineata dal TINA.
L’inserimento dei Balcani in questo progetto infrastrutturale avrebbe un impatto
molto forte sull’Italia. In primo luogo, Trieste diventerebbe il terminale di un altro
importante corridoio: Trieste-Sarajevo-Instanbul oltre che dell’altro che si snoda in
direzione Zagabria-Belgrado. Inoltre, si porrebbe la questione di una connessione a
livello di medio adriatico (Ancona-Sarajevo-…) e basso adriatico (Bari-Tirana-…).
Allo stato attuale, le implicazioni territoriali per l’Italia della ri-organizzazione del
sistema delle infrastrutture per il trasporto come conseguenza dell’ampliamento non
sono state portate all’attenzione dei decisori. Il fatto che i Balcani non siano stati
adeguatamente considerati ha ridotto il problema alla questione del corridoio LioneTorino-Milano-Trieste, per il quale si è peraltro in ritardo di progettazione. D’altra
parte, la geografia e l’economia hanno le loro ragioni e l’Europa centrale sono in questo
momento il nodo delle politiche infrastrutturali.
In ogni caso, a livello delle politiche del trasporto, i temi che l’ampliamento pone
all’Italia non sono trascurabili. Il corridoio N. 5 si può configurare come la principale
connessione della Francia con l’Europa orientale e sud-orientale così come i porti
dell’Adriatico possono diventare soprattutto infrastrutture di un commercio globale. La
metafora dell’Italia come «ponte verso l’Oriente» o «ponte verso il Mediterraneo» non è
facile da declinare in termini operativi. L’impatto ambientale, le conseguenze
sull’assetto territoriale e i costi di questo adeguamento infrastrutturale sono rilevanti e
dovrebbe condurre ad una revisione delle priorità.
26
5. L’integrazione economica dell’Europa
5.1 Introduzione
Dopo la seconda guerra mondiale il modello del mercato regolato (o «mercato
sociale») si è imposto in Europa occidentale. Con esso si è imposto anche il modello di
una relativa libertà nelle relazioni commerciali e finanziarie tra paesi. L’obiettivo di
ricostituire relazioni commerciali e finanziarie stabili tra i paesi europei ha di per sé dato
origine ad un processo di integrazione istituzionale. In effetti, si può sostenere che la
nascita della Comunità Economica Europea sia stato il punto di arrivo di una fase di
integrazione istituzionale dettata dalle ragioni dell’integrazione economica.
Tuttavia, si può affermare che l’integrazione istituzionale dell’Europa è guidata
anche da un'altra finalità, e cioè da quella federativa: l’integrazione istituzionale come
progetto politico. Si può ritenere evidente che, nella storia del Progetto europeo,
l’integrazione istituzionale è stata guidata anche dall’ideale federalista.
Certamente, si tratta di due finalità che possono convergere. Con il trattato di
Maastricht (1991) e la nascita della «Unione Europea» è stato affrontato il tema della
convergenza tra queste due finalità. Tuttavia, i due piani restano separati – e tali
resteranno ancora per molto tempo. All’interno dei Trattati che hanno scandito il
processo di integrazione istituzionale nell’Europa occidentale e meridionale il tema
della costruzione del «mercato unico europeo» ha una sua evidente autonomia e non
può essere tout court accomunato all’unificazione politica13.
Il riconoscimento di questo aspetto conduce a guardare al processo di ampliamento
dell’Unione Europea in modo più completo e complesso. Ciò che viene chiamato
processo di ampliamento è in effetti un processo di integrazione istituzionale ed
economica (e sociale). Benché l’entrata nell’Unione Europea sia uno stadio importante
– non solo simbolicamente – di questo processo di integrazione istituzionale esso è uno
degli innumerevoli stadi che hanno una importanza in sé. I paesi candidati sono, dopo
dieci anni, ancora paesi candidati, ma il livello di integrazione istituzionale è aumentato
13
Basterebbe a dimostrarlo l’esistenza dell’EFTA e della EEA come livello di integrazione diverso da
quello dell’Unione.
27
in misura molto significativa. Ciò è evidente se si interpreta l’ampliamento anche come
processo di integrazione istituzionale e, nello specifico, come formazione del «mercato
unico europeo».
Da un certo punto di vista la prospettiva pragmatica e quella ideale si sono congiunte
con riferimento all’ampliamento dell’Unione Europea ai paesi dell’Europa centrale e
orientale. All’inizio degli anni Novanta, questi paesi non erano integrati
economicamente e socialmente con i paesi dell’Unione Europea. Si potrebbe quindi
interpretare la decisione di iniziare un percorso di integrazione come scaturita da un
progetto politico puro, dalla tradizione federalista. Da un altro punto di vista, qualsiasi
osservatore – considerate le ragioni della geografia e della storia – avrebbe potuto
prevedere l’innescarsi di un rapido processo di integrazione economica e sociale. Tanto
più rapido proprio per il fatto di essere stato bloccato per cinque decenni, durante il
periodo del dominio sovietico, l’operare delle cause di questa tendenza all’integrazione.
La formazione del mercato unico europeo costituisce – in assenza di una ben definita
finalità – il fondamentale ancoraggio del processo di integrazione istituzionale in atto.
Si può persino ritenere che la costruzione del mercato unico europeo con la
partecipazione dei paesi dell’Europa centrale e orientale possa chiudere il percorso
verso l’integrazione istituzionale in Europa. Come è stato osservato, «[…] the EU
remains most important as an economic entity: it is part of the attempt to adapt
European capitalism to the needs of an increasingly global era.» (Mazower, Dark
Continent: Europe’s Twentieth Century, p. 408; cfr. inoltre, Emerson, Redrawing the
Map of Europe, 1998 ).
La costruzione di un «mercato comune» alla scala dell’Europa geografica ha dei
vantaggi in sé. Il passaggio dalla Comunità Economica Europea all’Unione Europea
può avere segnato un cambiamento vistoso nelle ambizioni di integrazione politica ma
non ha modificato il fatto che la logica della costruzione di un «mercato europeo»
mantiene una sua forza indipendentemente dal procedere dell’integrazione politica. Se
la costruzione di un «mercato unico europeo esteso fino a contenere l’Europa
geografica» cozza contro l’attuale assetto istituzionale dell’Unione Europea, si può
scegliere il primo a scapito del secondo – fino ad oggi compatibili – e proporre un
Nuovo Progetto Europeo lungo queste linee14.
14
Il paradosso è che l’ampliamento è coerente con il progetto europeo originario – minimalista nei fatti
anche se ambizioso nel disegno generale. Non è invece compatibile con l’assetto istituzionale delineato
nel Trattato di Maastricht.
28
5.2 Il processo di integrazione economica in Europa
Sulla base degli accordi di associazione e sullo sfondo del Progetto Europeo
l’integrazione commerciale dell’Europa centrale e orientale è stato molto rapido15. Se si
prende come base il 1992, il livello degli scambi era più che duplicato nel 1997 e ben
più che triplicato nel 2000. La dinamica delle esportazioni e delle importazioni è stata
molto simile, riflettendo il carattere sostanzialmente negoziato degli scambi
commerciali sulla base degli Accordi di Associazione.
In valore assoluto, il volume degli scambi è naturalmente limitato – e ciò riflette la
dimensione economica ridotta dei paesi candidati oltre che un grado di apertura delle
loro economie inferiore a quello dei paesi dell’Unione Europea. Tuttavia, se si considera
anche il fatto che il decennio in esame è stato critico per i paesi candidati, i quali sono
riusciti appena a recuperare i livelli di produzione dell’inizio degli anni Novanta,
l’intensificazione dell’integrazione commerciale che si è verificata appare ancora più
significativa.
15
Il percorso di integrazione istituzionale – che si dovrebbe concludere con l’adesione all’Unione
Europea – avviene all’interno del quadro definito degli «Accordi di associazione» (Association
Agreements) con i paese dell’Europa centrale e orientale. Gli Accordi di associazione sono, a tutti gli
effetti, il fondamento giuridico dei negoziati bilaterali che si dovrebbero concludere con il passo finale
dell’adesione (cfr. Mayhew, Recreating Europe, cit., capitolo 2). Previsti dal Trattato di Roma (1957, art.
238) gli Accordi di associazione, i quali hanno una natura bilaterale, possono assumere diverse forme e
diversi gradi di profondità ed estensione. (L’espressione «Accordi Europei» è entrata in uso con
riferimento a quegli accordi che fanno esplicito riferimento alla possibilità che il paese associato possa
entrare a far parte della Unione Europea (cfr. Bainbridge, The Penguin Companion to European Union,
1998, pp. 14-15)).
Di fatto, essi sono il contesto all’interno del quale ha luogo il processo di integrazione economica
attraverso una parziale, progressiva e negoziata liberalizzazione degli scambi di merci, servizi, moneta e
lavoro – le cosiddette «quattro libertà». All’inizio degli anni Novanta, attraverso gli Accordi di
associazione è iniziata la costruzione del mercato unico europeo – dove l’aggettivo europeo contiene in
questo caso anche l’Europa centrale e orientale.
All’interno della cornice istituzionale che via via emerge dagli accordi di associazione, ciascun paese
dell’Europea centrale e orientale sta seguendo il proprio sentiero di integrazione economica.
29
Naturalmente, profonde sono le differenze nel processo di integrazione dei diversi
paesi candidati: esse riflettono la dimensione economica di ciascun paese e lo stadio
raggiunto nel processo di transizione.
Poiché la ragioni della storia e della geografia hanno un peso, la posizione che la
Germania ha assunto nel processo di integrazione economica era nelle cose. Nel mediolungo periodo, ciò avrà ovviamente delle conseguenze sull’assetto territoriale
dell’Europea – oltre che in termini di influenza politica.
La differenza nella intensità delle relazioni economiche tra la Germania e gli altri
paesi dell’Unione Europea è profonda ed è forse utile metterla in luce. Si può iniziare
osservando come le esportazioni delle Germania rappresentino da sole il 44% delle
esportazioni dell’Unione Europea vero paesi candidati (e il 47% delle importazioni).
Naturalmente, per le ragioni sopra ricordate la quota delle esportazioni verso i paesi
dell’Europa centrale e orientale della Germania è bassa (8,6%) – pur avendo subito un
significativo aumento rispetto al 1992, quando era del 4,4%.
L’orientamento della Germania verso l’Europa centrale e orientale è altrettanto
evidente quando si considerano gli investimenti esteri diretti (IED) nei paesi candidati.
L’Europa centrale e orientale è diventata di gran lunga più importante di paesi come la
Cina o il Giappone. Tuttavia, è interessante osservare come questo sia un fenomeno da
contestualizzare nel generale processo di globalizzazione dell’economia tedesca. Nello
stesso arco temporale l’economia tedesca ha effettuato investimenti di un ammontare di
gran lunga superiore nei paesi NAFTA (Canada, Stati Uniti e Messico). Sul totale degli
investimenti cumulati del periodo il 34% è stato effettuato nei paesi Nafta e il 7% nei
paesi candidati16.
5.3 Ampliamento e internazionalizzazione dell’economia italiana
Dopo la Germania, l’Italia è il paese che ha più intensi cambi commerciali con i
paesi candidati. Attualmente, circa il 15% delle esportazioni globali in questi paesi (e il
13% delle importazioni) viene realizzato dal sistema economico italiano. Naturalmente,
16
L’intensità del processo di globalizzazione si può misurare notando come negli ultimi anni l’economia
tedesca abbia effettuato investimenti esteri diretti in misura maggiore nei paesi del NAFTA che nei paesi
dell’Unione Europea. Che l’Unione Europea, per quanto riguarda gli IED, non costituisca un confine così
rilevante nelle strategie delle imprese tedesche è evidente.
30
i paesi candidati rappresentano, sul totale delle esportazioni italiane, soltanto il 6,8%
(ma rappresentavano il 3,1% nel 1992).
Se si passa ad esaminare l’importanza dei singoli paesi si notano significative
differenze riconducibili, almeno in parte, a ragioni evidenti. La quasi totalità delle
esportazioni (87%) veniva assorbita, nel 1999, da cinque paesi: Polonia, Repubblica
Ceca, Ungheria, Romania e Slovenia. Con il 29,5% la Polonia è il paese più importante
come mercato di sbocco, seguito dalla Romania (16,4%) e dalla Slovenia (14,3%).
Si può notare come gli stadi del processo di ampliamento, se esaminati dal punto di
vista dell’economia italiana, non costituiscono dei segnali significativi utilizzati dalle
imprese nelle loro strategie di internazionalizzazione. Le modalità con cui sta
avvenendo il processo di ampliamento non influenzano le strategie di
internazionalizzazione delle imprese. Ad esempio, la Romania, benché sia tra i paesi
candidati uno dei più lontani dall’Unione Europea, è uno dei più importanti nelle
relazioni commerciali. (Significativi sono anche i rapporti commerciali con la Croazia,
paese che non è ancora tra quelli candidati.)
Non particolarmente significativo è il ruolo delle imprese italiane nella sfera degli
investimenti esteri diretti (IED). La grande differenza rispetto alla Germania nella sfera
degli IED non riflette soltanto le differenze nella dimensione e nella struttura
organizzativa del settore privato dell’economia. Essa riflette anche una diversa
collocazione geografica e sociale nel contesto europeo. Innanzitutto, l’economia italiana
investe nei paesi candidati circa il 2% del totale degli investimenti esteri – mentre
investe in America centrale e meridionale in misura cinque volte superiore. In valore
assoluto, la differenza negli investimenti esteri diretti tra Germania e Italia è molto
forte: 15.233 milioni di ECU contro 796 ECU nel periodo 1992-199817.
La prima ragione che rende difficile l’analisi degli effetti economici dell’aumento
degli scambi commerciali con i paesi dell’Europa centrale e orientale consiste nel fatto
che tale incremento sta avvenendo sullo sfondo di un processo di internazionalizzazione
generale delle economia italiana (ed europea). Si tratta di un punto critico. L’Unione
Europea è nata come un ambito geografico e un livello istituzionale al quale associare
17
Ciò rende statisticamente difficile misurare o valutare l’impatto sull’economia italiana dell’integrazione
avvenuta negli ultimi anni. Inoltre non permette di trarre conclusioni sistematiche sulla dinamica
evolutiva delle relazioni economiche tra l’Italia e questi paesi.
31
un certo grado di «chiusura operativa»18. In effetti, nell’ultimo decennio, il significato
dell’Unione Europea come ambito territoriale al quale ricercare un qualche grado di
chiusura operativa sembra aver perso di significato. Non lo ha mai avuto,
sostanzialmente, a livello di mercato del lavoro e lo sta perdendo a livello di mercato
delle merci. (In termini di movimenti di capitale, l’Unione Europea non è mai stata un
ambito di chiusura operativa – e, in effetti, la creazione della Moneta unica europea
riflette anche – ma non solo – la necessità di conciliare l’apertura dei mercati finanziari
con la stabilizzazione economica.)
Questa progressiva riduzione del grado di chiusura operativa dell’Europa che sta
accompagnando il processo di ampliamento è un cambiamento molto importante che
avrà conseguenze sul significato e la configurazione istituzionale del Nuovo Progetto
Europeo.
5.4 L’integrazione del mercato del lavoro
Si è molto discusso in questi anni del tema dell’integrazione del mercato del lavoro
in Europa. Nonostante la linearità con la quale se ne discute, si tratta in effetti di un
problema straordinariamente complesso, in riferimento al quale gli stati nazionali
hanno, per altro, mantenuto una elevata autonomia. Inoltre, gli effetti sul mercato del
lavoro sono stati inizialmente considerati uno degli aspetti maggiormente problematici
in relazione all’ampliamento.
Il primo elemento da considerare – spesso trascurato nelle analisi teoriche ma
assolutamente fondamentale sul piano applicato – è l’elevata segmentazione del mercato
del lavoro nei paesi dell’Unione Europea. Il secondo elemento – di nuovo troppo spesso
trascurato – è costituito dalle «barriere linguistiche» che si manifestano sul mercato del
lavoro. Il terzo è dato dalle barriere culturali che, da una parte, scoraggiano
l’emigrazione e, dall’altra, impediscono l’integrazione nel paese di arrivo.
La segmentazione costringe ad esaminare le singole sezioni del mercato del lavoro
separatamente – e ciò permette di evidenziare come, con riferimento a dati segmenti del
18
Il fatto che questa interpretazione dell’Unione Europea come ambito protetto si entrato in discussione
nei comportamenti degli agenti e nella interpretazione della finalité européenne può avere delle
conseguenze molto profonde sul futuro dell’Unione Europea e sul suo futuro assetto costituzionale.
32
mercato del lavoro, vi siano state specifiche politiche. D’altra parte, tenere in debita
considerazione la barriera linguistica e culturale permette di evidenziare come vi siano
interi e cruciali segmenti del mercato del lavoro rispetto ai quali la mobilità del lavoro
resta una questione di principio piuttosto che pratica – e tale resterà per alcuni decenni
ancora. Nelle attività in cui le skills sono una conseguenza di elevati livelli di
investimento in formazione l’integrazione del mercato del lavoro europeo è inesistente.
(Questo è un punto che si dovrebbe tenere presente quando si fanno paragoni tra il
mercato del lavoro europeo e il mercato del lavoro degli Stati Uniti. Negli Stati Uniti la
mobilità non è ostacolata da barriere linguistiche – le quali sono in Europa
semplicemente insormontabili per la quasi totalità della popolazione).
Benché non fondato sul «libero mercato» – un paradigma che non si può utilizzare
per analizzare le relazioni di lavoro –, a partire dagli anni Cinquanta vi è stato un
intenso processo di integrazione nei segmenti bassi del mercato del lavoro. Si potrebbe
sostenere che, per un insieme di ragioni – in parte politiche e in parte economiche –,
l’integrazione del mercato del lavoro tra Unione Europea e paesi dell’Europa centrale e
orientale ha anticipato l’integrazione economica in senso lato che sta avvenendo a
seguito del processo di ampliamento.
Questa considerazione è valida soprattutto per la Germania. Nel 1985 vi erano già
1,4 milioni di residenti provenienti dalla Turchia e 591 mila provenienti dai paesi della
ex-Yugoslavia. Vi erano, inoltre, 100 mila polacchi. La Germania - ma anche molti altri
paesi europei, come la Francia o il Belgio - ha stipulato accordi bilaterali per ridurre la
tensione sui segmenti bassi del mercato del lavoro ricorrendo a paesi dell’Unione
Europea o a paesi del continente europeo. Per alcuni decenni, il mercato del lavoro in
Europa è stato ampiamente liberalizzato senza, peraltro, creare nessuna «chiusura
operativa» a livello dei confini della Comunità Economica Europea.
Con la nascita dell’Unione Europea, la politica non è stata nella sostanza cambiata.
Per adeguare l’offerta di lavoro, i paesi dell’Unione Europea hanno fatto ampiamente
ricorso all’immigrazione – creando dei legami economici e sociali molto profondi.
Ciascun paese ha seguito un suo percorso in parte dettato dalla storia e in parte dalla
geografia. La Francia ha fatto ricorso soprattutto al Portogallo, all’Algeria e al Marocco.
La Germania, oltre che a lavoratori della Turchia e della ex-Yugoslavia (e dell’Italia,
naturalmente) ha fatto ricorso a lavoratori della Polonia e della Grecia.
L’Italia ha seguito un percorso diverso, e solo negli anni Ottanta vi sono stati i primi
significativi flussi di immigrazione nei segmenti bassi del mercato del lavoro. Il
33
Marocco si conferma oggi il primo paese di provenienza dei flussi, seguito da due paesi
dell'area balcanica: Albania e Romania (fonte: Dossier Statistico 2001 della Caritas).
5.5 Considerazioni conclusive
L’integrazione economica dei paesi dell’Europa centrale e orientale era
assolutamente necessaria per questi paesi più di quanto non lo fosse per l’Unione
Europea. Allo stato attuale, dato il potere d’acquisto e la popolazione in questi paesi,
l’impatto economico non è particolarmente significativo in termini di ampliamento del
mercato – anche se, comunque, non trascurabile. Soprattutto, sembra esserci una
profonda asimmetria nel significato economico dell’ampliamento. Per la Germania,
l’Austria e l’Italia il tema ha una importanza molto più rilevante che per tutti gli altri
paesi.
34
6. L’ampliamento e le politiche strutturali dell’Unione
6.1 Introduzione
La transizione istituzionale imposta ai paesi candidati per entrare a far parte
dell’Unione Europea ha come punto di arrivo legislazioni nazionali che incorporino il
cosiddetto acquis communautaire. Sullo sfondo del generale obiettivo del mercato unico
europeo, i fondamenti giuridici delle relazioni economiche e sociali devono avere un
predeterminato grado di omogeneità. Il processo di costruzione di una legislazione
europea, di uno «spazio normativo comunitario», non è ovviamente terminato. Nella
fase di transizione istituzionale dei paesi candidati questo processo continuerà – così
come possiamo immaginare continui anche dopo l’entrata.
Con l’entrata nell’Unione, ciascun paese acquisisce il diritto di partecipare alle
decisioni relative alla costruzione dei fondamenti giuridici della società europea. In
effetti, si potrebbe affermare che questo è il campo principale occupato dall’Unione
Europea. Di conseguenza costruzione di un mercato unico europeo e integrazione della
società civile europea sarebbero il centro di gravità del Progetto Europeo. Entrare
nell’Unione significherebbe, quindi, partecipare alla costruzione dei fondamenti
giuridici dell’Europa.
Tuttavia, l’Unione Europea è un livello di decisione collettiva che investe anche altri
ambiti di competenza. Nel campo della politica economica ve ne sono almeno due da
considerare esplicitamente in relazione ai temi dell’ampliamento19. In primo luogo,
l’Unione interviene modificando i prezzi di mercato attraverso un sistema di benefici e
costi per determinate scelte economiche. Secondariamente, finanzia o co-finanzia
l’accumulazione di determinati tipi di capitale (soprattutto infrastrutture pubbliche ma
anche capitale umano).
Queste due classi di politiche economiche hanno avuto, sin dall’inizio, due
fondamentali obiettivi. Innanzitutto, stabilizzare la distribuzione funzionale del reddito,
19
Naturalmente, si dovrebbe considerare anche il fatto che l’Unione Europea interviene direttamente sui
mercati valutari – in forme che sono via via cambiate insieme al cambiare dell’assetto istituzionale
prevalente.
35
in particolare a favore dell’agricoltura, per permettere il processo di investimento e la
modernizzazione in questo settore. In secondo luogo, ridurre le differenze territoriali nei
livelli di reddito e di benessere nei paesi dell’Unione. Il primo tipo di intervento è nato
insieme all’Unione Europea, mentre il secondo ha assunto una importanza crescente a
partire dagli anni Ottanta. Entrambe le politiche hanno un fondamentale carattere di
riequilibrio territoriale.
Queste politiche hanno sempre attratto molta attenzione ma, in definitiva, sono meno
importanti nell’ambito del Progetto Europeo di quanto in genere si creda. I fondi
intermediati dall’Unione Europea in relazione a queste politiche sono una quota
assolutamente marginale dei budget nazionali. E le proposte di riforma non prevedono
significativi incrementi. Per questa ragione, è veramente arduo sostenere che questo sia
il piano sul quale discutere degli effetti dell’ampliamento. L’integrazione economica
resa possibile dalla convergenza (verso il modello dell’Unione) dei fondamenti giuridici
delle relazioni di mercato è certamente molto più importante. Il fatto che l’Unione
Europea faccia politiche territoriali ha appena scalfito il carattere profondamente
nazionale del tema del riequilibrio territoriale.
6.2 L’ampliamento e le politiche di riequilibrio territoriale dell’Unione Europea
Poiché l’agricoltura ha un peso diverso nelle diverse regioni europee e le aree
arretrate non sono distribuite in modo omogeneo nei diversi paesi, i costi e i benefici
delle politiche agricole e di riduzione del ritardo sociale ed economico non sono
omogeneamente distribuiti per stati nazionali. Per questa semplice ragione, ogni entrata
di un nuovo paese nell’Unione Europea fa sorgere il problema della redistribuzione per
paesi dei costi e benefici delle politiche di riequilibrio settoriale e territoriale
dell’Unione Europea. Il problema sembra porsi anche ora – apparentemente in misura
maggiore che in passato – in relazione all’entrata di dodici paesi. Quali saranno gli
effetti sulle politiche di riequilibrio territoriale dell’Unione Europea sembra quindi
essere un tema pertinente.
Per contestualizzare questo tema si devono prendere in considerazione alcuni
elementi. In primo luogo, la dimensione economica e la struttura economica di questi
paesi tempi. Secondariamente, i tempi dell’entrata. I paesi candidati entreranno
scaglionati in un arco temporale veramente molto lungo – più lungo di quanto si fosse
36
pensato a metà degli anni Novanta e, quindi, non ha molto significato considerare
l’effetto di una entrata simultanea. In terzo luogo – e questo è certamente un punto
importante – non è corretto estendere al futuro e ai paesi entranti l’attuale sistema di
riequilibrio territoriale.
Entrare nella Unione Europea non significa, per definizione, essere soggetti allo
stesso regime di aiuti o far parte dell’Euro. L’aspetto interessante – e frequentemente
richiamato – è che l’Unione Europea può operare, come ha sempre fatto, a diverse
velocità. Nel senso che non tutti i paesi devono stare contemporaneamente dentro lo
stesso «sistema di vincoli e opportunità»20. Ad esempio, per quanto riguarda le politiche
di riequilibrio territoriale, le regioni della ex-DDR sono sottoposte ad un regime di aiuti
diverso da quello delle regioni arretrate dell’Europa meridionale (sostanzialmente una
quota di co-finanziamento inferiore).
Inoltre, in particolare rispetto ai due fondamentali livelli di intervento della «politica
agricola comune» (PAC) e dei «fondi strutturali» (FS), è importante notare come queste
politiche possono modificarsi senza che ciò richieda una modifica dell’assetto
istituzionale. Non è quindi corretto porsi il problema degli effetti della estensione di
questi strumenti e obiettivi ai paesi dell’Europa centrale e orientale senza considerare
che, per ragioni del tutto indipendenti dalle conseguenze dell’ampliamento, l’intero
impianto di queste politiche potrebbe modificarsi nei prossimi anni.
6.3 Politiche di riequilibrio territoriale e ampliamento: la prospettiva dell’Italia
A partire dalla metà degli anni Ottanta e con una ulteriore accelerazione dopo il
Trattato di Maastricht, il tema del riequilibrio territoriale ha assunto un particolare
rilievo nel processo di decisione politica dell’Unione Europea. Tecnicamente questo
obiettivo viene perseguito attraverso l’assegnazione, secondo determinate procedure, dei
cosiddetti «fondi strutturali» («structural funds») nelle aree arretrate del territorio
dell’Unione Europea – in genere aree con un reddito pro-capite inferiore al 75% di
20
Il tema dei diversi livelli di integrazione politica è diventato ancora più saliente di quanto non fosse in
passato per due ragioni. Innanzitutto, il più elevato grado di integrazione politica proposto a Maastricht
rende per alcuni paesi più difficile l’accettazione. In secondo luogo, mai in passato si è prospettato un
ampliamento a paesi così lontani dallo standard medio europeo in termini di legislazione e benessere
economico. E’ difficile immaginare un percorso di adesione che non preveda delle deroghe.
37
quello medio. L’Italia ha beneficiato – e ancora beneficia – dei fondi strutturali, e la
prospettiva che l’ampliamento possa modificare uno stato di cose apparentemente
favorevole potrebbe suscitare dei timori. In realtà, le conseguenze dell’ampliamento
sulla allocazione dei fondi strutturali sono per l’economia italiana sostanzialmente
irrilevanti. Attardarsi a discutere di come prevenire o compensare i supposti effetti
negativi dell’ampliamento in questa sfera è un esercizio inutile.
Sulla base dei criteri attualmente utilizzati – e considerando ragionevoli ipotesi
sull’evoluzione dei loro livelli di reddito e di benessere –, i paesi dell’Europa centrale e
orientale entrando a far parte dell’Unione Europea dovrebbero poter accedere ai «fondi
strutturali». La Slovenia è la regione con il più alto livello di reddito pro-capite tra i
paesi candidati, ma il suo livello è comunque al di sotto di quello della Grecia che, tra i
paesi membri, ha a sua volta il livello più basso. Non è ragionevole immaginare che nei
prossimi 10 anni si possa realizzare una convergenza nei livelli di benessere tale da
rendere tali paesi non eleggibili a ricevere fondi strutturali. L’Europa centrale e
orientale è un’area oggi economicamente arretrata e tenendo conto del fatto che
l’Unione Europea ha costruito intorno al tema della coesione sociale e del riequilibrio
territoriale una parte della sua identità sarebbe semplicemente contraddittorio che lo
sviluppo locale (regionale) dei paesi dell’Europa centrale e orientale non assuma un
ruolo centrale nella futura agenda comunitaria.
Ma, qual è l’ammontare di fondi strutturali che potrà essere trasferito in questi paesi?
In effetti, si potrebbe realizzare una situazione in cui tale trasferimento avvenga
attraverso una redistribuzione interna senza che ciò richieda un aumento del budget per i
fondi strutturali, che attualmente è al di sotto dello 0,5% del Pil comunitario –
evidentemente una cifra particolarmente bassa. Ma una domanda altrettanto pertinente è
la seguente: quando si potrebbe realmente porre – ammesso che si porrà – il problema
della redistribuzione dei fondi strutturali? Il quando è una questione decisiva. Infatti, le
condizioni che rendono un’area potenziale beneficiaria cambiano – e una regione che
oggi ricade nelle aree di intervento potrebbe non ricadervi più al momento in cui si
dovrà praticamente affrontare il problema dell’estensione di questo strumento ai paesi
dell’Europa centrale e orientale. E ciò per motivi specifici legati alle proprie condizioni
economiche e del tutto indipendentemente dagli effetti dell’ampliamento.
Ciò che spesso sfugge nella discussione di questo tema è che l’ammontare di fondi
strutturali da trasferire ai paesi dell’Europa centrale e orientale è certo una decisione
politica ma anche una decisione soggetta a vincoli oggettivi – i quali devono essere
38
tenuti in considerazione per comprendere la natura del problema. Il vincolo
fondamentale è dato dalla capacità di assorbimento dei fondi strutturali che, a sua volta,
dipende dalla (a) dimensione economica del paese beneficiario e dalla (b) capacità
operativa della sua burocrazia. La dimensione economica pone tre vincoli. In primo
luogo, minore è la dimensione economica minore è la quota di co-finanziamento che un
paese può permettersi. Secondariamente, minore è la dimensione economica minore è
l’ammontare di fondi che il paese può ricevere, per unità di tempo, senza produrre una
destabilizzazione macroeconomica. In terzo luogo, minore è la dimensione economica
più bassa è la soglia oltre la quale i fondi strutturali hanno effetti di distorsione sulle
strategie di innovazione degli agenti.
L’esperienza dell’impiego dei fondi strutturali insegna che questi vincoli sono
imprescindibili. Ad esempio, sembra difficile che un paese riesca semplicemente a
spendere – o spendere in maniera efficace – un ammontare di fondi superiore all’1-1,5%
del Pil nei primi anni di partecipazione ai fondi strutturali. Poiché i paesi dell’Unione
devono subito contribuire al fondo pro-quota può accadere, paradossalmente, che nei
primi anni, proprio per la bassa capacità di assorbimento, i paesi entranti contribuiscano
in misura maggiore di quanto ricevano. Naturalmente, si dovrà introdurre un regime
transitorio poiché non sembra concepibile una situazione di questo tipo (Mayhew,
Recreating Europe cit., p. 294).
Non si dovrebbe dimenticare che le economie dell’Europa centrale e orientale hanno
una dimensione assolutamente trascurabile quando confrontate con le economie
dell’Europa occidentale. In termini di Pil l’economia di tutti i paesi entranti ha una
dimensione inferiore a quella dei Paesi Bassi ed oscilla intorno al 4% di quella
dell’Unione Europea. Sulla base di quello che sembra delinearsi come lo scenario più
probabile, l’assorbimento di fondi strutturali da parte dei paesi candidati potrebbe essere
pari a 7-10 miliardi di ECU. Che il trasferimento di tale somma verso i paesi entranti
possa costituire un problema per l’Unione Europea non sembra un’ipotesi credibile.
Ma vi sono altri elementi necessari per contestualizzare il tema dei fondi strutturali
sullo sfondo dell’ampliamento dell’Unione Europea. Innanzitutto, non si deve
dimenticare che i «fondi strutturali» sono uno strumento che ha la natura di
«programma pluriennale» senza nessun obbligo costituzionale circa la continuazione di
tale programma. Attualmente, è in fase di attuazione il Programma 2000-2006 – già
diverso, come previsto da Agenda 2000 – dai programmi del passato. In linea di
principio, questo programma potrebbe essere anche l’ultimo. Si potrebbe ritenere che
39
non vi sia più bisogno di politiche comunitarie di riequilibrio territoriale avendo
raggiunto in Europa un sufficiente livello di coesione sociale e di convergenza. Oppure,
si potrebbe ritenere che tale obiettivo non debba più rientrare tra quelli comunitari e
ritornare ad essere una sfera di intervento di esclusiva competenza nazionale. Per i paesi
dell’Unione Europea di maggiore forza economica questo potrebbe essere uno scenario
da considerare.
In secondo luogo, si deve considerare che la eleggibilità a ricevere fondi strutturali
dipende dalle condizioni economiche – le quali sono evidentemente in evoluzione. Ciò
significa che un’area potrebbe uscire dai fondi strutturali per effetto delle mutate
condizioni economiche dell’area stessa – e non per cambiamenti nella disponibilità di
fondi generata dall’ampliamento.
Su questo sfondo si può re-interpretare il caso italiano. Si può iniziare osservando
che, anche nel caso in cui i fondi strutturali mantengano il loro attuale impianto, gran
parte delle aree italiane attualmente eleggibili a ricevere fondi non lo sarebbe
probabilmente più alla fine del 2006. Ma, allo stato attuale, il 2006 potrà, nella
migliore delle ipotesi, vedere l’entrata di alcuni dei paesi candidati. Il 2010 è una data
più credibile – ma comunque ottimistica – per l’entrata di tutta l’Europa centrale e
orientale. A fortiori, per quella data non sembra credibile ipotizzare che l’Italia possa
avere una arretratezza delle dimensioni tali da dover fare affidamento sui fondi
strutturali dell’Unione Europea. La eventuale arretratezza relativa di piccoli e poco
numerosi sistemi locali sarebbe a quella data relegata a problema nazionale sullo sfondo
di una economia che, per Pil totale, dovrebbe restare la terza o quarta nella graduatoria
delle economie europee.
In virtù della forza della propria economia, l’Italia è destinata a diventare comunque,
nel prossimo decennio, un contributore netto in termini di fondi strutturali –
ammettendo che l’Unione Europea mantenga la sua presenza in questa sfera di politica
economica. D’altra parte, se i fondi strutturali dovessero essere messi in discussione per
cambiamenti assolutamente marginali nella redistribuzione delle risorse, si dovrebbe
profondamente dubitare del significato da dare al Progetto Europeo. Che il discorso
politico si attardi su questo tema è un altro indicatore della scarsa comprensione del
significato dell’Unione Europea.
40
6.4 La politica agricola comune (PAC) e il processo di ampliamento
Rispetto ai fondi strutturali il peso della politica agricola comune è senz'altro
maggiore. A metà degli anni Novanta la spesa per la Pac costituiva circa il 50% del
budget totale della Unione Europea per un totale di 37 miliardi di Euro. Anche in questo
caso sono state proposte diverse stime dell’impatto di estendere ai paesi candidati la
PAC. I risultati di questo esercizio sono così variabili da lasciare dubbi sull’utilità di
condurli: l’impatto è stato stimato in un range che va da 5 miliardi a 20 miliardi di euro
ed in riferimento ad un periodo di tempo non determinato; «Agenda 2000» ha stimato
l’impatto in 4 miliardi di euro (vedi Mayhew, Recreating Europe cit. p. 240).
Anche in questo caso, tuttavia, è difficile non notare che sullo sfondo della forza
economica dell’Unione Europea, anche considerando le stime meno prudenziali, si tratta
di cifre in sé poco rilevanti. Se la politica agricola comune avesse una legittimità
politica – e se contribuisse al raggiungimento degli obiettivi che l’Unione Europea si è
posta – non è certo il costo della sua estensione ai paesi dell’Europa centrale a costituire
un ostacolo.
I problemi che l’integrazione dell’agricoltura europea pone all’Unione Europea sono
di ben altra natura. Ma prima di provare a districare questa complessa matassa è
opportuno ricordare come il dibattito sull’agricoltura dell’Unione Europea (e mondiale)
ha avuto fino ad oggi una opacità della quale non è facile liberarsi. Da una parte il suo
peso economico nei paesi dell’Unione Europea è trascurabile, dall’altra la PAC si è
sviluppata nel cono d’ombra creato dai gruppi potere. Tuttavia, segni di una crisi
esplosiva e drammatica sono oggi evidenti – soprattutto in alcuni paesi come la Gran
Bretagna ( cfr. il recente Killing the Countryside). Saranno questi fattori di crisi a
modificare la politica agricola comune e non certo l’ampliamento ai paesi dell’Europa
centrale e orientale. Tuttavia, proprio il ruolo che l’agricoltura ha in questi paesi può
essere una opportunità di ripensamento delle politiche per l’agricoltura per l’Unione.
(Vale la pena ripetere che il processo di integrazione istituzionale ed economica in
Europa è irreversibile e non in discussione. E non sono i costi economici
dell’integrazione ad essere il tema centrale – peraltro compensati dai benefici economici
e dai benefici politici. Sono le forme di questa integrazione ad essere in discussione).
Nei paesi candidati (con l’eccezione della Repubblica Ceca) gli occupati in
agricoltura sono una quota molto alta della popolazione. Era alta alla fine degli anni
Ottanta, è ulteriormente cresciuta in alcuni paesi negli anni Novanta come conseguenza
41
della crisi economica delle città conseguente al processo di transizione. Allo stesso
tempo si tratta di un settore non competitivo. Su questo sfondo il tema degli effetti
dell’integrazione dell’agricoltura europea – sullo sfondo, peraltro, dell’integrazione
dell’agricoltura mondiale promossa dal WTO – non è un tema secondario.
Con la liberalizzazione dei mercati agricoli all’inizio degli anni Novanta, l’Unione
Europea è diventata esportatrice netta di prodotti agricoli in questi paesi – dimostrando
di non sapere resistere dallo sfruttare un vantaggio economico al quale arebbe douto
certo rinunciare. Solo il rapido ripristino di forme di protezionismo ha permesso ai paesi
dell’Europa centrale e orientale di non subire eccessivamente la penetrazione dei
prodotti agricoli dell’Unione Europea. D’altra parte, l’Unione Europea ha assunto un
atteggiamento protezionistico anche in settori marginali dell’agricoltura. Non è inutile
ricordare che gli «accordi di associazione» prevedono nel caso di prodotti agricoli delle
«clausole di salvaguardia» le quali permettono a ciascuna parte di introdurre in qualsiasi
momento, sullo sfondo dei propri obiettivi di politica agricola, restrizioni commerciali.
La struttura degli Accordi di associazione sembra evitare che il procedere
dell’integrazione commerciale nel settore dell’agricoltura possa avvenire determinando
forti squilibri. Si deve aggiungere che al possibilità di introdurre un «periodo di
transizione» specifico per le problematiche dell’agricoltura è nelle cose, così come è
avvenuto in passato, ad esempio, per Portogallo e Grecia.
Nei fatti ciò significa che per almeno un decennio la politica agricola resterà
«nazionale», anche se concepita sullo sfondo – uno sfondo comunque molto lontano –
di una integrazione istituzionale con l’Unione Europea. Questo sentiero è tuttavia reso
più difficile dalla natura sociale del problema dell’agricoltura nei paesi candidati. Il
carattere comunitario delle politiche agricole nazionali riemergerà in termini di povertà,
disoccupazione e emigrazione: temi che in linea di principio dovrebbero avere una
importanza sempre maggiore nell’agenda dell’Unione Europea. Da questo punto di vista
il sentiero evolutivo che seguirà l’agricoltura dei paesi dell’Europa centrale e orientale
non è indifferente per l’evoluzione sociale ed economica (ed anche politica) di questi
paesi. L’atteggiamento difensivo dell’Unione Europea in questo ambito può essere
interpretata come una delle tante «irrazionalità» che circonda la politica agricola
comune.
42
7. La costruzione economica dell’Europa
7.1 Politica ed economia nella costruzione dell’Europa
La «costruzione dell’Europa» – o il «progetto europeo» – ha avuto negli ultimi
cinquanta anni due meccanismi generatori. Certamente, la «costruzione economica
dell’Europa» – la condivisione di meccanismi di regolazione diretti e indiretti
dell’interazione economica – ha costituito un ancoraggio dell’evoluzione dei rapporti tra
gli Stati europei. Tuttavia, anche «la costruzione politica dell’Europa» – incarnata
nell’originario progetto federalista – ha alimentato il processo di integrazione
istituzionale. Naturalmente, tra costruzione economica e costruzione politica c’è una
inevitabile area di sovrapposizione e, in aggiunta, i due processi si alimentano, entro
certi limiti, a vicenda. Tuttavia, sono due processi distinti e questa distinzione è un
ancoraggio analitico necessario per interpretare il cammino verso il «nuovo progetto
europeo21.
Le relazioni che si esprimono nella forma dello scambio di merci/servizi e
informazione tra agenti individuali o organizzazioni (imprese) di diversi paesi sono
progressivamente aumentate a partire dagli anni Cinquanta in Europa. Queste relazioni,
per quanto possano apparire banali oggi, richiedono la presenza di interfacce di
comunicazione che permettono e regolano l’interazione. Tali interfacce – che sono una
forma di «capitale sociale trans-nazionale» – sono la base di ogni relazione e, quindi, di
ogni integrazione22.
21
L’Unione Europea soltanto come spazio di condivisione di un modello di organizzazione della società
civile – e non come uno spazio di regolazione delle interdipendenze – è comunque una visione, un
paradigma di riferimento che potrebbe ri-emergere come quello dominante. Benché non lo sia mai stato
dal Trattato di Roma a oggi.
22
Poiché stiamo parlando di questo tempo e di questo luogo («Europa»), si deve tenere presente che le
interfacce che regolano l’interazione tra agenti di paesi diversi scaturiscono da un processo di decisione
collettiva che ha (ancora) saldamente alla base lo stato-nazione. Allo stesso tempo, tuttavia, l’Unione
Europea è un progetto nel quale la formazione del capitale sociale trans-nazionale – i canali di
comunicazione tra agenti – viene progressivamente sottratto al livello decisionale dello stato-nazione.
43
L’interazione crea interdipendenza – tra agenti e, quindi, tra Stati. E
l’interdipendenza suggerisce – a volte impone, per agenti (collettivi) razionali – forme
di cooperazione, come, ad esempio, procedure comuni di regolazione degli effetti
esterni dell’interdipendenza. Oppure, sistemi comuni (transnazionali) di diritti di
proprietà, punto di partenza delle transazioni in una economia di mercato. La
costruzione economica dell’Europa è dunque sia un processo di integrazione sociale –
aumento dei flussi di scambio di materia/informazione tra singoli agenti – sia un
processo di integrazione istituzionale – creazione di meccanismi transnazionali di
regolazione della interdipendenza che scaturisce da questa integrazione.
Sullo sfondo dell’integrazione economica è stata la costruzione politica dell’Europa
a passare in secondo piano, per la ragione che dopo la seconda guerra mondiale – e
come conseguenza dei suoi esiti – i conflitti tra visioni politiche alternative sono
praticamente scomparsi. Tutti i paesi europei hanno accantonato progetti egemonici in
Europa23 e la proposizione di modelli radicali di società. La stessa costruzione del
«mercato sociale» non ha condotto ad una distinzione tra posizioni, ancorata com’era
ad un modello di economia di mercato largamente condiviso.
Soltanto negli anni Ottanta, con la svolta del Partito Conservatore in Gran Bretagna e
con il modello di economia di mercato ri-proposto dai governi di Margaret Thatcher, la
dimensione politica è tornata a svolgere un ruolo nel processo di costruzione
dell’Europa. La discussione su «quale modello di economia di mercato» si è
radicalizzata, ha segnato in modo più profondo i programmi di governo in Europa ed è
entrata nell’agenda dell’Unione Europea. (Il recente protocollo di intesa tra i governi
britannico, spagnolo e italiano sulla struttura dei contratti di lavoro è un esempio di
questa evoluzione.)
La dimensione ideologica sta, in effetti, tornando ad avere un ruolo nella costruzione
dell’Europa. Il nuovo modello di stato sociale – a partire dai fondamenti istituzionali
delle relazioni di lavoro –, il rapporto con le strategie degli Stati Uniti in politica estera,
la posizione rispetto al grado di apertura dei mercati europei, il ruolo dello statonazione, solo per fare alcuni esempi, sono temi con una profonda dimensione
ideologica, destinati ad assumere una specifica salienza nel processo di costruzione del
nuovo Progetto europeo.
23
E progressivamente anche fuori dall’Europa, i quali erano stati fonte di conflitto tra gli Stati europei.
44
7.2 La costruzione economica dell’Europa: elementi di base
La «costruzione economica dell’Europa» è avvenuta su tre distinti livelli – che nel
tempo hanno cambiato di importanza. Innanzitutto, l’Unione Europea è un meccanismo
di regolazione dei dis-equilibri economici che nascono dalla interdipendenza tra le
economie dei paesi dell’Unione. In secondo luogo, è un progetto di convergenza dei
fondamenti giuridici delle relazioni economiche all’interno dello spazio europeo. Infine,
è un progetto di integrazione dei mercati nazionali, la costruzione del «mercato unico
europeo», appunto.
La regolazione diretta dell’interazione economica non è il più importante tra i livelli
nei quali si articola l’Unione Europea, benché esso richiami grande attenzione. In tutti
gli Stati moderni – anche negli Stati che proclamano di essere capitalismi puri, come gli
Stati Uniti – l’azione collettiva interviene a modificare direttamente l’allocazione delle
risorse così come essa si determina sulla base della pre-determinata configurazione dei
diritti di proprietà. Il «progetto europeo» è anche questo: un trasferimento di
competenze nell’ambito dell’intervento diretto dagli Stati nazionali all’Unione Europea.
Tuttavia, se si guarda all’Unione Europea da questa prospettiva, il primo dato che
colpisce è che quel sistema di decisione collettiva che chiamiamo, appunto, Unione
Europea ridistribuisce circa il 2-3% delle risorse nazionali dei paesi che dell’Unione
fanno parte. Nonostante l’enfasi sul ruolo dell’Unione Europea nella allocazione delle
risorse, si deve constatare che dopo quaranta anni di cooperazione in Europa, le risorse
allocate dall’Unione (incluse quelle relative a tutte le altre funzioni della burocrazia
comunitaria) sono una quota marginale di quelle nazionali. Inoltre, le discussioni che
accompagnano la formazione del bilancio dell’Unione e l’attenzione con la quale
vengono fissati i tetti di spesa totale mostrano come gli Stati nazionali mantengano un
controllo molto forte su questo livello di regolazione. In effetti, nonostante l’enfasi che
in genere si pone su questo punto, l’Unione Europea non è importante soprattutto come
livello di regolazione diretta dell’interazione economica.
La «costruzione economica dell’Europa» richiama un altro livello di descrizione e di
analisi – oltre quello dei meccanismi transnazionali di regolazione, come la politica
agricola o le politiche di «coesione sociale». Si tratta delle differenze tra i fondamenti
giuridici dell’interazione. In effetti, due Stati che, per qualche ragione, si interrogano
sulla distanza tra i fondamenti giuridici dell’interazione economica all’interno dei propri
confini possono porsi l’obiettivo di ridurre tale distanza fino a farla scomparire.
45
Possono, in definitiva, porsi l’obiettivo di uniformare i vincoli istituzionali formali delle
azioni economiche individuali, di costruire un modello di interazione economica transnazionale. E un fatto è che il «progetto europeo», ad un certo punto, si è configurato
come uno straordinario progetto di costruzione di uno spazio trans-nazionale omogeneo
in termini di fondamenti giuridici delle relazioni di mercato, innescando un ambizioso
progetto trans-nazionale di ridefinizione dei diritti di proprietà.
Le ragioni che possono condurre due Stati ad uniformare i fondamenti giuridici
dell’interazione economica non sono poi così ovvie. Si può ritenere che uniformare il
sistema dei diritti di proprietà tra i paesi dell’Unione Europea sia un fattore causale
nella costruzione del mercato unico, che è uno degli obiettivi fondanti del progetto
europeo. Tuttavia, l’integrazione dei mercati la si può avere anche con fondamenti
giuridici dei mercati nazionali diversi – e le situazioni di arbitraggio che da ciò
potrebbero derivare non sembrano poi così preoccupanti. D’altra parte, uniformare il
sistema dei diritti di proprietà può essere visto come un aspetto di una più generale
convergenza dei fondamenti costituzionali delle società europee – che è, a sua volta, il
cardine del progetto federalista. Resta il fatto che, indipendentemente dalle ragioni che
hanno spinto l’Unione Europea in questa direzione, il progetto di un sistema di diritti di
proprietà trans-europeo è oggi uno degli elementi costitutivi della costruzione
economica dell’Europa e che la sua attuazione è una parte consistente di ciò che
l’Unione Europea fa24.
Il terzo livello nel quale si articola la costruzione economica dell’Europa è quello
della costruzione del «mercato unico europeo» che, appunto, deve essere considerata un
fondamento in sé del «progetto europeo».
Con l’espressione «mercato unico europeo» si intende in primo luogo la costruzione
di un mercato nel quale si manifestano le domande e le offerte a partire dall’intero
spazio europeo, senza interferenze dirette come dazi, contingentamenti, distorsioni dei
prezzi relativi e rischi di cambio – questi ultimi ora eliminati con la moneta unica. La
costruzione del «mercato unico» è in sostanza una progressiva eliminazione dei fattori
di competitività tra imprese di vari Stati diversi dall’efficacia tecnologica – i quali
dovrebbero infine restare gli unici fattori di competizione rilevanti, aprendo la strada, in
24
Ciò lascia aperto il problema di quanto un sistema di diritti di proprietà trans-europeo determini i
modelli di società nazionali. In effetti, esistono dei fondamenti giuridici dell’interazione che restano ad un
livello base mentre altri arrivano rapidamente a modellare la società.
46
tutti quei casi in cui le economie di scala sono importanti, allo sfruttamento delle stesse
attraverso aumenti dimensionali.
Dando per scontato l’operare di significative economie di scala, due vantaggi sono
costantemente sottolineati nella discussione sulla costruzione del mercato unico
europeo: a) l’aumento di efficienza della produzione e gli aumenti di sovrappiù che ne
conseguono; b) l’aumento della capacità delle imprese europee di competere con altre
aree dell’economia-mondo – come gli Stati Uniti – nelle quali le imprese possono
sfruttare i vantaggi dell’estensione del mercato25.
I tre livelli ai quali si è articolata la costruzione economica dell’Europa formano un
sistema – abbastanza complesso – che è sempre stato in trasformazione a partire dal
Trattato di Roma. Le trasformazioni, scandite dagli emendamenti al Trattato originario,
sono state indotte dai cambiamenti delle forme e delle scale che l’integrazione
economica in Europa via via ha assunto e dalla natura dei dis-equilibri che tale
integrazione ha determinato. I «fondi strutturali», ad esempio, nascono quando negli
anni Ottanta le implicazioni sulle divergenze territoriali dell’integrazione diventano
evidenti. Le trasformazioni sono state anche indotte dai cambiamenti nelle condizioni
esterne, dai cambiamenti dell’ambiente del «sistema Europa». Il sistema monetario
europeo prima e ora la moneta unica sono stati anche una risposta alla nuova struttura
dei mercati finanziari internazionali (e alla instabilità che ne consegue).
Naturalmente, la dinamica del «progetto europeo» è stata anche guidata dai
cambiamenti nelle visioni egemoni delle forme dell’integrazione politica e sociale
dell’Europa. La politica ha avuto i suoi momenti di autonomia.
25
Un aspetto trascurato ma fondamentale implicito nel concetto di «mercato unico» è la riduzione dei
mercati attraverso la standardizzazione dei processi di produzione e di consumo – di beni finali o di
componenti dei beni finali (di consumo o di investimento) – che genera mercati transnazionali per
definizione più ampi di quelli originari.
47
8. Scenari europei
8.1 Dai problemi aperti agli scenari
L’unificazione monetaria, l’internazionalizzazione delle economie europee – non
solo come «fatti» ma ora anche soprattutto come progetti latenti e visioni politiche – e,
infine, l’ampliamento dell’Unione Europea stanno conducendo ad una ridefinizione del
Progetto europeo. La natura e il tipo dei problemi che si sono accumulati in questo
decennio, alcuni richiamati in precedenza, non permettono un cambiamento al margine
della struttura istituzionale ma impongono un suo profondo ripensamento. L’avvio della
Convenzione Europea va interpretata sullo sfondo della necessità di una trasformazione
della struttura istituzionale dell’Unione Europea – benché l’esito dei lavori potrebbe
essere più modesto anche per il prevalere di una concezione minimalista del progetto
europeo.
Ci si aspetta molto dalla nuova Costituzione europea, compito principale della
Convenzione. Tuttavia, non è affatto chiaro quale relazione si immagini e, comunque, si
stabilirà tra la carta costituzionale europea stessa e il resto della struttura istituzionale
dell’Unione – relazioni che costituisce una delle questioni più interpretative
fondamentali. Già il fatto di ritenere che la Costituzione europea possa mantenere un
carattere informale – radicata come sarebbe nelle istituzioni europee – evidenzia che il
tema della formulazione non esaurisce affatto quello più generale della configurazione
istituzionale dell’Unione Europea.
Allo stato attuale, sappiamo poco della forma che assumerà il «nuovo progetto
europeo», anche perché incerte sono le visioni che alimentano la discussione. Si tratta di
un progetto all’inizio del processo di elaborazione e si può iniziare, per delinearne i
tratti, dalla considerazione dei vincoli che, comunque, deve rispettare. Ma anche la
rappresentazione dei vincoli scaturisce da una interpretazione e la discussione pubblica
dovrebbe almeno convergere verso una rappresentazione condivisa.
Il primo ancoraggio di una riflessione sulla forma che il «nuovo progetto europeo»
prenderà – e delle conseguenze che esso avrà sui singoli paesi – è la natura dei problemi
che esso deve risolvere. Il secondo ancoraggio è la traiettoria che il sistema istituzionale
ha seguito nell’ultimo decennio, collegata alle visioni politiche dei decisori pertinenti –
48
se si vuole, la concezione delle forme che l’interazione sociale deve avere, secondo
questa o quella visione. Su questa base si possono costruire diversi scenari europei che,
per semplificare, si possono ancorare a due ipotesi limite benché, in sé, con una elevata
possibilità di realizzarsi.
8.2 La de-costruzione economica dell’Europa
La de-costruzione economica dell’Europa – in sostanza la perdita di rilevanza delle
tre dimensioni sulle quali si è fondata la costruzione economica dell’Europa – è uno
scenario da contemplare perché è quello verso il quale si sta di fatto procedendo in
modo naturale. Si tratta di uno scenario che non richiede decisioni controverse – per
quanto possano essere rilevanti le conseguenze – e che non pone alla Convenzione
Europea problemi troppo difficili da risolvere. Si tratta di uno scenario che diventa
realtà a partire dalle condizioni iniziali per evoluzione lungo una traiettoria già visibile.
Si deve tuttavia sottolineare che, nonostante l’enfasi posta sulla costruzione
economica dell’Europa, il «progetto europeo» contiene anche altro – molto di altro nelle
intenzioni e nelle aspirazioni di alcuni dei suoi sostenitori, solo poco di altro nella realtà
dei fatti. La costruzione civile dell’Europa – sostanzialmente la convergenza verso un
modello di società civile – è comunque un tema latente nella storia europea e da solo
può sostanziare il «progetto europeo». La de-costruzione economica dell’Europa, anche
se si realizzasse, non significa affatto per definizione, quindi, la fine del «progetto
europeo» né la irrilevanza di un «nuovo progetto europeo», per quanto essa possa
astrarre dalla dimensione economica.
Agenda 2000 ha già delineato un orientamento verso una riduzione di importanza del
primo dei pilastri sui quali si regge la dimensione economica dell’Unione, vale a dire le
politiche di ri-allocazione delle risorse. Percorso che la recentissima – e molto
controversa presa di posizione della Commissione Europea sulle modalità
dell’estensione ai paesi candidati della politica agricola e delle politiche di coesione ha
ancora meglio delineato. A fronte di un sostanziale aumento del campo di intervento
potenziale sul terreno delle politiche agricole e di coesione sociale, ciò che si propone è
una sostanziale riduzione (relativa, appunto) delle responsabilità dell’Unione Europea26.
26
Ma la stessa insistenza, con la quale si ripete che qualsiasi impegno dell’Unione Europea sulla
partecipazione dei paesi candidati ai benefici della Politica Agricola Comune non mette in discussione il
49
In questo scenario, gli squilibri regionali – sia quelli radicati nella «storia regionale»
sia quelli determinati dai processi cumulativi innescati dall’integrazione economica
stessa – ritornano ad essere, come lo sono stati fino a metà degli anni Ottanta,
esclusivamente un problema nazionale. (O, persino, diventare un problema strettamente
locale se la prospettiva della competitività territoriale si affermasse definitivamente).
Questo mutamento di prospettiva anticipa, in un certo senso, le difficoltà create dalla
scala e dalla varietà dell’Unione dopo l’ampliamento. Un meccanismo di regolazione
diretto per uno spazio geografico di queste dimensioni – e così differenziato –
richiederebbe uno straordinario rafforzamento e una ridefinizione del processo di
decisione collettiva comunitario. Soprattutto, richiederebbe la definizione di singoli
spazi di regolazione sui quali tarare i meccanismi di regolazione diretta. Come si
potrebbe progettare da Bruxelles una politica agricola per uno spazio geografico e
sociale che inglobi la Turchia o l’Ucraina e magari – come ogni tanto si lascia intendere
– la Russia? Piuttosto che affrontare questo tema, il «nuovo progetto europeo» potrebbe
farlo scomparire. Ridimensionando i fondi strutturali, sospendendo la politica agricola
comune e, in prospettiva, eliminandola del tutto. Proprio la visione di una Unione che si
espande, che non cerca un confine al quale ancorarsi neanche ora, suggerisce e, oltre
una certa soglia di paesi membri, impone un passo indietro nelle politiche di
regolazione diretta.
C’è stato nel «progetto europeo» un «doppio movimento»: da una parte, la moneta
unica sposta a livello europeo il fondamentale livello di regolazione costituito dalla
politica monetaria; dall’altra, la ritirata – solo delineata per ora – dal terreno degli
squilibri regionali riconduce il tema degli squilibri regionali a livello nazionale. Ma è un
doppio movimento che produce lo stesso effetto: depotenziare le capacità di governo del
processo economico dell’Unione e depotenziare in assoluto le capacità di governo totali
del sistema Europa27.
progetto di una radicale riforma della stessa, tradisce quanto sia radicata nella visione dell’Europa che si
sta delineando l’ipotesi di una riduzione di importanza dell’Unione Europea come livello di regolazione
diretta.
27
Questo slittamento è coerente con i cambiamenti che sembrano profilarsi in termini di forme della
internazionalizzazione delle economie europee. La internazionalizzazione dei mercati agricoli europei –
di cui l’introduzione dei prodotti transgenici è un aspetto chiave – è infatti speculare alla scomparsa della
politica agricola comune.
50
(Questo è un punto veramente problematico. A fronte della perdita di importanza
delle politiche territoriali, aumenta l’importanza della politica monetaria europea come
conseguenza della moneta unica. La moneta unica declassa gli squilibri
macroeconomici nazionali a squilibri regionali – comunque non più affrontabili con una
politica monetaria europea. La tesi che esista un «mercato del lavoro europeo» o
qualcosa che assomigli vagamente ad esso è priva di fondamento e, inoltre, la
costruzione di questo mercato non sarà possibile neanche nei prossimi decenni. Su
questo sfondo, la tesi che la politica monetaria possa porsi obiettivi più ambiziosi della
regolazione dei mercati finanziari appare come infondata).
Ma anche gli altri due pilastri dell’Europa economica sembrano perdere di salienza
sotto la spinta della internazionalizzazione delle economie e della riduzione del grado di
chiusura dei mercati europei. L’Unione Europea come modello di interazione
economica – basato su una struttura omogenea di diritti di proprietà – perde di
significato. Così come lo perde il concetto di mercato unico europeo, mentre i mercati
europei si aprono progressivamente. La sostanziale adesione da parte dell’Unione
Europea ai progetti di liberalizzazione del commercio agricolo proposti dal WTO è un
esempio eclatante della progressiva riduzione del grado di chiusura. Ma, nella stessa
direzione di una riduzione della chiusura operativa dell’Europa sembra andare il riorientamento del commercio internazionale, dei flussi di capitale e degli investimenti
esteri diretti dei singoli paesi. Se la relativamente più bassa integrazione economica del
Regno Unito con l’Unione Europea è un dato storico – che spiega anche alcune delle
ambivalenze di questo paese rispetto all’Europa – il ri-orientamento delle relazioni
economiche della Germania è un fatto di grandi conseguenze.
Anche i flussi migratori – e la loro gestione – sembrano corroborare l’ipotesi di una
riduzione dell’Europa come ambito di chiusura operativa. Mentre, da una parte, la
Germania manifesta nella gestione dei flussi migratori il suo profondo ancoraggio con
l’Europa Centrale e Orientale, altri paesi – tra cui l’Italia – stanno seguendo itinerari
diversi. Ma il fatto che l’Unione Europea non abbia una politica unitaria su un tema così
importante è la misura di una difficoltà ed ora apre la strada ad un cambiamento
profondo. Negli anni Cinquanta e Sessanta, l’emigrazione italiana in Europa è stata un
elemento di coesione e di integrazione sociali molto importante. Così come
l’emigrazione negli altri paesi europei dalla Penisola Iberica. Allo stesso modo, un
fattore di coesione è stata l’emigrazione dai paesi dell’Europa Centrale e Orientale dopo
51
le crisi politiche che si sono succedute dagli anni Cinquanta fino alla dissoluzione del
dominio sovietico nella ex-Germania Orientale.
La de-costruzione economica dell’Europa avviene in una situazione nella quale con
la moneta unica – e il vincolo del patto di stabilità – gli stati nazionali perdono ogni
controllo sulla politica macro-economica. La politica macroeconomica in quanto tale
perde di significato nello spazio europeo. Questo scenario si accompagnerà ad un
profondo mutamento della struttura della politica pubblica all’interno degli stati
nazionali (perché un modo per compensare questi cambiamenti si dovrà trovarlo).
La de-costruzione economica dell’Europa è un modo di declinare la sfida della
globalizzazione – non l’unico certo. Significa ritenere che lo spazio europeo non sia
sufficientemente esteso per organizzare il processo produttivo, significa che la
costruzione economica è stato un passo intermedio, che la finalità europea è stato uno
strumento o una illusione.
8.3 La riunificazione dell’Europa
Uno scenario molto diverso da quello precedente – comunque uno scenario limite –
può essere considerato quello della «ri-unificazione dell’Europa». Esso si fonda sulla
interpretazione dell’ampliamento ai quindici paesi candidati e potenziali candidati come
compimento della finalità europea. In questo scenario l’Europa è un soggetto politico
dai confini determinati – per quanto, se si vuole, arbitrari (ma tanto quanto lo è ogni
confine). Disegna, una volta per tutte, i confini dell’Unione: i quindici paesi candidati
sono l’Europa ritrovata28.
Ancorandosi ad uno spazio, l’Unione Europea sarebbe costretta a riprogettare il
senso in cui i suoi confini delineano una differenza, propongono e assumono un
significato sullo sfondo dell’economia mondiale. Il tema della «chiusura operativa»
delle economie europee – pragmaticamente e non ideologicamente interpretato –
dovrebbe essere ripreso, facendo apparire incongruo non assegnare ai confini europei un
significato pratico, non assegnare ai confini un ruolo di regolazione nelle relazioni
economiche tra il «sistema Europa» e altri sistemi. Questa chiusura operativa significa
28
Dandosi un confine, stimola, ai suoi confini, la nascita o il rafforzamento di altre Unioni di altri spazi
entro i quali poter organizzare il processo economico sfruttando i vantaggi della divisione del lavoro e
delle economie di scale.
52
riscoprire il senso del limite nella ricerca delle economie di scala, nella
standardizzazione dei modelli di consumo, nel volume delle transazioni commerciali –
e, anche, nella rappresentazione della propria (presunta) egemonia culturale. In questo
scenario riprende vigore il progetto di una costruzione economica dell’Europa, di un
sistema di regolazione che riconosce l’esistenza di dis-equilibri europei29.
L’ampliamento a trenta paesi pone difficili problemi, come sottolineato in
precedenza, alla costruzione economica dell’Europa – e per questo la de-costruzione
economica delineata nello scenario precedente è una opzione attraente sullo sfondo
dell’ampliamento (e, come si è visto, non solo di esso). La logica della regolazione
diretta e indiretta delle interazioni di mercato impone che il processo di decisione
pubblica abbia un confine entro il quale seguire (e valutare) il manifestarsi di disequilibri e la propagazione degli effetti delle politiche30. Tuttavia, se questo è il confine
dell’Europa una volta per tutte, esso apre la strada anche ad una soluzione del problema.
Sullo sfondo di un confine certo ci si può porre il problema pratico (a) degli ambiti di
regolazione, (b) degli strumenti di regolazione e (c) del rapporto tra diversi livelli di
regolazione.
In questo scenario la politica agricola comunitaria, le politiche di coesione, il
rafforzamento del mercato del lavoro europeo, il completamento del progetto della
moneta unica e il mercato unico europeo – dove l’aggettivo europeo riguarda ora i trenta
paesi – assumono ancora più importanza che in passato. Persino una relativa chiusura
dei mercati finanziari può essere esplorata. D’altra parte si tratterebbe della più vasta
area monetaria della storia ed anche del più vasto mercato unico. L’ossessione
dell’economia dalle origini – il rapporto tra estensione del mercato e rendimenti di scala
– sarebbe stata soddisfatta per molto meno di questo straordinariamente ampio mercato
europeo.
La dialettica tra integrazione dei mercati europei e rafforzamento (e valorizzazione)
della complessità territoriale, e dei suoi equilibri sociali e ambientali – uno dei
principali ancoraggi del «progetto europeo» originario, spesso tradito nelle politiche ma,
comunque, sempre presente nelle intenzioni – continua ad essere in questo scenario, in
29
In genere, dis-equilibri locali ai quali il principio di solidarietà territoriale assegna una valenza
nell’ambito di livelli di regolazione superiori.
30
Anche l’accelerazione del processo di ampliamento è un aspetto di questo cambiamento. Ipotizzare che
nel 2004 la Romania o la Bulgaria presentino una «differenza istituzionale» dalla media europea che
rende ammissibile la lo entrata nell’Unione equivale di fatto ad un allentamento dei vincoli.
53
misura maggiore che in passato, l’elemento caratterizzante del «progetto europeo». Il
«nuovo progetto europeo» lo riprende e lo declina sullo sfondo delle mutate condizioni.
Con riferimento ai problemi esaminati in precedenza, questo scenario – che non è,
appunto, uno scenario che diventa realtà per evoluzione spontanea – richiede una ridefinizione della architettura istituzionale dell’Unione Europea.
Ma se la riunificazione dell’Europa è il compimento della finalità europea, essa
identifica una cesura nella storia europea recente, imponendo la definizione di una
nuova finalità. Se il mercato unico europeo è ora a portata di mano, nasce il tema di
quale obiettivi dare ad un sistema così complesso ed economicamente efficiente come
quello europeo. Nascerebbe il problema di capire se l’Europa, oltre ad una storia e ad
una geografia peculiari ha anche una politica, una ideologia, un modello di società –
come progetto.
54
9. Scenari italiani: l’Italia e l'ampliamento della UE
9.1 Alla ricerca di una prospettiva
Dopo la Germania, l’Italia è il paese europeo più importante in termini economici e
in termini di geografia – soprattutto rispetto alla nuova geografia europea. Nello
scenario europeo, questa importanza geo-economica ci si aspetta debba riflettersi in
importanza politica. Importanza che ora, concretamente, significa partecipare con il
peso dei nostri interessi e delle nostre visioni – ed anche delle nostre analisi – alla
costruzione (o de-costruzione) dell’Europa e alla elaborazione del «nuovo progetto
europeo».
Non è facile decifrare la posizione italiana. Non solo perché non esiste un progetto
italiano per il «progetto europeo» – d’altra parte, non sembra esistere neanche negli altri
paesi leader –, ma anche perché non si hanno neanche molti elementi per delinearla. Da
almeno dieci anni – dal Trattato di Maastricht che ci aveva posto «obiettivi impossibili»
– l’Italia ha spostato il focus del dibattito nazionale sulla «Unione Europa come
ancoraggio» piuttosto che sulla «Unione Europea come progetto». Concentrati a
raggiungere i parametri che ci avrebbero fatto «restare in Europa», abbiamo smesso di
chiederci e di riflettere «a quale Unione Europea» stavamo provando – riuscendoci in
definitiva – ad ancorarci. L’obiettivo del «risanamento finanziario» non ha lasciato
molto spazio alla riflessione sulla nuova posizione che l’Italia stava assumendo come
conseguenza del processo di integrazione territoriale, economica, civile dell’Europa
dopo la caduta del Muro di Berlino.
L’Italia non può avere una posizione minimalista o difensiva sul tema
dell’ampliamento dell’Unione Europea. Le conseguenze dell’integrazione economica e
sociale iniziata con la dissoluzione del dominio sovietico saranno per l’Italia molto
profonde e tanto vale affrontarle consapevolmente. Delegare alla Germania, come molti
paesi europei sembrano avere fatto, la soluzione dei problemi dell’ampliamento ad est
non è una scelta ragionevole per l’Italia. Ragioni geografiche e storiche non permettono
all’Italia di guardare all’ampliamento «da lontano» – come possono fare, ad esempio,
l’Irlanda o il Portogallo. In questa sfera, l’Italia ha interessi nazionali da rappresentare e
difendere, princìpi da sostenere e strategie da delineare e attuare.
55
Vista da Roma la costruzione della nuova Europa non è solo federazione versus
confederazione, statuto della Banca centrale europea e quanto sono democratici i
processi decisionali dell’Unione. È questo certo, ma anche di più: è questa prossimità
che si fa problema nell’area più instabile d’Europa, è questo confine che si fa cesura,
territorio di passaggio tra Balcani e Mediterranei che ri-tornano.
Per tracciare le coordinate – solo le coordinate (ma di quale geometria?) di una
riflessione sulle conseguenze economiche dell’ampliamento per l’Italia ci si può
comunque ancorare ad alcune prospettive e a qualche fatto. Ritornando alla distinzione
iniziale, dobbiamo considerare gli effetti sull’Italia del processo di integrazione sociale
– le cui problematiche si sono oramai esplicitate – e gli effetti del «nuovo progetto
europeo» – che dalla prospettiva italiana quelle problematiche, comunque, dovrà
affrontare.
9.2 L’Italia nella nuova geografia europea
Il processo di ampliamento ad est dell’Unione Europea non potrà non coinvolgere
molto presto anche i paesi balcanici – con i quali il processo di integrazione economica
e sociale ha di fatto subìto un’accelerazione nonostante i conflitti bellici degli anni
Novanta e la crisi politica e sociale. A quel punto, diventerà evidente ciò che dovrebbe
essere già evidente, e cioè che l’Italia, insieme alla Germania e all’Austria, è uno dei
paesi maggiormente coinvolti dalle trasformazioni territoriali in atto in Europa. Nella
nuova geografia che si sta delineando, l’Italia avrà una posizione centrale. Non sarà più
confine bensì cerniera. Il significato economico, politico e sociale della nuova
geografia, tuttavia, è per l’Italia ancora indeterminato. La conseguenza più importante è
che l’ampliamento crea uno spazio politico ed economico – ma nessun effetto
predeterminato. Gli effetti che si produrranno dipenderanno in larga misura dalle
reazioni della società e dell’economia italiana – e, soprattutto, del sistema politico.
In primo luogo, tale significato resta indeterminato per l’incerta collocazione
istituzionale dei Balcani. Dopo la dissoluzione dell’Impero Sovietico, l’Europa Centrale
ha iniziato un percorso lineare di democratizzazione e integrazione istituzionale con
l’Unione Europea. Benché sulla carta non vi fossero ragioni che impedissero alla
Yugoslavia di seguire lo stesso percorso, le cose sono andate diversamente. A differenza
della Germania, l’Italia non ha avuto immediatamente dalla sua parte le ragioni della
56
geografia (e le responsabilità che ne conseguono). I conflitti bellici che si sono
succeduti negli anni Novanta nella ex-Yugoslavia hanno allontanato – in un certo senso
congelato – il tema delle relazioni economiche e territoriali tra l’Italia e i Balcani. Resta
il fatto che il significato dell’ampliamento ad est per l’Italia va valutato sullo sfondo di
uno scenario che contempla l’integrazione dei Balcani.
Nella nuova geografia europea nella quale l’Italia si trova, è l’area adriatica ad
assumere una posizione chiave. Anche se in misura ancora limitata, le conseguenze si
sono già manifestate. Da un punto di vista territoriale, i Balcani e l’Europa Sudorientale hanno due direttrici di comunicazione, due «corridoi»: (a) il Danubio e (b)
l’Adriatico. Si tratta di due direttrici con una storia e una geografia propria e fortemente
caratterizzate31.
L’Adriatico è certamente un sistema di comunicazione – che nell’ultimo decennio ha
rafforzato il suo ruolo e la sua dotazione infrastrutturale (e sulla quale si sta investendo).
Tuttavia, l’Adriatico è anche il più importante bacino turistico d’Europa che si fonda su
un ecosistema delicato. In aggiunta, il sistema territoriale adriatico italiano ospita alcuni
dei sistemi locali economicamente più dinamici d’Europa e, in generale, sta
attraversando una fase di sviluppo che dura da alcuni decenni (con un conseguente e
significativo incremento di popolazione).
31
Il Friuli Venezia Giulia, il Veneto e il Trentino-Alto Adige sono tre regioni profondamente coinvolte
dal processo di integrazione economica dei paesi dell’Europa centrale. Non è tanto lo scontato richiamo ai
legami storici che è necessario mettere in evidenza, quanto la posizione territoriale di cerniera che questa
parte d’Italia ha assunto appena l’Austria ha ristabilito i suoi legami con l’Europa centrale. Da lembo
marginale del territorio italiano, Trieste è diventata un nodo fondamentale del sistema territoriale italiano
– anche se, per ora, solo potenziale. In generale, tutto il Nord-Est funge da cerniera territoriale con
l’Europa centrale – oltre ad essere la base territoriale di una economia tra le più forti d’Europa. Il tema
delle macro-regioni come alternativa alle regioni e agli stati nazionali è politicamente irrilevante. Non è
nell’agenda politica dell’Unione Europea – e forse di nessuno, concretamente. Non è questo il punto. Il
punto è che l’integrazione dei paesi dell’Europa centrale ha trasformato il Nord-Est da territorio orientato
verso l’Italia e «relativamente chiuso ad est» a territorio-cerniera. Ciò richiede adeguamenti
infrastrutturali molto significativi, nel contesto di una densità territoriale aumentata a seguito di tre
decenni di intenso sviluppo economico. Si tratta di un territorio-cerniera praticamente tra tutto il territorio
italiano e l’Europa centrale – con alle spalle un sistema economico che è solo secondo alla Germania in
termini di volume delle relazioni con questi paesi.
57
Si può affermare che il primo effetto che l’ampliamento ad est ha avuto per l’Italia è
quello di proporre una «questione adriatica». Ma l’area adriatica non è l’unica cerniera
territoriale in Europa per la quale progettare una strategia di sviluppo spaziale. Ce ne
sono anche altre e molto importanti, le quali competeranno per risorse finanziarie e
organizzative. Ciò significa che, forse per la prima volta nella storia dell’integrazione
politica in Europa, l’Italia deve negoziare soluzioni per un problema che ha una scala
europea (ed anche mondiale) pur avendo una forte rappresentazione in termini di
interessi nazionali.
9.3 Gli effetti economici dell’integrazione di fatto
L’apertura dello spazio europeo e la conseguente integrazione – che le relazioni
territoriali (geografiche e storiche) modellano – stanno avendo effetti economici
rilevanti per l’Italia in almeno tre ambiti. Innanzitutto, si è allargato il nostro spazio di
relazioni commerciali; in secondo luogo, è stata introdotta una (effettiva e ancora di più
potenziale) dimensione trans-frontaliera (trans-nazionale) nel nostro mercato del lavoro;
infine, il nostro territorio (parte di esso) si è trovato collocato in una nuova posizione
che ne aumenta la densità di uso, ponendo in modo pressante la questione
dell’adeguamento infrastrutturale (e dell’impatto ambientale). Si tratta di effetti che non
si sono interamente dispiegati e che non sono stati neanche interpretati nel loro
significato rispetto ad altre dinamiche evolutive e ai caratteri dell’economia italiana.
Questi temi non hanno neppure condotto ad una classe di politiche chiaramente
orientata a rimuovere i vincoli e ad esplorare le possibilità che hanno determinato.
Vincoli e possibilità che dovrebbero trovare uno spazio nel nuovo progetto europeo.
Un aspetto generale da considerare è la profonda asimmetria territoriale di questi
effetti, i quali riguardano in misura assolutamente preponderante – se non in molti casi
esclusiva – lo spazio adriatico. Ciò ha proiettato le Regioni Adriatiche nel panorama
europeo, coinvolgendole nei progetti di co-operazione promossi dall’Unione Europea e
costringendole ad uno sforzo di rappresentazione delle problematiche di integrazione
territoriale dopo decenni di assenza in questa sfera. Ma questo accresciuto
coinvolgimento delle Regioni Adriatiche nel processo di ampliamento richiederebbe
uno sforzo di ricomposizione a livello nazionale delle implicazioni del processo di
integrazione ad est. In effetti, la prima conseguenza dell’integrazione sociale è stata
58
mettere in discussione – o far apparire come instabile – l’equilibrio tra livello regionale
e livello centrale di governo con riferimento a queste problematiche32.
La fine della divisione politica dell’Europa ha ampliato in modo significativo lo
spazio delle relazioni commerciali ancorando alla logica della prossimità l’apertura di
nuovi mercati di beni finali, la scoperta di territori contigui nei quali organizzare
processi di internazionalizzazione delle imprese e l’emergere di paesi ai quali rivolgersi
per l’importazione di merci. Si tratta di tre livelli di interazione molto importanti,
soprattutto il secondo e il terzo. La prossimità geografica si associa, infatti, ad una forte
«sottovalutazione» del tasso di cambio, classificando questi paesi come potenziali
soggetti di processi di de-localizzazione e di importazione di componenti o, in genere,
di prodotti ad elevata standardizzazione33.
La creazione di un mercato del lavoro trans-regionale/nazionale nell’Europa Centrale
e Orientale è un aspetto importante – che l’Italia non può eludere34. L’area
geograficamente e territorialmente integrata con l’Europa Centrale – e cioè il Nord-Est
– esprime una domanda di lavoro in eccesso che può trovare nell’integrazione transnazionale del mercato del lavoro un efficace livello di regolazione. L’area interessata è,
ovviamente, ancora più ampia del Nord-Est e si estende a tutta l’area adriatica –
considerando i Balcani, la cui contiguità geografica e culturale è altrettanto forte.
In Italia, questa nuova opportunità si scontra con una politica immigratoria orientata
in tutt’altra direzione, non selettiva nei flussi in entrata per paesi di provenienza,
sostanzialmente non regolata. Difficile comprendere perché questo tema non sia al
centro della discussione – considerata anche l’importanza che le dinamiche del mercato
del lavoro hanno per tutta l’area adriatica del centro-nord. In ogni caso, permanendo le
32
Tema che da alcuni anni ha in Italia una sua prominenza, sullo sfondo del rafforzamento in corso di una
organizzazione federalista dello Stato.
33
Quanto a lungo queste differenze di prezzi relativi permarranno dipenderà dalla dinamica del tasso di
cambio e dai prezzi interni, i quali dipendono, a loro volta, da una costellazione di fattori – compreso il
rapporto tra monete nazionali ed Euro – e dalle strategie finanziarie delle imprese europee rispetto a
questi paesi. D’altra parte, la convergenza istituzionale verso il modello europeo eliminerà
progressivamente molti di quei fattori di «competitività sociale» ai quali questi paesi hanno in parte
affidato la loro competitività economica.
34
Sullo sfondo dell’ampliamento, mercati transnazionali «locali» sono rilevanti anche per l’Austria e la
Germania – benché, nel caso della Germania, l’elevata disoccupazione nei Nuovi Länder ne abbia frenato
lo sviluppo.
59
attuali differenze di potere d’acquisto e non volendo affidare all’immigrazione
clandestina il ruolo di meccanismo regolatore dell’offerta di lavoro, la costruzione di un
mercato trans-nazionale del lavoro costituisce una naturale evoluzione
dell’ampliamento.
Il terzo ineludibile aspetto è quello delle infrastrutture a livello delle politiche del
trasporto. A questo riguardo, i temi che l’ampliamento pone all’Italia non sono
trascurabili. La metafora dell’Italia come «ponte dell’Europa verso l’Oriente» o «verso
il Mediterraneo» non è facile da declinare in termini operativi. L’impatto ambientale, le
conseguenze sull’assetto territoriale e i costi di questo adeguamento infrastrutturale
sono rilevanti e dovrebbero condurre ad una revisione delle priorità. L’asse TorinoTrieste e l’intero sistema territoriale adriatico si stanno caricando di funzioni logistiche
legate alla intensificazione degli scambi in Europa e tra l’Europa e il resto del mondo
sullo sfondo di strategie locali spesso competitive.
Naturalmente, le difficoltà che l’Italia incontra nel governare il processo di
integrazione in atto nell’Europa Orientale e Sud-orientale è anche una conseguenza di
un quadro istituzionale incompleto.
9.4 Scenari, effetti, progetti
Indipendentemente dalla forma che il «nuovo progetto europeo» assumerà, gli effetti
dell’ampliamento dell’Unione inteso come processo di integrazione continueranno a
dispiegarsi. Se l’Unione Europea non offrirà un contesto di regolazione, sarà l’Italia –
ad uno o più dei livelli in cui si articola (o si articolerà) il suo sistema politico
amministrativo – a dover formulare o attuare politiche nazionali di integrazione.
Il processo di integrazione economica dell’Italia in Europa e all’ampliamento
dell’Unione Europea possono essere considerati sullo sfondo di quattro scenari limite,
costruiti a partire dalla natura della risposta italiana ai problemi che essi pongono
(Figura 1). Il processo di integrazione dell’economia italiana con l’Europa Centrale e
Orientale continuerà a seguire il suo corso, nei termini delineati in precedenza. Rispetto
a questo processo l’Italia può formulare e attuare una politica nazionale integrata. Può
cioè interpretare e valutare in modo integrato la costellazione degli effetti economici che
60
l’integrazione genera e (provare a) orientarli nella direzione che ritiene migliore35.
Potremmo definire questa la «situazione con», ovvero la «situazione con una politica di
integrazione nazionale».
Contemplare la situazione opposta, ovvero la «situazione senza una politica di
integrazione europea» è necessario non solo perché è quella attuale ma anche perché è
una opzione concreta in un contesto di congestione politico-amministrativa che
costringe a fare una gerarchia di urgenza delle politiche stesse. D’altra parte, poiché si
tratta di un processo – l’integrazione economica dell’Italia in Europa – che ha la sua
dinamica l’assenza di politiche non significa assenza di effetti.
Per riflettere sulle implicazioni delle due alternative (estreme) tra cui l’Italia può
oscillare - la «situazione senza» e la «situazione con» – si deve tenere conto del fatto
che esse assumono uno significato sullo sfondo dello scenario europeo nel quale si
collocano. Se si esprime lo scenario europeo in termini delle alternative «decostruzione/riunificazione», il tema dell’ampliamento dell’Unione Europea può essere
declinato per l’Italia in termini dei quattro scenari (A, B, C e D) indicati nella Figura 1.
Figura 1 – L’ampliamento dell’Unione Europea: scenari italiani
“situazione senza”
I: decostruzione economica
II: riunificazione economica
35
“situazione con”
A
B
C
D
Ciò significa rivedere anche le politiche che hanno come oggetto processi che si intersecano in termini
di effetti con quelli dell’integrazione europea.
61
Scenario A
In questo scenario, l’Italia non mancherà di avere, come ha avuto sino ad ora,
benefici – ad esempio, maggiori esportazioni, opportunità di de-localizzazione delle
catene produttive, integrazione di fatto del mercato del lavoro. In questo scenario vi
saranno, naturalmente, anche dei costi. Tuttavia, il fatto che vi siano dei benefici e che
essi siano visibili lo rende sostanzialmente accettabile. Inoltre, il suo dispiegarsi non è
costato e non costerebbe all’Italia alcun rilevante sforzo di elaborazione amministrativa
e politica. In un decennio (1992-2002) dominato da altri temi economici e politici
certamente di rilievo, l’Italia è scivolata dentro questo scenario in modo naturale. Così
come, in modo quasi naturale, l’Unione Europea percorre il sentiero della sua decostruzione economica.
Le forme dell’integrazione economica dell’Italia in Europa saranno determinate dalle
dinamiche di mercato, le quali sono influenzate dal contesto generale. Poiché il
contesto, in questo scenario, è quello di una Europa con un grado di chiusura operativa
decrescente – più orientata all’esterno che all’interno – l’integrazione economicoterritoriale dell’Italia in Europa è solo un aspetto della internazionalizzazione
dell’economia italiana.
Questa tensione si manifesterà già in termini di equilibrio tra orientamento orientale
e orientamento meridionale (paesi del mediterraneo) delle relazioni economiche
dell’Italia – che aggiungerebbe un’altra dimensione al quadro delle strategie di sviluppo
territoriale dell’Italia.
Sullo sfondo di una «Europa aperta», l’Italia non può non accentuare il proprio grado
di internazionalizzazione – seguendo i sentieri che le competitività relative e la sua
struttura industriale detterà. In questo scenario l’ampliamento dell’Unione Europea è
solo un aspetto di un processo di internazionalizzazione che ha le sue regole e detta le
sue priorità territoriali.
Scenario B
Sia che l’Italia veda con favore o con sfavore l’affermarsi in Europa dello scenario
della de-costruzione economica, essa formula una politica di integrazione europea.
Nello scenario B si ha una mobilitazione politico-amministrativa (e scientifica)
dell’Italia sui temi dell’ampliamento – alla quale in generale corrisponde una
62
mobilitazione sulle conseguenze della de-costruzione economica dell’Europa. L’Italia
pone, nell’ambito della transizione istituzionale dell’Unione Europea comunque il
problema dei propri interessi – e, in qualche modo, influenza anche lo stesso sentiero di
de-costruzione36.
Soprattutto, in questo scenario, l’Italia costruisce delle politiche nazionali intorno ai
temi che l’evoluzione istituzionale dell’Unione Europea – sullo sfondo dei cambiamenti
esterni – lascia in cerca di una politica. In questo scenario, l’Italia considera
l’integrazione europea un obiettivo rilevante ed esplora la possibilità che esso possa
svolgersi secondo le modalità e intensità desiderate, mette in primo piano le esternalità
positive di un processo di internazionalizzazione che accetti il vincolo della prossimità
geografica.
(Ma questo scenario contiene anche altre prospettive. Se l’Italia si mobilita per
elaborare una politica di integrazione europea, probabilmente lo farà anche per le altre
sfere di intervento pubblico37.)
Scenario C
Se lo scenario europeo sarà quello della riunificazione economica, la «situazione
senza» sembra far perdere all’Italia molti potenziali benefici ed anche far subire costi
36
Ad esempio, l’Italia può riproporre la questione dei fondi strutturali contrastandone la riduzione o
proponendo una ridefinizione dei criteri di allocazione che tenga conto della complessità del territorio
italiano. L’Italia deve vedere rappresentata in Europa – o non impedita – la sua complessità territoriale, le
sue differenze territoriali. L’idea che le differenze territoriali possano essere espresse utilizzando come
unità le regioni o le province non ha significato in Italia. Dovrebbero essere aree specifiche – «sistemi
locali» – con problemi di sviluppo sociale. L’Italia può riproporre, da questa prospettiva, anche il tema
del diritto di continuare ad accedere ai fondi strutturali. Ma, per far questo, deve riproporre la centralità
delle politiche di coesione nel progetto europeo. Non è opponendosi all’ampliamento che può continuare
a vedere rappresentati i suoi problemi, bensì contrastando la tendenza ad una ri-nazionalizzazione delle
problematiche territoriali. La riflessione sulla politica agricola fa parte di questo discorso. Ma, se si va
verso una ri-nazionalizzazione delle politiche territoriali, l’Italia deve avere i suoi margini di manovra,
facendo attenzione che non sia l’Unione Europea, per la sua struttura, ad impedire politiche nazionali.
37
Ad esempio, definirà le linee lungo le quali sviluppare una politica territoriale – in questo scenario di
fatto ri-nazionalizzata –, per il territorio forse il più complesso d’Europa. Inoltre, definirà una politica per
l’agricoltura italiana – di gran lunga la più sofistica e complessa d’Europa.
63
che si potrebbero evitare. Lo scenario C è il più scoraggiante – perché significherebbe
una assenza dell’Italia nella dialettica politica europea. Ma è, comunque, uno scenario
da contemplare.
Nel caso prevalga l’opzione di una riunificazione dell’Europa, il fatto che l’Italia non
sia in grado di influenzarne il progetto rendendolo funzionale – per quanto possibile in
un contesto di negoziazione e cooperazione – agli interessi e alle visioni italiane
avrebbe effetti difficili da definire a priori. Il paradosso – ma fino ad un certo punto – è
che, anche in assenza di una posizione italiana, i partner europei tengono conto fino ad
un certo punto delle problematiche italiane per la semplice ragione che l’Italia è un
paese tanto forte economicamente da non permettere a nessun calcolo economico di
astrarne38. La «mobilitazione imprenditoriale» italiana ha più volte mostrato la capacità
di sfruttare le opportunità create dal contesto istituzionale europeo.
Scenario D
I Governi italiani avrebbero potuto mobilitarsi già nel decennio scorso sui temi
dell’ampliamento, entro la cornice istituzionale dell’Unione Europea. Possono farlo ora,
ma il terreno è cambiato: non si tratta soltanto di influenzare le politiche correnti ma
influenzare il nuovo Progetto europeo – non solo di essere capaci di influenzare i
contenuti di una nota della Commissione Europea, ma anche progettare l’architettura
della nuova Unione Europea. E questo secondo livello è, a questo punto, più importante
del primo.
Si tratta di un obiettivo concreto, dai tempi definiti – il contesto e i tempi sono quelli
dei lavori della Convenzione. In questo scenario, nell’arco dei prossimi due o tre anni
l’Italia porta sul tavolo della discussione i propri interessi nazionali – cercando di far sì
che essi trovino spazio nel contesto istituzionale che sta nascendo. Formula e negozia
l’attuazione di un progetto di integrazione europea – di un progetto di Europa funzionale agli interessi nazionali italiani nel quadro di una visione politica degli stessi
interessi nazionali. La mobilitazione politico-amministrativa (e scientifica) si orienta
verso il nuovo progetto europeo.
38
L’Italia fa parte dell’area dell’Euro anche se uno dei cinque parametri (debito pubblico/prodotto interno
lordo) ha un valore lontanissimo da quello previsto dal Trattato di Maastricht. L’Italia non ha negoziato
una soluzione ex-ante, ma i nostri partner europei hanno trovato una soluzione ex-post – visto che tenere
fuori l’Italia dall’Euro avrebbe dato all’Italia troppi margini di manovra.
64
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