Fichte e il marxismo

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Fichte e il marxismo*
Luc Vincenti
The essay proposes a reconsideration of Johann Gottlieb Fichte’s thought,
aiming at liberating it from the accusation of conservatism. Fichtian metaphysics is analyzed in order to recapture in it the origins of dialectic thought.
The reflections on history, the defense of the French Revolution and the theoretical qualification of the relationship thought-praxis, show how in this
philosophy the notion of “ideal” is given a transformative function of social
and political reality towards an implementation of freedom. The concluding
part of the essay makes a comparison between the Fichtian notion of ideal
with the concept of concrete utopia formulated by Ernest Bloch.
Keywords: French Revolution, Johann Gottlieb Fichte, Ernst Bloch, Political Idealism, Marxism.
Introduzione
Ogni tentativo di accostare Fichte a Marx1 suscita sin dall’inizio perplessità. Per questo, prima di esporre una nuova tesi che arriva ad accostare Fi* Il presente saggio ripropone, in una veste nuova, riveduto e tradotto in italiano, il testo di una conferenza tenuta presso l’Université Paris-I Sorbonne, nel quadro del seminario «Marx au XXIe siècle», organizzata dal C.H.S.P.M. (Centre d’Histoire des Systèmes de
Pensée Moderne). Cfr. il sito del seminario: <http://marxau21.fr/>. Nel corso della traduzione, il testo delle citazioni è stato tacitamente modificato ogni qual volta lo si è ritenuto
opportuno [N.d.R.].
1 Studio che, pur non frequente, non è tuttavia raro: i suoi momenti più significativi sono stati posti, sin dal XIX secolo, da Ferdinand Lassalle (Fichtes politisches Vermächtnis
und die neueste Gegenwart, Hamburg, 1860), fino al ritorno attuale dei giovani hegeliani nei
testi di Franck Fischbach, passando per Jean Jaurès, Marianne Weber, Karl Vorländer, con
«Dianoia», 18 (2013)
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chte a Brecht e a Ernst Bloch, non mi sarà possibile evitare di addurre in
via preliminare tutta una serie di doverose precisazioni.
Anzitutto, ci si meraviglierà, forse, del fatto che l’autore dei Discorsi alla nazione tedesca – dei quali è nota la strumentalizzazione nazionalista –
possa avere un qualche rapporto con l’internazionalismo proletario. A tale
riguardo è opportuno richiamare il contesto storico delle Reden. Scritte
quando ancora la Germania non esisteva, negli anni in cui la Prussia subiva il peso dell’oppressione napoleonica, le Reden sono innanzitutto un’opera anti-imperialista2. È però altresì necessario evitare di confondere Fichte
con gli aspetti più reazionari del Romanticismo. Fichte non desiderava affatto ritornare al Sacro Impero; e anche quando egli riprese tematiche romantiche, fu per contrastarle o modificarle.
Piuttosto che discutere e fronteggiare i dubbi rapporti con il nazionalismo tedesco, è possibile, in alternativa, insistere sull’effettivo impegno di
Fichte a favore della Rivoluzione francese. Il suo testo del 1793 ne fa un
combattente per la libertà3. Karl Vorländer, curatore delle opere di Kant e
autore di diversi saggi sul legame tra idealismo tedesco e socialismo, vede
nell’unità e nella creatività del popolo, sottolineate nelle Reden, un terreno per la costruzione del socialismo4. Meno strano apparirà, allora, che sia
qualche accenno in Jürgen Habermas (Erkenntnis und Interesse, Frankfurt a.M., Suhrkamp,
1968; trad. it. di G.E. Rusconi, Conoscenza e interesse, Roma-Bari, Laterza, 20122), senza
dimenticare Tom Rockmore (Fichte, Marx and the German Philosophical Tradition, Edwardsville-London-Amsterdam, Southern Illinois University Press-Feffer & Simons, 1980).
Chiaramente, questi riferimenti non pretendono di essere esaustivi.
2 «Quasi tutto quanto Fichte afferma tra il 1806 ed il 1813, pensando alla Francia imperialista, potrebbe, mutatis mutandis, essere applicato alla Germania tra il 1914 ed il 1918»
(X. Léon, Fichte et son temps, 2 voll., Paris, Armand Colin, 1954, vol. I, p. XII, cit. in M.
Guéroult, Fichte et Xavier Léon, in Études sur Fichte, Hildesheim-New York, Georg Olms
Verlag, 1974, p. 262). Su questo punto ho già avuto modo di esprimermi: cfr. L. Vincenti,
Éducation et liberté, Paris, PUF, 1992, p. 43.
3
J.G. Fichte, Beitrag zur Berichtigung der Urtheile des Publikums über die französische Revolution (1793), ora in Gesamtausgabe der Bayerischen Akademie der Wissenschaften (d’ora innanzi: GA), vol. I/1, a cura di R. Lauth e H. Jacob, Stuttgart-Bad Cannstatt,
Frommann-Holzboog, 1964, pp. 193-404; trad. it. Contributi per rettificare i giudizi del
pubblico sulla rivoluzione francese, in J.G. Fichte, Sulla rivoluzione francese. Sulla libertà di pensiero, a cura di V.E. Alfieri, Bari, Laterza, 1966, pp. 43-305; cfr. anche l’ed. ted.,
a cura di R. Schottky, Hamburg, Meiner, 1973. Renan e Quinet accostano Fichte e Robespierre, cfr. I. Radrizzani, La Doctrine de la science et l’engagement historique, «Revue de
Métaphysique et de Morale», 101 (1996) 1, pp. 23-47. In generale, cfr. M. Guéroult, Fichte
et la révolution française, in Études sur Fichte, cit., pp. 152-246.
4
K. Vorländer, Kant, Fichte, Hegel und der Sozialismus, Berlin, P. Cassirer, 1920, p. 67.
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spesso citata la lettera del 1837 nella quale il giovane Marx dichiara al padre di essersi nutrito di Kant e Fichte5. Altro riferimento importante per
l’accostamento del marxismo alle premesse dell’idealismo tedesco è l’altrettanto spesso citato6 passaggio della prefazione alla prima edizione dell’Evoluzione del socialismo di Friedrich Engels: «Noi, socialisti tedeschi,
siamo orgogliosi di non discendere soltanto da Saint-Simon, da Fourier e
da Owen, ma anche da Kant, da Fichte e da Hegel»7.
Ciò nonostante, potrebbe ancora persistere qualche perplessità in merito alla parentela tra l’idealismo di Fichte e il materialismo marxista. Volendo fornire una risposta storica, si potrebbe certo ripercorrere la via che
da Fichte porta a Hegel e, attraverso Feuerbach e i giovani hegeliani, sfocia in Marx e nel rovesciamento della dialettica; ma, a prescindere dai dibattiti riguardanti tale rovesciamento, tutt’altro che pacifica appare la collocazione di Fichte alle radici della dialettica. Su quest’aspetto avremo modo di ritornare nel primo paragrafo del presente contributo. Senza indugiare sull’evoluzione storica dell’idealismo tedesco, il mio tentativo consisterà piuttosto in un accostamento diretto del materialismo dialettico al
cosiddetto idealismo “soggettivo” di Fichte. L’etichetta “idealismo soggettivo” rafforza ulteriormente il carattere idealistico di chi considera l’Assoluto nell’Io. Vero è che il termine “Io” designa qui la riflessività in generale, e non l’individuo. Ma ciò che Fichte chiama “intuizione intellettuale” ed è a fondamento della sua filosofia – la coscienza di sé come sapersi (sapere-se-stesso) – sta a indicare un puro atto riflessivo che ciascuno di noi può effettuare. Si tratta di quell’esperienza della certezza assolu5
Ivi, p. 9. La lettera è stata recentemente citata anche da Franz Fischbach (De la propriété possessive à la propriété expressive: Fichte, Hess, Marx, in Fichte et la politique, a
cura di J.-C. Goddard e J.R. de Rosales, Milano, Polimetrica, 2008, p. 299).
6 Cfr. per es. K. Vorländer, Kant, Fichte, Hegel und der Sozialismus, cit., cap. I, p. 2; T.
Rockmore, L’influence fichtéenne chez Marx, «Revue de Métaphysique et de Morale», 85
(1980) 1, pp. 83-93.
7 «La concezione materialistica della storia e la sua specifica applicazione alla moderna lotta di classe tra proletariato e borghesia erano infatti possibili solo mediante la dialettica. E se i maestri di scuola della borghesia tedesca hanno sommerso nella palude di un noioso eclettismo la memoria dei grandi filosofi tedeschi e della dialettica da essi affermata –
tanto che siamo costretti a invocare le scienze naturali moderne a testimonianza del fatto che
la dialettica esiste nella realtà – noi socialisti tedeschi siamo orgogliosi di non discendere
soltanto da Saint-Simon, da Fourier e da Owen, ma anche da Kant, da Fichte e da Hegel»
(Prefazione, datata 21 sett. 1882, alla prima ed. ted. di F. Engels, Die Entwicklung des Sozialismus von der Utopie zur Wissenschaft (1880); trad. it. L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza, Napoli, Laboratorio Politico, 1992, p. 9).
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ta che Fichte chiamerà “sapere assoluto” e che, come indicato nelle ultime
esposizioni della Wissenschaftslehre, sarà un’immagine dell’Assoluto, in
quanto auto-posizione. Come ritrovare il materialismo marxista in questo
idealismo? Tutto questo appare ancor più difficile, se si considera che nella Spätphilosophie, oggi molto studiata8, lo sviluppo dell’idealismo fichtiano accentua orientamenti metafisici e religiosi. Il cammino apparentemente più diretto che da Fichte porta a Marx (quello della morale) è però anche il più breve, nel senso che non si spinge molto in là – o comunque non si spinge fino al punto di convergenza tra l’idealismo e il materialismo, in quanto ci riporta nuovamente verso l’idealismo. La morale fichtiana considera l’autonomia come immagine dell’auto-posizione assoluta nella coscienza di chiunque.
Come Tom Rockmore ha tentato di fare a partire dagli anni ’70, si potrebbe provare a muovere da una nozione generale, astratta al punto da essere comune ad entrambe le filosofie: la nozione di attività. La nozione di
attività permette di percorrere tutta la filosofia di Fichte, dalla metafisica o
filosofia prima sino alla prassi effettiva e alla sua concreta trasformazione
(ciò che per Fichte fu un vero e proprio cruccio, e gli valse l’ironico soprannome di “Weltverbesserer”). In Marx, l’attività – in quanto attività
umana – è innanzitutto lavoro; ma poiché le modalità di lavoro sono ciò
che permette di pensare la società nel suo insieme (la sua genesi e la sua
costituzione, come anche la sua trasformazione), l’attività individua altresì la processualità stessa della storia e l’aspetto dinamico della dialettica
marxista.
Io seguirò il filo di quest’aspetto dinamico, dalla metafisica fichtiana
(al cui interno è possibile cercare le radici della dialettica) fino alla prassi
effettiva, passando attraverso il tema della storia e dell’ideale politico fichtiano. Sarò più breve nei primi due paragrafi dedicati alla dialettica e all’ideale politico, già molto studiate, ma approfondirò la questione della trasformazione concreta e delle sue condizioni nell’idealismo fichtiano, aprendo così a marxismi meno frequentati, quali il marxismo di Bloch e quello
di Brecht.
8
Non sono favorevole alla parcellizzazione dell’opera di Fichte, ma non è possibile ignorare come la dimensione progressista e rivoluzionaria del 1793 si sia in seguito stemperata,
facendo posto a un intento metafisico e religioso. La periodizzazione dell’opera fichtiana è
stata introdotta nel 1899 da Rickert (cfr. G. Gurvitch, Écrits allemands, vol. I, Paris, L’Harmattan, 2005, p. 47); nella prefazione alla sua tesi, Ives Radrizzani (Vers la fondations de l’intersubjectivité chez Fichte, Paris, Vrin, 1993) ne presenta diverse interpretazioni.
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1. Dialettica o teleologia?
La nozione di dialettica può rappresentare un modo per accostare Fichte e
Marx, a condizione che sia ben chiaro che cosa, di ciò che è dialettico in
Marx (i.e. il processo reale di costituzione delle società e la loro trasformazione storica), sia effettivamente presente nelle premesse fichtiane della dialettica.
Ciò che consente di scorgere in Fichte le premesse di una dialettica, tanto hegeliana quanto marxista, è il metodo secondo cui la sua filosofia – che
egli chiama “dottrina della scienza” – progredisce: per ricomposizione degli opposti e superamento delle opposizioni attraverso questa stessa ricomposizione. Per esempio, la prima esposizione della Dottrina della scienza9
comincia con la famosa formula Io = Io, posizione dell’Io assoluto, che non
è un Io empirico qualsiasi. Segue quindi la posizione del non-Io, e l’opera
progredisce successivamente attraverso la ricomposizione dell’Io e del nonIo nell’attività intellettiva dell’Io empirico o Io qualunque. È all’interno di
questa ricomposizione, nel tanto complesso § 4 della Grundlage del 1794,
che Fichte riunifica i due grandi opposti della filosofia – idealismo e realismo – interagendo con le figure dapprima qualitative e poi quantitative10 di
questi opposti, progredendo verso un “ideal-realismo”. Nella teoria della
conoscenza, la ricomposizione progressiva degli opposti conduce al ruolo
fondamentale dell’immaginazione: capacità di elaborazione del dato grezzo e facoltà necessaria alla conoscenza così come all’attività del soggetto.
9 J.G. Fichte, Grundlage der gesamten Wissenschaftslehre als Handschrift für seine Zuhörer (1794), ora in GA, vol. I/2, a cura di R. Lauth e H. Jacob, Stuttgart-Bad Cannstatt,
Frommann-Holzboog, 1965, pp. 173-451; trad. it. Fondamento dell’intera dottrina della
scienza, a cura di G. Boffi, Milano, Bompiani, 2003; cfr. anche l’ed. ted. della Grundlage,
a cura di W.G. Jacobs, Hamburg, Meiner, 1979.
10 In questa ricomposizione dell’ideale e del reale, i commentatori hanno riconosciuto
l’essenza della dialettica fichtiana, mettendone bene in evidenza l’effettivo peso e il suo risvolto morale: «La dialettica sorge dunque dal conflitto fondamentale fra ciò che deve essere e ciò che semplicemente è» (R. Lauth, Die Ursprung der Dialektik in Fichtes Philosophie, in Transzendentale Entwicklungslinien von Descartes bis zu Marx und Dostojewski, Hamburg, Meiner, 1989, p. 219). Ritorneremo su quest’articolo nella terza sezione del
saggio. La ricomposizione dell’idealismo e del realismo resta in Fichte dominata dall’esigenza idealistica dell’unità della coscienza; ciò nondimeno, essa rappresenta lo sforzo più
notevole di Fichte, al fine di porre in relazione l’idealismo con il materialismo. Questi aspetti sono stati messi in risalto da T. Rockmore, Activity in Fichte and Marx, «Idealistic Studies», 6 (1976) 2, pp. 191-214. Sulla complessità del § 4.e della Grundlage, cfr. I. ThomasFogiel, Critique de la représentation, Paris, Vrin, 2000, in part. le sezioni II-IV.
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Un altro esempio di questa ricomposizione degli opposti è la seconda
esposizione della Dottrina della scienza, che comincia con la famosa “intuizione intellettuale”, prima esperienza della certezza analoga al cogito
cartesiano. Fichte analizza questa coscienza di sé per dedurne le sue condizioni: libertà, volontà, intuizione, sentimento, spazio, tempo ecc., ovvero l’insieme della filosofia teoretica e pratica. Così dedotte, le condizioni
appaiono certe alla stessa maniera di ciò di cui esse sono appunto condizione: la certezza prima e immediata dell’intuizione intellettuale. L’analisi dell’intuizione intellettuale, come decisione di prender coscienza di sé,
porta alla luce due opposti: da un lato, la decisione stessa che tende a uno
scopo, la dimensione libera, soggettiva e attiva della coscienza; dall’altro,
la conoscenza di questo scopo, “ciò che” è intenzionato, ovvero la dimensione necessaria, oggettiva e stabile nella nostra coscienza. Questi due opposti saranno composti nell’idea di un puro volere che immediatamente
vuole se stesso – ciò che la morale riformulerà per la sua esigenza di autonomia.
Il terzo esempio di ricomposizione degli opposti si trova nella famosa
deduzione fichtiana dell’intersoggettività, contenuta in un’opera di filosofia del diritto11 e relativa al rapporto degli individui liberi nel mondo: si
tratta di comprendere la possibilità della coscienza di sé in quanto coscienza
della mia libertà. Tale coscienza della mia libertà è un problema per il fatto che ciò di cui io sono cosciente è sempre un oggetto che si oppone alla
mia attività. La soluzione fichtiana consiste ancora nel ricomporre gli opposti in un terzo termine che oltrepassa la contrapposizione: un oggetto
che non mi vincola ma, al contrario, mi rende libero. È il famoso “invito ad
agire liberamente” a cui un altro essere libero mi richiama. Lì si trovano i
celebri e bei passaggi sulla vita in genere, sul fatto che non è possibile es-
11 J.G. Fichte, Grundlage des Naturrechts nach Prinzipien der Wissenschaftslehre (17961797), ora in GA, vol. I/3, a cura di R. Lauth e H. Jacob, Stuttgart-Bad Cannstatt, Frommann-Holzboog, 1966, §§ 1-16, pp. 291-460, p. 347; cfr. anche l’ed. ted. a cura di M. Zahn,
Hamburg, Meiner, 1979, p. 39; trad. it. Fondamento del diritto naturale secondo i principi
della dottrina della scienza, a cura di L. Fonnesu, Roma-Bari, Laterza, 1994, pp. 35-36:
«L’uomo (e così [è] in generale per tutti gli esseri finiti) diventa un uomo solo tra uomini
[…]: se in generale devono esistere uomini, allora ne devono esistere molti. […] Non appena si cerca di determinare in modo completo questo concetto, si viene sospinti dal pensiero di un singolo al doverne ammettere un secondo per spiegare il primo». I corsivi sono
di Fichte. Cfr. anche, ibid.: «Il carattere peculiare dell’umanità, con cui soltanto ogni persona si conferma incontestabilmente uomo, consiste solo nella libera azione reciproca attraverso concetti e secondo concetti, nel dare e nel ricevere conoscenza».
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sere uomini se non in mezzo agli altri uomini, o che l’umanità si costituisce in uno scambio intersoggettivo (scambio che Fichte chiama educazione, e nel quale è possibile scorgere la radice delle tematiche del riconoscimento)12.
Una volta compreso che cosa questa dialettica in Fichte possa essere,
non resta che metterla in rapporto con ciò che effettivamente è detto “dialettica” in Hegel o in Marx. Qui sorgono molti problemi. Innanzitutto, sul
piano teorico, non è mancato chi, come Bernard Bourgeois, ha ritenuto di
potersi opporre alla tesi che scorge in Fichte una dialettica, adducendo come motivazione l’assenza, nella sua filosofia, dell’auto-negazione di ciascun momento, un’auto-negazione che sia in grado di radicare la progressione e il superamento dei momenti in una dinamica immanente a ciascuno di essi. Secondo costoro, il fatto che in Fichte non sia possibile arrestarsi a un determinata configurazione del rapporto con il mondo o a un
determinato sistema di pensiero non sarebbe dovuto tanto a contraddizioni interne al sistema, quanto all’esigenza, posta nelle premesse, del superamento delle opposizioni. Il primo principio, Io = Io, unità o tesi assoluta, svelerebbe in questo senso una struttura teleologica, in contrasto con la
natura dialettica del processo13.
Sul piano esegetico, appare tuttavia chiaro che questa tensione teleologica non distoglie Fichte dall’azione. Numerosi sono i richiami all’azione
che Fichte rivolge a se medesimo14, ai suoi compatrioti o, per loro tramite,
all’umanità intera15. Ho già avuto modo, altrove, di sottolineare l’ampiezza
della deduzione fichtiana, che va dai principi primi alle azioni concrete16. La
12
Cfr. F. Fischbach, Fichte et Hegel. La reconnaissance, Paris, PUF, 1999.
Sono d’accordo con questa interpretazione. Su questo punto ho già avuto modo d’esprimermi: cfr. L. Vincenti, Raison pratique, raison dialectique, in L’héritage de la raison. Hommage à Bernard Bourgeois, a cura di J.P. Zarader, Paris, Ellipses, 2007, pp. 153-164.
14 «Agire! Agire! È questo il fine per cui esistiamo» (J.G. Fichte, Vorlesungen über die
Bestimmung des Gelehrten (1794), ora in GA, vol. I/3, cit., pp. 1-68, p. 67; trad. it. La missione del dotto, a cura di V.E. Alfieri, Milano, Mursia, 1995, p. 162). Cfr. anche i corrispondenti Johann Gottlieb Fichte’s Sämmtliche Werke (7 voll., Berlin, Veit & Co., 18451846), ora rist. con il titolo Fichtes Werke (d’ora innanzi: SW), vol. VI: Zur Politik und Moral, a cura di I.H. Fichte, Berlin, W. de Gruyter, 1971, p. 345.
15
Ho in mente la seconda delle Reden an die Deutsche Nation (1807-1808), ora in GA,
vol. I/10, Stuttgart-Bad Cannstatt, Frommann-Holzboog, 2005; trad. it. Discorsi alla nazione tedesca, a cura di G. Rametta, Roma-Bari, Laterza, 2003.
16
Con una precisione che spesso è stata rimproverata a Fichte, tale da spingersi addirittura a determinazioni quali, ad esempio, l’illuminazione delle strade o delle carte d’identità.
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teleologia non svia affatto l’attenzione dall’azione; tant’è che neppure la discendenza fichtiana della “filosofia dell’azione”17 ha ignorato questo rapporto tra teleologia e prassi effettiva. Come già Lukács18 aveva notato, è
contro la valorizzazione hegeliana del presente che Ciezskowski riconosce
razionalità al tutto (compreso il futuro), affinché la relazione dell’effettivo
al vero ritrovi una dimensione trasformante. Su questo rapporto, tra teleologia e prassi effettiva, ritorneremo nel terzo paragrafo.
Se la teleologia non permette di rapportare Fichte alla dialettica hegeliana, come si potrebbe mai metterlo in rapporto con una dialettica materialista dell’azione trasformante? Ciò parrebbe ancor meno plausibile se si
tiene fede al severo giudizio presente nel Manifesto del partito comunista,
secondo cui la “filosofia dell’azione” avrebbe sostituito una vuota “fraseologia” alla concreta prassi rivoluzionaria19. Questa condanna, diretta
agli eredi spirituali di Fichte, incombe su tutta la teleologia idealista, nella misura in cui sottolinea il carattere astratto (quindi inefficace) dell’engagement di quest’ultima. Ora, è vero che l’opera di Fichte esplicitamente dedicata alla storia umana – i Tratti fondamentali dell’epoca presente20
– dispiega un piano universale reso finalistico dalla vita razionale e contiene
poche analisi concrete della situazione rivoluzionaria. Forse il giudizio di
Jean Jaurès, secondo cui «Fichte quasi disdegna la storia»21, allude a un ta-
17
Ad esempio Moses Hess (La triarchia europea, 1841) e August von Cieszkowski
(Prolegomeni alla storiografia, 1838). Su questi due autori e sul loro rapporto con Fichte,
cfr. F. Fischbach, Le “Fichte” des Jeunes-hégéliens et la “philosophie de l’action” de Cieszkowski et Hess, in Lectures de Fichte, a cura di J.-M. Vaysse, numero monografico della
rivista «Kairos», 17 (2001), pp. 97-128. Su Hess, in particolare, cfr. G. Bensoussan, Moses
Hess. La philosophie, le socialisme, Paris, PUF, 1985.
18
Cfr. G. Lukács, Moses Hess und die Probleme der idealistischen Dialektik, «Archiv
für die Geschichte des Sozialismus und der Arbeiterbewegung», XII (1926), in part. pp.
111-113.
19 Cfr. F. Engels, K. Marx, Das Manifest der kommunistischen Partei (1848), III, § 1.C;
trad. it. Manifesto del partito comunista, in K. Marx, F. Engels, Opere complete, vol. VI, Roma, Editori Riuniti, 1973, pp. 483-518, in part.: parte III («La letteratura comunista e socialista»), § 1 («Il socialismo reazionario»), pt. C («Il socialismo tedesco, ossia il socialismo “vero”»), pp. 510-512.
20 J.G. Fichte, Die Grundzüge des gegenwärtigen Zeitalters (1806), ora in GA, vol. I/8,
a cura di R. Lauth e H. Gliwitzky, Stuttgart-Bad Cannstatt, Frommann-Holzboog, 1991,
pp. 101-396; trad. it. I tratti fondamentali dell’epoca presente, a cura di A. Carrano, Milano, Guerini e Associati, 1999.
21 «Fichte dédaigne presque l’histoire» (J. Jaurès, Les origines du socialisme allemand
(1892), Tesi in latino, trad. fr. A. Veber, Verdier, Ombres blanches, 2010, p. 52).
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le svolgimento logico del tempo; forse si riferisce ai Grundzüge o ai più
progressisti Contributi per rettificare i giudizi del pubblico sulla Rivoluzione francese. Ma nel Beitrag sulla Rivoluzione francese non si trova soltanto ciò che nota Jaurès: una concezione della storia come accumulazione di fatti, prossima alla cronaca, alla quale è sempre possibile aggiungere considerazioni teoriche generali. Vi si trova altresì un attento ritorno alla storia, nel momento in cui Fichte sollecita quest’ultima a mostrare, nell’esplicazione dei fatti, il farsi della ragione in essa: «[Gli storici] ci descrivono con tutta esattezza l’impalcatura e il meccanismo esteriore; e poi,
dinanzi alla meravigliosa impalcatura, non riescono a vedere come una pietra si aggiunga all’altra. Ma è proprio questo che noi avremmo voluto sapere»22. La ragione a cui Fichte qui si richiama per inquadrare i fatti non
interviene sostituendosi ad essi. Essa rischiara il mutarsi di un’epoca, mostrando come un imperativo razionale giunga a inserirsi in una serie di accadimenti al fine di indirizzarla e trasformarla23.
Sulla storia vi sono dunque due punti di vista; e il secondo – che mescola insieme considerazioni antropologiche, politiche e morali – non è di
minore importanza. È pertanto necessario, concludendo questa prima parte, ridimensionare il giudizio che tende a tenere Fichte lontano dal marxismo, in ragione della distanza dell’idealismo astratto dalla dialettica e dall’azione. A un’esigenza astratta Fichte unisce un costante interesse per
l’azione concreta. Da questa unione non consegue affatto l’indifferenza reciproca di questi due aspetti quanto piuttosto, sul versante dell’esigenza, la
costruzione di un ideale (utopico, forse, ma in ogni caso pratico) di natura
politica e sociale, la cui applicazione costituisce per Fichte un costante problema. Qui i commentatori hanno intravisto elementi di socialismo: si tratta del ben noto «Stato commerciale chiuso», oggetto del secondo paragrafo del presente contributo. Sul versante dell’azione concreta, Fichte pensa
la possibilità dell’azione trasformante a partire dall’esigenza morale. Certo, egli la pensa su un piano che non è più né quello della storia né quello
22
J.G. Fichte, Beitrag zur Berichtigung der Urtheile… (1793), Introd., II (GA, vol. I/1,
cit., p. 225; trad. it. cit., p. 74).
23 Ciò è quanto Fichte sa fare meglio di chiunque altro. Si pensi, ad esempio, alla sua
confutazione di Constant sulla menzogna: cfr. J.G. Fichte, Das System der Sittenlehre nach
den Prinzipien der Wissenschaftslehre (1798), § 23, II, (GA, vol. I/5, a cura di R. Lauth e
H. Gliwitzky, Stuttgart-Bad Cannstatt, Frommann-Holzboog, 1977, pp. 1-317, in part. p.
252-259; trad. it. di R. Cantoni, Il sistema della dottrina morale secondo i principi della dottrina della scienza, a cura di C. De Pascale, Roma-Bari, Laterza, 1994, pp. 262-270).
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della società, ma che discende comunque dal nostro rapporto con il mondo, dalla rappresentazione o dalla teoria della conoscenza. Ma tutto questo
non fa che rafforzare l’originalità del contributo fichtiano, di cui tratterò
nel terzo paragrafo.
2. Lo «Stato commerciale chiuso»
Il primo momento della ricomposizione dell’esigenza e dell’azione concreta (composizione sul versante dell’esigenza) è dunque il testo del 1800,
Lo Stato commerciale chiuso. Questo programma politico e socio-economico può dirsi utopico nella misura in cui rappresenta «la costituzione commerciale necessaria a uno Stato pienamente conforme al diritto e alla ragione»24. Tuttavia Fichte nega di avere voluto scrivere un testo utopistico;
chiede pubblicamente scusa per ciò che egli avrebbe considerato come
un’accusa: di essere un sognatore25. E a ben vedere, come hanno sottolineato commentatori di un’altra generazione26, Fichte ha in effetti svolto un
considerevole lavoro in merito all’inserimento della sua problematica nelle difficoltà economiche della sua epoca, di contro alle dottrine allora dominanti. Si scaglia contemporaneamente contro il mercantilismo protezionista (per il quale la ricchezza di un Paese dipende dalla quantità d’oro accumulata) e contro il liberalismo dei fisiocratici. Come Xavier Léon ha mostrato27, molteplici progetti nati sullo sfondo della Rivoluzione francese –
da Babeuf a Condorcet – si ritrovano in Fichte: la difesa dell’uguaglianza
e del consumo di beni, l’obbligo di lavorare, la teoria della moneta28, la fis-
24
Cfr. la lettera che Fichte scrive al suo editore (Cotta), datata 16 agosto 1800, cit. da
Daniel Schulthess nella sua Introduzione alla trad. fr. di J.G. Fichte, L’État commercial fermé, Lausanne, L’Âge d’Homme, 1980, p. 9.
25 Come nota Xavier Léon (Fichte et son temps, vol. II, Paris, Armand Colin, 1954, pp.
116-117), a proposito di un articolo apparso sulla «Neue berlinische Monatsschrift». Su
questo punto, cfr. anche M. Weber, Fichte’s Sozialismus und sein Verhältnis zur Marx’schen
Doktrin, Tübingen-Freiburg-Leipzig, J.C.B. Mohr, 1900, p. 61.
26 Soprattutto Marianne Weber (ibid.) e Xavier Léon (Fichte et son temps, cit., vol. II,
in part. cap. 2).
27 Ma come anche già Marianne Weber aveva indicato: cfr. M. Weber, Fichte’s Sozialismus und sein Verhältnis zur Marx’schen Doktrin, cit., p. 10).
28
A tal riguardo, Xavier Léon (Fichte et son temps, cit., vol. II, cap. 2) rileva precise corrispondenze tra Condorcet, che voleva «abolire il valore fittizio del denaro», e la volontà fichtiana di svincolare la moneta interna dalla moneta in metallo. Su questo punto, Léon rin-
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sazione dei prezzi, ovvero – per Babeuf – la chiusura dello Stato commerciale.
Fichte fa dunque politica, e alla domanda di Vorländer («Quando Fichte fa politica, è socialista?»)29, i commentatori hanno nel complesso risposto affermativamente30. Lo Stato sociale fichtiano – di cui Vorländer
sottolinea la persistenza fino al 1812 – ha il merito di esistere come tale31,
vale a dire come garanzia per il diritto di ciascuno a esistere in virtù del proprio lavoro; diritto che Fichte difende fin dal suo primo contributo sul Di-
via alla Histoire socialiste, a cura di J. Jaurès, vol. III/1: La convention, Paris, J. Rouff et
Cie, 1901.
29
K. Vorländer, Kant, Fichte, Hegel und der Sozialismus, cit., p. 54.
30
Xavier Léon (Fichte et son temps, cit., vol. II, p. 101) riscontra in Marianne Weber i
principali tratti del socialismo che quest’ultima aveva attribuito a Fichte: una forma di individualismo nel rispetto delle persone, una concezione organica dello Stato, la sostituzione del diritto al lavoro al diritto di proprietà, l’organizzazione della divisione del lavoro, la
teoria della moneta e del capitale. Qualche pagina più avanti, Léon ritorna sullo statuto dell’individualismo e, in merito, contrappone l’egualitarismo comunista di Babeuf al rispetto
della persona che si trova in Fichte e che Marianne Weber ha effettivamente posto in risalto (cfr. per es. M. Weber, Fichte’s Sozialismus und sein Verhältnis zur Marx’schen Doktrin,
cit., p. 59). Una simile annotazione, in un profondo conoscitore di Fichte quale appunto è
Xavier Léon, può apparire ben strana: in Fichte vi è infatti un superamento tanto dell’individualità quanto della personalità, anche intesa in senso strettamente kantiano. Questa tesi
fichtiana non è rara e la si trova costantemente affermata sin dalle già citate Vorlesungen
über die Bestimmung des Gelehrten del 1794 fino alla Anweisung zum seligen Leben del
1806 (in part. le lezioni V, VII e VIII; cfr. GA, vol. I/9, a cura di R. Lauth e H. Gliwitzky,
Stuttgart-Bad Cannstatt, Frommann-Holzboog, 1995, pp. 1-212; trad. it. L’iniziazione alla
vita beata, in J.G. Fichte, La dottrina della religione, a cura di G. Moretto, Napoli, Guida,
1989, pp. 241-400), passando per la sez. XI della Zweite Einleitung in die Wissenschaftslehre (cfr. GA, vol. I/4, a cura di R. Lauth e H. Gliwitzky, Stuttgart-Bad Cannstatt, Frommann-Holzboog, 1970, pp. 209-269, in part. pp. 265-266; trad. it. Seconda introduzione alla dottrina della scienza per i lettori che hanno già un sistema filosofico, in J.G. Fichte,
Scritti sulla dottrina della scienza, a cura di M. Sacchetto, Torino, UTET, 1999, pp. 383441, in part. pp. 437-438). Su questo superamento fichtiano della personalità, ho già avuto
modo di esprimermi: cfr. L. Vincenti, Pratique et réalité dans les philosophies de Kant et
de Fichte, Paris, Kimé, 1997, in part. capp. IV e VIII. Fichte non è in alcun senso un “individualista”. E tuttavia questo non vuol dire che sia eo ipso opportuno fare di Fichte un precursore del comunismo come Babeuf – per quanto a vietarlo non sarebbe certo un sedicente “personalismo fichtiano”. D’altro canto, Marianne Weber considera Fichte piuttosto
tendente al comunismo (cfr. M. Weber, Fichte’s Sozialismus und sein Verhältnis zur Marx’schen Doktrin, cit., p. 39).
31 E proprio qui è da riconoscersi il contrassegno del socialismo fichtiano: cfr. X. Léon,
Fichte et son temps, cit., vol. II, pp. 82, 99.
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ritto naturale32, e che comprende, oltre che l’istituzione di una protezione
sociale, un reale diritto al lavoro. È intorno a questo diritto al lavoro che si
articolano le principali misure di stampo socialista dello Stato fichtiano:
regolazione statale del commercio, dei prezzi e delle professioni, istituzione di una moneta interna svincolata dalla moneta in metallo del commercio internazionale, e – come condizione per tali misure – «chiusura» dello
Stato: non solo divieto di commercio con l’estero, ma anche chiusura delle frontiere per gli individui.
L’insieme di questi caratteri riposa, secondo lo stesso Fichte33, sulla sua
definizione della proprietà, non come cosa bensì come atto34: è perché la
proprietà è definita in termini di attività che le «attività libere indispensabili per la vita umana»35 – in altri termini, le professioni – sono ripartite dallo Stato in tre classi (produttori, artigiani e commercianti), alle quali si aggiungono i funzionari. Tale ripartizione delle professioni in quattro classi
obbliga lo Stato a verificare le competenze di ciascuno, ad assicurare la
circolazione dei prodotti36 e a regolare produzione e prezzi. Siffatta rego32
J.G. Fichte, Grundlage des Naturrechts (1796-1797), § 18 (GA, vol. I/4, a cura di R.
Lauth e H. Gliwitzky, Stuttgart-Bad Cannstatt, Frommann-Holzboog, 1970, §§ 17-21, pp.
5-165, in part. pp. 20-24; trad. it. cit., pp. 185-189).
33 Ma anche secondo i commentatori: cfr. K. Vorländer, Kant, Fichte, Hegel und der Sozialismus, cit., pp. 57-60; più recentemente, F. Fischbach, De la propriété possessive à la
propriété expressive: Fichte, Hess, Marx, in Fichte et la politique, a cura di J.-C. Goddard
e J.R. de Rosales, cit., pp. 285-302, ma anche Id., “Possession” versus “expression”. La
triarchie Fichte-Hess-Marx et la question de la propriété, in Sans objet. Capitalisme, subjectivité, aliénation, Paris, Vrin, 2009, pp. 223-267.
34 Che l’anticipazione fichtiana della teoria del valore sia anch’essa da ricondurre a questa definizione della proprietà? Jean Jaurès (Les origines du socialisme allemand, cit., pp.
59-61) sembra affermarlo, anche se poi modera il giudizio sostenendo che Fichte «ha ingarbugliato tutta l’argomentazione, adottando sin dall’inizio il valore d’uso». Il punto merita di essere discusso: nella misura in cui è legato alla produzione dei beni voluttuari e non
di quelli necessari, il valore d’uso non si calcola in funzione della domanda bensì in funzione della quantità di forza-lavoro e di mezzi necessari alla sua produzione (cfr. J.G. Fichte, Der geschloßene Handelsstaat (1800), lib. I, cap. 2, § 5, ora in GA, vol. I/7, a cura di
R. Lauth e H. Gliwitzky, Stuttgart-Bad Cannstatt, Frommann-Holzboog, 1988, pp. 3-143,
in part. pp. 55-56). Il valore relativo dei beni voluttuari è allora calcolato in rapporto al valore assoluto conferito al prodotto alimentare ottenuto più facilmente.
35 Cfr. ivi, lib. I, cap. 3 (GA, vol. I/7, cit., pp. 70-72; trad. it. (parziale) Lo Stato commerciale chiuso, in Lo Stato di tutto il popolo, a cura di N. Merker, Roma, Editori Riuniti,
1978, pp. 224-244, in part. pp. 232-235). Cfr. anche ivi, lib. I, cap. 7 (GA, vol. I/7, cit., pp.
84-90; trad. it. cit., pp. 235-239).
36 Alla totale regolazione degli scambi si accompagna un obbligo d’acquisto (cfr. J.G.
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lazione interna della produzione e degli scambi esige un controllo della
moneta37 attraverso il ritiro di tutta la moneta mondiale (oro e argento) e
l’istituzione di una moneta nazionale. L’insieme di queste misure richiede,
quale sua condizione, la «chiusura» dello Stato e il divieto di ogni commercio con l’estero. Non si tratta affatto, pertanto, di protezionismo mercantilista (che è piuttosto legato alla guerra commerciale) ma, al contrario,
di un sistema che reca in sé la pacificazione e la possibilità della sua universalizzazione.
È tenendo ben presente questa messa in prospettiva della politica verso
uno stato di pace che diviene possibile conciliare l’istituzione di una regolazione statica, economicamente onnipotente, con un’anticipazione fichtiana del marxismo – dell’idea di estinzione dello Stato38 – unanimemente rilevata dai commentatori39. Tale prospettiva di estinzione dello Stato ci riporta alla dimensione morale del socialismo fichtiano40, nella quale
può essere utile ancorare la definizione fichtiana di diritto alla proprietà41
e alla quale è opportuno richiamarsi se davvero si vuole cogliere non soltanto lo scopo della prospettiva elaborata da Fichte ma anche la possibilità di individuarne i fondamenti, almeno per come l’idealismo fichtiano ha
potuto pensarli. Tutto questo ci riconduce al rapporto teorico e pratico dell’individuo col mondo, oggetto del terzo paragrafo.
Fichte, Grundlage des Naturrechts (1796-1797), § 18 (GA, vol. I/4, cit., pp. 20-24; trad. it.
cit., pp. 185-189).
37
Cfr. J.G. Fichte, Der geschloßene Handelsstaat (1800), cit., lib. III, cap. 4 (GA, vol.
I/7, cit., pp. 120-124).
38 Nella seconda delle già citate Vorlesungen über die Bestimmung des Gelehrten (1794).
39 Da K. Vorländer, Kant, Fichte, Hegel und der Sozialismus, cit., p. 55, e egualmente
da A. Philonenko, Le jeune Fichte et l’histoire, «Revue de Métaphysique et de Morale»,
101 (1996) 1, pp. 7-21, o J.C. Merle, Justice et progrès, Paris, PUF, 1997, p. 217. Le pagine da Merle dedicate all’economia fichtiana sono molto ricche di informazioni sul piano
economico e giuridico; peccato che l’autore cerchi curiosamente di accostare Fichte alla libera impresa.
40
Definito “socialismo morale” sia da Jean Jaurès (Les origines du socialisme allemand, cit., p. 96) sia da Marianne Weber (Fichte’s Sozialismus und sein Verhältnis zur Marx’schen Doktrin, cit., p. 19).
41
Su questo carattere morale della proprietà in Fichte, cfr. L. Vincenti, Pratique et réalité dans les philosophies de Kant et de Fichte, cit., cap. VIII.
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3. La “rappresent-azione”*
In questo terzo paragrafo sarà esaminato il rapporto tra esigenza astratta e
azione concreta, dal punto di vista dell’azione concreta. Si tratterà della
maniera in cui l’idealismo fichtiano mette in relazione l’ideale all’azione
e fa dell’ideale una condizione di possibilità dell’azione nella sua concretezza, in quanto mostra che l’ideale è condizione, non soltanto dell’azione,
ma altresì della nostra rappresentazione del reale. In un certo senso, che le
nostre facoltà di rappresentazione possano essere condizione di ciò che è
per noi il reale è una banalità dal punto di vista dell’idealismo post-kantiano, per il quale il soggetto, con le sue categorie, costituisce l’oggetto a
partire da una prima Gebung. Tutto questo diviene però meno banale se si
considera che l’attività del soggetto – che è ciò di cui Fichte si occupa – non
sta a indicare soltanto l’attività intellettiva o rappresentativa del soggetto
kantiano, ma altresì un’attività pratica, un’attività reale. Quest’ipotesi potrebbe diventare addirittura sorprendente, nella misura in cui la costituzione del reale viene a essere subordinata all’attività pratica. Espliciterò, quindi, la tesi fichtiana «niente sforzo, nessun oggetto»42, mostrando come essa faccia dell’attività del soggetto – e dei nostri sforzi tesi a trasformare il
mondo attraverso la prassi – la causa e la spiegazione fondamentale di ciò
che per noi è il reale. Così si spiega il titolo un po’ ludico di questo terzo
paragrafo, nel quale, per costruire il rapporto tra Fichte e il marxismo, dovrò certamente mostrare anche che questa tesi radicale non si limita al solo idealismo ma può aiutare a comprendere la materiale possibilità di una
trasformazione effettiva.
3a. L’ideale, condizione della rappresentazione
In quanto radicale, questa tesi si sviluppa nella parte teorica della filosofia:
per dimostrare che la ragione è fondamentalmente pratica, è infatti necessario mostrare «che la ragione stessa non può essere teorica, se non è pratica; che nessun’intelligenza è possibile nell’uomo, se non vi è in lui una
* Con l’espressione “rappresent-azione” traduciamo il termine “représentaction”: omofono del francese représentation, il termine è in realtà un calembour, ossia un gioco di parole adottato dall’Autore per sottolineare la stretta unità di attività ideale (représentation)
e attività pratica (action) all’interno del processo di costituzione del reale [N.d.T.].
42 J.G. Fichte, Grundlage… (1794), § 5 (GA, vol. I/2, cit., pp. 385-416; trad. it. cit., pp.
477-559).
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facoltà pratica; e che su quest’ultima si fonda la possibilità di ogni rappresentazione»43. È nella teoria che si ha la dimostrazione del fatto che la prassi è condizione della teoria medesima.
Ciò che rende possibile questa tesi è l’analisi fichtiana della rappresentazione in termini di attività. Superficialmente, pensando ai non-filosofi,
cioè ai filosofi non-fichtiani, si potrebbe riassumere la teoria fichtiana della rappresentazione44 attraverso la contrapposizione delle due direzioni,
quella di un’attività centrifuga (che, compresa in prima istanza in maniera
astratta, caratterizza il soggetto nei confronti del mondo) e quella di un’attività centripeta (una sorta di contraccolpo della prima attività, trattenuta,
frenata, da un «inspiegabile e incomprensibile»45 choc, da un urto che limita la mia attività). Questa doppia direzione dell’attività costituisce ciò
che Fichte chiama Schweben, ondeggiamento, oscillazione dell’immaginazione nell’intuizione. Quanto giunge alla mia attività “centrifuga” – altrimenti caratterizzabile come “attività reale” – è rapportato, ricondotto all’Io da un’attività “ideale”. Tale attività è detta “ideale” non nel senso della determinazione dell’ideale (questo lo si vedrà più avanti), ma nel più
semplice senso di un’attività “rap-presentativa”, cioè ri-presentativa, che riproduce l’oggetto prefigurando o immaginando ciò che si presenta davanti alla mia attività reale. A questo livello io sento qualcosa, ma non so ancora che cosa; e mi sento completamente confuso con questa sensazione.
Per determinare tale sensazione e sapere che cosa è sentito in essa, l’Io deve potere innanzitutto estraniarsi (come dice Fichte, è necessario che l’Io
43 Ibid. (GA, vol. I/2, cit., p. 399; trad. it. cit., p. 513; cfr. anche l’ed. ted. della Grundlage a cura di W.G. Jacobs, cit., p. 182). Allo stesso modo, cfr. anche ivi (GA, vol. I/2, cit.,
p. 410, trad. it. cit., p. 541): «Se nell’Io non v’è alcuna facoltà pratica, non v’è intelligenza
possibile; se l’attività dell’Io giunge soltanto fino al punto in cui ha luogo l’urto e non oltre ogni urto possibile, allora nulla v’è nell’Io e per l’Io a produrre l’urto, nessun non-Io»;
cfr. anche l’ed. ted. a cura di W.G. Jacobs, cit., p. 195.
44 Su quest’aspetto ho già avuto modo di esprimermi in maniera più completa nella seconda parte del già citato Pratique et réalité, oltre che nell’articolo Le statut du pratique dans
la “Grundlage der gesamten Wissenschaftlehre”, «Kairos», 17 (2001), pp. 129-150. Estratti di quest’articolo sono disponibili sul web, all’indirizzo: <http://www.luc-vincenti.fr/>.
45 J.G. Fichte, Grundriss des Eigenthümlichen der Wissenschaftslehre (1795), ora in
GA, vol. I/3, cit., pp. 129-216, p. 143. L’urto è qui incomprensibile in almeno due sensi: innanzitutto, in quanto non è oggetto di comprensione o categorizzazione dell’attività storica; e poi, essendo “anteriore” a quest’attività, esso resta ancora tutto da chiarire nella sua
natura, e in questo senso appare prossimo alla “cosa in sé” kantiana. Ciò però non vuole affatto dire che resterà identico a quest’ultima, anche quando l’esplicazione fichtiana della rappresentazione avrà condotto al di là del limite.
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prenda coscienza di sé nell’intuizione), onde poter distinguere tra la propria
attività nell’intuizione, da un lato, e ciò che in essa è intuìto, dall’altro. Tale possibilità – di prendere coscienza di sé per determinare ciò che si sente, opponendolo a sé – riposa su una facoltà spontanea che Fichte attribuisce all’Io: non si tratta di una mera reazione all’urto; l’Io si appropria di ciò
che gli si presenta innanzi spingendosi, in un modo o in un altro (ma in
ogni caso in maniera qui sì “idealistica”), al di là dell’urto medesimo. Al
sentimento di costrizione, che in Fichte accompagna il rapporto al reale, si
contrappone dunque (sebbene nel senso di ciò che, nella mia coscienza, ne
condiziona la possibilità) un sentimento di libertà46. Dire che l’Io è coscienza di sé significa dire che possiede questa capacità di riflettere in sé e
per se stesso ciò che gli si presenta innanzi. Ed è perché l’Io possiede questa capacità di riflettere su ciò che gli si presenta innanzi che esso non è mai
totalmente limitato, circoscritto da ciò che gli si fa incontro, dal famoso
“urto”. Per comprendere ciò che gli si presenta innanzi, l’Io supera ciò che
lo limita: tale oltrepassamento ha luogo in una filosofia teorica, e non distrugge né sposta il limite in quanto tale. Non si tratta ancora, qui, di un’attività pratica, quanto piuttosto di un’attività rappresentativa – un’attività
ideale, dunque – che si spinge oltre il limite.
Ora, due domande si impongono. In primo luogo: in che modo l’attività ideale, riproduttiva, derivata da e conseguente a un urto, può oltrepassare un limite? E poi, seconda domanda: in che modo un’attività che supera
il limite (e che è pertanto centrifuga) può ritornare verso l’Io (in maniera
dunque centripeta), affinché quest’ultimo possa “rap-presentarsi” qualcosa per mezzo di siffatta attività? Ebbene, non v’è che una sola e identica risposta per questi due interrogativi: il superamento del limite da parte di
un’attività tesa all’infinito, così come il ritorno di quest’attività verso l’Io,
risposano entrambe sull’attribuzione all’Io di un’attività riflessiva infinita
– attività dell’Io finito che tende a superare il dato e a sovrastare ciò che lo
limita. Attraverso quest’attività – a questo livello ancora interiore – l’Io fi46 Nella misura in cui quest’attività dell’Io, che non s’arresta al sentimento del limite,
è libertà, è possibile porre quanto è detto qui in relazione con il “Diktat” del § 7 della Nova methodo: cfr. J.G. Fichte, Wissenschaftslehre nova methodo (Hallschen Nachschrift)
(1796-1799), ora in GA, vol. IV/2, a cura di R. Lauth e H. Gliwitzky, Stuttgart-Bad Cannstatt, Frommann-Holzboog, 1977, pp. 1-267; trad. it. Teoria della scienza (1798). Nova
Methodo, a cura di A. Cantoni, Milano-Varese, Istituto Editoriale Cisalpino, 1959. Cfr. anche J.G. Fichte, Wissenschaftslehre nova methodo (Nachschrift Krause) (1798-1799), ora
in GA, vol. IV/3, a cura di E. Fuchs, R. Lauth, I. Radrizzani, P.K. Schneider e G. Zöller,
Stuttgart-Bad Cannstatt, Frommann-Holzboog, 2000, pp. 308-535.
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nito, limitato dal mondo, si rapporta all’idea di un Io infinito, pura auto-posizione, che il filosofo scopre nell’intuizione intellettuale47. Fichte spiega
per mezzo di questo rapporto tra finito e infinito ciò che è vissuto, da tutti
– dalla coscienza non-filosofica – nell’esigenza morale, in quanto esigenza d’autonomia. Poiché l’attività che supera il limite è condizione della
mia rappresentazione del mondo, si tratta allora di riconoscere all’esigenza morale, in quanto esigenza d’autonomia, lo statuto di una condizione
della rappresentazione, dal momento che essa mi permette di prendere coscienza di ciò che per me è il reale.
Per ottenere qualcosa di più che una mera riformulazione della tesi fichtiana del primato globale della ragione pratica – «nessuno sforzo, nessun
oggetto» – è necessario tornare nuovamente a concentrarsi sull’analisi dell’atto della rappresentazione. È necessario tessere dei legami, scorgere i
termini medi tra i due estremi: la rappresentazione del reale (teorica), da un
lato, e l’esigenza morale (pratica), dall’altro. Ciò che è indicato come “pratico” rinvia ancora, a questo livello, a qualcosa di astratto [idéal], cioè di
ideale [idéel] in un senso prossimo all’idea pratica kantiana. Il nesso tra
teoria e prassi apparirà, in questo campo assai vasto dell’ideale, a un tempo attività rappresentativa e scopo per l’attività concreta. Limitarsi
Affinché ci si rappresenti il mondo, noi sappiamo che deve esistere
un’attività ideale, rappresentativa, tale da superare il limite. Due sono perciò le attività ideali: una limitata, l’altra oltrepassante il limite. Per un’attività rappresentativa, “oltrepassare il limite” vuol dire “rappresentarsi
un’altra cosa”. Affinché io mi rappresenti il reale – in termini fichtiani: affinché io abbia coscienza di un’attività ideale che semplicemente riflette il
47
Sin dalla Rezension des Aenesidemus, la ragione pratica è definita come rapporto del
finito con l’infinito: «Se l’Io dell’intuizione intellettuale è perché è, ed è ciò che è, allora
esso è, in questa misura, autoponentesi, assolutamente autonomo e indipendente. Di contro, l’Io della coscienza empirica, in quanto intelligenza, non esiste se non in relazione a un
intelligibile: in questa misura è pertanto dipendente. Ora, questo Io, che abbiamo visto poco fa contrapporsi a se stesso, non deve costituire due Io, ma un Io soltanto […]. Ma poiché l’Io non può rinunciare al suo carattere di assoluta autonomia, sorge una tendenza a far
dipendere da sé l’intelligibile, per portare all’unità l’Io stesso che rappresenta questo intelligibile e l’Io che pone se stesso. Questo è il significato dell’espressione: la ragione è pratica» (J.G. Fichte, Rezension des Aenesidemus oder über die Fundamente der von dem
Herrn Professor Reinhold in Jena gelieferten Elementar-Philosophie (1794), ora in GA,
vol. I/2, cit., pp. 33-68, p. 65; cfr. anche SW, vol. I, a cura di I.H. Fichte, Berlin, W. de Gruyter, 1971, pp. 1-25, p. 22; trad. it. di E. Garulli, Recensione all’Enesidemo di Schultz, «Il
Pensiero», XXIII (1982), pp. 97-119, in part. pp. 116-117. I corsivi sono di Fichte).
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limite – è necessario che vi sia un’attività ideale che superi il limite, un’«attività oggettiva infinita»48 che, guidata da questo stesso movimento che ci
conduce all’esigenza morale dell’autonomia, comincerà a rappresentarsi
diversamente il mondo. L’attività ideale è dunque “sospinta fuori” e, scrive Fichte, «pone qualcosa […] che sarebbe ciò che la tendenza produrrebbe se avesse una causalità»49. L’attività ideale, rappresentativa ma oltrepassante il limite, e come tale condizione del reale, ci rappresenta pertanto qualcosa d’altro dal reale – un’altra cosa, che non è lungi dall’essere ciò
che comunemente è chiamato “ideale”, dato che si tratta di ciò che si potrebbe fare se non si fosse impediti dal reale, l’ostacolo o l’urto che limita
la nostra attività.
Ma continuiamo a tessere il nesso tra reale e ideale. L’attività ideale infinita – o l’attività oggettiva infinita (infinita, in quanto superamento del
limite e condizione della rappresentazione) – individua dunque il termine
medio tra l’attività limitata rappresentantesi il reale, da un lato, e l’esigenza morale d’autonomia o auto-posizione, dall’altro. Siffatta attività ideale
che supera il limite può essa stessa essere considerata sotto un duplice profilo: quello del reale (cioè del mondo), e quello ideale (dell’autonomia).
Sul versante dell’infinito o dell’autonomia, l’attività ideale che supera il
limite costituirà l’ideale morale, l’ideale del mondo morale, che Fichte descrive ad esempio nell’undicesima sezione della Seconda introduzione: un
mondo interamente ragionevole in cui sono superate le opposizioni individuali50. Sul versante del reale e del mondo, l’attività ideale infinita costituirà
la condizione più prossima della rappresentazione del reale, e avrà per corollario il sentimento che Fichte chiama “anelito” [Sehnen]. Prima di essere
48
J.G. Fichte, Grundlage… (1794), § 5 (GA, vol. I/2, cit., pp. 402-403; trad. it. cit., p.
521-523. Cfr. anche l’edizione tedesca a cura di W.G. Jacobs, cit., pp. 137-138).
49 Ivi, § 8 (GA, vol. I/2, cit., p. 425; trad. it. cit., p. 519-525. Cfr. l’ed. ted. a cura di
W.G. Jacobs, cit., p. 213).
50 Cfr. J.G. Fichte, Zweite Einleitung in die Wissenschaftslehre (1797), sez. XI (GA,
vol. I/4, cit., pp. 265-266; trad. it. cit., pp. 437-438), secondo cui, in questo mondo, l’Io,
«unicamente ragionevole», «ha cessato d’esser un individuo». O ancora, in maniera forse
meno precisa, ma anche meno inquietante, cfr. Grundlage, § 5: «Un mondo come sarebbe
se in assoluto ogni realtà fosse posta dall’Io: di conseguenza, un mondo ideale, posto puramente e semplicemente dall’Io e in tutto e per tutto non da un non-Io» (GA, vol. I/2, cit.,
p. 403; trad. it. cit., p. 523. Cfr. l’ed. ted. a cura di W.G. Jacobs, cit., p. 186). E ancora, ivi,
§ 10, pt. 10: «[Quest’oggetto] che l’Io, determinato dall’impulso, effettivamente produrrebbe se avesse causalità, e che provvisoriamente si può chiamare l’ideale» (GA, vol. I/2,
cit., p. 432; trad. it. cit., p. 601. Cfr. l’ed. ted. a cura di W.G. Jacobs, cit., p. 221).
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costruzione di un ideale utopico o esigenza morale, l’anelito è una semplice tendenza al cambiamento, o quantomeno una tendenza a sentire altro rispetto a ciò che si sente qui e ora. L’anelito individua in ciò la condizione
del sentimento qualitativamente determinato che il reale ci impone. Ciò
che infatti permette di determinare due sentimenti, o due oggetti intuìti, è
la loro opposizione. Io so che cosa sia veramente il rosso opponendolo al
verde o al blu. Per determinare qualcosa, la condizione è che lo si possa
contrapporre a qualcosa “d’altro”51. L’anelito è così definito come condizione prossima della rappresentazione del reale, in quanto anelito a qualcosa “d’altro”52. E per determinare questo o quel sentimento, io lo oppongo al suo simile più immediato, così come, per determinare questo o quel
rosso, non lo opporrei in generale al verde o al blu, ma al giallo o al magenta, dunque a colori più vicini al rosso. Ecco quel che volentieri chiamerei “alterità prossima”. L’emergere di quest’attenzione verso l’“alterità
prossima” è condizione della determinazione del reale, del fatto che, per
noi, vi è qualcosa di reale che possa per l’appunto essere conosciuto53.
Tale “alterità prossima” è innanzitutto “l’altro sentimento”54; prima ancora che un oggetto, l’alterità è una possibilità di opposizione. La seconda
esposizione della Dottrina della scienza55 definirà “sistema dei sentimenti”56 tale opposizione a tutti gli altri sentimenti possibili. Al di là di una teo51 Cfr. ivi, § 10, pt. 28: «Senza opposizione l’intero non-Io è qualcosa, eppure non qualcosa di determinato, di particolare e la domanda: “Che cos’è questo o quello?” non ha senso» (GA, vol. I/2, cit., p. 444; trad. it. cit., p. 635).
52 Cfr. ivi, § 10, pt. 29: «Oggetto dell’anelare [Sehnen] è qualcosa d’altro» (GA, vol. I/2,
cit., p. 444; trad. it. cit., p. 637. I corsivi sono di Fichte). Cfr. anche ivi, § 10, pt. 31 (GA,
vol. I/2, cit., p. 445; trad. it. cit., p. 637).
53
Si potrebbe pensare, qui, al ruolo che, in psicologia, il contrasto gioca nei meccanismi percettivi.
54 Cfr. J.G. Fichte, Grundlage… (1794), § 11, pt. 5 (GA, vol. I/2, cit., pp. 447-448; trad.
it. cit., p. 645).
55
Cfr. J.G. Fichte, Wissenschaftslehre nova methodo (1796-1799), § 6 (GA, vol. IV/2,
cit., pp. 67-79; trad. it. cit., pp. 76-86, in part. p. 76).
56 Questo punto non mi sembra sia stato messo adeguatamente in luce neppure in uno
dei rari studi approfonditi della teoria fichtiana della percezione (cfr. C. Jeffery Kinlaw, Reflection and Feeling and the Primacy of Practical Reason in the Jena Wissenschaftslehre,
in New Essays on Fichte’s Later Jena Wissenschaftslehre, a cura di D. Breazeale e T. Rockmore, Evanston, Northwestern University Press, 2002). L’autore sottolinea la singolarità di
ogni sentimento (p. 143), senza insistere sul fatto che ciò che permette di identificare un sentimento come determinato e di metterlo in rapporto al reale è esattamente la contrapposizione a un altro sentimento. Questo nesso tra sentimento determinato e sentimento “altro”
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ria della percezione, è chiaro che l’emergere di questa attenzione a ciò che
abbiamo chiamato alterità prossima riposa, in quanto attività che oltrepassa il limite, sulla possibilità di siffatto oltrepassamento e quindi, fondamentalmente, sull’attività ideale che oltrepassa il limite e che ci conduce fino all’ideale morale, ossia, per il filosofo fichtiano, all’auto-posizione assoluta. È possibile dunque allineare le diverse forme di alterità: partendo da
ciò che non è esattamente la cosa che mi sta di contro, fino all’autonomia
assoluta, passando attraverso tutto ciò che potrei desiderare di fare con la
cosa di contro a me, e attraverso la costituzione ideale. Quando Fichte vede nell’anelito «il veicolo di tutte le leggi pratiche»57, e dunque anche della legge morale, egli pensa – io credo – all’unità di siffatto movimento, che
dalla percezione ci conduce sino all’autonomia. La novità fichtiana, nell’unità “teorico-pratica” che ci approssima a un pensiero della prassi, parte dunque da quest’analisi della percezione: per percepire qualcosa è innanzitutto necessario immaginarsi qualcos’altro, e quindi – come si vedrà
– impegnarsi in un pensiero che accompagni la trasformazione effettiva58.
3b. Prassi effettiva e Idealismo: statuto del reale e della materia
Il passaggio alla prassi effettiva diviene possibile grazie alla seconda esposizione della Dottrina della scienza59, la quale tratta congiuntamente della
pratica e della teoria. In ciò che la Nova methodo chiama “sensibilizzazione del concetto di fine” si vede questa determinazione del reale da parte dell’ideale seguire la trasformazione pratica del reale, fino a non concepire
più questo reale se non a partire dalla mia attività di trasformazione: «Quel
che perdura, dall’istante in cui comincio ad agire e fino al momento in cui
è importante per mettere continuamente in rapporto la percezione del reale con l’esigenza
di autonomia – continuità che è d’altronde messa in risalto dallo stesso articolo, a partire
dall’oggetto ideale (p. 151).
57 J.G. Fichte, Grundlage… (1794), §10, pt. 9 (GA, vol. I/2, cit., p. 432; trad. it. cit., p.
599. Cfr. anche l’ed. ted. a cura di W.G. Jacobs, cit., p. 221).
58
La trasformazione non è dunque soltanto auspicabile, ma è propriamente richiesta al
fine di rendere possibile la rappresentazione del mondo. Mi sembra che, nonostante la sua
conclusione sia molto prossima a questo esito, quando nel suo articolo sostiene che l’esperienza obiettiva necessiti d’essere agganciata (harnessed) alla realizzazione degli scopi pratici, C. Jeffery Kinlaw non si spinga tuttavia sino al pieno riconoscimento del nesso fondamentale, condizionante il rapporto tra ideale e reale.
59 J.G. Fichte, Wissenschaftslehre nova methodo (1796-1799), §§ 17-18 (GA, vol. IV/2,
cit., pp. 230-260; trad. it. cit., pp. 219-245).
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porto a compimento l’azione, è il mio pensiero, con l’idea confusa di tutto ciò che mi è possibile fare»60. Coinvolto in una prassi trasformante, che
ha per effetto lo spostamento reale del limite, la cosa non è più nient’altro
che uno sfondo, un fondale sul quale io disegno le immagini delle trasformazioni progressive; io non vedo più l’oggetto, se non attraverso il mio
concetto di fine: «Io conosco solo il mio fare, e solo in virtù di una cosciente visione del mio fare io ricavo l’oggetto»61.
In tal modo, però, non si è forse scivolati nell’idealismo più puro, rendendo impossibile qualsiasi ricomposizione di idealismo e realismo? Con
questa determinazione del reale attraverso l’ideale, non si è forse perduta
l’autonomia della materia, ciò che rende pensabile una dialettica interna
all’idealismo fichtiano tra realismo e idealismo62? Niente affatto. Qualora
l’autonomia della materia fosse andata perduta, insieme con questa avremmo smarrito anche il limite della nostra attività. Ma senza questo limite,
nessuna riflessione sarebbe più possibile. Si riflette sempre a partire da, o
su, un limite. Nella formula lapidaria «nessuno sforzo, nessun oggetto», la
nozione stessa di sforzo evoca d’altra parte la presenza di un ostacolo che
limita l’attività del soggetto. La determinazione del reale a partire dall’ideale non può pertanto significare una rimozione del reale, quanto piuttosto una determinazione progressiva infinita, nella quale il reale e il limite permangono indefinitamente lungo il corso della mia attività e della sua
progressione.
Ne viene una duplice conseguenza: in primo luogo, la materia persiste,
nell’idealismo fichtiano, lungo tutto il corso della prassi trasformante e in
60
Ivi, § 17 (GA, vol. IV/2, cit., pp. 245-246; trad. it. cit., p. 232).
Ivi, § 16 (GA, vol. IV/2, cit., p. 201; trad. it. cit., p. 194). Oltre a quel che concerne
le percezioni in termini di contrasto (che sarebbe da mettere in relazione con il Sehnen fichtiano), per quanto riguarda il nesso più generale tra la determinazione degli oggetti e la
nostra attività su di essi, si potrebbe fare appello a ciò che, nella psicologia contemporanea,
Gérard Vignaud chiama “campi concettuali” – teoria che dà un tenore “ontologico”, legato all’essere delle cose, agli approcci formali dell’attività pratica ancora concepiti in termini di “schemi”, di strutture generali delle azioni. Cfr. Vergnaud, La théorie des champs conceptuels, «Recherches en didactique des mathématiques», 10 (1990) 23, p. 168: «L’omomorfismo tra il reale e la rappresentazione non deve essere ricercato sul piano del simbolismo, ma sul piano delle invarianti operative contenute negli schemi. Lì è la base principale della concettualizzazione del reale».
62 In tal senso si potrebbe allora dire che l’idealismo qualitativo – forma primaria di
idealismo – è dialettico tanto quanto il realismo grezzo: cfr. R. Lauth, Die Ursprung der Dialektik in Fichtes Philosophie, cit., p. 216.
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virtù di questa stessa prassi, come base per le possibili trasformazioni. La
materia persiste dunque con l’azione, come supporto per le modificazioni
della cosa – supporto che però io non trasformo mai63. In secondo luogo,
l’altra faccia di questa persistenza della materia risiede nella persistenza
dell’azione – quanto precedentemente ho presentato come “determinazione progressiva infinita” o “progressione indefinita della mia attività”. Il che
vuol dire che lo scopo non è mai compiutamente raggiunto. Nel momento
in cui, con una certa coerenza, conservando indefinitamente una determinazione reciproca tra reale e ideale, si salva una dialettica interna, nello
stesso tempo si perde la teleologia in quanto lo scopo verso cui si tende
s’allontana all’infinito. Questo tema è esplicito sin dalla Missione del dotto64, ed è stato notato da Tom Rockmore65: lo sviluppo fichtiano non raggiunge mai il suo compimento ultimo. Paradossalmente, che il pieno compimento sia lungi dall’essere mai raggiunto ci riconduce nuovamente all’azione concreta e presente. Alla domanda: «Com’è possibile raggiungere uno scopo infinito?», Fichte risponde: «La mia meta si trova all’infinito, perché la mia dipendenza è infinita. Quest’ultima, però, non la abbraccio mai nella sua infinità, ma solo in un ambito determinato; e in questa sfera posso, senza alcun dubbio, rendermi sempre più libero»66.
63 La materia è in qualche modo il substrato trascendentale (= X) corrispondente all’attività del soggetto. Cfr. J.G. Fichte, Wissenschaftslehre nova methodo (1796-1799), § 17: «Il
reale è il contenuto, la materia, ma è pensata mediante la libera attività di un essere libero
ed è la determinazione di esso [und ist Bestimmung desselben; nel manoscritto Krause (GA,
vol. IV/3, cit.) si legge: und ist dessen Bestimmung]. Deve dunque portare in sé qualche cosa, deve avere l’impronta dell’essere libero attivo. […] Perché la seità [Selbstheit] e la libertà si riferiscono ad una materia, si muta questa materia in qualche cosa di oggettivo, in
una cosa in sé e che sta da sé, mentre prima era solo qualche cosa che mi balenava in mente. Quello che mi balenava in mente, si muta per me in un dato, in un oggetto che v’è senza il mio cooperare» (GA, vol. IV/2, cit., p. 242; trad. it. cit., p. 229). E ancora: «E così l’oggetto rimane il medesimo, per quanto venga modificato incessantemente, e cioè: il sostrato prodotto dall’immaginazione per collegarvi il molteplice […], ciò che si chiama la materia, rimane la medesima. Da ciò risulta che possiamo porre noi stessi come modificanti
soltanto la forma delle cose, ma non la materia» (J.G. Fichte, Grundlage des Naturrechts
(1796-1797), GA, vol. I/3, cit., p. 339; trad. it. cit., p. 27; cfr. anche l’ed. ted. a cura di W.G.
Jacobs, cit., pp. 28-29).
64 In particolare nelle prime due lezioni.
65 Cfr. T. Rockmore, Fichte, Marx and the German Philosophical Tradition, cit., pp.
87-88.
66 J.G. Fichte, Das System der Sittenlehre (1798), § 12 (ora in GA, vol. I/5, cit., p. 141;
trad. it. cit., p. 138).
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3c. Determinazione dell’azione e utopia concreta
Sempre paradossalmente, il maggiore e specifico apporto di Fichte al pensiero dell’azione trasformante si deve alle dimensioni più idealistiche del
suo pensiero, e alla determinazione del reale attraverso l’ideale. Il rafforzamento dell’idealismo nella Spätphilosophie accentua questa determinazione dell’essere attraverso il concetto67, e continua a considerare il mondo sensibile come supporto per una trasformazione eterna68. Ma la prima
filosofia di Fichte, partendo dall’analisi della rappresentazione, presenta il
vantaggio di approcciare il rapporto tra ideale e reale a partire dal reale, e
non soltanto a partire dall’ideale. Riconducendoci verso la percezione del
mondo sensibile e la concretezza dell’azione presente, essa ci permette così di ritrovare le analisi materialiste dell’azione. Sarebbe in ogni caso inopportuno contrapporre l’idealismo fichtiano al materialismo, facendo ricorso a questo statuto dell’ideale: già Engels aveva sottolineato che la tensione verso scopi ideali poteva essere un fatto tanto idealista quanto materialista69.
Il primo Sistema dell’etica dice: nei limiti di una progressione determinata, io posso rendermi più libero. Poco sopra ho sottolineato come, insieme con la persistenza della materia, tali limiti determinati costituiscano di
fatto la condizione che permette di salvare la dialettica fichtiana. Ora, con
le stesse intenzioni, vorrei dare risalto alla positività di ciò che potrebbe
apparire una restrizione, vale a dire il fatto che io sia sempre limitato, ovvero – come Fichte dice, nella citazione riportata poc’anzi – che la mia dipendenza sia infinita. Il confronto di uno scopo infinito con dei limiti determinati non annulla lo sforzo, ma lo precisa e lo rende efficace: io mi approssimo allo scopo, dice Fichte, “per me”, ossia dal punto di vista del soggetto agente in condizioni determinate: «Io ho quindi sempre davanti agli
67
Per esempio all’inizio della Sittenlehre del 1812 (ora in GA, vol. II/13, a cura di R.
Lauth, E. Fuchs, P.K. Schneider, H.G. von Manz, I. Radrizzani e G. Zöller, Stuttgart-Bad
Cannstatt, Frommann-Holzboog, 2002).
68
Per esempio nella prima delle cinque lezioni Über die Bestimmung des Gelehrten
(1811). Già lì si trova l’affermazione secondo cui il mondo sovrasensibile diviene percepibile, a partire dal mondo sensibile, come ciò che necessita di essere superato. Tale affermazione è ripresa nella Staatslehre del 1813: «[Il mondo sensibile] è la sfera sulla quale la
libertà proietta le sue creazioni» (cit. in F. Fischbach, Sans object, cit., p. 246).
69
Cfr. F. Engels, Ludwig Feuerbach und der Ausgang der klassischen deutschen Philosophie (1886, 18882), Berlin, Dietz, 1956; trad. it. di P. Togliatti, Ludwig Feuerbach e il
punto d’approdo della filosofia classica tedesca, Roma, Editori Riuniti, 1969.
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occhi una meta determinata, alla quale posso senza dubbio avvicinarmi»70.
In un certo senso, è perché l’ideale è sempre là, all’infinito, e non può essere annullato dall’imposizione di limiti determinati, che – nel quadro di
siffatti limiti, di circostanze date, di costrizioni subite – lo sforzo è sempre
possibile. Non si tratta di rassegnarsi al compromesso o al raggiungimento di un obiettivo che non avrebbe più molta importanza; si tratta piuttosto
di vedere, in quest’obiettivo, uno scopo intermedio verso un ideale che permane posto. La persistenza dell’ideale permette di conferire all’azione limitata una certa positività. Mi riferisco, qui, all’opposto di ciò che, in maniera negativa, Fredric Jameson71 rimprovera a Darko Suvin72, riguardo a
una certa degenerazione della fantascienza, denominata “teoria degli scopi ravvicinati” o “teoria dei limiti”. Si tratta di una degenerazione staliniana della fantascienza, che all’epoca mirava a servirsi di quest’ultima al fine di valorizzare il progresso tecnico, con il compito di descrivere l’orizzonte immediato delle scoperte scientifiche. Tale uso della letteratura fantascientifica ne sviliva il carattere critico e sovversivo. Ripiegata sul futuro più prossimo, la fantascienza veniva privata della costituzione di un ideale. Ma, appunto, per gli scopi dell’azione fichtiana si tratta esattamente del
contrario: è perché l’ideale resiste, infinitamente posto, che l’azione trasformante è sempre progettabile, e che gli “scopi ravvicinati” permettono
effettivamente, qui e ora, di rendermi più libero nelle condizioni date.
Piuttosto che alla “teoria dei limiti” o alla “teoria degli scopi ravvicinati”, è all’utopia concreta di Ernst Bloch che Fichte qui s’avvicina. La
70 J.G. Fichte, Das System der Sittenlehre (1798), § 12 (GA, vol. I/5, cit., p. 141; trad.
it. cit., p. 138). I corsivi sono di Fichte.
71 Cfr. F. Jameson, Archaeologies of the Future: The Desire Called Utopia and Other
Science Fictions, London-New York, Verso, 2005; trad. it. Il desiderio chiamato utopia, a
cura di G. Carlotti, Milano, Feltrinelli, 2007.
72 Cfr. D. Suvin, La science fiction russe et sa tradition utopique, in Id., Pour une poétique de la science-fiction, Montréal, Presses Universitaires du Québec, 1977, p. 177: «Atteggiamento stalinista verso la fantascienza, atteggiamento noto con il nome di “teoria dei
limiti” o, con più raffinatezza, “teoria degli scopi ravvicinati”». Come il critico sovietico
Riourik (Cherrez 100 i 1000 let, Mosca, 1961) ha detto: «Gli adepti di questa teoria, secondo
cui l’anticipazione letteraria doveva limitarsi ai problemi tecnici di un avvenire molto vicino, senza spingersi oltre, mirano a tarpare le ali dell’immaginazione. Solo così, e così soltanto, può restare fedele al realismo socialista». La fantascienza si limitò dunque a lodare
la tecnologia, la sua etica fu ridotta a mere regole pragmatiche e «gli scrittori non fecero allusione ai problemi legati allo sviluppo spirituale dell’uomo sul cammino del comunismo»
(ibid.). Segue qualche esempio, dove si parla di petrolio, radar e energia solare; e dove la
struttura romanzesca è sempre la stessa: capo eroico, intellettuale corrotto e agente doppio.
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funzione pratica dell’ideale fichtiano la si ritrova nella definizione che
Bloch dà della rappresentazione caratteristica dell’immaginazione utopica:
rappresentazione che «anticipando, protrae ciò che è già presente in direzione delle possibilità future delle sue trasformazioni e dei suoi miglioramenti»73.
4. Conclusione. Dialettica dell’azione e mondo trasformabile
Dal lato materialista, è il rapporto al reale che, in Bloch, distingue l’immaginazione utopica dalla rappresentazione semplicemente riproduttiva74.
Dal lato idealista, il rapporto al reale è altresì essenziale per la prassi fichtiana, la quale non mira a eliminare il non-Io, e nella quale reale e trasformazione sono entrambi legati a partire dalla prima posizione dell’ideale. Sviluppando la tesi fichtiana – “nessuno sforzo, nessun oggetto”
– fino al nesso tra teoria e prassi, costitutivo della nostra rappresentazione
del mondo, l’idealismo fichtiano mostra che non è possibile scorgere il
mondo, se non in quanto trasformabile. Ritroviamo qui il monito spesso
riproposto da Brecht: «Non è possibile conoscere le cose, se non nella misura in cui le modifichiamo»75.
Fichte ci dice che il reale – l’ostacolo che mi intralcia – è sempre al
contempo ciò che la mia attività trasforma. Non vedere il mondo come
trasformabile significa negare la propria attività, e dunque, fondamental-
73
E. Bloch, Das Prinzip Hoffnung (1959), ora in Gesammelte Schriften, vol. V/1, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1977, pp. 163-164; trad. it. di E. De Angelis, Il principio speranza,
vol. I, Milano, Garzanti, 1994, p. 170.
74 Che è legata al ricordo. Non è possibile non pensare a tale riguardo alla contrapposizione fichtiana tra Vorbild e Nachbild, opposizione sulla quale mi sono espresso nella già
citata tesi (L. Vincenti, Pratique et réalité, cit., capp. IV, VI), nonché in Éducation et liberté (Kant et Fichte), Paris, PUF, 1992, e infine in Philosophie pratique et identité de la
philosophie, «Archives de philosophie», 4 (2005), pp. 573-592.
75
B. Brecht, Schriften zur Politik und Gesellschaft, ora in Gesammelte Schriften, vol.
XXI, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1967, p. 425. Devo ad André Combe quest’ulteriore riferimento a Brecht, che nel 1931 scrive: «Situazioni e cose che non possono essere trasformate ([cioè che] non dipendono da noi), non possono essere pensate» (Gro e kommentierte Berliner und Frankfurter Ausgabe, vol. XXI, a cura di W. Hecht, J. Knopf, W. Mittenzwei
e K.-D. Müller, Berlin-Weimar-Frankfurt a.M., Aufbau-Suhrkamp, 1992, p. 521); o ancora: «Solo perché si trasformano, e soltanto nella misura in cui ha luogo questa trasformazione, è possibile conoscere le cose» (Ivi, p. 425).
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mente, non vedere per niente il mondo76. Al contrario, pensare il mondo
vuol dire sempre riconoscerlo, quantomeno, come possibilità di trasformazione77.
Che non possa darsi un ostacolo alla mia attività, se non a condizione
che l’ostacolo sia condizione della mia attività fino a essere posto da questa78 – ecco una negazione della negazione in cui idealismo fichtiano e dialettica materialista si ritrovano accomunate.
Traduzione di Roberto Formisano
[email protected]
76
Si potrebbe ritrovare qui l’alienazione intesa come perdita del mondo, quale Fischbach
la descrive, riprendendo Deleuze, all’inizio del suo saggio già citato Sans objet.
77
Se si domandasse dunque da dove è possibile cominciare la prassi trasformante, sarebbe innanzitutto necessario ricordare che qui la determinazione del reale e dell’ideale è
reciproca. Ma è chiaro che la determinazione del reale tramite l’ideale, inducendoci a comprendere il reale come trasformabile, è anche ciò che consente la speranza e la tiene in vita. Da questo punto di vista, l’ideale condiziona il reale.
78
Ritroveremmo qui la conclusione del già citato articolo di C. Jeffery Kinlaw (cfr. supra, nota 57), secondo cui gli oggetti che ci rappresentiamo come reali e che ci circondano
sarebbero trasformati in maniera tale da realizzare la nostra autonomia.