notizie dal mondo 15-30 giugno 2006

Transcript

notizie dal mondo 15-30 giugno 2006
www.rivistaindipendenza.org
Dal blocco allegato di "Notizie dal mondo"
15-30 giugno 2006:
a) Israele / Palestina. Genocidio palestinese a fuoco lento. Al 16 il “piano di convergenza” di
Olmert sconcerta alleati e ‘compiacenti’. Addirittura all’ONU, da annoverare da decenni
quantomeno tra i ‘compiacenti’, c’è chi avanza proposte di sganciamento dal Quartetto (cfr.
23). Altre chicche al 18, 21, 27, 29 e 30. Mantenendoci nell’area: Israele / Libano (17, 18).
Il paese dei Cedri merita attenzione.
b) Ancora la Somalia (17, 18, 26) di non secondario interesse geopolitico per la sua vicinanza
al Medio Oriente. Nella parte occidentale dell’Africa, poi, dare un occhio a USA / Capo
Verde al 15. Ulteriori segnali che devono far riflettere, avendo un occhio globale. Sempre in
tema, sul ruolo della NATO da non perdere USA al 20.
c) L’Italia nella guerra afgana (17, 27): disinvolture servili sinistre (cfr anche il 18). Dal Kosovo
all’Afghanistan, insomma. Una notiziola specifica sulla realtà centroasiatica al 27.
d) Sparse, ma significative:
Canada (16). Riunione del gruppo Bilderberg.
Euskal Herria (20, 22, 25, 28, 30). Zapatero apre al dialogo con ETA e con il mondo
abertzale in generale, per una soluzione al conflitto. Da vedere il prosieguo. Le ombre
ovviamente non mancano (cfr. 30 giugno).
America Latina: Nicaragua (18); Bolivia (18, 26); Perù (23, 29); Venezuela (25)
Tra l’altro:
Catalogna (19, 22 giugno)
Nepal (16, 17 giugno)
Russia / Cecenia (18 giugno)
Turchia (18 giugno)
USA / Iraq (20 giugno)
USA (17, 21 giugno)
Gran Bretagna / Afghanistan. 15 giugno. Londra manda altri soldati. L’ufficializzazione è venuta
oggi dal ministro della Difesa, Des Browne. Partiranno altri 130 soldati nel sud dell’Afghanistan, a
poche settimane dall’inizio del dispiegamento nell’area della missione ISAF (NATO). Secondo
quanto annunciato dovrebbero servire a proteggere la base aerea di Kandahar e non preluderebbero
ad alcun aumento massiccio del contingente di soldati britannici.
USA / Capo Verde. 15 giugno. Al via, da oggi, l’esercitazione “Steadfast Jaguar” (Giaguaro
risoluto) della “Forza di risposta della NATO” (Nrf) nell’arcipelago di Capo Verde, al largo della
costa senegalese. Vi partecipano forze terrestri, navali e aeree. Il comando operativo è affidato a un
quartier generale galleggiante a bordo della Mount Whitney, «nave di comando e controllo
statunitense». L’esercitazione, la cui fase principale si svolge dal 15 al 28 giugno, simula la
«risposta» della Nrf a «incidenti sulle isole di Capo Verde e nell’area circostante». Queste
manovre mirano a testare la capacità della NATO di «proiettare la Nrf a distanza strategica dal
continente europeo». La NATO disporrà così di una forza di 25mila uomini, dislocabile in cinque
giorni «per qualsiasi missione in qualsiasi parte del mondo», con autosufficienza operativa di un
1
mese. Al momento dell’impiego la Nrf verrà posta direttamente agli ordini del «comandante
supremo alleato in Europa», cioè un generale statunitense.
USA / Capo Verde. 15 giugno. È stato il Pentagono a scegliere l’arcipelago di Capo Verde per
l’esercitazione NATO. La scelta non è casuale. Da tempo il Pentagono si muove per rafforzare la
propria presenza militare in Africa, soprattutto nell’Africa occidentale da cui gli USA oggi
importano il 15% del petrolio ed entro il 2015 il 25%. Gli interessi in gioco sono enormi: in
Nigeria, maggiore produttore petrolifero dell’Africa, il 95% della produzione è in mano a poche
multinazionali, tra cui la Shell che ne controlla oltre metà. Lo stesso avviene in Ciad il cui petrolio,
esportato tramite un oleodotto che attraversa il Camerun, è controllato da un consorzio
internazionale capeggiato dalla Exxon-Mobil. Tale dominio è ora messo in pericolo dalla ribellione
(anche armata) delle popolazioni e dalla concorrenza cinese. Da qui il piano del Pentagono di
costituire basi militari in Africa occidentale e rafforzare la capacità d’intervento dall’esterno.
Turchia / Kurdistan. 16 giugno. 56 sindaci di varie municipalità kurde rischiano fino a 10 anni di
carcere per aver sottoscritto una lettera aperta indirizzata al primo ministro danese, Anders Fogh
Rasmussen, chiedendogli di non chiudere la Roj Tv, la televisione kurdo-turca. La stampa turca la
definisce «un’emittente di al Qaeda e portavoce dei terroristi del PKK», ma la sua colpa è più che
altro di trasmettere in lingua kurda e di denunciare la repressione turca contro le minoranze etniche.
Si attende che la corte penale autorizzi o meno a procedere.
Israele / Palestina. 16 giugno. Il piano di Olmert suscita perplessità addirittura a Londra e a Parigi.
Lo scrive Michele Giorgio su il Manifesto. Nel primo viaggio di Ehud Olmert da primo ministro nel
Vecchio Continente, è stato accolto con molti “ni” il suo «piano di convergenza». Così è stato
etichettato il suo progetto unilaterale per la Cisgiordania volto a fissare le frontiere orientali di
Israele entro il 2010 e a far nascere uno staterello palestinese a sovranità limitata in porzioni dei
Territori occupati. Il presidente Chirac e il premier Dominique de Villepin hanno affermato che
«solo una pace giusta, basata su una soluzione politica e sui negoziati (con i palestinesi, ndr),
potranno assicurare la sicurezza e un futuro ad Israele e agli abitanti della regione». Tony Blair ha
parlato di «un ampio accordo internazionale sulla necessità di riavviare i negoziati tra Israele e i
palestinesi» sulla base della Road Map, sostenuta dal Quartetto (USA, Russia, UE e ONU). Olmert
ha esplicitato che il suo piano per la Cisgiordania verrà attuato in ogni caso. «Sarà portato a
compimento, speriamo attraverso un accordo, ma sarà realizzato», ha detto dopo l’incontro di
mercoledì con Chirac. Olmert intende procedere all’annessione unilaterale a Israele di porzioni
consistenti della Cisgiordania (inclusa Gerusalemme) e mantenere il controllo della Valle del
Giordano. Praticamente è la riscrittura al ribasso delle stesse risoluzioni ONU. Gli stessi
compiacenti leader europei, che hanno lasciato carta bianca a Sharon, vedono le basi per
l’esplosione di una nuova Intifada palestinese e non la soluzione del conflitto.
Israele / Palestina. 16 giugno. Olmert ha incassato solo il “sì” di Washington. George Bush ha
apprezzato il «piano di convergenza» ma, allo stesso tempo, non ha fatto salti di gioia. Pare che, di
fronte a reazioni internazionali così tiepide, Olmert stia preparando una cortina fumogena per
nascondere il suo progetto e farlo riemergere al momento buono. Sul quotidiano israeliano
Ha’aretz, Akiva Eldar ha riferito che il governo israeliano sta pensando di trasformare il suo piano
unilaterale in una azione concordata, in parte, con Abu Mazen. In pratica proporrà al presidente
palestinese un accordo per stabilire uno Stato con confini provvisori a Gaza e sul 90% della
Cisgiordania, lungo il tracciato del muro. In sostanza sarebbe un salto dalla prima alla seconda fase
della Road Map. Abu Mazen ha già fatto sapere che vuole una soluzione permanente e non
temporanea. Il presidente palestinese in questi giorni è impegnato a trovare un’ intesa con Hamas
che eviti lo scontro sul referendum che ha proclamato sul «documento di pace» dei detenuti politici.
Dal suo ufficio smentiscono, ma pare che Abu Mazen abbia offerto la revoca della consultazione in
2
cambio di una rinuncia di Hamas alla guida del governo. Il premier Ismail Haniyeh dovrebbe cedere
il posto a colui che da oltre 30 anni rappresenta il capitalismo palestinese: l’uomo d’affari di
Nablus, Munib Masri.
Israele / Palestina. 16 giugno. Armi all’ANP, l’ok di Israele. Potrebbe essere la causa di nuovi
scontri fra miliziani di Hamas e polizia di sicurezza la recente approvazione israeliana all’invio di
950 fucili M-16 nei Territori Occupati. Obiettivo: rafforzare l’arsenale a disposizione delle forze
dell’ANP (Autorità Nazionale Palestinese), interamente composto da membri di al Fatah. Il
passaggio delle armi, fornite da Giordania ed Egitto e bloccate per mesi dalle autorità israeliane, è
stato reso pubblico più volte negli scorsi giorni da Olmert, provocando ovvie reazioni negative e
minacce da parte della dirigenza di Hamas proprio nel momento in cui si tenta di ricucire i difficili
rapporti fra Abu Mazen e governo islamista. Le forze dell’ANP sono state continuamente prese di
mira dall’esercito israeliano al pari dei militanti della resistenza palestinese, durante la seconda
Intifada; nei giorni scorsi Ehud Olmert ha però dichiarato di voler fare il possibile per sostenere il
presidente Abu Mazen nel confronto con Hamas. Una dichiarazione che rischia di screditare
ulteriormente le forze di polizia dell’ANP, facendole passare come strumento di Israele. Create
dagli accordi di Oslo per «reprimere il terrorismo contro Israele», accollandosi sostanzialmente la
repressione interna al posto dell’intelligence israeliana, le forze di polizia palestinese non possono
tuttora intervenire a difesa dei civili palestinesi sotto i ripetuti attacchi dell’esercito israeliano e dei
coloni. Tutto ciò ricorderebbe il “Venerdì nero” del 1994 quando, sotto la guida di Mahmud
Dahlan, le forze di polizia dell’ANP, armate dalla comunità internazionale, uccisero 14 militanti di
Hamas, arrivando ad un passo dalla guerra civile.
Nepal. 16 giugno. I maoisti vanno al governo. Dopo 25 anni in clandestinità, l’inafferrabile capo
Prachanda è comparso a Kathmandu. Chiede una costituente, promette pace. Il parlamento attuale
del Nepal verrà sciolto e un nuovo governo ad interim, che comprenderà la guerriglia maoista e i
sette partiti che formano l’attuale esecutivo, avvierà una nuova fase politica che, attraverso
l’elezione di un’assemblea costituente, dovrà restituire al paese una nuova fisionomia istituzionale e
conseguente fine della lotta armata. L’accordo è scaturito stamattina dall’incontro nella sua
residenza tra il primo ministro nepalese, Koirala, ed il massimo esponente dei maoisti Pushpa
Kamal Dahal Prachanda, assente dalla scena pubblica da venticinque anni ed arrivato in elicottero
dalle montagne che la guerriglia controlla. L’incontro è stato definito storico dalla stampa nepalese.
La primula rossa dei ribelli non aveva mai incontrato nessun esponente di così alto rango del
governo nepalese. I due si sono incontrati per un’ora senza che però, al termine, venissero resi noti i
dettagli della riunione. In realtà i giochi erano già fatti. Dopo la prova di forza dei maoisti il 2
giugno, con i 200mila in piazza a Kathmandu, il processo negoziale tra governo e guerriglia aveva
subìto un’accelerazione. Uno dei punti più controversi, richiesti con insistenza dalla guerriglia, era
proprio la dissoluzione dell’attuale parlamento e del governo in carica, espressioni, secondo
Prachanda, del vecchio sistema. I sette partiti dell’opposizione guidati da Koirala ritenevano invece
che il governo attuale, che già ha ridotto poteri e privilegi (politici ed economici) del re, fosse
sufficientemente legittimato a condurre il processo costituente, indicendo elezioni per l’assemblea
che dovrà scrivere la carta costituzionale propria di una repubblica.
Nepal. 16 giugno. Prachanda ha imposto che a far tenere le elezioni sia un nuovo governo
espressione di tutte le forze, maoisti compresi, che hanno guidato la battaglia contro la monarchia.
A parte alcune violazioni della tregua, il cessate il fuoco ha retto mentre il governo cominciava ad
aprire le carceri liberando i detenuti politici e cancellando le accuse di “terrorismo” ai prigionieri
maoisti. Gli uomini di Prachanda dal canto loro hanno esercitato una pressione ferma e puntuale ma
osservando le regole non scritte del reciproco rispetto delle parti. A margine dell’incontro fra
Prachanda e Koirala, si sono riuniti, in maniera ufficiale, anche gli esponenti dell’alleanza dei sette
partiti che guida il Nepal ed i dirigenti dei maoisti, insieme ad osservatori civili. L’incontro ha così
3
portato a definire i prossimi passaggi del processo di pace, all’estensione della tregua di tre mesi
(era scaduta ieri) e all’indizione di elezioni sotto il controllo di osservatori internazionali.
Canada. 16 giugno. Ahmadinejad, Chávez e Putin e –come da diversi anni a questa parte– la crisi
petrolifera. Questi i temi all’ordine del giorno del gruppo elitario e semisegreto “Bilderberg”,
riunitosi dall’8 all’11 giugno 2006 per la sua 54^ conferenza. Sede dell’incontro il lussuosissimo
albergo “Brook Street Resort”, appena fuori Ottawa in Canada, che appartiene al miliardario
Terence H. Matthews. Ne dà notizia l’edizione odierna di Dagospia. Il Gruppo Bilderberg nasce nel
1952, ma prende questo nome solo nel 1954, quando il 29 maggio un significativo numero di
politici e uomini d’affari si riunì a Oosterbeeck, in Olanda, all’Hotel Bildeberg. Molto riservato è
l’elenco dei membri e non pubblicizzati sono i temi discussi negli incontri di rilevanza mondiale.
Da allora le riunioni sono state ripetute 1 o 2 volte all’anno. Quest’anno, circa 120 membri, tutti
appartene nti alle più alte sfere politiche, militari, della finanza, dell’industria e dell’economia si
sono incontrati per discutere e decidere le linee guida da far poi mettere in pratica ai “camerieri dei
banchieri”, cioè ai politici. Le decisioni rimangono segrete. A riportare però alcuni dettagli è stato
questa volta il quotidiano canadese Ottawa Citizen.
Canada. 16 giugno. Il presidente iraniano ha la grossa responsabilità, agli occhi del gruppo
Bilderberg, di aver inaugurato la prima borsa regionale indipendente del petrolio al mondo. Se ne è
parlato parecchio di questa borsa, ma poi non si è saputo più nulla. Ebbene, la borsa che avrebbe
accettato euro al posto di dollari, è stata effettivamente aperta il 21 marzo 2006 nella città di
Asslavieh, definita per questo la «capitale energetica della Repubblica islamica». Le grandi
compagnie straniere occidentali l’hanno però disertata a causa delle tensioni create ad hoc
dall’amministrazione statunitense con la crisi del nucleare bellico. Il direttore Mohammad Javad
Asemipour, responsabile della nascente piazza di scambio del greggio, si è dimesso proprio a causa
di questo flop, e sarà sostituito probabilmente da Mehdi Karbasian, un economista molto vicino
all’ex presidente Ali Akbar Hashemi Rafsanjani. È la borsa regionale il problema che sta mettendo
l’Iran nel centro del mirino. L’altra minaccia di cui si sono occupati quelli del Bilderberg è
rappresentata da Vladimir Putin. Il presidente russo ha dichiarato di voler accettare rubli (e non
dollari) per petrolio e gas, e per fare questo aprirebbe una nuova borsa petrolifera regionale.
Seconda borsa per lo scambio petrolifero indipendente. A differenza dell’Iran però le esportazioni
russe rappresentano il 15% del totale mondiale. L’altro nemico pubblico è Hugo Chávez. Il
presidente venezuelano ha manifestato posizioni anti-statunitensi e minacciato di chiudere i
rubinetti verso gli Stati Uniti. Ma la cosa più pericolosa è stata la proposta, il primo giugno scorso,
ai paesi membri dell’OPEC di accettare euro al posto di dollari. Il Venezuela infatti sta studiando la
fattibilità di servirsi della valuta europea per le transazioni.
Canada. 16 giugno. Tra i presenti quest’anno figuravano la regina Beatrice d’Olanda, l’ex
segretario di Stato USA Henry Kissinger, il banchiere statunitense David Rockefeller, l’ex capo
della Banca Mondiale James Wolfenson, il presidente della Banca Mondiale Paul Wolfowitz, il
governatore iracheno Ahmad Chalabi, il presidente della Commissione Europea José Barroso,
Richard Perle (Presidente dell’American Enterprise Institute), il segretario generale della NATO
Jaap de Hoop Scheffer, gli amministratori delegati di grandi società come Coca-Cola, Deutsche
Bank (con Hilmar Kopper e Otto Wolf von Amerongen), Crédit Suisse, Royal Dutch Shell (con
Jeroen van der Veer) e Royal Bank of Canada. C’erano poi diversi componenti di vari governi e
politici. Tra gli italiani: il vice presidente della FIAT, John Elkann, al suo primo appuntamento col
gruppo Bilderberg, Franco Bernabé (Rothschild Italia), Tommaso Padoa Schioppa (Ministro del
Tesoro, Goldman Sachs), Paolo Scaroni (ENI), Mario Monti (Presidente Università Bocconi,
Goldman Sachs), Giulio Tremonti (ex Ministro del Tesoro).
4
USA / Iraq. 16 giugno. I morti soldati statunitensi morti in Iraq sono saliti a 2.500 in poco più di
tre anni di conflitto. Impressionante il numero dei feriti: 18.490, tra cui migliaia di persone che
resteranno invalide per sempre. Il Pentagono ha reso noto ieri l’ultimo bilancio di vittime in
uniforme di questo conflitto.
Italia / Afghanistan. 17 giugno. «La nostra azione si svolgerà nella continuità. Questo non
comporta una revisione delle modalità e dell’entità dell’impegno, ma certamente della
determinazione». «In termini numerici», ha continuato il ministro della difesa italiano, Arturo
Parisi, «noi al momento non siamo in grado di dire se e quanti saranno in più. Pensiamo di
svolgere però la nostra azione nel segno della continuità e della condivisione». Così ha detto l’ex
allievo della scuola militare della Nunziatella, atterrato ieri mattina a Kabul per una visita di due
giorni al contingente militare italiano in Afghanistan. Nel paese i taliban hanno scatenato
un’offensiva contro le truppe d’occupazione proprio alla vigilia dell’espansione a sud del
contingente dell’ISAF (l’esercito multinazionale della NATO di cui fanno parte anche 1.360 soldati
italiani). Nei giorni scorsi si era parlato insistentemente della possibilità di spedire a Kabul una
cinquantina di truppe speciali. Per quanto riguarda l’invio dei caccia bombardieri Amx «sono
questioni di dettaglio», ha detto Parisi, «perché è a partire dalle richieste che ci saranno rivolte
dall’Alleanza che noi valuteremo sia il quanto, sia il come, sia anche le eventuali modalità di
impiego».
Italia / Afghanistan. 17 giugno. Oltre all’ex re afghano Zahir Shah, Parisi ha incontrato Gino
Strada. Dal fondatore di Emergency si è sentito dire che «gli afgani si aspettavano di più dalla
coalizione e qualcosa di diverso». Per Strada con la metà dei soldi che sono stati spesi in Iraq e
Afghanistan si sarebbero potuti costruire 300 ospedali a Kabul. «Qui ci sono moltissime cose da
fare sul versante sanitario. Nel nostro ospedale ci sono gli unici sei posti letto di terapia intensiva
per tutto il paese: sei posti per oltre 25 milioni di abitanti». «Pensiamo ai soldi che sono stati spesi
per la guerra in Iraq e in Afghanistan. Poniamo cento milioni di euro al mese. Con la metà, 50
milioni al mese, in Afghanistan si sarebbero potuti fare 300 ospedali, 5mila scuole e 3mila edifici di
servizi sociali per vedove, orfani, bambini».
Somalia. 17 giugno. Migliaia in piazza a Mogadiscio. «All’inferno questa democrazia». Si
infiammano di nuovo le strade di Mogadiscio e ancora una volta la protesta è innescata dal rifiuto di
ingerenze occidentali. Infuriati dalla prospettiva (auspicata dal voto di mercoledì da parte del
governo di transizione) di un intervento delle Nazioni unite nel proprio paese, migliaia di somali
sono sfilati per le strade della capitale, arringati dagli esponenti delle Corti islamiche, gridando
«America [riferendosi alla popolazione, ndr] apri gli occhi» e «all’inferno la democrazia».
Iran. 17 giugno. La parola sanzioni scompare dal negoziato. Washington conferma: incentivi ma
non sanzioni nella proposta inviata all’Iran. D’improvviso, i toni sono ottimisti. Il presidente
iraniano Mahmoud Ahmadinejad ha dichiarato ieri che l’Iran «sta esaminando» il pacchetto di
proposte avanzate il 6 giugno dal gruppo delle 5 potenze del Consiglio di Sicurezza più la
Germania, e che lo considera «un passo positivo». Lo ha dichiarato a Shanghai, in Cina, dove ieri
ha anche incontrato il presidente cinese Hu Jintao e il giorno prima aveva incontrato quello russo
Vladimir Putin.
Iran. 17 giugno. «L’Iran sta esaminando seriamente quelle proposte e forse avrà bisogno di altro
tempo», ha detto da parte sua il portavoce del ministero degli Esteri cinese. È solo una questione di
toni, per il momento, perché il presidente iraniano non ha detto né quando l’Iran darà la sua
risposta, né se il suo paese accetterà la condizione posta dalle potenze occidentali per negoziare,
cioè la sospensione del programma di arricchimento. Ha invece ripetuto che l’Iran non vuole armi
nucleari e non teme eventuali sanzioni. La Guida suprema, ayatollah Ali Khamenei (prima autorità
5
dello Stato, cui spetta l’ultima parola in ogni decisione strategica), ha ieri ribadito che la ricerca
nucleare resta una priorità per l’Iran. Non c’è un termine temporale per la risposta iraniana; si parla
dei primi di luglio.
Iran. 17 giugno. Washington ha confermato che la proposta (scritta) presentata all’Iran parla di
incentivi, ma non di sanzioni nel caso Teheran non accetti di sospendere l’arricchimento
dell’uranio. Lo aveva scritto il New York Times: le possibili «serie conseguenze» sono state evocate
solo oralmente dall’inviato dell’Unione Europea Javier Solana, latore della proposta, al suo
interlocutore Ali Larijani. Da Teheran, commenti raccolti da alcuni corrispondenti stranieri tra i
funzionari governativi dicono che l’Iran sta ancora cercando di capire a cosa si debba la svolta di
Washington, l’improvvisa disponibilità a negoziare con un paese tuttora definito «asse del male»:
l’amministrazione Bush ha davvero deciso di trovare una soluzione onorevole con l’Iran, o è una
manovra per «imbarcare» Russia e Cina in un processo che alla fine porterà a sanzioni verso
Teheran? Fino a un mese fa, in effetti, il Dipartimento di Stato USA stava cercando di ottenere
l’accordo dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza a una risoluzione che doveva porre un
aut aut all’Iran: sospendere l’arricchimento dell’uranio o essere dichiarato una «minaccia alla
sicurezza mondiale» in forza del Capitolo VII della Carta dell’ONU, che legittima sanzioni e alla
fine anche un attacco militare. Condoleezza Rice però non ha trovato il consenso, al Consiglio di
Sicurezza, in particolare di Mosca e Pechino, che hanno messo in chiaro, in un vertice al Palazzo di
vetro dell’ONU l’8 e 9 maggio, che non avrebbero mai accettato di tirare in ballo il Capitolo VII (la
cosa è stata poi ricostruita dal New York Times). Dunque la svolta del 31 maggio, quando la
segretaria di Stato ha dichiarato che gli USA sono disposti a negoziare con l’Iran.
Israele / Libano. 17 giugno. Il Mossad nel Paese dei cedri. Le forze di sicurezza libanesi hanno
scoperto, per la prima volta, una rete legata ai servizi segreti israeliani responsabile di decine di
attentati. Il capo del gruppo, Mahmoud Rafeh, originario di Hasbaya, località drusa nella ex zona
occupata da Israele, è un ex ufficiale delle milizie filo- israeliane del Libano Meridionale del
generale Lahad. Avrebbe confessato di essere responsabile di 4 attentati nei quali sono stati uccisi,
oltre a Mahmoud e Nidal Majzoub (il primo, capo militare della Jihad Islamica in Libano e il
secondo, suo fratello, anche lui militante dell’organizzazione), gli esponenti di Hezbollah Ali
Hassan Dieb (Abra 16/8/99) e Ali Saleh (Beirut sud 2/7/2003) ed il palestinese Jihad Jibril. Nel
garage della villa di Mahmoud Rafeh sono stati trovati sofisticate apparecchiature di comunicazione
ed intercettazione con i relativi cifrari, i files sui due esponenti della Jihad uccisi, documenti falsi,
divise militari. Mahmoud Rafeh sarebbe stato reclutato dal Mossad nel lontano 1994. La scoperta
del gruppo di agenti che lavoravano per i servizi israeliani sta avendo profonde ripercussioni sulla
scena politica libanese. Il partito sciita Hezbollah, e gli altri movimenti dell’opposizione all’asse
filo-USA, commentando l’episodio, hanno ricordato quanto Israele costituisca ancora una minaccia
per il Libano e quindi la necessità di non disarmare la resistenza e di non «escludere dall’elenco dei
sospetti degli omicidi e degli attentati che hanno avuto luogo in Libano» i servizi di Tel Aviv. Un
chiaro riferimento anche alla possibilità di un coinvolgimento israeliano nell’attentato all’ex
premier Rafiq Hariri, ucciso il giorno di San Valentino del 2005.
Israele / Libano. 17 giugno. L’uccisione di Mahmoud e Nidal Majzoub (un auto parcheggiata
davanti alla loro abitazione è esplosa, lo scorso 26 maggio, appena i due militanti palestinesi sono
usciti di casa per andare al lavoro) ha scosso in profondità gli abitanti di Sidone, da sempre vicini
alla causa palestinese. Le strade della città hanno visto in questi giorni imponenti manifestazioni
unitarie di protesta come non si vedevano dagli anni ’70. In migliaia e migliaia, libanesi e rifugiati
palestinesi del vicino campo di Ein el Helwe (90mila abitanti) hanno risposto all’appello a scendere
in piazza lanciato dai movimenti nazionalisti arabi e nasseriani (sunniti), tradizionalmente egemoni
in città, dai movimenti sciiti di Hezbollah e Amal, dai vari gruppi palestinesi e con la solidarietà
persino del Movimento patriottico libero dell’ex generale cristiano maronita Michel Aoun. In
6
pratica il nuovo asse dello schieramento interconfessionale che si oppone (con l’esponente maronita
pro-Siria Suleiman Franjieh e con il sunnita di Tripoli Omar Karame) a un nuovo mandato coloniale
sul Libano di USA e Francia, al disarmo della resistenza palestinese e libanese e a una rottura dei
rapporti con Damasco. Programma, questo, portato invece avanti dalla maggioranza del governo di
unità nazionale della quale fanno parte il premier Foud Siniora, la Hariri Inc sunnita, le Forze
falangiste di Samir Geagea, protagonista del massacro di Sabra e Chatila, e il leader druso Walid
Jumblatt.
Nepal. 17 giugno. «Contiamo di celebrare le elezioni per l’Assemblea Costituente a marzo o aprile
2007», ha dichiarato Prachanda, aggiungendo che la forza dell’esercito nepalese deve essere ridotta
da 90mila a 10-20mila effettivi. Richiesto di esprimersi sulla recente affermazione del primo
ministro Koirala che il suo partito appoggia una monarchia costituzionale, Prachanda ha detto che il
suo gruppo «è stato sempre a favore di una repubblica. La repubblica democratica è la nostra
esigenza minima e andremo dal popolo nepalese con questa esigenza durante la campagna
elettorale per l’Assemblea Costituente».
USA. 17 giugno. Il Pentagono ammette la persistenza delle torture sui prigionieri. Un rapporto del
2004, reso noto ieri, descrive i trattamenti che, ancora dopo lo scandalo di Abu Ghraib, erano
riservati ai detenuti iracheni. Ma assolve le truppe speciali USA. Le «tecniche di interrogatorio» di
cui si fa cenno nel rapporto (peraltro praticate in tutti i centri di detenzione statunitensi sparsi nel
mondo) sono proseguite anche dopo che lo scandalo di Abu Ghraib era già esploso e il generale
Ricardo Sanchez, allora comandante delle operazioni in Iraq, aveva diramato una direttiva in cui
veniva proibito l’uso di quelle tecniche perché gli avvocati del Pentagono lo avevano avvertito che
erano troppo dure. Completato 20 mesi fa, è stato reso pubblico solo ora e peraltro pesantemente
censurato. Il rapporto, oltre mille pagine, preparato da un generale di nome Richard Formica sulle
operazioni delle forze speciali in Iraq e dal generale Charles Jacoby sul trattamento dei prigionieri
in Afghanistan, dice che i gruppi speciali hanno adottato almeno cinque delle dodici tecniche che la
direttiva del generale Sanchez aveva escluso. Subito dopo aggiunge, però, che il loro non fu un atto
di «disobbedienza» dell’ordine di Sanchez, ma semplicemente un malinteso. Loro, i torturatori, non
sono personalmente responsabili di ciò che hanno fatto, dice il generale, perché non hanno ricevuto
«istruzioni adeguate». Sono stati cioè i loro superiori a «non capire bene» la direttiva di Sanchez e
a dare loro ordini sbagliati. Da qui il generale Formica trae la conclusione che nessuno debba essere
incriminato.
Portorico. 17 giugno. «Porre fine al dominio USA»: Portorico deve esercitare pienamente il
proprio diritto alla libera determinazione e all’indipendenza. La Commissione Speciale delle
Nazioni Unite per la Decolonizzazione ha invitato gli Stati Uniti ad avviare un processo che ponga
fine al suo dominio sull’isola. Nella discussione sul documento, presentato da Cuba e appoggiato
dal Venezuela, è stata sottolineata la mancata volontà statunitense di affrontare la questione
portoricana ed è stata criticata la violenta repressione del movimento indipendentista da parte delle
forze di polizia USA. La stessa Commissione dell’ONU ha affrontato anche il tema delle Isole
Malvine, affermando che «l’unica maniera di porre fine alla particolare situazione coloniale delle
Malvine è la soluzione pacifica e negoziata della controversia sulla sovranità tra Buenos Aires e
Londra».
Galizia. 18 giugno. PSdeG-PSOE e BNG concordano sul «carattere nazionale» della Galizia. Il
Partito Socialista Gallego (PSdeG-PSOE) ed il Blocco Nazionale Gallego (BNG) hanno sottoscritto
ieri un accordo perché il nuovo Statuto autonomico contenga il riconoscimento del «carattere
nazionale» della Galizia. Il documento (“Accordo sui criteri per uno Statuto di tutti”) porta le firme
di Emilio Pérez Touriño, presidente de la Xunta (la Giunta) e massimo esponente del PSdeG-PSOE,
e del vicepresidente dell’esecutivo gallego e portavoce del BNG, Anxo Quintana.
7
Italia. 18 giugno. «Vogliamo un rapporto di amicizia con gli Stati Uniti e la mia recente visita a
Washington lo sottolinea». Così ha detto il ministro degli Esteri Massimo D’Alema al quotidiano
tedesco Frankfurter Allgemaine Sonntagszeitung, sottolineando come con la sua missione abbia
voluto «mostrare che il governo al quale appartengo non è antiamericano». D’altro canto, osserva
il ministro degli Esteri, «il governo americano ha voluto dimostrare alla propria opinione pubblica
di non aver perso un amico con il cambio di governo in Italia, perché questo per loro avrebbe
rappresentato un problema».
Somalia / Etiopia / USA. 18 giugno. Truppe etiopiche sconfinano in Somalia e le milizie delle
Corti islamiche minacciano ritorsioni. La rapida avanzata dell’Unione delle Corti islamiche, che in
una settimana hanno conquistato la capitale Mogadiscio e la città strategica di Jowhar, fa paura a
molti e riaccende la polveriera-Somalia, paese senza governo reale da ormai quindici anni. Il debole
governo di transizione di Mohammed Ali Gedi, sostenuto da ONU, USA e Paesi limitrofi –Kenya e
Etiopia in primis–, chiede l’intervento urgente di una forza di peacekeeping da dispiegare intorno
alla capitale provvisoria di Baidoa, a 250 km da Mogadiscio. Senza curarsi della comunità
internazionale, le milizie islamiche hanno proseguito la propria avanzata, definita dal ministro degli
esteri kenyota, Raphael Tuju, «una sollevazione popolare». Nella giornata di ieri gli islamisti si
sono attestati a nord ai confini con la semi- indipendente regione del Puntland, e a ovest hanno
conquistato la città di Baladwayne, a 15 km dal confine con l’Etiopia. Secondo alcune fonti, all’alba
di ieri 300 soldati etiopi avrebbero sconfinato nei pressi di Dollow, all’intersezione dei territori di
Etiopia, Somalia e Kenya, lungo la pista che dal confine etiope porta a Baidoa.
Somalia / Etiopia / USA. 18 giugno. L’Etiopia ha sostenuto fin dall’inizio il governo di transizione
somalo (Tfg), uscito da un faticoso negoziato in Kenya. Da molti è accusata di avere armato i
“signori della guerra” somali, perseguendo una politica regionale propria, d’accordo con le scelte
anti- islamiche di Washington, di cui Addis Abeba è il principale alleato nella «lotta al terrorismo»
nel Corno d’Africa. Proprio nella città etiope di Gode è dislocato un avamposto militare
statunitense. Mentre sul terreno la situazione rimane confusa, ad Addis Abeba fervono gli incontri
diplomatici. Nella serata di ieri proseguiva un incontro nel quartier generale dell’Unione Africana,
dove si preme per l’invio di truppe. L’ambasciatore somalo del Tfg, Abdulkadir Farah, ha richiesto
l’intervento urgente di peacekeeper provenienti da paesi membri dell’Igad, da inviare a Baidoa per
difendere il governo di Yusuf. Farah ha riaffermato la stabilità del governo. «Siamo pronti a
rispondere a qualunque attacco delle Corti. Baidoa non cadrà. Ma c’è la necessità di un intervento
urgente della comunità internazionale», ha dichiarato l’ambasciatore. «Il Tfg è pronto al dialogo
con tutti. Attendiamo di capire chi sta dietro a Shekh Ahmed, che è solo il capo militare. Chi guida
le Corti, si faccia avanti e discuteremo», ha aggiunto. Di rimando, gli islamisti hanno fatto sapere di
non avere intenzione di attaccare Baidoa, e di essere pronti a dialogare anche con il governo di
transizione, comunque definito «illegittimo». Al momento un punto è assolutamente chiaro: il veto
assoluto posto dagli islamici a truppe di pace straniere in Somalia, mentre il governo ha già dato la
sua approvazione all’arrivo eventuale di caschi blu.
Somalia / Etiopia / USA. 18 giugno. L’Etiopia è stato sempre lo sponsor del governo federale di
transizione somalo, che di fatto controlla. Se il potere fosse condiviso con gli islamici (le trattative
sono già avviate, anche con la mediazione italiana), il ruolo controllore dell’Etiopia ne uscirebbe
fortemente indebolito. Tutto questo me ntre quello che restava dei “signori della guerra” di
Mogadiscio (vi hanno spadroneggiato, come in buona parte della Somalia, per oltre 15 anni con
l’appoggio USA) si è completamente disfatto. Due –Bashir Raghe e Muse Sudi Yalahow– hanno
abbandonato il loro rifugio a nord della capitale nella notte, portando con sé solo poche valigie (in
loco qualcuno dice zeppe di dollari). Si sono allontanati via mare su un battello che poi li ha
sbarcati su una imbarcazione militare statunitense. Lo riferiscono varie age nzie di stampa tra cui la
8
Reuters. Washington non ha voluto commentare questa notizia che conferma le sue buone relazioni
con i “signori della guerra” della Somalia. Altri cinque o sei –tra cui Mohammed Qanyare e
Mohamed Finish, con Yalow, uno dei due fuggiti, tra i “signori della guerra” più potenti– si sono
consegnati con le loro armi alle Corti islamiche, a cui hanno chiesto di collaborare. Questi “signori
della guerra” si erano uniti il 28 febbraio nella effimera “Alleanza per la restaurazione della pace e
contro il terrorismo”, sponsorizzata da Washington in chiave anti islamica. Più di tre mesi di
battaglia nella capitale, almeno 350 morti ed oltre 1.500 feriti, quasi tutti civili, quindi la sconfitta.
Successivamente le truppe coraniche hanno preso anche Jowhar (90 km a nord di Mogadiscio, già
sede provvisoria del governo) e hanno poi puntato a nordovest, arrivando fino a Baladayne, quasi al
confine etiopico.
Russia / Bielorussia. 18 giugno. Manovre militari congiunte russe e bielorusse con la
partecipazione degli eserciti di terra e delle forze aeree. Ieri il via. È la prima volta dall’implosione
dell’URSS. L’obiettivo di queste manovre è pianificare una vasta operazione difensiva per
«respingere un’aggressione armata», testare il sistema comune di difesa aerea e «perfezionare
l’organizzazione della difesa dei paesi membri dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza
Collettiva», che Russia e Bielorussia formano insieme ad Armenia, Kazakhistan, Kirghizistan e
Tagikistan.
Russia / Cecenia. 18 giugno. Il Cremlino annuncia la morte del successore del presidente ceceno
Maskhadov. Il massimo dirigente politico della guerriglia cecena, Abdul-Malik Saidullaiev, è stato
ucciso ieri nella città di Argun, della quale era oriundo, nel corso di una «operazione speciale» cui
hanno partecipato congiuntamente l’FSB e le milizie del primo ministro pro-russo Ramzam
Kadirov, le famigerate kadirovski. L’operazione, comunica Mosca, si è conclusa con la morte di
«un altro comandante ceceno e di due membri delle Forze di Sicurezza». Lo ha annunciato il
premier ceceno filo-russo Ramzan Kadirov, figlio del presidente fantoccio designato da Mosca,
Ahmed Kadirov (morto in un attentato della resistenza nel maggio 2004). «I terroristi», ha aggiunto
Kadirov, «sono praticamente decapitati. Abbiamo portato un colpo decisivo dal quale non
potranno più riprendersi». Il presidente pro-russo, Alu Aljanov, ha però definito Saidulaiev una
«figura decorativa».
Russia / Cecenia. 18 giugno. Saidullaiev, 35 anni, «la Sharia nella mano e la Patria cecena nel
cuore», era diventato «presidente della Ichkeria» il 10 marzo 2005, due giorni dopo l’uccisione di
Aslan Maskhadov ad opera dei servizi segreti russi (FSB). Prima di questi, stessa sorte per i
precedenti presidenti Dudaiev e Jandarviev. Il suo posto ora è stato preso ieri dal vicepresidente ed
uno dei più noti comandanti militari della guerriglia cecena, Doku Umarov, che Mosca ritiene
responsabile di vari attacchi ed attentati nel Caucaso del Nord oltre che un oltranzista della corrente
islamista della resistenza, guidata dall’influente Shamil Basayev. Secondo il rappresentante del
governo ceceno legittimo in Europa, Ahmed Zakaiev, «s iamo di fronte ad un altro assassinio
politico di un presidente della Cecenia che aggraverà soltanto la situazione nella zona (...).
Saidulaiev era un dirigente prudente e moderato, disposto al dialogo per porre fine alla carneficina
nel Caucaso Nord». Il quotidiano russo Komersant ha avvertito che il suo successore, Umarov, è
contrario a qualunque tipo di nego ziazione con il governo russo.
Turchia. 18 giugno. Per il futuro dell’Europa, per il Mediterraneo e per l’Italia, l’adesione della
Turchia all’UE è «fondamentale», dice Emma Bonino. Il ministro per le politiche comunitarie lo ha
detto oggi a Istanbul nel primo giorno della sua visita in Turchia. «Ho voluto che il mio primo
viaggio all’estero fosse in Turchia», ha spiegato, «per dare un segnale, personale e del governo,
sulla continuità della politica estera dell’Italia, che intende accompagnare il processo europeo
della Turchia».
9
Israele. 18 giugno. Il premier israeliano Ehud Olmert ha preso oggi posizione contro un’inchiesta
internazionale sull’uccisione di palestinesi a Gaza. La scorsa settimana sono morti in circostanze
controverse sette civili palestinesi su una spiaggia nei pressi di Gaza durante un bombardamento
israeliano. «Non accetteremo mai di essere sottoposti a un’inchiesta internazionale», ha detto
Olmert nel corso della riunione del governo.
Israele / USA / Libano. 18 giugno. «Washington destabilizza il Libano». È quanto sostiene Naim
Qassem, vice-segretario di Hezbollah, intervistato da Stefano Chiarini su il Manifesto. L’incontro si
svolge in un appartamento del quartiere di Haret Reik, una delle roccaforti del movimento nella
degradata periferia sud della capitale. Le misure di sicurezza, riferisce Chiarini, sono eccezionali.
Un’intera area del quartiere, enormi palazzoni di periferia uniti l’uno all’altro da una fitta ragnatela
di fili elettrici, è chiusa da un grande cancello a prova di camion bomba. Miliziani in mimetica nera
con il basco rosso, ne sorvegliano le entrate. Ci troviamo, aggiunge, nell’ex «cintura della povertà e
della paura» alla periferia sud di Beirut, i quartieri una volta noti per la loro miseria e, soprattutto
all’estero, per i rapimenti di cittadini occidentali. Oggi come oggi la miseria c’è sempre, anche se di
molto ridotta, mentre la paura è in gran parte un ricordo del passato. Il clima è rilassato, le ragazze
sembrano vestirsi come vogliono, con velo o senza, mentre l’intera zona, a causa dei campionati del
mondo, è coloratissima per le bandiere dell’Italia e, in misura minore, della Germania e del Brasile.
Palazzi e palazzine, scrive Chiarini, sono ricoperte da enormi bandiere tricolori che si muovono
lentamente alla brezza del mare non molto lontano.
Israele / USA / Libano. 18 giugno. «I progetti USA sono incompatibili con la giustizia e quindi
con la pace», sostiene Qassem. «Il sostegno acritico ad Israele e ai suoi progetti di occupazione e
di oppressione o il soffiare sul fuoco degli scontri etnici o religiosi per destabilizzare questo o quel
paese, le tesi dello scontro di civiltà, l’assedio alla Siria e all’Iran, il tentativo di usare le
risoluzioni dell’ONU per imporre la volontà USA ai nostri popoli, il parlare di democrazia senza
riconoscere il legittimo governo di Hamas, non fanno altro che favorire il caos e portare acqua alle
tesi di al Qaeda». Quindi invita a riflettere «sull’ultimo messaggio di Zarqawi che si rivolgeva non
più solo agli iracheni ma agli abitanti dell’intera area del Bilad as-Shams dall’Iraq alla Siria dalla
Palestina alla Giordania, perché testimonia un progetto per un nuovo medioriente, teoricamente
opposto ma che in realtà si interseca ed è convergente con quello USA della distruzione creativa
degli Stati della regione, tanto che le due parti, facendo leva sul terrore e la paura, finiscono per
rafforzarsi a vicenda a spese dei nostri popoli. Di fronte a questa drammatica situazione l’Europa
dovrebbe scegliere tra il caos provocato da queste teorie dello scontro di civiltà, che si alimentano
del rifiuto dell’Altro, delle occupazioni, delle minacce di interventi militari, degli scontri etnici e
confessionali, e la politica, il dialogo, il rispetto e l’autodeterminazione dei popoli, a cominciare da
quella del popolo palestinese».
Israele / USA / Libano. 18 giugno. Tre sono gli obiettivi della politica USA nel Medioriente,
prosegue Qassem nell’intervista: «controllare il petrolio, far sì che Israele resti l’unica potenza
regionale accettata e legittimata da tutti a spese dei palestinesi ed infine ottenere una sorta di
mandato sui governi della regione. A cominciare dal nostro. Basti vedere come Washington
interferisca nella sovranità libanese anche nei più piccoli particolari: Il Consiglio di Sicurezza,
indifferente alle violazioni israeliane, si è occupato negli ultimi anni sempre più spesso di noi con
ben nove risoluzioni per imporci il disarmo della resistenza islamica (ris. 1559) e il tipo di rapporto
da avere con il nostro vicino siriano (risoluzione 1680). Bush parla di democrazia, elezioni, partiti,
di stampa libera e sta destabilizzando un paese come il Libano che, in qualche modo, gode di tali
diritti dal 1943 e che ha sempre costituito uno spazio di libertà in tutto il mondo arabo».
Israele / USA / Libano. 18 giugno. Sul disarmo della resistenza libanese che vorrebbe Washington,
il vice-segretario di Hezbollah è perentorio: «il Libano è stato sempre minacciato e attaccato da
10
Israele sin dal 1948 ed è stato occupato dal ’78 al 2000 senza che nessuno facesse rispettare la
risoluzione dell’ONU 425 sul ritiro israeliano. Se Israele ha lasciato gran parte del nostro
territorio lo si deve alla resistenza. E se il Libano non sarà colpito di nuovo lo dovrà alla
deterrenza che siamo riusciti a creare sul confine. Nessuno può toglierci il diritto di difenderci e di
liberare la zona delle fattorie di Sheba ancora occupata e nessuno vuole o può garantirci che
Israele non ci attaccherà più. La resistenza potrà sì operare a fianco dell’esercito regolare, ma di
disarmo per il momento non se ne parla».
Israele / USA / Libano. 18 giugno. Qassem si sofferma quindi sulla situazione interna libanese.
«Per questo (per scongiurare i contrasti confessionali, ndr) noi diamo la massima importanza al
dialogo tra comunità, fedi e partiti. In Libano nessuna setta, orientamento politico o regione può
pensare di governare senza o contro le altre. Se in Libano c’è una certa stabilità lo si deve a questa
politica di dialogo che Hezbollah porta avanti con il sostegno di almeno i due terzi del paese.
Accanto a noi abbiamo oggi il movimento di Michel Aoun sostenuto dal 70% della comunità
cristiana, numerosi altri esponenti cristiani, laici o drusi, e buona parte della comunità sunnita.
Una maggioranza che non si riflette però nel parlamento e nel governo a causa della legge
elettorale e delle particolari circostanze nelle quali si svolsero le elezioni (le prime dopo la morte di
Hariri, ndr). Da qui l’attuale situazione di stallo per superare la quale, invece di una crisi al buio,
pericolosissima, chiediamo un allargamento del governo al movimento di Aoun. Una vera unità
nazionale».
Israele / USA / Libano. 18 giugno. Il movimento degli Hezbollah nacque nel corso di un lungo
processo iniziato nei primi giorni dell’invasione si raeliana del Libano (giugno 1982) a Baalbek,
dove giovani sciiti e religiosi, ispirati dalla vittoria della rivoluzione islamica in Iran, cominciarono
ad elaborare ideologia e modalità d’azione del nuovo movimento di resistenza. Questo esprimeva
anche lo spirito di rinascita della comunità sciita da sempre emarginata dal potere dal vecchio “patto
nazionale” (ispirato dalla Francia) che affidava il controllo del paese alla comunità cristiano
maronita e, in via subordinata, a quella sunnita. La prima apparizione pubblica del movimento
avvenne solamente nel 1985 e l’attuale segretario generale Hassan Nasrallah, eletto nel 1992 a soli
32 anni, è riuscito a trasformare questa galassia in un disciplinato movimento nazionale
protagonista della liberazione dall’occupazione israeliana conclusasi in gran parte nel 2000, dopo
22 anni. Il partito Hezbollah, maggioritario tra gli sciiti, dispone di un vasto welfare, di una
televisione (al Manar), controlla numerosi enti locali ed ha 14 seggi al parlamento. Nel giugno del
2005 ha accettato di andare al governo in un esecutivo di unità nazionale guidato dall’esponente
Fouad Sinora, espressione della maggioranza filo-USA, ottenendo due ministri e indicando agli
Esteri lo sciita indipendente Fawzi Salloukh.
India. 18 giugno. Ucciso Ravi Kumar, uno dei massimi esponenti del movimento ribelle naxalita
(maoista) nello stato dell’Andhra Pradesh, India meridionale. È stato ucciso venerdì in uno scontro
a fuoco, ha annunciato la polizia. Movimenti maoisti sono presenti in numerosi stati indiani, in zone
rurali dove sono più forti diseguaglianze e povertà.
Nicaragua. 18 giugno. Terminata la presentazione delle candidature: cinque i candidati a
presidente per le consultazioni del 5 novembre. Oltre che per il nuovo capo dello Stato si voterà
anche per il rinnovo del Parlamento. Nonostante gli sforzi dell’ambasciatore statunitense Paul
Trivelli, la destra presenta due candidati contrapposti: da una parte José Rizo per il Partido Liberal
Constitucionalista controllato dall’ex presidente Arnoldo Alemán (attualmente agli arresti
domiciliari perché riconosciuto colpevole di corruzione), dall’altra Eduardo Montealegre per
l’Alianza Liberal Nicaragüense-Partido Conservador. I sondaggi indicano però come favorito il
leader del Frente Sandinista Daniel Ortega, che sarà affiancato, alla vicepresidenza, dall’ex
dirigente della contras Jaime Morales Carazo (altri vecchi esponenti della controrivoluzione
11
appaiono nella lista del Frente). Il Movimiento Renovador Sandinista sarà guidato dall’ex sindaco di
Managua Herty Lewites. Una quinta lista infine sarà capeggiata dall’ex guerrigliero (poi passato tra
i controrivoluzionari) Eden Pastora.
Bolivia. 18 giugno. I ministri tra la gente. Nella capitale e poi nelle altre città. È l’inedito strumento
di comunicazione con la popolazione inaugurato dal governo Morales, per spiegare i contenuti del
piano quinquennale presentato venerdì scorso dal governo. Nel piano quinquennale, denominato
Bolivia digna, soberana y productiva para vivir bien, si afferma che il ruolo dello Stato sarà quello
di promuovere lo sviluppo, combattendo la povertà, la disoccupazione e la mancanza di alloggi.
Pilastri del piano sono la stabilità macroeconomica e l’adozione di nuovi indirizzi nei settori della
sanità, dell’istruzione, delle infrastrutture e della politica estera. Un altro punto fermo del governo è
quello della lotta alla corruzione. La settimana scorsa il presidente Morales aveva annunciato
l’intenzione di destituire il viceministro dello Sport, Edwin Guarayo, accusato di corruzione da un
gruppo di sportivi, tra cui la campionessa sudamericana di marcia Geovana Irusta. Secondo le
denunce, il 7 aprile Guarayo spese l’equivalente di 3.300 dollari per una riunione nella città di
Cochabamba, una cifra non giustificata dai costi dichiarati nel rapporto ufficiale. Già in precedenti
occasioni Morales aveva mostrato molta fermezza nei confronti di ministri e funzionari: in aprile
aveva destituito il viceministro delle Telecomunicazioni, reo di aver tentato di ottenere denaro da un
imprenditore. Anche l’ambasciatore in Giappone dovette dimettersi dopo soli quattro giorni dalla
nomina, perché accusato di corruzione.
Irlanda. 19 giugno. Sinn Féin aspira a governare in tutta l’Irlanda. L’aspirazione del partito
repubblicano è stata ribadita nel corso dell’omaggio annuale sulla tomba di Wolfe Tone, patriota
irlandese che si sollevò in armi contro gli occupanti britannici nel 1798. Il portavoce repubblicano
in materia di Giustizia, Gerry Kelly, ha assicurato che il partito spera di participare ad una
coalizione di governo nella Repubblica d’Irlanda dopo le prossime elezioni, che si celebreranno nel
maggio 2007. «Il Sinn Féin vuole stare al governo, tanto nel nord come nel sud», ha affermato
Kelly. «Vogliamo vedere cambiamenti qui ed ora. Stiamo costruendo un’alternativa di società».
Catalogna. 19 giugno. L’alta astensione eclissa il “sì” al referendum sul progetto di riforma dello
statuto. Il nuovo Statuto di autonomia che sostituirà il testo del 1979 è nato da un accordo tra CiU e
PSOE. Ha visto la partecipazione del 49,4% degli aventi diritto al voto. Il “sì” ha ottenuto il 73,9%
dei suffragi contro un 20,7% di voti negativi. Oltre la metà dei 5 milioni e trecentomila elettori
hanno preferito disertare le urne, in gran parte seguendo chi invitava a disertare per via dello scippo
madrilista tra CiU e PSOE. Il testo votato è infatti significativamente diverso da quello che aveva
ricevuto l’avallo del 90% del Parlamento catalano ed era stato riscritto al ribasso a Madrid tra il
PSOE di Zapatero e la destra di CiU. Lo statuto che era figlio del presidente della Gereralitat
barcellonese, il socialista Pasqual Maragall, e del leader dell’ERC (la nazionalista Sinistra
Repubblicana di Catalogna), Carod Rovira, dopo negoziati e ritocchi, è diventato nella sua versione
finale lo statuto di Zapatero e Mas (Artur Mas il negoziatore di Convergencia i Uniò, il tradizionale
partito di centro-destra catalano). L’accordo fra Zapatero e Mas, nel gennaio scorso, ha bypassato
l’opposizione di Maragall (più dura di quella del Psc) e di Carod Rovira sui punti-chiave della
definizione della Catalogna come «nazione» (confinata simbolicamente nel preambolo) e del
modello di finanziamento autonomo. La coalizione catalana non ha retto e si è rotta. In autunno si
andrà così a elezioni regionali con il Psc diviso, l’Erc alla opposizione e CiU ansiosa di riprendersi
la Generalitat.
Catalogna. 19 giugno. Per il “sì” al referendum erano schierati il Partit Socialista de Catalunya
(PSC), Ciutadans pel Canvi, Convergencia y Unió (CiU), Iniciativa per Catalunya-Verds (ICVEUiA) e la piattaforma “Estatut, jo sí”. Per il “no” Esquerra Republicana de Catalunya (ERC),
Partit Popular (PP), la piattaforma “Pel dret de decidir” e gli organismi “Diguem no” e “Tu
12
decideixes”. Per il voto nullo le piattaforme “Vota lliure, vota independència”, “Vota som una
nació” e Els Verds-Alternativa Verda. La direzione dell’ERC aveva inizialmente optato per il voto
nullo, per poi correggerlo nel “no”. L’ERC, tramite il suo esponente Josep Lluís Carod-Rovira, ha
dato una lettura autocritica dell’abbandono dalla scelta del voto nullo a quella del “no”, ma ha
anche ricordato che, come in Montenegro, «il risultato non sarebbe stato accettato per essere la
partecipazione al di sotto del 50%». Carod-Rovira ha quindi invitato tutte le formazioni a fare
«autocritica» per come è terminato il processo e per il «poco entusiasmo» che ha suscitato nella
società catalana. Ha comunque promesso che ERC «vigilerà» perché comunque si attui il nuovo
Statuto, si proceda alla riforma di circa 30 leggi statali, riforme necessarie per attuarlo, e verificherà
il trasferimento delle competenze. Infine che, in vista delle prossime elezioni, si «reimposteranno
programma, strategia e posizionamento (dell’ERC, ndr)».
Euskal Herria. 20 giugno. Polizie spagnola e francese arrestano dodici persone nel quadro di
indagini sul finanziamento all’ETA. Gli arresti dalle due parti della frontiera sono stati ordinati dai
giudici Le Vert e Grande-Marlaska. Si tratta della più grande retata degli ultimi anni. L’accusa è
relazionata all’esazione dell’«imposta rivoluzionaria» per ETA «nel passato», secondo quanto
scrive la Procura. Il procedimento era stato aperto da Baltasar Garzón otto anni fa, ma l’operazione
di polizia è stata attivata ora, proprio mentre il primo ministro José Luis Rodriguez Zapatero si
appresta ad annunciare in parlamento l’inizio del negoziato con gli indipendentisti. Batasuna ha
sottolineato che gli arresti rappresentano «un attacco nitido e frontale» alle speranze di soluzione.
Oltre agli arresti, almeno quattordici perquisizioni, il blocco di una cinquantina di conti bancari e
quello di beni patrimoniali per un valore superiore a 700mila euro, secondo quanto riferiscono fonti
investigative.
Giappone / Iraq. 20 giugno. Il primo ministro giapponese, Junichiro Koizumi, ha comunicato oggi
il ritiro delle sue truppe dal sud dell’Iraq dove sono dislocate dall’inizio del 2004. Ha sottolineato
però che il Giappone continuerà a prestare aiuto logistico (voli di trasporto truppe e merci) agli Stati
Uniti. L’operazione potrebbe essere completata entro luglio. In totale il Giappone ha dispiegato
5.500 soldati in Iraq negli ultimi due anni e mezzo.
USA / Iraq. 20 giugno. L’Iraq vive una situazione disastrosa, il governo non conta niente e a
comandare sono le milizie. Così l’ambasciatore Khalilzad. Il diplomatico USA a Baghdad ha scritto
un messaggio riservato a Condoleezza Rice che viene pubblicato sull’Independent. Una valutazione
che sembra in netto contrasto con l’ottimismo mostrato da George W. Bush e Tony Blair.
USA. 20 giugno. La NATO dovrà essere in grado di condurre contemporaneamente fino a sei
operazioni a livello di brigata o divisione –ciascuna con l’impiego massimo di 30mila uomini– e
due operazioni su larga scala, a livello di corpo d’armata, schierando per ciascuna fino a 60mila
uomini. È quanto ha sostenuto il portavoce della NATO, James Appathurai, in conferenza stampa
l’8 giugno a Bruxelles. Questo significa che complessivamente le Forze armate dei Paesi NATO
dovrebbero essere in grado di schierare –e mantenere sul terreno per periodi di tempo anche
prolungati– fino a 300mila uomini. Il concetto è ribadito in uno dei comunicati finali: i ministri
della Difesa riconoscono «l’esigenza di un cambiamento verso la capacità di condurre un numero
più elevato di operazioni di dimensioni più piccole, ma impegnative e diverse, rispetto a quanto
pianificato nel passato», pur mantenendo la capacità necessaria per «operazioni più consistenti,
incluse quelle ad alta intensità». Insomma, l’accelerata aggressività imperiale statunitense,
impantanata in Iraq ed Afghanistan, ha bisogno di non trascurare altri scenari di intervento. Tradotto
altrimenti Washington ora rilancia «multilateralismo» e cosiddette «operazioni di pace».
Ucraina. 21 giugno. Timoshenko diventa prima ministra. Dopo quasi tre mesi di trattative i partiti
Blocco e Nostra Ucraina e i socialisti hanno annunciato oggi un accordo di maggioranza. Iulia
13
Timoshenko –Blocco– ritornerà sulla poltrona di premier che è stata sua per nove mesi fino allo
scorso settembre quando il presidente filo-occidentale Viktor Yushenko (“Nostra Ucraina”) l’ha
licenziata tra reciproche accuse di corruzione e inefficienza. L’attuale premier Iuri Iekanurov (un
fedelissimo di Yushenko) diventerà presidente della Rada, il parlamento. Ad un socialista andrà la
carica di primo vicepremier. L’accordo è stato annunciato da “Nostra Ucraina”, il partito di
Yushenko, mentre la distribuzione delle cariche è stata resa poi nota da un portavoce del Blocco di
Iulia Timoshenko.
Israele / Palestina. 21 giugno. Peretz autorizza l’assassinio di dirigenti politici e militari di Hamas.
Secondo il quotidiano Maariv, il ministro della difesa Amir Peretz ha autorizzato la loro
eliminazione per mettere fine agli attacchi palestinesi contro gli insediamenti israeliani. Per il
giornale Yediot Ahronot, diversi dirigenti palestinesi hanno adottato misure straordinarie di
sicurezza. Alcuni di essi sono passati ad una specie di clandestinità.
USA. 21 giugno. Washington ha ordinato l’espianto degli organi vitali dei prigionieri «suicidati» a
Guantanamo prima di inviare i loro cadaveri nei paesi d’origine. Questo rende impossibile
realizzare autopsie indipendenti per conoscere la causa della loro morte. La denuncia è dei familiari
dei due prigionieri sauditi e di quello yemenita ritrovati morti nelle loro celle lo scorso 10 giugno.
Sui corpi dei congiunti i familiari assicurano che ci sono segni di colpi. Il saudita Talal Sahrani,
padre di Yassir Sahrani, ha detto al quotidiano Al Watan di aver visto ematomi alla testa e che
questi colpi potrebbero aver causato la morte del figlio. Mohammed Oteibi, zio dell’altro
prigioniero saudita «suicidato», ha parlato di «macchie nere sulle braccia» del nipote ed ematomi
in diverse parti del corpo, il che potrebbe significare che è stato torturato. Anche il suo corpo è stato
riconsegnato senza cervello, cuore ed altri organi. Analoghe denunce da Naguib Ghanem, ex
ministro della Sanità yemenita e membro del partito islamita Islah, in dichiarazione al quotidiano Al
Sarq al Awsat.
Catalogna. 22 giugno. Maragall rinuncia a ripresentarsi come candidato presidente della
Generalitat alle elezioni di autunno. La notizia è stata data dal portavoce della Generalitat, Joaquim
Nadal, all’emittente TV3 dopo che indiscrezioni in tal senso erano state avanzate da El Periódico de
Cataluña. Poche ore dopo e a tre giorni dall’esito del referendum sul nuovo Statuto, Pasqual
Maragall (PSC, partito socialista catalano), attualmente presidente della regione autonomica
catalana, ha confermato personalmente la decisione. Secondo l’ERC (Esquerra Republicana de
Catalunya) si tratta di un «copione già scritto». Il portavoce parlamentare dell’ERC, Joan Ridao, ha
relazionato direttamente la rinuncia di Maragall con il patto tra CiU (Convergencia i Uniò) ed il
governo spagnolo del PSOE (socialisti) che ha consentito la riscrittura al ribasso del progetto di
Statuto (rispetto a quello scaturito precedentemente dal 90% del parlamento catalano). Secondo
Ridao il citato patto rappresenta «una funzione in tre atti: ribassare lo Statuto, scalzare ERC dal
governo e tentare di alterare la politica di alleanze in Catalogna e Spagna». Per il presidente
dell’ERC, Josep Lluís Carod-Rovira, la rinuncia di Maragall a ripresentarsi candidato a presidente
disegna per l’ERC «uno scenario magnifico (...). L’ERC ha ora l’opportunità, una volta chiarito il
panorama politico nel catalanismo del centrodestra, di prendere la guida del catalanismo di
sinistra, divenendo referente non solo dell’indipendentismo, ma anche referente fondamentale della
sinistra nazionale». Per questo, ha proseguito, l’ERC «deve aprire il partito ad ampi settori sociali
che forse non sarebbero disposti ad andare verso l’ultima stazione per l’indipendenza, ma
comunque a fare con noi un lungo tratto di strada».
Euskal Herria. 22 giugno. ETA mette in guardia le autorità spagnole dal proseguire sulla strada
della repressione. A tre mesi dal 24 marzo in cui ha dichiarato il cessate- il- fuoco, Euskadi Ta
Askatasuna (ETA, Patria basca e Libertà) lancia un appello all’opinione pubblica spagnola perché
appoggi una soluzione negoziata, duratura e giusta al lungo e duro conflitto che contrappone Euskal
14
Herria alla Spagna. Con un comunicato ETA ribadisce la propria volontà di superare il conflitto,
uno scenario che «forse non è mai stato tanto vicino», ma avverte Madrid che la repressione «è
incompatibile» con un processo di pace. Oltre al rispetto dei «suoi impegni di cessate-il-fuoco»,
l’organizzazione armata vuole che il governo di José Luis Rodríguez Zapatero «espliciti il suo
impegno a rispettare quel che il popolo basco decida». Solo così, aggiunge, potrà svilupparsi il
processo di negoziazione.
Sri Lanka. 22 giugno. Le Tigri Tamil, «terroriste» per la UE, ripudiano i supervisori del cessate- ilfuoco. L’inserimento della formazione di liberazione nazionale nella lista delle «organizzazioni
terroriste» da parte di Bruxelles, dopo pressioni di Washington, ha concorso in modo decisivo alla
rottura dei negoziati di pace. La guerriglia ha avvertito che utilizzerà tutti i mezzi a sua
disposizione, inclusi gli attacchi suicidi, in caso di ripresa su grande scala della guerra con lo Sri
Lanka.
Russia. 23 giugno. Primo fuoco incrociato in una imminente e nuova guerra del gas. Ore dopo che
il Turkmenistan aveva minacciato la Russia di tagliare la sua fornitura di gas se non paga il doppio
per il suo “oro azzurro”, Gazprom ha alzato il prezzo del gas alla Moldavia da 110 a 160 dollari per
ogni mille metri cubi di carburante. Il Turkmenistan vuole che Mosca le paghi 100 dollari per mille
metri cubi, e ricorda che Gazprom incassa 240 dollari dai suoi clienti dell’ovest Europa. Tutto
indica che il rincaro del gas turkmeno si ripercuoterà sul suo cliente finale, l’Ucraina. Gazprom ha
già avvertito che considera insufficiente i 95 dollari che gli paga Kiev dall’inizio dell’anno (fino ad
allora pagava 50 dollari). La crisi coincide con l’accordo di riedizione di un governo «arancione» in
Ucraina, che sarà guidato da Yulia Timoshenko.
Israele / Palestina. 23 giugno. Relatori dell’ONU chiedono a UE ed ONU di abbandonare il
Quartetto di Madrid (UE, ONU, USA, Russia). Israele non è credibile come interlocutore. Tel Aviv
mantiene la sua politica di «assassinii selettivi» e massacra civili palestinesi (37 negli ultimi
quindici giorni). Il relatore dell’ONU per i Diritti Umani nei Territori Occupati Palestinesi, John
Dugard, ha chiesto ieri all’Unione Europea (UE) e alle Nazioni Unite di «riconsiderare seriamente
la propria permanenza» nel cosiddetto Quartetto di Madrid, che dice di voler cercare una soluzione
al conflitto, ma che si è convertito nel miglior strumento di coercizione nelle mani degli Stati Uniti
che non intendono modificare la propria linea di appoggio incondizionato ad Israele e alla sua
politica dei fatti compiuti. «Disgraziatamente, gli Stati Uniti non sono preparati per facilitare la
pace, il che lascia UE ed ONU come soli mediatori tra israeliani e palestinesi, anche se la capacità
per farlo, essendo parte del Quartetto, è molto discutibile», ha detto Dugard in conferenza stampa.
Per il relatore, l’immagine di UE ed ONU tra i palestinesi è «sostanzialmente compromessa» come
risultato dell’appoggio del Quartetto all’isolamento economico contro il popolo palestinese, diretto
dagli Stati Uniti. Dugard, che ha trasmesso a Kofi Annan queste considerazioni, assicura che sono
condivise dal personale ONU che lavora nella zona, così come da gran parte delle ONG e dagli
stessi palestinesi. Washington, d’intesa con Tel Aviv, dopo il voto democratico che ha portato alla
vittoria di Hamas ha deciso sanzioni punitive di rappresaglia contro il popolo palestinese. Il relatore
ONU sul Diritto alla Salute, Paul Hunt, si è detto d’accordo con le affermaizoni di Dugard ed ha
criticato i paesi cosiddetti donatori perché «stanno imponendo sanzioni economiche ai palestinesi,
che sono coloro che subiscono un’occupazione e che si trovano in una situazione più vulnerabile.
Non esistono precedenti del fatto che la comunità internazionale imponga sanzioni ad un popolo
sotto occupazione».
Perù. 23 giugno. Arrivano i militari USA. Il Congresso ha approvato l’ingresso nel paese di oltre
un migliaio di militari USA, che insieme all’esercito nazionale realizzeranno «compiti umanitari»
nella regione di Lambayeque. La decisione del Parlamento era stata sollecitata dal presidente
uscente Alejandro Toledo. Il provvedimento ha suscitato reazione contrastanti. Il parlamentare del
15
Partido Aprista, Javier Velásquez, ha invitato le autorità a vigilare che i militari statunitensi
vengano a svolgere effettivamente azioni sociali e non esercitazioni militari. L’opposizione ha
parlato di «attentato alla sovranità nazionale». L’esponente dell’Unión Parlamentaria
Descentralista, Javier Díaz Canseco, ha affermato che quest’operazione degli Stati Uniti mira in
realtà a «stabilire una base d’addestramento nelle zone della foresta tropicale».
Euskal Herria / Spagna. 25 giugno. La repressione dopo 90 giorni di cessate- il- fuoco dell’ETA. Il
bilancio è del quotidiano indipendentista Gara. Un arresto ogni tre giorni, una manifestazione
vietata ogni cinque, ed un incidente di traffico per la dispersione ogni nove (i detenuti sono sparsi
molto lontani da casa per rendere difficoltose le visite dei familiari e degli avvocati). E poi: 35
arresti, 21 dei qua li in isolamento e 13 finiti in carcere. Ventitre citazioni all’Audiencia Nacional,
una delle quali, Arnaldo Otegi, due volte. Incremento del numero di anni di carcere per cinque
prigionieri baschi.
Cina. 25 giugno. Pechino contro i deserti: pianterà miliardi di alberi. Il Paese che ospita il 22%
della popolazione mondiale dispone soltanto del 9% della terra, di cui appena l’8% è arabile o
adatto alla pastorizia. Il resto del territorio è montagnoso o arido. I deserti occupano il 18% del
Paese e avanzano a ritmi allarmanti a causa del surriscaldamento globale. A Pechino hanno lanciato
una vasta campagna antidesertificazione che prevede, tra l’altro, di piantare miliardi di alberi in
zone abbandonate e riarse, come il Taklamakan o il deserto del Gobi, il “gran sabbione” narrato da
Marco Polo. «La desertificazione è diventata un seria minaccia per la vita della popolazione e
rappresenta una grande sfida per lo sviluppo economico e sociale», dice Zhu Lieke, vicedirettore
dell’Amministrazione forestale dello Stato. Il problema riguarda almeno 30 province su 32 ed è
causa di migrazioni di massa di popolazioni in cerca di fonti di acqua potabile e di terra arabile.
Pechino sostiene di avere già rallentato l’avanzata dei deserti, dai 343.600 ettari annuali del 1999 ai
128.300 di oggi. Ma la crescita industriale e l’inquinamento rendono indisponibili sempre nuove
porzioni di territorio e di fonti idriche. «La maggior parte dei nostri fiumi che attraversano aree
urbane sono seriamente inquinati», ammette Zhu Guangyao, vice ministro dell’Ambiente,
«abbiamo gravi problemi con la desertificazione e l’erosione del suolo. Certo, abbiamo anche
ottenuto qualche successo, ma non c’è da essere molto ottimisti».
Venezuela. 25 giugno. Chávez dà per irrecuperabili le relazioni con il Perù di García. Il presidente
del Venezuela, Hugo Chávez, in visita ufficiale a Panama, ha attaccato il recentemente eletto
presidente del Perù, Alan García, sostenendo che il suo «padrone sta a Washington» e giudicandolo
«uno strumento dell’impero» degli Stati Uniti. Chávez ha quindi aggiunto che le relazioni
diplomatiche con il Perù «non sono riparabili» con García al potere.
Polonia. 26 giugno. La Polonia invierà in Afghanistan 500 soldati per un anno nell’ambito della
missione della NATO. Lo ha annunciato il ministro della difesa Sikorski in un’intervista al
quotidiano Dziennik. Per il ministro, il numero dei soldati, che dovrebbero iniziare la missione a
febbraio 2007, è stato dimezzato rispetto alle prime previsioni mentre la durata della missione sarà
prolungata da sei mesi a un anno.
Bielorussia. 26 giugno. La Bielorussia bloccherà eventuali conti correnti nel Paese del presidente
USA Bush e del segretario di Stato Rice. Da tempo Washington aveva minacciato un blocco dei
conti negli Stati Uniti del presidente Lukashenko e di altri alti dirigenti, ma al momento non ne ha
trovato traccia. Ora il capo del Consiglio di sicurezza bielorusso ha affermato di voler adottare
misure «simmetriche e adeguate», congelando i conti e mettendo sotto sequestro i pacchetti azionari
USA.
16
Somalia. 26 giugno. La componente radicale ha segnato un importante punto nella lotta interna alle
Corti islamiche che controllano Mogadiscio. Nella notte di sabato, in un incontro di vertice svoltosi
al Ramadam Hotel, è stata decisa la creazione del Consiglio delle Corti islamiche, una sorta di
Parlamento composto da 88 persone, che dirigerà le attività delle Corti ed emanerà leggi. Alla testa
di questa organizzazione è stato nominato il colonnello Sceikh Hassan Dahur Aweis, nella lista dei
ricercati da parte degli Stati Uniti perché ritenuto esponente di al Qaeda. Secondo la CIA, infatti, il
colonnello avrebbe comandato il gruppo al-Ittihaad al-Islamiya, ritenuto il braccio somalo di Al
Qaeda. Suoi vice sono Sceikh Omar Imam Abubakar e Sceikh Abdullahi Ali Afra, anch’essi su
posizioni fondamentaliste, come il segretario generale del Parlamento Sceikh Ibrahim Suleh, imam
di una importante moschea di Mogadiscio, colui che proclamò la guerra santa contro i “signori della
guerra” (appoggiati dagli USA) nel corso della battaglia per il controllo della capitale, che li ha visti
sconfitti e definitivamente sbandati. Colui che fino a sabato era considerato il leader delle Corti,
esponente dell’ala moderata dell’islamismo di Mogadiscio, Sceikh Sharif Sceikh Ahmed, è stato
nominato presidente del Consiglio esecutivo, un organismo formato da otto personalità, che avrà
solo poteri amministrativi. Un’altra nomina di grande importanza (sarà vice di Sceikh Ahmed, ma è
molto più potente) è quella del governatore del Basso Shabele, Sceikh Yusuf Mohamed Siad:
questo significa che l’ampia ed importante regione del Sud è ormai annessa dalle scuole coraniche
di Mogadiscio, che di fatto controllano tutto il Sud della Somalia, e forse di più. Con le nuove
scelte, l’impressione è che si vada ad una svolta fortemente radicale e probabilmente alla
proclamazione di una repubblica islamica somala. Ma Abdirahim Isse, uno dei collaboratori di
Sceik Ahmed, ha dichiarato ieri alla Reuters che «le consultazioni sono ancora in corso. I giochi
non sono ancora fatti» visto che si annunciano nuove nomine nella ristrutturazione in corso
dell’Unione delle Corti islamiche (in tutto undici).
Bolivia. 26 giugno. Le fortune degli imprenditori stranieri che operano in Bolivia sono nel mirino
del governo: lo ha sostenuto il presidente boliviano, Evo Morales. «Stiamo investigando su questi
imprenditori che sono diventati grandi banchieri e proprietari di terre», i quali venti o trent’anni fa
sono arrivati a La Paz «senza avere un soldo» e ora sono milionari, ha sottolineato Morales.
«Ottengono i prestiti dallo Stato, fondano una banca, poi la fanno fallire e non pagano i debiti»
sostiene il presidente.
Italia / Afghanistan. 27 giugno. Il numero dei soldati (2.852) impiegati in Afghanistan resta
immutato, così come le risorse per la missione ISAF, confermano Parisi e D’Alema. I ministri di
Difesa ed Esteri lo hanno detto illustrando i contenuti del decreto che rifinanzia le missioni militari
all’estero. La novità principale è il ritiro dall’Iraq. «Non è plausibile che si apra un dibattito su una
unilaterale exit strategy dell’Italia», spiega D’Alema, «in Afghanistan siamo con l’ONU, la NATO
e l’UE».
Afghanistan. 27 giugno. Corruzione dilagante, instabilità, attacchi della guerriglia. E poi un
crescente malcontento popolare contro gli eserciti stranieri. La situazione afgana sembra sfuggire di
mano, giorno dopo giorno, al presidente Hamid Karzai e al suo esecutivo. Lo sostiene anche il
Washington Post : «Il presidente Karzai sta perdendo il sostegno di molti connazionali e di alcuni
governi stranieri» scrive il quotidiano statunitense. «Il presidente ha un margine di opportunità per
tenere la guida del paese e prendere decisioni difficili, ma è un’opportunità che si sta esaurendo
rapidamente», spiega in un’intervista al giornale un militare di alto grado sotto anonimato. «Il
presidente Karzai è la sola alternativa per questo paese, ma se ci attacca, non possiamo aiutarlo a
realizzare le sue idee. E se va giù, andremo giù con lui», ha aggiunto il militare. Giovedì scorso
Karzai si era lamentato della mancanza di piena cooperazione da parte degli alleati stranieri.
Secondo il presidente, infatti, le forze guidate dagli Stati Uniti avrebbero sbagliato approccio in
Afghanistan, e per porre rimedio a questa situazione il governo di Kabul ha richiesto alla comunità
internazionale più aiuti per l’addestramento e l’equipaggiamento dell’esercito e della polizia afgana.
17
A irritare Karzai, scrive il Washington Post, sarebbero state le critiche interna zionali che hanno
accolto le nomine di 13 dirigenti di polizia alcuni dei quali accusati di crimini contro i diritti umani.
Ma analisti e funzionari stranieri sentiti dal quotidiano statunitense, in realtà, dicono che alla base di
quelle nomine ci sarebbe l´intenzione da parte del governo di bilanciare la situazione dal punto di
vista etnico e politico. «Sta prendendo decisioni che riguardano la stabilità a breve termine e che
vanno contro i suoi stessi interessi e gli interessi a lungo termine della costruzione del paese», ha
però ribattuto al quotidiano un ufficiale europeo che ha anche aggiunto che «il risultato è che il suo
sostegno internazionale si sta riducendo e potrebbe trasformarsi in un abisso». Molti governi
europei stanno esprimendo serie preoccupazioni sulla dirigenza di Karzai, scrive il quotidiano. «C’è
la terribile sensazione che tutto stia peggiorando», ha detto un diplomatico occidentale.
Israele / Palestina. 27 giugno. Scambio di donne e adolescenti prigionieri in cambio della
liberazione del soldato israeliano. È quanto hanno fatto sapere le tre organizzazioni palestinesi
(Ezzedin al Kassam, braccio armato di Hamas, i Comitati Popolari della Resistenza e l’Esercito
Islamico) che da alcune ore tengono prigioniero un soldato israeliano dopo l’attacco ad una base
militare a sud di Gaza che ha portato alla morte di due militari israeliani. Una sortita riuscita grazie
ad un paziente lavoro di scavo di un tunnel sino ad arrivare a ridosso della postazione. L’episodio
ha scatenato in Israele polemiche viste le super-attrezzature tecnologiche di cui dispongono i
militari. Ehud Olmert, primo ministro israeliano, rifiuta comunque ogni negoziazione. Secondo dati
raccolti dal quotidiano israeliano Haaretz, attualmente 95 donne e 313 ragazzi con meno di 18 anni
si trovano incarcerati in Israele.
Euskal Herria. 28 giugno. La retata poliziesca franco-spagnola iniziata martedì della scorsa
settimana ha vissuto ieri un nuovo episodio con l’arresto di Emilio Castillo e José Ignacio Elosua. Il
ministero spagnolo dell’Interno accusa entrambi di essere «presunti membri della rete organizzata
di estorsione di ETA». Sempre ieri è stato reso pubblico che sono una decina gli imprenditori baschi
imputati per «collaborazione» con ETA nell’inchiesta aperta nel 2005.
Israele / Palestina. 29 giugno. Circa la metà della popolazione della Striscia di Gaza è senza
energia elettrica ed acqua, in seguito ai bombardamenti israeliani su centrali ed altre infrastrutture
civili. È la risposta di Tel Aviv al sequestro di un suo soldato ad opera di formazioni palestinesi che
chiedono il rilascio di donne e ragazzi incarcerati in Israele. Questi bombardamenti mirano a
causare problemi alla vita dei palestinesi, alle loro condizioni igieniche, a complicare la stessa
conservazione degli alimenti in frigo resi così inservibili. Disagi crescenti sono già denunciati anche
negli ospedali.
Israele / Palestina. 29 giugno. Retata all’alba di ministri (10), deputati (20), sindaci e militanti (87,
23 dei quali della Jihad Islamica) di Hamas. Gli arresti sono avvenuti a Ramallah, Hebron, Jenin,
Kalkilia e Gerusalemme est. Il ministro israeliano dell’Interno, Roni Barón, ha detto alla radio
pubblica che gli arrestati sono implicati in «attività terroriste». Ed ha aggiunto che «la mano di
Israele raggiungerà anche il primo ministro dell’Autorità Nazionale Palestinese, Ismail Haniye». Il
capo dello Shin Beth (servizio segreto interno israeliano), Youval Diskin, aveva avvertito domenica
scorsa il presidente dell’ANP, Mahamud Abbas, che Israele avrebbe forzato la caduta del governo
di Hamas se non fosse stato restituito il soldato sequestrato. Fonti ufficiali israeliane riportate dagli
stessi quotidiani in Israele hanno però ammesso che all’operazione era stato dato il via libera da
diverse settimane e che l’avallo ufficiale era venuto nella notte di ieri dalla Procura Generale e dal
primo ministro, Ehud Olmert.
Palestina. 29 giugno. Un portavoce dei Comitati di Resistenza Popolare, Abed Aal Abu Abir, ha
assicurato al quotidiano israeliano Yediot che ci saranno ulteriori sequestri. «Ogni qual volta (il
primo ministro israeliano Ehud) Olmert e (il ministro della Difesa Amir) Peretz spargeranno
18
sangue palestinese, vi sequestreremo e vi uccideremo, bruceremo la terra che calpesterete. Vi
affogheremo nella paura e nel terrore».
Iran / Israele. 29 giugno. Il ministro degli Esteri iraniano, Manucher Mottaki, chiede l’intervento
del Consiglio di Sicurezza dell’ONU per porre fine all’aggressione militare israeliana contro i
palestinesi. Mottaki ha condannato «questa invasione barbara» e l’arresto di membri del governo di
Hamas, atti «che violano tutte le leggi internazionali ed i diritti umani». Quella dell’Iran è stata
finora l’unica reazione di indignazione. Da Washington è venuto pieno appoggio all’iniziativa
israeliana di arresti e bombardamenti. Un portavoce del Dipartimento di Stato ha solo chiesto a Tel
Aviv «che ci si accerti di non danneggiare vite innocenti».
Perù. 29 giugno. Proteste in tutto il paese per l’approvazione a sorpresa, da parte del Congresso,
del Trattato di Libero Commercio (TLC) con gli Stati Uniti. Il voto ha visto uniti il raggruppamento
Perù Possibile dell’attuale presidente Alejandro Toledo, i partiti di destra e l’APRA del capo di
Stato eletto Alan García. Le voci di protesta ha nno raggiunto la stessa aula parlamentare, con
l’irruzione di una decina di esponenti dell’Unione per il Perù di Ollanta Humala, eletti nell’ultima
tornata elettorale. «Quello che è avvenuto nel Congresso è stato vergognoso perché il TLC è stato
approvato senza consentire alcun dibattito, facendo ricordare le pratiche del governo di Fujimori»,
ha dichiarato il leader del Partido Socialista Javier Diez Canseco. «Il comportamento di García è
penoso. Non è stato capace di mantenere la sua parola [durante la campagna elettorale, l’esponente
dell’APRA aveva promesso di rinegoziare il trattato con gli USA]».
Perù. 29 giugno. García rappresenta il continuismo neoliberista rispetto al governo di Toledo, ma
con un incremento della repressione perché l’aprismo sta già promuovendo leggi per aumentare le
pene contro chi protesta nelle piazze. «Toledo e García, la stessa porcheria» era lo slogan gridato
da circa 5mila dimostranti che hanno marciato fino alla sede del Congresso, sotto la guida del
segretario generale della Confederación Nacional Agraria, Antolín Huáscar. «I parlamentari che
hanno votato il TLC sono dei traditori», ha detto Huascar; «presenteremo una mozione di
incostituzionalità del TLC davanti al Tribunale Costituzionale». Secondo uno studio del Grupo de
Análisis para el Desarrollo, il settore agrario perderà tra i 100 e i 160 milioni di dollari per
l’ingresso nel paese di prodotti statunitensi che godono delle sovvenzioni del governo di
Washington. Oltre il 60% del costo di questo trattato ricadrà sui contadini delle Ande, i più poveri
del Perù. E non è tutto: con l’accordo sottoscritto il governo di Lima non potrà adottare alcun
provvedimento che danneggi le imprese statunitensi, come imporre nuove tasse o rinegoziare
contratti. Le compagnie USA non saranno sottoposte alla giustizia nazionale. E ancora: mentre le
autorità statunitensi potranno negare l’ingresso ai prodotti peruviani per ragioni sanitarie, le autorità
peruviane non potranno fare lo stesso.
Spagna / Euskal Herria. 30 giugno. «Voglio annunciare che il Governo avvierà un dialogo con
l’ETA» con «il principio irrinunciabile che le questioni politiche si risolvono solo con i legittimi
rappresentanti della volontà popolare». E ancora. «Il governo intende che gli accordi tra le distinte
formazioni politiche di Euskadi devono essere raggiunti con il massimo consenso possibile,
rispettando la pluralità e in uguaglianza di condizioni». Parole del primo ministro socialista
spagnolo, José Luis Rodríguez Zapatero, pronunciate ieri solennemente. Poi quelle che sono state
molto apprezzate in area indipendentista: «Abbiamo l’opportunità di porre fine a questa situazione,
e sulla base dei principi democratici dico che il governo rispetterà le decisioni dei cittadini baschi
che adottino liberamente, rispettando le norme legali». Il portavoce di Batasuna, Arnaldo Otegi,
ritiene che il presidente del governo spagnolo, José Luis Rodríguez Zapatero, «ha pronunciato una
dichiarazione fondamentale per la risoluzione del conflitto nell’assumere l’impegno di rispettare
quel che la cittadinanza basca decida rispetto al suo futuro». Nella dichiarazione il presidente
spagnolo non ha però precisato il modo in cui sarà rispettata e si materializzerà, nell’attuale quadro
19
giuridico-politico, la decisione della società basca. Anzi, in un passaggio del suo discorso ha detto:
«voglio esprimere l’impegno assoluto del governo e il mio personale di agire nel rispetto dei valori,
principi e regole della Costituzione del 1978». Poi ha affermato che manterrà la Legge dei Partiti
che illegalizza Batasuna.
Palestina / Israele. 30 giugno. L’esercito, dopo trentasei ore di bombardamenti in cui sono state
colpite una trentina di località, tra cui uffici del ministero dell’Interno e della presidenza palestinese,
continua a intervenire a Gaza con attacchi minori mentre l’armata di mezzi blindati attestati attorno
al perimetro della striscia si muoverà soltanto se non ci saranno sviluppi positivi della mediazione.
Nella sua prima apparizione in pubblico dall’inizio dell’offensiva israeliana il primo ministro
Haniyeh dalla principale moschea di Gaza, dopo aver esortato la popolazione ad aver pazienza, si è
concentrato sull’arresto dei suoi ministri e parlamentari. «La nostra gente è paziente. Possono
arrestare i nostri dirigenti, assassinarli, ma la nostra bandiera non cadrà». Haniyeh ha assicurato
che il governo eletto maggioritariamente dai palestinesi non si arrenderà nonostante la violenza di
Israele. Con un terzo dei suoi ministri incarcerati, «il governo continuerà con il suo lavoro e le sue
responsabilità», ha aggiunto.
Palestina / Israele. 30 giugno. Parte della stampa israeliana, interpretando ciò che considera il vero
obiettivo di Olmert, suggerisce di continuare con la decapitazione del governo a guida Hamas e
spingere Mahmoud Abbas a fo rmare un governo d’emergenza senza gli islamici. Ipotesi,
ammettono altri, difficilmente realizzabile senza vedere il presidente bollato come
«collaborazionista d’Israele». Haniyeh deve aver letto i giornali. «I ministri e i funzionari possono
cambiare, ma la verità è che ogni governo che sarà poi formato nei prossimi quattro anni lo sarà
sulla base dei risultati delle legittime elezioni», ha insistito. «Quando Israele ha arrestato i nostri
ministri, voleva obbligarci a cambiare posizione, ma noi non lo permetteremo». L’altro giorno, il
ministero degli Esteri israeliano aveva confermato che il progetto di decapitare il governo era da
settimane nel cassetto, approvato dalle autorità giudiziarie, e Haniyeh ha colto quest’affermazione
per parlare di «piano premeditato» con lo scopo, tra l’altro, di «minare» l’accordo raggiunto con
Fatah sul documento dei prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane. «Un accordo storico»,
commenta da Ramallah un portavoce di Fatah, «che avrebbe modificato in senso positivo la politica
del governo».
Iraq. 30 giugno. Continua la caccia agli intellettuali nell’Iraq occupato. Un totale di 461
intellettuali iracheni figura in una «lista nera» che circola in Iraq, secondo quanto informa la rivista
scientifica Science, che ha ottenuto una copia della macabra lista. La pubblicazione indica in 188 i
professori universitari e in circa 220 i medici che sono stati uccisi dall’inizio dell’invasione del
paese arabo nel marzo 2003. Organizzazioni dei diritti umani assicurano che il numero dei morti è
di gran lunga maggiore. È convinzione diffusa tra la popolazione irachena che i responsabili di
questi attacchi siano da ricondurre alle forze d’occupazione e al suo supposto piano di lasciare
l’Iraq senza le sue menti più illustri.
20