Sheryl Crow, Tuesday Night Music Club

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Sheryl Crow, Tuesday Night Music Club
19
novembre2002
COMICSWORLD
vitamine recensioniletterarie,cinematograficheemusicali acuradiPaoloBoschi
t LIBRI
Manuel Vázquez Montalbán,
L’uomo della mia vita
(Feltrinelli)
Ne L’uomo della mia vita – ripubblicato recentemente nella collana
“Universale Economica” – il mitico
Pepe Carvalho, impagabile figura di
detective-gourmet, dopo la parentesi argentina del Quintetto di Buenos Aires, torna a Barcellona,
consueto palcoscenico delle sue avventure. Superato il fatidico ciglio
della mezza età, Carvalho si trova
nel bel mezzo della spinta contrapposta di due fantasmi che si riaffacciano dal suo passato. Nelle prime
pagine rientra infatti in scena una
Charo matura ma sfavillante: l’ex
prostituta dal cuore d’oro si è rigenerata nell’esilio andorrano grazie
alle attenzioni del facoltoso notaio
catalano Quimet, che ha sistemato
anche il suo ritorno a Barcellona (da
Carvalho, l’uomo della sua vita),
aprendole un’erboristeria di grido. Il
secondo fantasma del passato si
materializza invece attraverso copiosi ed enigmatici fogli di carta
eruttati dal fax del quale anche Carvalho (unica sua concessione al progresso) ha dotato il proprio ufficio:
la donna misteriosa si rivela poi essere una faccia nota, ovvero Jessica
Stuart-Pedrell, già conosciuta da
Carvalho come Yes, la figlia ventenne dell’imprenditore che non arrivò
mai alle spiagge del Pacifico ne I
mari del Sud, la ragazza tossica e
viziata a suo tempo amata dal detective ed ora, splendida quarantenne, pronta a rientrare nella sua vita.
Nel bel mezzo di tali amori riaffioranti il protagonista dovrà indagare
sul misterioso omicidio a sfondo
erotico-satanico-politico di un giovane altoborghese rimasto coinvolto in una torbida relazione con il
guru di una setta satanica locale, oltre che ad aiutare Quimet nella costituenda rete di servizi segreti
catalani. L’uomo della mia vita è
la solita complicata avventura carvalhiana di Manuel Vázquez Montalbán: il plot a sfondo giallo
procede in modo sinuoso e sotterraneo tra le derive romantiche delle
due donne che, contemporaneamente, hanno eletto ad uomo delle
rispettive vite un ironico, amaro e disincantato Carvalho di fine millennio.
t FILM
The Bourne Identity,
regia di Doug Liman,
con Matt Damon,
Franka Potente, Chris Cooper,
Clive Owen, Brian Cox,
Julia Stiles; azione; Usa; 2002; C.
Un giovane viene ritrovato per caso
al largo delle coste mediterranee da
un peschereccio italiano. Segni particolari: tre proiettili nella schiena, il
numero di un conto corrente svizzero, tabula rasa sul proprio passato.
Lo sconosciuto protagonista di The
Bourne Identity parte così alla volta di Zurigo per cercare indizi
sull’anagrafe dispersa nei meandri
della sua memoria in frantumi. Da
una cassetta di sicurezza arrivano risposte sibilline o meglio i ferri del
mestiere di un agente speciale: numerosi passaporti, denaro contante
in valute diversificate, una pistola
automatica ed un nome, Jason Bourne, con relativo indirizzo parigino.
Gradualmente Jason si rende conto
di parlare con naturalezza estrema
varie lingue, di padroneggiare le più
letali tecniche di combattimento e
di sapere esattamente come comportarsi nelle situazioni più rischiose, in cui si trova ben presto
coinvolto: la sua identità perduta, a
lui ignota, pare molto scomoda per
coloro che stanno cercando di eliminarlo con ogni mezzo.
Per seguire l’unico indizio sicuro e
depistare chi lo sta braccando, Jason Bourne si rivolge alla prima persona che incrocia la sua strada,
ovvero Marie Kreutz, una stravagante ragazza tedesca che ha il
grande pregio di possedere una
Mini d’annata al momento giusto, e
che accetta di portarlo a Parigi in
cambio di ventimila dollari. Per i due
comincerà una sarabanda di inseguimenti, agguati e pericoli in serie,
con l’immancabile pizzico di romanticismo a ravvivare la trama in sottofondo.
Tratto dall’omonimo romanzo di
Robert Ludlum e caratterizzato dalla
regia adrenalitica ed iperdinamica di
Doug Liman, The Bourne Identity
è un serrato thriller d’azione molto
lontano dall’accezione hollywoodiana del genere, soprattutto grazie al
fascino dall’ambientazione europea
(nello stile di Ronin, per intenderci)
ed in virtù dell’efficace caratterizzazione dei personaggi.
Hollywood Ending,
regia di Woody Allen,
con Woody Allen, Téa Leoni,
Treat Williams, Mark Rydell,
Debra Messing,
Tiffani-Amber Thiessen;
commedia; Usa; 2002; C.
Woody Allen, cinematograficamente parlando, ha sempre avuto un
rapporto preferenziale con la propria vita e le proprie fobie, tutte finite, una volta o l’altra, in qualcuno
dei suoi film. Hollywood Ending
segna però l’apoteosi dell’attitudine
autoreferenziale del cineasta newyorchese, perché è arduo pensare a
qualcosa di più alleniano di un regista (o meglio un auteur) che ha
sfondato, vinto un paio di premi
Oscar e quindi causato il declino della propria carriera per eccesso di
pruderies autoriali e smanie caratteriali, riducendosi a fare pubblicità: il
regista in questione, Val Waxman, si
vede offrire di punto in bianco e su
un piatto d’argento il film del suo
grande ritorno. La sospirata regia è
caldeggiata per l’appunto dall’ex
moglie (mai dimenticata) di Waxman, ora fidanzata dell’odioso tycoon hollywoodiano che dovrebbe
produrre il film (e per il quale Waxman è stato mollato). Per quanto si
tratti della grande occasione che
potrebbe assicurargli una dorata
maturità autoriale, il protagonista,
davanti ad un film inneggiante a
New York che potrebbe girare a occhi chiusi, si troverà per l’appunto a
dirigerlo affetto da (inspiegabile) cecità psicosomatica – un timore fisiologico su cui Allen aveva già giocato
con la miopia in Criminali da strapazzo e con la geniale intuizione
dell’uomo sfocato di Harry a pezzi
–. Ultimato il film senza che nessuno
(o quasi) si sia accorto del suo “problema” il nostro regista (e soprattutto il suo produttore) rimarrà
sconvolto
dall’incomprensibile
montaggio del materiale girato ma,
dulcis in fundo, nonostante in patria
siffatto caos cinematografico da disturbo psicosomatico sia demolito
da pubblico e critica secondo copione, in Europa sarà interpretato come geniale e, va da sé, autoriale.
In mezzo esilaranti battute a
ripetizione, sketchs divertenti e satira a getto continuo a bersagliare il
fatuo mondo della megaproduzioni
hollywoodiane. Un delizioso esempio di metacinema.
t DISCHI
Eminem, The Eminem Show
[Interscope/Mca 2002]
D’accordo, un album di Eminem va
letto, al solito, prima sul fronte musicale e poi a livello mediatico, perché il rapper americano ama filtrare
la sua vita nei suoi dischi, almeno
dal precedente The Marshall Mathers LP, lavando senza ritrosia i
panni sporchi in piazza e godendo
della relativa promozione scandalistica che la cosa comporta: i suoi lavori hanno infatti finora conquistato
copertine prestigiose (e non) prima
in ragione delle offese a colleghi e
parenti ivi contenute, e solo secondariamente per la qualità artistica
delle canzoni. La storia si ripete anche in The Eminem Show: canzone-manifesto dell’album risulta
sicuramente il primo singolo estratto, ovvero l’adrenalitica Without
me, in cui Eminem si scaglia contro
tutto ciò che riesce ad intravedere
all’orizzonte, illustrato da un variopinto video in cui il buon Marshall
Mathers non esita a misurarsi in caricature di cattivo gusto di Elvis, Robin e addirittura Bin Laden. In tutto
The Eminem Show conta venti
tracce per quindici brani e cinque interludi: nel complesso un album ridondante a livello verbale, ricco di
scenette satiriche e sorprese di varia
natura. La prima gemma della tracklist è sicuramente l’ombrosa White America, una canzone affilata
come un rasoio e che non risparmia
nessuno, seguita a ruota dal dilagante hip hop di Business e dalla
cupa tristezza di Cleaning out my
closet, in cui il rapper frammenta
per l’ennesima volta il suo tormentato rapporto con la madre, un brano che costituisce un dittico con la
successiva Square dance, analoga
per atmosfera ed aperta da un’intro
di grande impatto. Altre perle da segnalare sono Sing for the mo-
ment, costruita sul campionamento
di Dream on degli Aerosmith e contrappuntata dalle chiosature chitarristiche di Joe Perry, e Hailie’s
song, dedicata all’adorata figlioletta e dotata di un insospettabile retrogusto melodico. C’è anche
spazio per il divertissement di My
dad’s gone crazy in duetto con la
figlia Hailie Jade. Un buon disco di
hip hop, comunque.
Ligabue, Fuori come va?
[Wea 2002]
Le dodici nuove canzoni di Fuori
come va? non aggiungono assolutamente nulla di nuovo al repertorio
del Liga, che a questo punto comincia a preoccupare sul fronte musicale: non perché, si badi bene, si
avvertano sintomi di scadimento,
anzi si tratta esattamente del contrario. Fuori come va? è un disco
che Ligabue avrebbe potuto incidere in un momento qualunque della
sua carriera da star conclamata, i
brani ricordano episodi già scritti
con variazioni sul tema. Il disco
prende avvio con Nato per me, il tipico ruvido rock da repertorio ligabuiano, molto efficace per quanto
suoni abbastanza “déjà écouté”. A
ruota seguono Tutti vogliono
viaggiare in prima, rock melodico
con retrogusto nostalgico molto
Liga-style, e la ballata sentimental-malinconica Ti sento. Poi arriva
anche il primo brano estratto dalla
colonna sonora di Dazeroadieci:
trattasi di Questa è la mia vita, un
rock melodico di grande impatto
emotivo. L’album presenta poi
un’altra specialità di Ligabue, ovvero Tu che conosci il cielo, ballata di
sapore ontologico sulla falsa riga
della più ispirata Hai un momento,
Dio? Il dittico centrale è l’essenza
dell’album: il rock ruspante de Il
campo delle lucciole – ritmo a
marce ridotte quasi a rendere il pezzo una ballata d’impianto acustico,
degna dei R.E.M. più ispirati – ed a
seguire Voglio volere, rock ballad
con un ottimo testo, melodica e sognatrice – ai livelli di Ho messo via
per facilità (ed efficacia) evocativa –.
Abbastanza deludente invece la
coda dell’album, in cui si salva soltanto Libera uscita, ennesima ballata rock del disco, secondo estratto
dalla soundtrack di Dazeroadieci
nonché una delle rare occasioni in
cui il Liga si impegna in un pezzo di
sapore parlato, intenso e vivido dal
punto di vista testuale. Insomma,
spaziando lungo questa tracklist
l’impressione è che Ligabue abbia
ormai acquisito un incredibile perizia da artigiano del suono, ma si
ostini ad andare sul sicuro. Nel complesso un album gradevole ma non
indispensabile.
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CHICCADISCO
Sheryl Crow, Tuesday Night Music Club
Quelli che sarebbero divenuti i molti estimatori di Sheryl Crow cominciarono a conoscerla con il videoclip di All I wanna do, singolo
marcato da un contagioso refrain di sapore
vagamente hawaiiano, un brano apparentemente spensierato ma dotato di un testo intrigante ed affatto scontato, al di là della cortina fumogena del ritmo. Nata nel 1962 nei
pressi di Memphis, Sheryl cominciò a lavorare per molti grandi dello showbiz durante gli
anni Ottanta: dopo una lunga gavetta,
l’interessamento di Don Henley le procurò un
contratto discografico e la futura rockeuse
poté registrare il suo primo album, rifiutandosi poi di pubblicarlo per pudore commerciale. Per Sheryl Crow seguirà un oscuro anno
pagina precedente
di silenzio, illuminato soltanto dalle estemporanee jam sessions con un gruppo di amici
il giovedì sera. Da questa esperienza nascono
spontaneamente le undici tracce di Tuesday
Night Music Club, trainato verso tre Grammies e vendite milionarie dal successo
dell’ennesimo, sopracitato singolo. A rendere Sheryl una rockstar definitivamente è poi
l’incredibile consenso di pubblico per la
splendida apripista Run Baby Run, utilizzata in un noto spot televisivo, probabilmente il miglior brano di tutto l’album.
Questo notevole disco d’esordio assembla
comunque un buon numero di memorabilia:
dall’intrigante Leaving Las Vegas (che
entrò nella colonna sonora di Kalifornia) alla
conclusiva ballata I shall believe, eterea ai
confini del religioso, dal sound West Coast
di Strong Enough alle schegge elettroniche di The Na-Na Song, dal rock teso di
Solidify alle screziature jazzistiche di We
do what we can. Il resto sono un pugno di
ballate sospese tra inquietudini esistenziali e
relazionali (Can’t cry anymore, No one
said it would be easy e What I can do
for you). Un disco che profuma di vissuto,
un esordio sorprendente, una favola divenuta magicamente realtà, l’eccezione che conferma la regola nel duro mondo del music
business...
P.B.
Introducing...
Ultimates!
La serie apripista dell’universo Ultimate, firmata da Brian
Michael Bendis in cabina di sceneggiatura e Mark Bagley sul
fronte grafico, è stata “Ultimate Spider-Man”, un must
assoluto dell’anno scorso che ha tracciato la via ad
“Ultimate X-Men” ed ai primi esempi a tempo determinato
di “Ultimate Team-up”. Come ogni lettore di fumetti
Marvel si può immaginare, in un universo supereroistico
come quello Ultimate - elaborato a sommo studio per
riattualizzare le origini degli personaggi più amati – non
poteva mancare il supergruppo Marvel per definizione,
ovvero i potenti Vendicatori, ribattezzati autarchicamente
Ultimates, per quanto si tratti a tutti gli effetti di una sorta di
Ultimate Avengers: per ricrearli è stato chiamato il
talentuoso sceneggiatore Mark Millar, coadiuvato
graficamente dalle matite di Bryan Hitch, il cartoonist
britannico autore del fumetto cult “Authority”.
Il risultato, come si può intuire dagli Ultimate X-Men di
Millar, è un’intrigante amalgama di novità e tradizione. A
differenza dei Vendicatori “regolari” il gruppo degli
Ultimates è infatti un progetto militare autorizzato dal
Governo degli Stati Uniti ed affidato all’abilità organizzativa
di Nick Fury, neo-direttore dello S.H.IE.L.D e molto diverso
dal Nicholas Fury originale, col quale condivide il classico
caratteraccio da vecchio soldato e la benda sull’occhio
sinistro: per il resto il Fury-Ultimate sfoggia pizzetto, cranio
lucido e un volto decisamente ispirato a Samuel L. Jackson.
Per rispondere all’esigenza di proteggere gli States da
qualsivoglia tipo di minaccia superumana, il direttore della
supersegreta agenzia spionistica statunitense ha trovato la
soluzione ideale: invece di spendere in costosi armamenti,
costituire un supergruppo con Capitan America, Iron Man,
Thor, Hulk, Giant-Man e Wasp. Protagonista assoluto del
primo numero, intitolato Superumano, è per l’appunto il
buon vecchio Cap, ripreso in azione durante la seconda
guerra mondiale, impegnato in una missione ad alto rischio
- un’avventura che ricorda lo sbarco in Normandia oggetto
di Salvate il soldato Ryan di Spielberg -.
Il Capitan America tratteggiato da Millar & Hitch è un vero e
proprio supersoldato, con un costume, un equipaggiamento
ed un atteggiamento decisamente più militarizzato: è
l’ultima avventura, intensa da mozzare il fiato, del Cap in
versione bellica prima d’essere ripescato ai giorni nostri.
Nella seconda storia contenuta nel primo numero, Grande,
comincia a mettersi in moto il progetto coordinato da Nick
Fury ed appaiono quasi tutti gli attori della nuova serie: un
Tony Stark (Iron Man, decisamente più robotico ed hi-tech)
frivolo e disincantato, un Bruce Banner (Hulk) sempre
timidissimo ma con un atteggiamento più rilassato verso il
suo alter ego dalla pelle verde, una Janet Van Dyne (Wasp)
curiosamente eletta a scienziata e genio dei computer, un
Henry Pym (Giant Man) geniale e controverso come sempre.
Arriverà molto presto anche un mitico Thor meno divino
(ma più visionariamente New Age) del solito. Che dire? I
presupposti ci sono e tutto pare funzionare già da questi
primi fuochi fumettistici.
P.B.
Ultimates n. 1, Super Umano, bimestrale,
pp. 64 [Marvel Italia]
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