La storia dei modelli cosmologici

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La storia dei modelli cosmologici
LICEO CLASSICO “F. SCADUTO”
BAGHERIA
LA STORIA DEI MODELLI COSMOLOGICI.
DAL MODELLO DI EUDOSSO
AL
MODELLO COSMOLOGICO STANDARD
a cura del prof. Ciro Scianna
• Il moto dei corpi celesti: da Platone a Keplero
• La gravitazione e il moto dei pianeti
• L’astronomia stellare e la nascita dell’astrofisica
• La cosmologia moderna
1
Indice
Il moto dei corpi celesti: da Platone a Keplero
Il moto delle stelle e dei pianeti: le osservazioni astronomiche
4
I primi modelli teorici e il problema di Platone
6
Il modello di Eudosso
6
Il modello di Aristotele
8
Ipparco e il modello di Tolomeo
8
I modelli eliocentrici
11
Eraclide Pontico
12
Aristarco di Samo
13
Le difficoltà del modello eliocentrico e la rivoluzione del XVI e XVII secolo
13
Copernico
14
Tycho Brahe
15
Keplero
16
Le leggi di Keplero
18
Ellisse
18
Galileo e le nuove scoperte astronomiche
20
La gravitazione e il moto dei pianeti
La meccanica di Newton come scienza cosmica
21
La legge di gravitazione universale
22
La gravità prima di Newton
22
La problematicità della teoria della gravitazione universale
25
I successi della teoria newtoniana della gravitazione
27
L’astronomia stellare e la nascita dell’astrofisica
Il problema della parallasse stellare
30
Bessel
31
La misura delle distanze stellari
33
2
L’astronomia dell’Ottocento
36
Il diagramma di Hertzsprung-Russel
39
La cosmologia moderna
Le galassie esterne e l’espansione dell’Universo. La legge di Hubble
40
Dalla legge di Hubble al Big Bang
43
Modelli cosmologici
44
Modelli cosmologici newtoniani
45
Modelli cosmologici relativistici
50
Gamow e il Big Bang
55
Teoria del Big Bang e suoi possibili ampliamenti. Il modello inflazionario
58
3
I l mo t o d e i c o r p i c e l e s t i : d a Pl a t o n e a K e p l e r o
Tut t e l e anti che civilt à, dai Babil ones i agli Egizi ani , dai Ma ya agl i Azt echi ,
hanno prodotto complesse cosmologie (ovvero concezioni sulla struttura
dell’Universo) collegate in vario modo alle osservazioni astronomiche.
L’astronomia ha una speciale vocazione metafisica e spirituale e, prima
ancora di diventare scienza, era soprattutto contemplazione ammirata del
cielo e, come tale, patrimonio culturale di tutte le civiltà e di tutte le
religioni. L’ammirazione del cielo stellato, oggi purtroppo sempre più
difficile, genera in ognuno di noi, istintivamente, il senso del limite e
dell’infinito, il nostro essere insignificanti e al tempo stesso capaci di
comprendere la nostra collocazione nel Cosmo.
L’interesse
per
l’astronomia
nasceva
da
esigenze
extrascientifiche
di
carattere mistico e religioso ma anche per esigenze pratiche: la possibilità
infatti di effettuare osservazioni giornaliere abbastanza accurate anche a
occhio nudo, permise di verificare la regolarità dei movimenti dei corpi
celesti e di sviluppare le prime misure del tempo; il giorno, il mese, l’anno,
sono tutte misure di tempo legate al ripetersi regolare di eventi astronomici.
L’astronomia, comunque, come scienza nacque con i Greci, con Ipparco
soprattutto (II sec. a.C., vissuto ad Alessandria). I Greci furono i primi a
collegare strettamente cosmologia e astronomia ponendosi
le domande
fondamentali per la conoscenza scientifica, quelle stesse domande che si
pongono tutti gli scienziati di fronte ai fenomeni naturali:
Quale
spiegazione
semplice
si
può
dare
delle
regolarità
osservate?
Con quale modello rappresentare il moto dei corpi celesti e
l’Universo conosciuto?
GEOCENTRICO (la Terra al centro dell’Universo)
Modelli cosmologici
ELIOCENTRICO (il Sole al centro dell’Universo)
Ma cosa vedevano gli antichi astronomi (ovviamente ad occhio nudo) ?
I l mo t o d e l l e s t e l l e e d e i p i a n e t i : l e o s s e r v a z i o n i a s t r o n o mi c h e
4
Il più evidente movimento che si può osservare nel cielo è quello del Sole.
-
Il
Sole
sorge
ogni
giorno
approssimativamente
ad
Est
e
tramonta
approssimativamente ad Ovest, descrivendo un arco nel cielo la cui massima
altezza, a mezzogiorno, varia giornalmente nel corso dell’anno.
La diversa durata del periodo d’illuminazione e la diversa altezza del Sole
determinano
il
diverso
riscaldamento
della
Terra
e quindi
le
diverse
stagioni.
- Il secondo movimento osservabile è notturno: tutte le stelle compiono una
rotazione (che continua anche di giorno ma non è visibile) di circa un grado
ogni 4 minuti in verso orario, da Est verso Ovest, intorno ad un asse diretto
verso la stella Polare (se si osserva dall’emisfero Nord (boreale)).
Però le reciproche posizioni delle stelle non cambiano nemmeno in periodi
molto lunghi, ragion per cui dagli antichi astronomi greci le stelle venivano
dette “fisse”.
- Un altro movimento osservabile è quello del Sole relativamente alle stelle
fisse: il Sole si sposta di un certo margine ogni giorno rispetto alle stelle e
verso Est.
- Il movimento della Luna con le sue caratteristiche fasi.
- Infine, l’ultimo movimento osservabile è quello dei pianeti.
Quello dei pianeti è un movimento più complesso. Infatti essi sorgono e
tramontano come il Sole, si muovono anch’essi giornalmente verso Est
relativamente alle stelle fisse ma mostrano, in certi periodi dell’anno e
sempre
relativamente
alle
stelle,
un
moto
retrogrado,
cioè
come
se
andassero all’indietro verso Ovest. La loro traiettoria vista dalla Terra
appare quindi intrecciata.
Inoltre, altro fatto notevole, tutti i pianeti presentano notevole variazione di
luminosità durante l’anno.
5
I p r i mi mo d e l l i t e o r i c i e i l p r o b l e ma d i Pl a t o n e
Riprendiamo adesso il discorso degli antichi modelli cosmologici.
Intorno al IV secolo a.C. la filosofia greca, soprattutto ad opera di Platone,
definì gli elementi costitutivi di una cosmologia scientifica, che si ponesse
cioè l’obiettivo di spiegare il moto dei corpi celesti inserendoli in un
determinato modello filosofico-naturale.
Gli elementi costitutivi di questo modello erano i seguenti:
a) l’Universo
è
sferico,
perché
la
sfera
è
la
forma
perfetta
per
eccellenza;
b) i moti di tutti i corpi celesti sono circolari ed uniformi;
c) il moto dei pianeti, che apparentemente è irregolare, deve derivare da
una combinazione di moti circolari uniformi;
d ) la Terra è una sfera posta nel centro geometrico dell’universo. Sulla sfera esterna (quella
dell’Universo) sono fissate le stelle e la rotazione di questa sfera produce il moto di
rotazione delle stelle.
I pianeti e il Sole si muovono invece tra le due sfere.
Questo modello a due sfere rappresenta il primo modello cosmologico geocentrico in grado di dare
una spiegazione unitaria alle diverse osservazioni astronomiche di cui abbiamo riferito
precedentemente, tranne quelle relative al moto dei pianeti.
Sinteticamente possiamo rappresentare lo sviluppo cronologico dei principali modelli geocentrici
con il seguente schema:
Modelli geocentrici
Modello a due sfere
Modello di Aristotele
Modello di Eudosso
Modello di Tolomeo
I l mo d e l l o d i E u d o s s o
Il modello cosmologico di Eudosso (allievo di Platone, vissuto nel IV sec.
a.C.)
rappresenta
uno
dei
principali
capisaldi
di
tutta
la
storia
dell’astronomia antica.
Il suo più grande merito è di aver liberato l’astronomia da ogni infiltrazione
teologica e di averne fatto un sistema matematico del mondo.
6
Il suo modello dava una spiegazione abbastanza soddisfacente di gran parte
dei dati osservativi astronomici.
In questo modello ogni pianeta (in quei tempi se ne conoscevano cinque:
Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno), e così pure il Sole e la Luna, è
posto su una sfera interna a un gruppo di sfere concentriche. Tutte le sfere
del gruppo sono collegate tra loro e ruotano su assi diversi. La sfera più
esterna è quella delle stelle fisse.
Eudosso per spiegare il moto apparente del Sole, della Luna e degli altri
pianeti
introdusse
un’ipotesi
veramente
geniale:
ognuno
di
tali
astri
possiede non una sola sfera, ma un ordine di sfere, una interna all’altra,
tutte concentriche e ruotanti con moto uniforme, ma con periodo diverso e
intorno ad assi di rotazione differenti, ciascuno dei quali imperniato nella
sfera precedente. Mentre per la rotazione uniforme della prima sfera di tale
ordine ogni punto di esso descrive un cerchio, per la rotazione di due sfere
collegate nel modo anzidetto ogni punto della seconda sfera descriverà una
curva assai più complessa che un cerchio (Eudosso era in grado, per la sua
competenza geometrica, di farsi un’idea abbastanza precisa di tali curve).
Le cose si complicano ancora maggiormente al crescere del numero delle
sfere collegate.
Ebbene,
Eudosso
si
convinse
di
poter
dare
con
questo
modello
una
spiegazione geometrica soddisfacente del moto apparente del Sole e della
Luna, supponendo ciascuno di essi fornito di un ordine di tre sfere; per i
pianeti, data la maggiore complessità del moto apparente, suppose che
ciascuno possedesse un ordine di 4 sfere. Si avevano così in tutto ventisei
sfere, più una ventisettesima delle stelle fisse.
Il sistema ora accennato dava risultati indubbiamente buoni per i pianeti
Mercurio, Giove e Saturno; assai meno soddisfacenti per Venere e ancora
meno
per
Marte.
Non
dava
comunque
alcuna
spiegazione
delle
loro
variazioni di luminosità.
I continuatori di Eudosso si trovarono quindi di fronte al compito di
migliorare le spiegazioni del maestro, senza abbandonare però il modello
generale da lui tracciato. Fu così che Callippo e Polimarco aumentarono il
numero delle sfere da ventisette a trentatrè. In questo modo essi riuscirono
poi a determinare con maggiore esattezza i solstizi e gli equinozi e la durata
delle stagioni.
7
Anche Aristotele accetterà la teoria eudossiana delle sfere; ne accrescerà il
numero però da trentatrè a cinquantacinque, e soprattutto le materializzerà,
trasformandole da puri modelli matematici in realtà fisiche.
I l mo d e l l o d i Ar i s t o t e l e
Per Aristotele (IV sec. a.c.) l’Universo era costituito da cinquantacinque
sfere trasparenti (cristalline) concentriche con la Terra, costituite da etere,
la sostanza dei corpi celesti, incorruttibile ed eterna.
Il sistema aristotelico, costituito da sfere fisiche e con la Terra immobile al
centro di tutto, rappresentò per tutto il medioevo e fino al XVII secolo il
punto di riferimento fondamentale della concezione dell’Universo.
Aristotele inoltre legò il proprio modello cosmologico alla Fisica da egli
stesso
formulata.
Nel
quadro
teorico
della
sua
Fisica,
egli
formulò
spiegazioni convincenti della sfericità, della stabilità e della quiete della
Terra al centro dell’Universo.
Da quel momento in poi non si potrà risolvere completamente il problema
astronomico del movimento dei pianeti cambiando solamente l’astronomia:
sarà necessario rivoluzionare anche la Fisica e con essa l’intera visione del
mondo.
La
Fisica
e
la
cosmologia
aristotelica
formarono,
in
breve,
solide
argomentazioni a favore dei modelli geocentrici.
I p p a r c o e i l mo d e l l o d i T o l o me o
Prima di parlare di Tolomeo è doveroso parlare di Ipparco, ritenuto il più
grande astronomo dell’antichità, vissuto ad Alessandria nel II secolo a.C.
Scrupolosissimo studioso, utilizzò non soltanto i risultati di
un secolo e
mezzo di lavoro dell’osservatorio di Alessandria, ma anche quelli dei
babilonesi; inoltre eseguì egli stesso con meticolosa precisione numerose
osservazioni astronomiche, servendosi di apparecchi ottici appositamente
inventati. Riuscì così a compilare un famoso catalogo delle stesse fisse
contenenti notizie e informazioni su 1080 stelle, dando per ciascuna di esse
8
la latitudine, la longitudine e lo splendore, suddiviso con una ripartizione
divenuta poi classica in sei gradi.
Questo catalogo (o atlante) stellare è consultato dagli astronomi moderni
per conoscere le posizioni occupate nell’antichità da alcune stelle.
Egli scoprì il fenomeno della precessione degli equinozi, cioè di quei punti
della sfera celeste nei quali l’orbita del Sole incontra l’equatore celeste
durante il moto annuale del Sole nello spazio. (Questo fenomeno è dovuto al
fatto che l’asse di rotazione terrestre, essendo inclinato rispetto al piano
dell’orbita di circa 23,5°, descrive nello spazio un cono attorno alla linea
perpendicolare al piano dell’orbita stessa; il periodo del moto precessionale
è di circa 26.000 anni. La causa di questo movimento fu scoperta più tardi
da Newton).
Sempre al fine di perfezionare i propri calcoli astronomici, creò quel ramo
della geometria sferica che doveva più tardi trasformarsi nella trigonometria
sferica e rettilinea. Per questo motivo Ipparco è considerato il vero
fondatore dell’astronomia matematica.
Il sistema astronomico di Ipparco respinse la teoria delle sfere di Eudosso,
che non spiega le variazioni della distanza fra i singoli pianeti e la Terra
(variazioni provate dal fatto che il medesimo pianeta in certe stagioni
appare più luminoso, in altre meno), e introdusse due nuovi moti circolari,
quello dell’epiciclo e quello del deferente.
Ipparco suppose che sia i pianeti che il Sole e la Luna si muovessero lungo
circonferenze di raggio minore (gli epicicli) con velocità uniforme e con il
loro centro che ruotava a sua volta su una circonferenza di raggio maggiore
(il deferente) il cui centro coincideva con il centro della Terra.
Regolando opportunamente la velocità dell’epiciclo sul deferente e le
dimensioni relative di epiciclo e deferente, il sistema spiegava il moto
retrogrado del pianeta e la maggiore luminosità del pianeta durante il moto
retrogrado.
Malgrado le sue complicazioni, il modello di Ipparco riusciva a spiegare
assai bene tutti i fenomeni astronomici allora noti e venne integralmente
assorbito entro il sistema di Tolomeo.
Della vita di Claudio Tolomeo si sa assai poco se non che è vissuto nel II
secolo d.C. ad Alessandria e che si occupò di astronomia, di geografia, di
fisica e di astrologia.
9
E’ il più noto astronomo alessandrino e certamente quello che influì di più
sugli sviluppi successivi della cultura scientifica.
Egli influenzò la cultura occidentale fino a Copernico, mediante la sua
opera più importante nota con il titolo arabo di “Almagesto”, che significa
“la
Massima”
(il
vero
titolo
in
greco
era:
“Mathematikè
s ynt axi s ”;
“Almagesto” forse è derivato dal greco: “e meghíste” che significa appunto
“la Massima”).
L’Almagesto contiene un sistema di astronomia talmente completo che per
secoli si ritenne che tutta la scienza vi fosse racchiusa.
Rispetto
a
Ipparco,
Tolomeo
non
introdusse
idee
originali;
elaborò
ulteriormente il modello aggiungendo epicicli minori, ruotanti su altri
epicicli a loro volta in rotazione su un deferente, e gli eccentrici, ovvero
deferenti con un centro diverso dalla Terra.
Diversamente da Ipparco, egli suppose in più che ogni pianeta risultasse
fisso sopra una sfera epiciclica anziché sopra un cerchio.
Riuscì comunque a delineare una teoria dell’Universo coerente e sistematica
basata su ipotesi in sostanziale accordo con i dati delle osservazioni e in cui
la matematica giocava un ruolo fondamentale per stabilire nessi rigorosi fra
le varie proposizioni.
La matematica dell’Almagesto è quella del calcolo delle corde, fondato
sulle loro proprietà considerate in funzione dell’arco sotteso. Toccherà ai
matematici arabi (e sarà uno dei loro metodi più notevoli) porre in luce gli
incontestabili vantaggi derivanti dalla sostituzione di tale calcolo con la
vera e propria trigonometria nel senso moderno del termine.
Il principio cardine di tutta la concezione dell’Almagesto è l’immobilità
della Terra.
L’argomento
fondamentale
(prettamente
aristotelico)
da
lui
addotto
a
sostegno di questa tesi è la simmetria delle forze dell’Universo, simmetria
che dovrebbe trattenere la Terra al centro del mondo.
Anche la spiegazione fisica del moto delle sfere celesti è di carattere
aristotelico: Tolomeo infatti l’ottenne ammettendo l’esistenza di una sfera
esterna dell’Universo (la cosiddetta sfera motrice) priva di stelle, che
darebbe il moto quotidiano alla sfera delle stelle fisse e poi giù giù alle
successive sfere planetarie. Alla sfera delle stelle fisse egli deve in più
aggiungere un altro moto per spiegare la precessione degli equinozi; e alle
10
sfere planetarie deve aggiungerne due. Questi moti richiedono nuove sfere
motrici.
Se oggi questa complessa e artificiosa costruzione ci appare manifestamente
insostenibile, non è però difficile comprendere che essa dovette suscitare
una ben altra impressione sui contemporanei di Tolomeo; ottenne infatti per
secoli
e
secoli
considerata,
per
l’universale
la
sua
ammirazione
coerenza
interna,
degli
non
studiosi
meno
e
poté
venir
importante
della
sistemazione operata da Euclide della scienza geometrica.
L’Almagesto racchiude la storia della scienza e, anzi, l’intera scienza di
quei tempi, e resta il monumento scientifico e letterario di astronomia più
prezioso che ci abbia trasmesso l’antichità.
I mo d e l l i e l i o c e n t r i c i
Modello geocentrico
Eraclide Pontico
T ycho Brahe
Modello eliocentrico
(modelli misti)
Aristarco di Samo
Copernico
11
E r a c l i d e Po n t i c o
Eraclide Pontico fu discepolo di Platone e contemporaneo di Eudosso.
Abbiamo già detto della difficoltà insolubile, nel modello eudossiano,
legata alla diversa luminosità dei pianeti (specialmente di Marte e di
Venere) nei diversi periodi della loro rotazione.
Facendo perno su tale difficoltà Eraclide respinse il sistema di Eudosso.
Studiando i moti di Mercurio e di Venere, Eraclide intuì che il loro centro
di rotazione doveva essere non la Terra ma il Sole; suppose pertanto che,
mentre il Sole gira intorno alla Terra, i due pianeti in questione girino nello
stesso senso intorno al Sole secondo sfere di raggio minore. Spiegato in
questo modo il diverso splendore di Venere, restava l’analogo problema per
Marte; esso fu risolto un po’ più tardi (non si sa con sicurezza se dallo
stesso Eraclide o da qualche pitagorico vicino a lui).
Senza
insistere
oltre
sull’argomento,
tanto
più
che
non
risulta
con
precisione quali vedute avesse Eraclide sui restanti pianeti, basti osservare
che la sua astronomia, anche se assai meno rigorosa (da un punto di vista
matematico) di quella di Eudosso, rileva un’orientazione nuova, un carattere
che l’avvicina a concezioni molto più moderne. Tanto è vero che un sistema
s imi le verrà ri preso, di ci annove s ecoli più t ardi , da Tych o Brahe.
Inoltre, è proprio basandosi sulle ipotesi di Eraclide che Aristarco di Samo,
uno dei grandi scienziati alessandrini, giungerà a formulare l’ipotesi che
vada collocato nel Sole il centro, non solo del moto di alcuni pianeti, ma di
tutto l’Universo.
A r i s t a r c o d i S amo
Aristarco (III sec. a.C.) è celebre per essere stato il primo a lanciare
l’ipotesi eliocentrica. L’opera in cui esponeva tale ipotesi purtroppo è
andata perduta; ne abbiamo soltanto qualche notizia indiretta, specialmente
da Archimede (che tuttavia non ne comprese il valore).
La teoria eliocentrica di Aristarco, che costituisce il naturale sviluppo delle
concezioni astronomiche di Eraclide, viene così riassunta da Archimede:
12
“La sua ipotesi è che le stelle fisse e il Sole rimangano immobili, che la
Terra giri intorno al Sole seguendo la circonferenza di un cerchio, e che il
Sole giaccia nel centro di tale orbita” (dall’Arenario di Archimede).
Aristarco aveva quindi formulato una teoria che attribuiva alla Terra un
moto annuo di rivoluzione attorno al Sole e un moto diurno di rotazione
attorno a un asse inclinato rispetto al piano dell’orbita, secondo quanto
riferito oltre che da Archimede, da Plutarco (~46-~130 d.C.) e Simplicio (VI
sec. d.C.). Plutarco riferisce che Aristarco aveva cercato di “salvare i
fenomeni” (ossia di spiegare le osservazioni) assumendo i moti di rotazione
e di rivoluzione della Terra.
Archimede nell’Arenario accenna a dimostrazioni dei fenomeni realizzati da
Aristarco. Queste dovevano consistere nel mostrare che i complessi moti
planetari osservati, con stazioni e retrogradazioni, potevano essere ottenuti
combinando due semplici moti circolari uniformi attorno al Sole: quello
assunto dalla Terra e un altro analogo per il pianeta.
Il valore dell’ipotesi eliocentrica non fu capito nell’antichità e non ebbe
sviluppi; perciò Aristarco rimase sostanzialmente un isolato.
L e d i f f i c o l t à d e l mo d e l l o e l i o c e n t r i c o e
l a r i v o l u z i o n e d e l XVI e XVI I s e c o l o
Abbiamo visto come i modelli geocentrici e la sua massima espressione, il
modello tolemaico-aristotelico fossero in grado di spiegare abbastanza bene
anche i dettagli dei moti irregolari dei pianeti.
Non c’era quindi, per un astronomo, la necessità di adottare un punto di
vista diverso e in particolare di postulare un modello con la Terra che non
fosse
al
centro
dell’Universo
e
non
fosse
immobile.
Anche
perché
l’esperienza umana sembrava essere in contrasto con l’idea di una Terra in
movimento, dato che non erano ancora note le leggi della meccanica
moderna e l’ipotesi della mobilità della Terra sembrava incompatibile con
parecchi fatti della vita quotidiana, come per esempio la caduta dei gravi
secondo la verticale (saranno le scoperte meccaniche di Galileo a risolvere
questa e altre difficoltà).
13
Con la rinascita delle ricerche scientifiche nel ‘500 e nel ‘600, è soprattutto
nel campo delle ricerche astronomiche che si compiono dei passaggi la cui
importanza oltrepassa di molto i confini della pura e semplice astronomia e
investono direttamente le più alte questioni filosofiche intorno all’uomo e
al mondo.
Lo
sviluppo
della
grande
rivoluzione
si
impernia
su
cinque
nomi:
C operni co, Tycho Brahe, Kepl ero, Gal il ei e Newton.
Copernico
N i c o l a u s K o p e r n i c k i (Copernico) n a c q u e a T h o r n i n P o l o n i a n e l 1 4 7 3 d a
famiglia agiata.
Compì gli studi all’università di Cracovia e successivamente in Italia nelle
università
di
Bologna,
Padova
e
Ferrara,
completando
la
sua
cultura
specialmente in matematica.
Tornato in patria, si dedicò prevalentemente a studi astronomici. Fu verso il
1505-1506 che ideò le linee fondamentali del suo sistema. Impiegò tuttavia
molti anni per sistemare e limarne l’esposizione. Nel 1530 pubblicò un
breve estratto di essa, ottenendo l’approvazione del papa Clemente VII, che
anzi
lo
incitò
a
pubblicare
l’opera
“in
extenso”.
Malgrado
questo
incitamento, attese ancora dieci anni prima di darla alla stampa.
Il giorno stesso in cui gli arrivava il primo esemplare del suo libro,
Copernico moriva: era il 24 Maggio del 1543.
L’opera, che avrebbe dovuto acquistare tanta celebrità, portava per titolo:
“De revolutionibus orbium coelestium libri VI (Sei libri sulle rivoluzioni
dei mondi celesti)”.
In Italia Copernico aveva subito l’influenza del platonismo matematizzante
di Pico della Mirandola e, attraverso di essa, aveva assorbito vari elementi
dell’antica concezione pitagorica.
Preso coscienza delle molte difficoltà insite nel sistema tolemaico, ebbe la
geniale idea di cercarvi una soluzione nelle dottrine astronomiche dei
pitagorici. Furono queste a suggerirgli di sostituire l’ipotesi geocentrica
con quella della mobilità della Terra e, in particolare, quella di Filolao, che
dotava la Terra di un moto di rotazione intorno a se stessa e di rivoluzione
annua intorno al Sole.
14
Nell’adottare questa soluzione Copernico pensò dapprima che essa non
modificava in nulla la costituzione del mondo, in quanto si trattava solo
dello spostamento del centro del moto dalla Terra al Sole.
In
seguito,
però,
capì
che
lo
spostare la
Terra dalla
sua
millenaria
immobilità (immobilità, per altro, garantita da una certa interpretazione
della Scrittura) non avrebbe mancato di suscitare violente reazioni ispirate
da una malintesa offesa alla fede. Per queste ragioni, sostanzialmente,
Copernico ritardò di quasi quarant’anni la pubblicazione del celeberrimo De
revolutionibus, con una prefazione del teologo luterano Andreas Hasemann,
detto Osiander, che spiegava come la nuova teoria voleva essere soltanto
un’ipotesi matematica, senza alcuna pretesa di rispecchiare la verità fisica.
Tycho Brahe
Il
maggiore
astronomo
della
generazione immediatamente
posteriore a
C operni co fu Tych o Brahe, nato in Danim arca nel 1546 e m orto a P raga nel
1601.
E’ autore di un proprio sistema astronomico che integrava alcuni aspetti del
sistema copernicano con quello tradizionale tolemaico.
Da un lato, infatti, rimase fedele all’immobilità della Terra, dall’altro
affermò
che
i
pianeti
ruoterebbero
attorno
al
Sole,
che
a
sua
volta
ruoterebbe intorno alla Terra.
Era, nelle sue linee essenziali, l’antica teoria di Eraclide Pontico, arricchita
soltanto di un più moderno apparato scientifico.
Pi ù che un t eori co, Tycho Brahe fu, però, un grande oss ervatore. R ius cì
infatti, pur senza avvalersi ancora del cannocchiale, a descrivere con
mirabile precisione i movimenti della Luna e dei pianeti.
Le tavole dei suoi studi di osservazione costituirono, qualche anno più
tardi, un materiale preziosissimo per Keplero.
15
Keplero
Giovanni Keplero nacque a Weil nel Wurttemberg (Germania) nel 1571. Fu
il successore di Tycho Brahe, ma diversamente da questi, fu un copernicano
convinto,
fin
da
quando
era
studente.
Mentre
T ycho
Brahe
era
prevalentemente un astronomo dedito all’osservazione diretta, Keplero era
fondamentalmente un matematico e un astronomo teorico.
Nel 1597 s cri ss e l a s ua prim a opera “M ys t erium Cos mographi cum ” (Mis t ero
cosmografico) di evidente ispirazione pitagorica. Avendola sottoposta al
gi udizi o di T ycho Brahe, ne ot t enne un parere abbast anza favorevol e e
ri us cì in tal m odo ad accat tivarsene l’ami ciz i a. All orché T ycho s i st abi lì a
Praga, chiamò Keplero a lavorare con lui e ad ereditare così il ricchissimo
m at eri al e d’os s ervazi one che Tycho aveva raccolt o nell a sua att ivi t à.
Keplero mantenne per tutta la vita la visione sottostante al suo “Mistero
cosmografico”, una concezione del mondo sostanzialmente improntata al
pitagorismo e al neoplatonismo, nella quale la matematica viene interpretata
non come scienza dei concetti astratti ma come studio dei rapporti reali e
delle configurazioni effettive degli oggetti. Considerò l’armonia come legge
generale dell’universo, pensando che essa si esprima in rigorose proporzioni
numeriche.
Nel
Mistero
cosmografico
Keplero
difese
con
passione
il
sistema
copernicano usando argomentazioni matematiche molto più dettagliate di
quelle usate da Copernico nel suo De Revolutionibus.
M a l ’opera pi ù im portant e è il suo “As t ronom ia nova s eu phys i ca coel esti s,
tradita commentariis de motibus stellae Martis ex observationibus G.V.
T ychonis Brahe” (Ast ronomi a Nuova ovvero fi si ca celes te tratt at a con i
comm ent arii sul moto del pianet a M art e dall e oss ervazioni di T ycho Brahe),
uscita a Praga nel 1609, dove vengono formulate le prime due leggi sul moto
dei pianeti, ancora oggi note col suo nome.
Kepl ero part ì dalle os servazioni di T ycho Brahe rel ati ve a Marte, il cui
moto aveva sempre presentato irregolarità mai spiegate fino ad allora.
Furono necessari cinque anni di lavoro (e dovette anche superare notevoli
resistenze psicologiche) per convincerlo dell’impossibilità di conciliare i
dati sperimentali con le due ipotesi di base dell’astronomia antica: la
circolarità del moto e la sua uniformità.
16
Per la prima volta nella storia dell’astronomia, Keplero passò ad analizzare
separatamente le condizioni di circolarità e di uniformità del moto.
Innanzi
tutto
cominciò
con
il
cercare
di
determinare
con
maggiore
precisione l’orbita terrestre: trovò che l’orbita della Terra non era circolare
perché il Sole si trovava in posizione leggermente eccentrica.
Keplero allora decise di verificare anche l’ipotesi che l’orbita di Marte
fosse circolare. Confrontò le distanze di Marte dal Sole ottenute in base alle
osservazioni
e
dedusse
che
l’orbita
di
Marte
non
poteva
essere
una
circonferenza, ma doveva essere una curva ovale.
Dopo vari tentativi riuscì a concludere che la curva era un’ellisse, in cui il
Sole era posto in uno dei due fuochi. Estese quindi a tutti i pianeti i
risultati ottenuti nel caso di Marte, formulando la sua prima legge:
“Le orbite dei pianeti sono ellissi di cui il Sole occupa uno dei fuochi”.
La seconda legge (così come la terza) rompe definitivamente con il dogma
dell’astronomia antica dell’uniformità del moto degli astri e viene ricavata
da keplero dall’osservazione che i pianeti si muovono più velocemente in
prossimità del perielio che non all’afelio. Più precisamente la seconda legge
suona in questo modo:
“Le velocità orbitali dei pianeti non sono costanti, ma seguono una legge
per cui in tempi uguali sono uguali le aree spazzate dal raggio vettore che
congiunge il sole con il pianeta”.
Soltanto dopo nove anni di studio pervenne alla formulazione della terza
legge pubblicata nel 1619 nel libro “Harmonices mundi” (Armonia del
mondo).
La determinazione della curva che i pianeti descrivono intorno al Sole e la
scoperta della legge dei loro movimenti, portava Keplero molto vicino al
principio da cui queste leggi derivano (la legge di gravitazione universale e
la legge del moto).
I tempi, però, non erano ancora maturi, in quanto per giungere a ciò si
presupponeva l’esistenza della dinamica e del calcolo infinitesimale.
Keplero morì nel 1630, il 15 novembre, in una squallida locanda di
Ratisbona, dove si era recato per sollecitare un’ennesima volta il pagamento
di ciò che gli era dovuto. Non aveva ancora 59 anni.
17
Le
leggi
che
ancora
oggi
portano
il
suo
nome
furono
accettate
definitivamente dagli astronomi quando furono riprese da Newton nel
quadro della sua teoria della gravitazione universale.
Le leggi di Keplero
PRIMA LEGGE
“Le orbite dei pianeti sono ellissi di cui il Sole occupa uno dei fuochi”.
SECONDA LEGGE
“Le velocità orbitali dei pianeti non sono costanti, ma seguono una legge
per cui in tempi uguali sono uguali le aree spazzate dal raggio vettore che
congiunge il Sole con il pianeta ”.
TERZA LEGGE
“Il rapporto tra il quadrato del periodo di rivoluzione T e il cubo del
semiasse maggiore R dell’orbita di un pianeta è costante:
Ks = 2,96*10-19
, uguale per tutti i pianeti del sistema solare”.
Ellisse
L’el l i ss e è i l luogo geom et ri co dei punti P (x, y) del pi ano definito dall a
seguente proprietà: “la somma delle distanze del generico punto P da due
punti fissi F1 e F2 è costante”. F1 e F2 sono detti fuochi dell’ellisse.
-
PF1 + PF2 = AB = 2a
-
F1F2 = distanza focale = 2c , F1F2 = 2 OF1 = 2 OF2 = 2c
-
a = lunghezza del semiasse maggiore
-
2a = lunghezza dell’asse maggiore
-
b = lunghezza del semiasse minore
-
2b = lunghezza dell’asse minore
-
e = eccentricità
L’eccentricità dell’ellisse è il rapporto tra la distanza focale F1F2 (2c) e la
misura dell’asse maggiore (2a): e = c/a .
Più piccola è l’eccentricità, più simile a una circonferenza è l’ellisse. Se
l’eccentricità è uguale a zero, i due fuochi coincidono con il centro O e
l’ellisse è uguale a una circonferenza.
18
L'equazione dell’ellisse in un sistema di assi cartesiani in cui i fuochi sono disposti sull’asse x e
l’origine O nel punto medio del segmento F 1 F 2 , è l a s e g u e n t e ( e q u a z i o n e i n f o r m a
canonica):
(1)
Se
l'equazione dell'ellisse diventa :
ossia una circonferenza di centro l'origine e raggio
.
Se il punto X rappresenta un pianeta nella sua rivoluzione intorno al Sole, posto ad esempio nel
fuoco F1 , il punto A dell’orbita più vicino al Sole si chiama perielio, mentre B, il punto più lontano,
afelio.
19
Galileo e le nuove scoperte astronomiche
Il ruolo di Galileo nell’affermazione del sistema copernicano è storicamente riconosciuto.
Nel contesto particolare dell’argomento di questo capitolo – la storia dei sistemi cosmologici – il
riferimento all’opera di Galileo vale nel caso particolare delle osservazioni astronomiche da lui
compiute con l’utilizzo del cannocchiale. Strumento che non fu certo inventato da lui ma che fu
certamente da lui migliorato e, ancora più importante, utilizzato a fini scientifici.
Nel luglio 1609, da Padova (dove insegnava matematica da quasi diciotto anni) Galileo si recò a
Venezia e da viaggiatori provenienti dall’Olanda e dalla Francia sentì parlare di uno strumento
ottico capace di ingrandire la visione di tre-quattro volte. In Italia se ne era già visto qualcuno
nell’ultimo decennio del ‘500; a Roma anche i Gesuiti si erano cimentati in questo campo.
Galileo, approfondendo lo strumento, ebbe il colpo di genio: va a Murano dove si producevano le
migliori lenti del mondo (la Serenissima ne esportava in Oriente cinquemila all’anno); lì compra
una lente convergente convessa e una lente divergente concava. E riesce a costruire un telescopio
che ingrandisce di otto-nove volte, e poi fino a 20 volte.
Con questo telescopio da venti ingrandimenti, nel 1610 a Firenze Galileo fece delle osservazioni
astronomiche incredibili per il suo tempo.
La prima fu quella che il numero effettivo delle stelle è almeno venti volte superiore al numero di
quelle che riusciamo a vedere e che la Via Lattea è un conglomerato enorme di stelle. La seconda fu
la scoperta che la superficie della Luna è coperta come la Terra da crateri e montagne.
Questa osservazione della Luna portò Galileo ad un’altra decisiva conclusione. Prima di Galileo si
pensava, sotto l’influsso delle teorie aristoteliche, che la Luna (e tutti gli altri oggetti celesti) fosse
fatta di una materia diversa da quella della Terra. Lui svela che invece la Luna è molto simile alla
Terra e che le leggi terrestri si possono applicare alla Luna e a tutto il cosmo. Compresa la legge
sulla caduta dei gravi.
La terza che la faccia del Sole presenta delle macchie scure che si spostano sulla sua superficie. La
quarta fu la scoperta dei quattro satelliti di Giove (che egli chiamò pianeti medicei). La quinta che
Venere gira attorno al Sole e ha delle fasi simili a quelle della Luna, che gira intorno alla Terra.
Infine avanza la congettura che Saturno abbia dei satelliti (si tratta invece dei tre anelli ,
indistinguibili con il suo telescopio).
Queste scoperte furono pubblicate nel libro Sidereus Nuncius (Messaggero Celeste) nel 1610.
Le osservazioni astronomiche fatte grazie al cannocchiale valevano per Galileo come altrettante
conferme del sistema copernicano, e intorno a questa dottrina negli anni seguenti si generò un
intenso dibattito che coinvolse ambienti accademici ed ecclesiastici. In questo senso la scoperta più
importante fu quella delle fasi di Venere perché soltanto nell’ambito del sistema copernicano questo
20
fenomeno veniva facilmente integrato. Nel sistema Tolemaico, infatti, Venere rimaneva sempre tra
il Sole e la Terra e quindi era teoricamente impossibile osservarne le fasi dalla Terra. Senza il
cannocchiale era tuttavia impossibile osservare direttamente il fenomeno.
L a G r a v i t a z i o n e e i l mo t o d e i p i a n e t i : d a N e w t on a d E i n s t e i n
L a me c c a n i c a d i N ew t o n c o me s c i e n z a c o s mi c a
Dopo avere presentato nel primo libro dei Principia le leggi che regolano il
moto dei corpi, Newton passa nel terzo libro, dal titolo suggestivo: Il
sistema del mondo, ad una applicazione di queste leggi su scala planetaria,
introducendo l’ipotesi della gravitazione.
Con
la
gravitazione
Newton
introduceva,
accanto
all’inerzia,
un’altra
proprietà fondamentale e caratteristica della materia, consistente nella
mutua attrazione tra i corpi.
E’ utile rivedere lo sviluppo delle nostre conoscenze sul moto dei pianeti
alla luce dei principi della dinamica.
Quattro furono i punti di essenziale interesse nello sviluppo storico.
1) Copernico sottolineò che è il Sole e non la Terra il centro del sistema
solare. Tradotto nel linguaggio dinamico moderno, Copernico ci offrì un
sistema di riferimento (il Sole) molto più adatto di quello usato fino a
quei tempi (la Terra) per la descrizione del moto del sistema solare.
2) Brahe eseguì accurate misure sul moto dei pianeti visto dalla Terra e
fornì i dati indispensabili per i futuri progressi.
3) Keplero, dallo studio dei dati di Brahe, ricavò le tre semplici leggi
empiriche
del
copernicano,
moto
fornì
in
dei
pianeti.
forma
Keplero,
semplice
le
adottando
informazioni
il
sistema
cinematiche
relative al moto dei pianeti.
4) Newton scoprì le leggi generali del moto dei sistemi meccanici e la
particolare legge della forza che descrive il moto dei pianeti, cioè la
legge di gravitazione universale.
Così nel corso di circa duecento anni abbiamo visto venire alla luce:
a) l’opportuno sistema di riferimento;
b) informazioni cinematiche precise;
21
c) le leggi empiriche del moto dei pianeti
d) le leggi generali della meccanica e la legge della forza adatta per
spiegare il moto dei pianeti.
L a l e g g e d i g r a vi t a z i o n e u n i v e r s a l e
Tra due corpi di masse m1 e m2 posti a distanza r si esercita una forza di
attrazione che agisce lungo la congiungente i due corpi, proporzionale al
prodotto delle loro masse ed inversamente proporzionale al quadrato della
loro distanza:
F = G m1 m2 / r2
dove G è la costante di gravitazione universale avente lo stesso valore per
qualsiasi coppia di corpi. E’ una delle costanti fondamentali della Natura. Il
suo valore rappresenta la forza con la quale si attraggono due corpi di massa
1 Kg posti a distanza di 1 metro l’uno dall’altro. La prima determinazione
sperimentale precisa del suo valore fu effettuata da Lord Cavendish nel
1798, 71 anni dopo la morte di Newton, per mezzo di una bilancia di
torsione. Il suo valore è:
G = 6,67 · 10-11 N·m2 / Kg2
L a g r a v i t à p r i ma d i N ew t o n
Prima d’iniziare questo
paragrafo
sono
opportune due precisazioni
di
carattere terminologico.
Con
il
termine
gravità
s’intende
la
tendenza
dei
corpi
a
cadere
verticalmente al suolo, dovuta all’attrazione che la Terra esercita su di essi;
più propriamente, la forza che provoca tale caduta (detta anche forza di
gravità o forza peso), risultante dell’attrazione gravitazionale terrestre
(diretta verso il centro della Terra) e della forza centrifuga (perpendicolare
all’asse terrestre), conseguenza della rotazione terrestre.
Con il termine gravitazione s’intende invece la proprietà caratteristica e
fondamentale, insieme con l’inerzia, della materia, consistente nel fatto che
fra due corpi materiali si esercita sempre una forza di mutua attrazione.
22
Tentativi per spiegare la gravità come rientrante in una legge di attrazione
più generale, si possono far risalire alle speculazioni dei Greci. I filosofi
greci avevano spiegato la caduta dei corpi con teorie a fondamento delle
quali stava o l’idea di un’attrazione tra materie simili (come in Empedocle,
Anassagora, Democrito, Platone) o quella aristotelica di una tendenza dei
corpi a un luogo naturale che è loro proprio.
L’idea,
originariamente
gravitazione
cosmica,
platonica
comprendente
riappare, nel Rinascimento,
eliocentrica
e
dell’Universo
presente
come
caso
nel
suo
Timeo
particolare
la
di
una
gravità,
insieme con l’affermazione della struttura
nel
trattato
De
revolutionibus
di
Copernico
(1543). Nel capitolo nono del primo libro, Copernico scrive: “Quanto alla
gravità, io la considero come una certa tendenza naturale, che il Creatore
ha impresso in tutte le parti della materia, affinché tendessero ad unirsi in
forma globulare per meglio conservarsi; ed è probabile che la stessa forza
sia pure inerente al Sole, alla Luna e ai pianeti, affinché questi corpi
possano mantenersi nella forma rotonda che loro vediamo”.
Anche Tycho Brahe, s ebbene i n modo cont raddit tori o, amm ett e una forz a
centrale nel Sole atta a mantenere i pianeti nelle orbite descritte intorno a
lui.
Un passo innanzi sulla strada della gravitazione universale fu compiuto con
Keplero, dove nel suo Astronomia nova del 1609, parla di una “appetentia”
tra i corpi, cioè appunto di una reciproca forza di attrazione che egli
afferma inversamente proporzionale, a seconda dei casi, alla distanza o al
quadrato della distanza. In questo libro, l’astronomo espresse due posizioni
fondamentali: la gravità è la tendenza dei corpi ad unirsi e tutta la materia,
pertanto, è soggetta alla forza e alla legge di gravitazione; la Luna gravita
verso la Terra e viceversa, per cui se non fossero trattenute lontane l’una
dall’altra dalla loro forza di rotazione, esse si congiungerebbero nel loro
comune centro di gravità. Nel 1609, inoltre, Keplero enunciava le prime due
leggi empiriche del moto dei pianeti scoperte sulla base dei dati ticonici
relativi a Marte. Nel 1618 scopriva la terza legge. In tal modo tutto il
sistema solare veniva legato insieme da una precisa espressione matematica.
Ma si poneva il problema: quali devono essere le leggi più generali della
natura da cui risulti il moto descritto empiricamente dalle leggi di Keplero ?
23
Mentre da una parte questo complesso di ricerche preparava la via alla
scoperta di Newton, non mancavano dall’altra tendenze contrastanti.
La ripugnanza ad ammettere la possibilità di forze che si esplichino a
distanza tra corpi lontani, portò da parte di alcuni a negare senz’altro
l’esistenza di tali forze (per esempio Galileo si rifiutava di ammettere
un’influenza della Luna sulle maree) mentre altri ne tentavano più o meno
artificiose spiegazioni meccaniche (accenniamo per esempio alla teoria dei
vortici di Cartesio).
Anche nell’ambiente più vicino a Newton, quello accademico di Londra, si
fecero dei tentativi nella direzione della teoria della gravitazione ad opera
s oprat tut to di R obert Hooke e di Edm ond Hal le y. E’ certo comunque che
Newton fin dal 1666 iniziò a riflettere sulla possibilità di unificare la fisica
di Galilei e le leggi di Keplero sui moti planetari, attraverso una legge di
gravitazione.
Tutti
questi
tentativi
stimolarono
comunque
Newton
a
proseguire e a condurre a termine le sue ricerche.
Nel 1684 l’astronomo Halley (celebre per la cometa a cui ha dato il nome)
riscoprì ciò che Newton aveva per proprio conto scoperto fin dal 1666: che
la terza legge di Keplero, nel caso di orbite circolari, porta di conseguenza
a una forza attrattiva del Sole in ragione inversa del quadrato della
distanza.
Una lunga discussione si aprì quindi fra Halley e Hooke sul problema di
determinare quale traiettoria dovrebbe descrivere in generale un corpo per
effetto di questa attrazione.
La ri s post a, che già Newt on poss edeva, fu da questi comuni cat a a Hall e y.
Newton infatti dimostrò matematicamente che in generale una forza di tipo
centrale (quale è la forza di gravitazione) applicata a un corpo in moto
rettilineo uniforme produce una traiettoria ellittica con velocità areolare
costante (prima e seconda legge di Keplero).
(La velocità areolare o areale, dal latino areola, diminutivo di area, è l’area
spazzata nell’unità di tempo dal raggio vettore che collega il pianeta al
Sole).
Inoltre dimostrò che, assunta vera la legge di gravitazione e dalla legge del
moto, si ricava la terza legge di Keplero.
Un altro grande risultato dimostrato da Newton consiste nel fatto che la
forza di attrazione gravitazionale esercitata da un corpo esteso di massa m
24
equivale a tutti gli effetti come se tutta la massa del corpo fosse concentrata
nel centro geometrico del corpo.
L a p r o b l e ma t i c i t à d e l l a t e o r i a d e l l a g r a v i t a z i o n e u n i v e r s a l e
Abbiamo
già ricordato
cosmica”)
che
nel
(cfr.:
terzo
“La
libro
meccanica di
dei
Principia
Newton
Newton
come scienza
si
dedica
alla
dimostrazione del fatto che a partire dalle masse, dalle distanze e dalle
velocità del Sole, dei pianeti e dei loro satelliti, le leggi del moto (esposte
all’inizio dei Principia) danno ragione di tutti i fenomeni conosciuti, se si
assume la gravitazione come una forza centripeta universale che obbedisce
alla legge dell’inverso del quadrato della distanza.
La teoria della gravitazione universale non fece immediatamente presa nel
mondo
accademico
e
scientifico
dei
primi
del
‘700.
Veniva
difficile
accettare una spiegazione dei fenomeni celesti sulla base di una azione
misteriosa esercitatesi nel vuoto, senza alcun tipo di contatto, tra corpi
posti a enormi distanze.
La causa della gravitazione rimaneva veramente nascosta. Newton stesso era
consapevole di questa difficoltà. Alla fine dei Principia, nello Scolio
Generale che compare nella seconda edizione dell’opera (1713), Newton
esclude che possa trattarsi di una causa meccanica e ammette di conoscere
solamente le proprietà della gravitazione che risultano dagli esperimenti. A
questo punto Newton espone l’argomento celeberrimo sulle ipotesi: “In
verità non sono ancora riuscito a dedurre dai fenomeni la ragione di queste
proprietà della gravità e non invento ipotesi” (<<rationem vero harum
gravitatis proprietatum mondum potui deducere et hypotheses non fingo>>).
Con quest’ultima espressione Newton voleva rivendicare alla scienza una
precisa
autonomia
fenomeni
da
da
spiegare
ogni
e,
causa
esplicativa
contemporaneamente,
che
risiedesse
voleva
fuori
munirla
di
dei
una
metodologia per cui suo fine diventava non il perchè dei fenomeni ma il
come, ossia il comportamento osservabile di essi.
Non è il caso di ricordare in questa sede quale sia stata l’importanza storica
di questo atteggiamento; basti soltanto ricordare che ispirò gli illuministi
25
della Enciclopedia e che ad esso si attennero rigidamente i positivisti
inglesi e francesi dell’Ottocento.
Un esempio di questa posizione di Newton è fornito dalle sue ripetute
affermazioni
di
non
conoscere la causa della
gravitazione
e dal
suo
dichiarare che allo scienziato deve bastare che il fenomeno esista e si
comporti come viene previsto. Nello Scolio infatti continua: “Qualunque
cosa, infatti, non deducibile dai fenomeni, va chiamata ipotesi; e nella
filosofia sperimentale non trovano posto le ipotesi sia metafisiche, sia delle
qualità occulte. In questa filosofia, le proposizioni vengono dedotte dai
fenomeni e rese generali per induzione”. Per quanto attiene alla fisica,
dunque, “è sufficiente che la gravità esista di fatto, agisca secondo le leggi
da noi esposte, e spieghi tutti i movimenti dei corpi celesti e del nostro
mare”.
Queste argomentazioni contenute nello Scolio Generale hanno influenzato,
per circa due secoli, generazioni di intellettuali, i quali nutrirono l’opinione
che al centro del metodo trionfante di Newton stesse il celebre motto
“Hypotheses non fingo” e che l’azione gravitazionale fosse un’azione a
distanza che si esercita nel vuoto.
In
realtà
questa
convinzione
sulla
gravitazione,
come
emergeva
ufficialmente sostenuta da Newton nei suoi Principia, si presentava ben più
problematica e insoddisfacente a Newton stesso nelle sue riflessioni private.
Riguardo a questo, sono particolarmente interessanti le quattro lettere
s cri tt e tra il di cem bre 1692 e il febbraio 1693 a Ri chard Bentl e y, che
divennero note a un pubblico più vasto solo nel 1756.
Bentley era un illustre filologo e studioso di problemi religiosi che nel
1687, quando era apparsa la prima edizione dei Principia, non aveva
accettato l’opinione dei molti che respingevano le spiegazioni newtoniane
come insensate. Grazie all’aiuto del matematico John Craige, cercò in un
primo tempo di studiare dei testi che gli consentissero di leggere e capire i
Principia. Rendendosi conto delle difficoltà insuperabili dell’impresa, si
volse direttamente a Newton, il quale gli consigliò una lettura ridotta delle
prime pagine del libro e dell’ultima sezione dedicata all’astronomia.
Particolarmente interessante, per entrare nelle riflessioni private di Newton
sulla gravitazione, è un passo presente nella terza lettera che riportiamo per
intero: “E’ inconcepibile che la materia bruta e inanimata possa, senza la
26
mediazione di qualcosa di diverso che non sia materiale, operare ed agire
su altra materia senza contatto reciproco, come dovrebbe appunto accadere
se la gravitazione nel senso epicureo fosse essenziale o inerente alla
materia stessa. E questa è la ragione per cui desidero che non mi si
attribuisca la gravità come innata. Che la gravità possa essere innata,
inerente e essenziale alla materia, così che un corpo possa agire su un altro
a distanza e attraverso un vuoto, senza la mediazione di qualcosa grazie a
cui e attraverso cui l’azione e la forza possano essere trasportate dall’uno
all’altro, ebbene, tutto ciò è per me assurdità così grande, che io non credo
che un uomo il quale abbia in materia filosofica una capacità di pensare in
modo reale, possa mai cadere in essa. La gravità deve essere causata da un
agente
che
agisca
sempre
secondo
certe
leggi;
e
ho
lasciato
alla
considerazione dei miei lettori il problema se quell’agente è materiale o
immateriale”. Questo passo è molto interessante e deve far riflettere.
Chi legge i Principia non ha elementi sufficienti per capire l’effettiva
posizione di Newton nei confronti della gravitazione se non quella affidata
al celebre motto Hypotheses non fingo.
Dal passo riportato traspare invece come, nel cuore stesso delle ricerche
realmente svolte da Newton, le ipotesi svolgessero un ruolo fondamentale ed
anche molto tormentato.
Le difficoltà che Newton scorgeva nella nozione di forza agente a distanza
sembrano averlo condotto, e giustamente, a ritenere che dovesse trattarsi
solo di una tappa nell’approfondimento della conoscenza della realtà da
parte dell’uomo.
I s u c c e s s i d e l l a t e o r i a n e w t o n i an a d e l l a g r a v i t a z i o n e
Ora, a parte le difficoltà filosofiche sopra accennate, la teoria newtoniana
s’impose per il successo crescente delle previsioni a cui hanno condotto gli
sviluppi matematici della meccanica celeste per opera soprattutto di Eulero
(1707-1783),
Clairaut
(1736-1813),
e
(1713-1763),
Laplace
D’Alembert
(1749-1827),
che
(1714-1783),
riuscirono
a
Lagrange
dare
forma
quantitativa sempre più precisa alle deduzioni, in larga parte qualitative,
formulate da Newton.
27
Fra le prime conferme della teoria va posto, anzitutto, la soluzione al
problema millenario delle comete.
Edm und Hall ey, dopo l ’enunciaz ione dell a l egge di gravi taz ione univers al e
e con i risultati dedotti dallo studio di 14 comete osservate fra il 1337 e il
1698, poté stabilire che il moto delle comete, come quello dei pianeti, è
governato
dalla
gravitazione
solare
e
poté
pertanto
rappresentare
matematicamente l’orbita della grande cometa apparsa nel 1682, la famosa
cometa periodica che da lui prese nome e da lui riconosciuta come la stessa
cometa registrata dalle cronache del tempo nel 1607, nel 1531 e nel 1456.
La previsione della ricomparsa della cometa di Halley fu opera di Clairaut,
valutando un errore di circa un mese sui suoi calcoli, e fissando la
ricomparsa per il 26 gennaio 1759.
Ciò che avvenne fu che la cometa si presentò il giorno di Natale del 1758,
con un mese e un giorno di anticipo sulla data prevista da Clairaut.
Ulteriori conferme riguardano le scoperte dei pianeti Nettuno e Plutone,
scoperte avvenute sulla base delle variazioni osservate nell’orbita di Urano.
Come sappiamo, i pianeti noti fin dall’antichità erano cinque: Mercurio,
Venere, Marte, Giove e Saturno.
Urano è stato il primo pianeta a essere scoperto, nei tempi moderni, con
l’uso del telescopio. Fra il 1690 e il 1770, esso venne osservato da vari
astronomi, i quali, tuttavia, lo confusero con una stella. Fu W. Herschel, il
13 marzo 1781, ad accorgersi per primo che Urano si spostava rispetto allo
sfondo delle stelle fisse; in un primo momento egli lo ritenne una cometa,
ma le osservazioni eseguite nei mesi successivi permisero a J. De Saron e A.
Lexell di stabilire (indipendentemente l’uno dall’altro) che si trattava di un
pianeta, situato oltre l’orbita di Saturno.
Verso la fine dell’Ottocento un giovane astronomo francese, J.J. Le Verrier,
stava confrontando i suoi calcoli sul moto del pianeta Urano con le
osservazioni relative alla sua posizione nei 63 anni successivi alla scoperta,
quando si rese conto che qualcosa non quadrava.
Lo scarto tra le osservazioni e i suoi calcoli era esageratamente grande, fino
a venti secondi d’angolo (vale a dire come l’angolo sotteso da un uomo a
circa sedici chilometri di distanza), e la differenza non era spiegabile con
un errore sperimentale né tantomeno teorico.
28
Le Verrier sospettò che la discrepanza fosse dovuta alle perturbazioni
indotte da un pianeta sconosciuto su un’orbita esterna a quella di Urano; si
mise all’opera per calcolare che massa avrebbe dovuto avere l’ipotetico
pianeta e che caratteristiche avrebbe dovuto avere il suo moto per spiegare
le deviazioni osservate nell’orbita di Urano.
Alla
fine
dell’estate
del
1846
Le
Verrier
scrisse
a
J.G.
Galle
dell’Osservatorio di Berlino: <<Dirigete il vostro telescopio verso un punto
dell’eclittica nella costellazione dell’Acquario, a 326° di longitudine, e vi
troverete con un margine di errore di un grado, un nuovo pianeta simile a
una stella di nona grandezza e dotato di un disco visibile>>.
Galle seguì le istruzioni e scoprì il nuovo pianeta la notte del 23 settembre
1846. Il nuovo pianeta venne chiamata Nettuno.
La scoperta di Plutone ricalca le stesse vicende di quella di Nettuno. Fu
scoperto da C. W. Tombaugh all’Osservatorio di Flagstaff nell’Arizona il 23
gennaio 1930, a soli 5° dalla posizione calcolata da Lowell e Pickering: la
sua esistenza infatti era già stata prevista in base alle perturbazioni
riscontrate nelle orbite di Urano e Nettuno.
Una conferma, come dire “terrestre”, della legge di gravitazione universale,
si ha con l’esperimento di Cavendish, ovvero, con la prima determinazione
sperimentale della costante G di gravitazione universale effettuata nel 1798,
cioè circa un secolo dopo l’uscita dei Principia.
L’esperimento di Cavendish costituisce un esempio, importante anche per la
storia della fisica, di un esperimento in cui attraverso una misurazione di
laboratorio viene ottenuta una quantità globale relativa a un corpo celeste.
Il lavoro di Cavendish infatti s’intitola << Esperimenti per determinare la
densità della Terra >> e assegna a quest’ultima il valore (5,44 + 0.22)
g/cm3,
in
buon
accordo
con
il
valore
corrente
di
5,517
g/cm3.
La
misurazione di Cavendish fu effettuata mediante la bilancia di torsione, uno
strumento di precisione precedentemente sviluppato per misurare forze
elettrostatiche da Coulomb (1785-1789); in esso il momento della piccola
forza da misurare viene compensato dal momento di torsione di un sottile
filo di sospensione, la cui costante elastica è dedotta da periodo delle
oscillazioni libere del sistema.
Il dispositivo era stato realizzato da John Michell nel 1795 e alla morte di
questi passò a Cavendish, che lo ricostruì ex novo, migliorandolo. Questo
29
metodo, straordinariamente perfezionato, venne poi utilizzato anche da
Eotvos, Dicke e Braginsky per verificare il principio di equivalenza delle
masse inerziale e gravitazionale, alla base della teoria della relatività
generale.
Sembrava quindi che Newton avesse scoperto la chiave dell’Universo fisico.
Tuttavia, i tentativi fatti per spiegare le anomalie dell’orbita di Mercurio,
con la presenza di un pianeta prossimo al Sole non ancora scoperto,
rimasero senza frutti, e la soluzione definitiva, data da Albert Einstein nel
1916,
avrebbe
comportato
l’elaborazione
di
un
nuovo
riferimento
concettuale per la cosmologia e l’abbandono dei concetti newtoniani di
spazio e tempo assoluti.
L ’ A S T RO NO MI A S T E L L A RE E L A
N A S CI T A DE L L ’ A S T RO FI S I CA
I l p r o b l e ma d e l l a p a r a l l a s s e s t e l l a r e
I Principia implicavano la verità dell’ipotesi copernicana: la piccola Terra
orbitava attorno al massiccio Sole.
Tuttavia mancava ancora una prova osservativa di questa ipotesi. La ricerca
della parallasse annua delle stelle (il moto apparente annuo delle stelle
causato dal moto dell’osservatore terrestre in orbita attorno al Sole) era
reso complesso dal problema della rifrazione atmosferica, non ancora
sufficientemente compreso.
Misurazioni attendibili della parallasse annua sarebbero state effettuate solo
nel
corso
degli
anni
'30
dell’Ottocento,
quando
telescopi
di
grande
precisione furono rivolti verso le stelle che erano probabilmente le più
vicino a noi.
Uno di questi era un telescopio particolare di 16 cm di diametro detto
eliometro, chiamato così perché originariamente progettato per la misura dei
diametri angolari del Sole e dei pianeti, installato nel 1829 sulla torre
dell’osservatorio di Konigsberg.
Direttore dell’osservatorio era, fin dal 1810, Friedrich Bessel.
30
Bessel
Bessel era nato nel 1784 a Minden da una buona famiglia borghese. Aveva
trascorso l’adolescenza come apprendista in una ditta commerciale della
vicina città portuale di Brema (Germania nord-occidentale), svolgendo il
lavoro di contabilità con tale bravura da meritarsi, in via eccezionale, una
piccola retribuzione.
Interessatosi al problema della determinazione della longitudine in mare,
Bessel aveva cominciato a leggere opere astronomiche e matematiche, fino a
cim ent ars i per dil ett o nel calcol o dell ’orbit a del l a com et a di Hall ey.
Olbers, un medico di Brema molto ferrato in astronomia, credette di
riconoscere in quel lavoro giovanile un nuovo astro nascente e lo incoraggiò
senza mezzi termini ad abbandonare merci e libri mastri facendolo assumere
nell’osservatorio privato di Johann Schroter a Lilienthal, presso Brema, nel
1806.
L’ambiente particolarmente stimolante e l’amicizia di numerosi scienziati
che frequentavano quel luogo, tra i quali il grande Gauss, fecero sì che
Bessel si inserisse subito nella problematica della grande scienza, in
particolare
nella
ricerca
di
un
sistema
di
riferimento
per
studiare
i
movimenti delle stelle e cercare di sottoporre anch’esse a quelle leggi
meccaniche che si erano dimostrate valide per i pianeti e per i corpi minori
del sistema solare.
Ci vollero circa quattro anni affinché il giovane astronomo si impadronisse
della pratica e delle nozioni necessarie per padroneggiare la meccanica
celeste, facendosi così apprezzare tanto da essere proposto da un consigliere
del sovrano di Prussia Federico Guglielmo III alla direzione del nuovo
osservatorio di Konigsberg.
A Konigsberg Bessel arrivò con un programma di lavoro ben definito nella
sua mente.
Esso consisteva nel costruire una base di posizioni stellari, un gruppo di
dati certi e corretti sui quali lavorare negli anni a venire, quel punto di
riferimento dal quale misurare i minuti spostamenti delle stelle sulla volta
celeste. Gli astronomi, già dai primissimi anni dell’Ottocento sapevano che
quei puntini luminosi che vediamo popolare il cielo non sono sempre tutti
31
fissi nella medesima posizione. Il loro spostamento, in ogni caso lentissimo
tale da non poter essere percepito a occhio nudo neanche nel corso di
un’intera vita umana, è un movimento complesso, in parte dovuto alle
irregolarità e ai movimenti (anche i più elusivi) della sfera terrestre, in
parte dovuto a veri spostamenti delle stelle nello spazio.
Questi movimenti reali sono di grande importanza nel quadro che ci
facciamo dell’Universo; per esempio l’analisi di alcuni di essi aveva
mostrato che anche la nostra stella, il Sole, si dirige con il suo corteo
planetario verso un punto ben identificabile sulla volta celeste. E’ possibile
così arguire che, visto da un altro pianeta orbitante attorno a un altro sole,
anch’esso disegnerebbe un lento e quasi impercettibile spostamento.
Tutte le stelle sono corpi in moto, e l’Universo è simile a un brulicante
formicaio
filmato
con
un
esasperato
rallentatore.
Ma
se
tutti
i
suoi
componenti si muovono, come è possibile misurare con precisione l’entità
dei singoli moti? Evidentemente “fissando” un fotogramma di questo film
cosmico e prendendolo una volta per tutte come riferimento. Questo era
esattamente ciò che Bessel voleva fare.
La cosa non era facile a farsi. Creare ex novo un corpo di osservazioni di
riferimento sarebbe stato lunghissimo e, alla fine, poco conveniente perché i
successivi movimenti stellari si sarebbero potuti notare solo molti anni
dopo, probabilmente dopo la morte dello stesso Bessel. Migliore sembrava
piuttosto la prospettiva di usare osservazioni già eseguite, il più indietro
possibile nel tempo, correggerle per tutti gli effetti spuri e ricavare con la
massima precisione la posizione in cielo di un piccolo gruppo di stelle
fondamentali.
Queste
osservazioni
esistevano,
perché
nel
corso
del
Settecento non pochi astronomi si erano dedicati a osservare e trascrivere la
distanza di stelle luminose dal polo celeste e il momento in cui esse
attraversavano il meridiano locale del loro osservatorio.
Le migliori sembravano esser state fatte negli anni dal 1750 al 1762
dall’allora astronomo reale James Bradley all’Osservatorio di Greenwich,
con ottimi strumenti di fabbricazione inglese e annotando tutte le condizioni
ambientali al momento dell’osservazione.
Ciò che ne venne fuori, nel 1818, è noto come i Fundamenta Astronomia pro
anno 1755, giacché egli riportò tutte le posizioni stellari al medesimo
istante, l’esatto inizio dell’anno 1755. Furono calcolati i moti propri delle
32
stelle utilizzando le differenze di posizione rispetto al catalogo di Piazzi, lo
scopritore del primo asteroide (Cerere), e vi fu applicata per la prima volta
una completa correzione pere gli errori strumentali.
Fu un successo enorme. Tutti gli astronomi che dopo Bessel si sarebbero
occupati di stabilire posizioni stellari terranno conto del metodo e dei dati
contenuti nei Fundamenta. Un fiorire di cataloghi di vecchie e nuove
posizioni sbocciò e si mantenne a lungo vivo in tutto il mondo occidentale,
come se tutti volessero dedicarsi a fissare “istantanee” di quel lento, quasi
impercettibile brulichio di movimenti governati dalle ormai monolitiche
leggi
della
dinamica,
silenziose
padrone
dei
più
profondi
recessi
dell’Universo.
Nel 1830 Bessel diede alle stampe le Tabulae Regiomontane, raccolta di
posizioni calcolate questa volta nel corso di un secolo, cioè per numerosi
tempi diversi, di trentotto stelle di riferimento.
Queste Tabulae sono delle cosiddette effemeridi, cioè previsioni della
posizione delle stelle. Esse sono valide fino al 1850 e contengono anche un
calcolo della precessione dell’asse di rotazione terrestre molto più preciso
di quanto mai prima pubblicato.
(Ricordiamo che la precessione è quel fenomeno che fa mutare la posizione
del polo Nord in cielo, cosicché se oggi la stella polare è la stella α
dell’Orsa Minore, al tempo dei navigatori fenici era Draconis e tra migliaia
di anni sarà Vega nella costellazione della Lira).
L a mi s u r a d e l l e d i s t a n z e s t e l l a r i
Ritorniamo adesso al problema della misura della parallasse stellare.
Bessel non era il primo a tentare di trovare la parallasse, cioè quella piccola
ellisse che una stella doveva descrivere sullo sfondo dei campi stellari
lontani a causa del moto orbitale della Terra.
Ogni anno noi siamo trasportati dal nostro pianeta in un’orbita attorno al
Sole che ha dimensioni relativamente grandi (il suo asse maggiore misura
più di trecento milioni di chilometri), e perciò dovremmo notare una
differenza di prospettiva tra una stella vicina e le lontanissime altre stelle
33
dello sfondo, causata appunto dal nostro muoverci nello spazio di fronte al
paesaggio cosmico.
L’entità di questo movimento apparente dipende dalla distanza della stella,
anzi la distanza può essere da questo ricavata, essendo noto il percorso che
noi
osservatori
compiamo
trascinati
dalla Terra.
L’idea era già stata
espressa da Galileo nei suoi Dialoghi. Dall’impossibilità di notare un
qualsiasi cambiamento nella posizione delle stelle, questi aveva dedotto la
piccolezza dell’orbita terrestre in confronto alla distanza delle stelle.
L’impossibilità non è però un concetto assoluto, dipende dalla precisione
degli strumenti e dall’accuratezza con cui i calcoli possono essere eseguiti.
Certo non sarebbe stato possibile trovare le parallassi prima che fossero
conosciuti
fenomeni
l’aberrazione
della
di
diversa
luce,
scoperta
origine
ma
di
dall’astronomo
simile
reale
effetto
James
come
Bradley
(1692-1762).
La ricerca della parallasse fu comunque tentata prima di Bessel da alcuni
astronomi, William Herschel (1738-1822) o l’astronomo reale inglese John
Pond (1767-1836) per esempio, che non aveva però potuto arrivare a nulla
se non al fatto che le ellissi parallattiche dovevano essere molto piccole,
probabilmente al di sotto del decimo di secondo d’angolo. Altri astronomi
annunciarono di aver misurato una parallasse per tutto il periodo fino al
1830, ma i loro resoconti non reggevano a un esame attento oppure le loro
misure erano ancora troppo vaghe.
Bessel
studiò
molto
bene
il
problema
di
quale
stella
tenere
sotto
osservazione; sulle prime si poteva pensare che quanto più un astro è
luminoso, tanto più avrebbe dovuto essere vicino. Tale discorso valeva però
nella media, perché Bessel non sapeva se le stelle avessero tutte la
medesima luminosità,
anzi
aveva forti
indizi
che
ci
fosse un’enorme
disparità nella loro magnitudine intrinseca. Egli era però al corrente dei
moti propri delle stelle, cioè del loro lento viaggiare nello spazio, e pensò
di sostituire alla luminosità, il moto proprio delle stelle quale criterio più
affidabile per stimare la loro distanza, cosicché
riuscire a individuare una
stella con il più evidente moto proprio dava una grande probabilità di
azzeccarne una molto vicina.
Bessel si occupò allora della stella 61 Cygni, di debole luminosità ma molto
mobile (5,2 secondi d’arco all’anno). Per diciotto mesi quella stella fu
34
accuratamente
osservata
con
l’eliometro
di
Konigsberg,
un
tempo
sufficiente a far percorrere alla Terra una rivoluzione abbondante e alla
stella la sua piccola ellisse apparente, finché nel 1838 Bessel spedì alla
rivista Astronomische Nachrichten i risultati.
L’ellisse parallattica era stata la prima volta disegnata, e il suo asse
maggiore misurava 0,314 secondi d’arco (con un errore di ± 0,02 secondi),
corrispondenti alla distanza di circa centomila miliardi di chilometri,
ovvero poco meno di undici anni luce.
Questo valore, a onore di Bessel molto poco diverso da quello oggi
ottenibile (0,292”), gettava un regolo attraverso lo spazio, fissava la
posizione della prima isola dell’oceano nel quale inoltrarsi a veleggiare alla
scoperta di nuove terre lontane dall’angusto golfo del sistema solare,
fissava la scala e le dimensioni di quell’Universo che fino allora era
apparso lontano non si sa quanto.
Il metodo della parallasse è il metodo più antico per determinare le distanze
stellari. Vi sono poi altri metodi, basati su principi molto diversi, via via
introdotti col perfezionarsi delle tecniche di osservazione e col progredire
delle conoscenze astrofisiche. Uno di questi è quello che utilizza le Cefeidi.
Le Cefeidi sono un’importante classe di stelle, così chiamate perché la
prima stella di questo tipo fu scoperta nella costellazione di Cefeo,
caratterizzate da variazioni di luminosità che si riproducono con grande
regolarità.
Tra le leggi statistiche cui obbediscono le Cefeidi ha particolare importanza
la relazione periodo-luminosità scoperta da Henrietta Leavitt nel 1913.
Secondo tale legge, la luminosità assoluta di una Cefeide è funzione lineare
del logaritmo del periodo (espresso in giorni), corrispondendo i periodi più
lunghi a Cefeidi più luminose; ne segue che, se si determina il periodo di
variazione di luce di una Cefeide, risulta nota la sua luminosità assoluta e
quindi, osservata la luminosità apparente, anche la distanza.
Con le Cefeidi è possibile avere buone determinazioni di distanze per un
gran numero di oggetti che contengono stelle di questo tipo, in quanto esse
sono molto luminose e possono essere osservate anche a grande distanza.
Le distanze degli ammassi globulari e di alcune galassie esterne più vicine
sono state ottenute in questo modo.
35
L ’ a s t r o n o mi a d e l l ’ O t t o c e n t o : f o t o g r a f i a , s p e t t r o s c o p i a e d e f f e t t o
D o p p l e r a l l a r g an o i c o n f i n i d e l l ’ U n i v e r s o .
Gli sviluppi della cosmologia sono sempre connessi con le osservazioni
astronomiche. Questa verità è particolarmente chiara per chi studia la storia
dell’astronomia del XIX secolo e nota la grande differenza fra questo tipo
di studi e quello dei secoli precedenti.
Si può ben dire che nell’Ottocento ha avuto luogo una seconda rivoluzione
copernicana che ha soppiantato il Sole come centro del mondo, prima a
favore della nostra Via Lattea e poi a favore di un’eliminazione del concetto
di centro dell’universo.
Ma vi è di più: soltanto nell’Ottocento l’invasione delle tecniche fisicochimiche in campo astronomico trasforma le conoscenze astronomiche da
pura osservazione in sperimentazione da laboratorio. Accanto all’astronomia
matematica si stabilisce una nuova concezione della disciplina astronomica,
quella fisico-sperimentale. E’ la nascita dell’astrofisica.
Uno dei punti principali di questa rivoluzione consiste nell’introduzione
della fotografia per opera di Fizeau nel 1841, che voleva studiare con
questo mezzo le macchie solari. La prima fotografia astronomica fu un
dagherrotipo della Luna, ripresa da un dilettante americano, J.W.Draper; nel
1850 il Direttore dell’Osservatorio di Harvard, W.C.Dond, riprese una serie
eccellente di immagini della Luna, che furono presentate alla grande
esposizione di Londra del 1851. Dal 1884 i fratelli Paul e Prosper Henry
iniziano la fotografia stellare combinando un apparecchio fotografico con
un telescopio che segue meccanicamente le stelle. Questo permise di
ottenere registrazioni permanenti e oggettive del cielo, che era possibile
esaminare successivamente con cura; con tempi di esposizione lunghi, gli
astronomi
erano
in
grado
di
rilevare
e
registrare
oggetti
di
debole
luminosità, che sarebbero per sempre rimasti nascosti alle loro osservazioni,
anche se dotati dei più potenti telescopi.
La
seconda
applicazione
della
fisica
all’astronomia
si
ebbe
con
la
spettroscopia, basata sull’analisi spettrale introdotta in forma sistematica da
G. Kirchhoff.
36
Nei laboratori, i fisici facevano passare la luce emessa da varie sorgenti
attraverso dei prismi, e studiavano la possibilità di correlare gli spettri così
ottenuti con la natura fisica delle sorgenti e del mezzo utilizzato.
In astronomia, queste conoscenze furono applicate, in un primo tempo, allo
spettro della luce del Sole: nel secondo decennio dell’Ottocento, Joseph
Fraunhofer, uno dei maggiori studiosi di ottica, svolse le sue ricerche sullo
spettro solare e, in particolare, sulle molte linee scure che lo attraversano.
Egli trovò che le radiazioni luminose provenienti dai pianeti avevano linee
del tutto simili, mentre quelle delle radiazioni stellari erano differenti.
La
spiegazione
classica,
in
termini
di
spettri
di
assorbimento
e
di
emissione, fu data nel 1859 da Gustav Kirchhoff e Robert Bunsen. A
William Huggins, un ricco dilettante inglese, le notizie arrivarono <<come
una spruzzata d’acqua su un terreno secco e assetato>>, e subito escogitò
uno spettroscopio da collegare al suo telescopio.
Da allora, lo studio degli spettri stellari rappresenta uno dei più potenti
mezzi dell’indagine astrofisica.
Con le tecniche spettroscopiche divenne possibile individuare rapidamente i
movimenti stellari. Fino allo sviluppo della spettroscopia stellare, la sola
informazione disponibile sul moto di una stella era tratta da un confronto
tra la sua posizione attuale e quella registrata molti anni prima: l’accumulo
dei dati era quindi molto lento e la conoscenza ottenuta riguardava solo il
moto trasversale, ad angolo retto rispetto alla linea di osservazione. Ma
l’effetto Doppler per gli spettri stellari, secondo il quale lo spettro di una
stella si avvicina al rosso oppure si allontana da esso a seconda che la stella
si allontani o si avvicini all’osservatore, forniva informazioni istantanee sul
moto lungo la linea di osservazione (ovvero sulla velocità radiale). Per
esempio, se la stella fosse stata una binaria (una coppia di stelle orbitanti
intorno al loro comune centro di gravità), allora lo spettro avrebbe dovuto
avere due componenti, ciascuna delle quali spostata in un senso o nell’altro,
dal momento
che le velocità delle stelle orbitanti lungo la linea di
osservazione variano.
Un’altra importante applicazione della spettroscopia fu senza dubbio quella
che consentì di misurare le distanze delle stelle con metodi ben più efficaci
di ottici e trigonometrici, in uso fino a quel momento. Nel 1916 Walter
S ydne y Adam s amm is e che, s apendo con i vecchi m et odi l e dist anze dalla
37
Terra di due stelle dello stesso tipo spettrale, si può calcolare la luminosità
assoluta di tali stelle. Supponendo che le distanze delle due stelle e le loro
luminosità siano di ordine assai diverso, si dovrebbe ritrovare l’effetto di
questa diversità anche nei loro spettri. Poiché tale supposizione si rivelò
esatta, Adams riuscì a calcolare da allora in poi le distanze di qualunque
oggetto partendo dall’esame del suo spettro, senza bisogno di altri metodi.
E
ancora,
lo
studio
dello
spettro
di
righe
stellari
cominciò
a
dare
informazioni sulla loro composizione chimica, sulla struttura e sullo stato
fisico dell’atmosfera stellare insieme al suo campo magnetico.
Nonostante la multiforme varietà degli spettri stellari, è stato possibile
operare
un’importante
classificazione,
la
classificazione
di
Harvard,
determinatasi grazie al lavoro fondamentale iniziato nel 1885 da Edward
Pickering e proseguito da una sua assistente, Annie Cannon, che portò alla
pubblicazione nel 1924 dell’Henry Draper Catalogne. Questo catalogo
contiene 225.300 stelle, che sono classificate in sette classi spettrali o tipi
spettrali, denominate con lettere maiuscole (O,B,A,F,G,K,M), ciascuna a
sua volta suddivisa in 10 sottoclassi. Le classi sono ordinate secondo il
valore decrescente della temperatura.
La possibilità data dalla spettroscopia all’astronomia di classificare le
stelle
in
pochi
gruppi
fondamentali,
aprì
poi
la
via
all’applicazione
dell’idea evoluzionistica alle stelle. I vari gruppi di stelle apparvero come
gruppi di stelle in diversi momenti della loro esistenza, mostrando una
diminuzione regolare della temperatura nei gruppi successivi della scala
evolutiva.
Con il lavoro di Huggins e di altri astronomi contemporanei negli ultimi
quattro decenni del XIX secolo, l’astronomia estese enormemente i suoi
confini.
Inoltre,
all’inizio
del
20°
secolo,
furono
individuate
righe
spettroscopiche in nebulose extragalattiche e, successivamente, furono così
misurate alcune loro velocità radiali (Vesto Slipher, 1914); ciò aprì la via
alla straordinaria scoperta di un ordine nell’Universo e dell’espansione
cosmologica (E.P.Hubble, 1926).
38
I l d i a g r a mma d i H e r t z s p r u n g - Ru s s e l l
La sintesi dell’astrofisica stellare ottocentesca viene compiuta all’inizio del
XX secolo. Ejnar Hertzsprung (1911) e Henry Russell (1913) scoprirono,
indipendentemente,
una
correlazione
empirica
fondamentale
tra
la
luminosità intrinseca e la temperatura superficiale delle stelle.
Questa correlazione, presentata graficamente nel cosiddetto diagramma di
Hertzsprung-Russell o diagramma HR, è uno dei risultati fondamentali su
cui è fondata l’astrofisica moderna perché permette il collegamento tra le
osservazioni
e
i
modelli
delle
stelle,
e
lo
studio
diretto
della
loro
evoluzione.
I punti rappresentativi delle stelle più vicine al Sole (distanze minori di 10
parsec) si dispongono nel diagramma HR lungo una banda, detta sequenza
principale, che l’attraversa diagonalmente, dalle stelle di alta luminosità e
alta temperatura (tipo spettrale O÷B, in alto a sinistra) fino a stelle di bassa
luminosità e bassa temperatura (stelle nane M, in basso a destra). La loro
posizione lungo la sequenza dipende dalla massa e ciò spiega perché le
stelle più calde della sequenza principale sono anche le più massicce.
Considerando anche stelle più lontane, nel diagramma HR si notano altre
sequenze ben definite.
Al di sopra della sequenza principale si trova la sequenza delle giganti,
quasi parallele all’asse delle ascisse.
Al di sotto della sequenza principale si trova la sequenza delle nane
bianche,
quasi
parallela
a
quella
principale,
che
sono
stelle
ad
alta
temperatura ma poco luminose, perché hanno dimensioni minori delle stelle
della sequenza principale di uguale temperatura.
Si stima che le stelle della sequenza principale siano l’85%, le nane bianche
il 10% e, nel restante 5% siano compresi tutti gli altri tipi di stelle.
L’importanza del diagramma HR risiede nel fatto che esso indica, insieme
alle
relazioni
massa-luminosità
e
massa-raggio,
la
distribuzione
dei
parametri fisici delle stelle che ne determina la struttura, la stabilità 8°
instabilità) e l’evoluzione nel tempo. In altri termini, lo stretto legame
esistente tra la luminosità, la massa e la temperatura implica che tra le
infinite terne di valori che, a priori, questi parametri possono assumere,
39
soltanto alcune sono compatibili con la formazione di stelle più o meno
stabili, quali noi le osserviamo.
L’importante
risultato
che
ha
permesso
il
progresso
delle
teorie
sull’evoluzione stellare consiste nella comprensione del fatto che le stelle
evolvendosi si muovono lungo particolari tracce del diagramma HR.
Dai modelli teorici dell’evoluzione delle stelle, elaborati sulla base della
meccanica quantistica relativistica e della teoria della relatività generale,
confrontati
con
i
dati
di
osservazione,
si
deduce
che
il
parametro
fondamentale di una stella, quello da cui dipenderà la sua storia futura, è la
sua massa.
L A CO S MO L O G I A MO D E R N A
Dopo la narrazione dei grandi modelli cosmologici dell’antichità, la nascita
della moderna cosmologia scientifica avviene con la scoperta di due grandi
eventi, uno di carattere sperimentale e l’altro di carattere teorico: la legge
di Hubble (1929) e la teoria della relatività generale (1916).
Le galassie esterne e l’espansione dell’universo.
La legge di Hubble
Tra le due guerre mondiali una nuova categoria di corpi celesti salì di
prepotenza sul palcoscenico: le nebulose extragalattiche.
Fin dall’epoca di Galilei l’uso dei telescopi aveva rilevato come oggetti
che, osservati a occhio nudo o con strumenti di bassa potenza, apparivano
diffusi e nebulosi, fossero in realtà formati da un agglomerato di numerose
stelle. Si sviluppò così l’idea di un universo popolato non di stelle, ma di
sistemi stellari.
Nel 1750 Thomas Wright pubblicò un’opera intitolata An original theory or
new hypothesis of the universe in cui immaginava un modello di universo
riempito di sfere, ciascuna delle quali era formata da un guscio di stelle.
Wright fu anche il primo a fornire una spiegazione della Via Lattea. Le idee
di Wright furono riprese da Kant nella sua opera Storia generale della
natura e teoria del cielo (1755), dove le proprietà dei sistemi stellari
40
(quelli che oggi chiamiamo galassie), vengono descritte con ricchezza di
dettagli.
Si trattava però di formidabili intuizioni che non potevano a quell’epoca
essere verificate sperimentalmente. Il problema era quello di determinare la
distanza tra la Terra e questi sistemi, al fine di confrontare le loro
dimensioni con quelle della Via Lattea.
Dovettero passare quasi due secoli perché si avesse la prova scientifica che
le
nebulose
a
spirale
sono
sistemi
stellari
paragonabili
al
nostro.
Fondamentale per questo fu la scoperta di alcune cefeidi nella nebulosa di
Andromeda (la M31 del catalogo di Messier) da parte di Edwin Hubble nel
1924, utilizzando il telescopio da due metri e mezzo dell’osservatorio di
Mount Wilson, il più potente dell’epoca. Questo permise ad Hubble di
determinare
con
una
certa
precisione
la
distanza
della
nebulosa
di
Andromeda, valutata circa due milioni di anni luce, ponendo fine all’accesa
controversia sull’appartenenza delle nebulose spirali alla nostra Galassia.
Allo stesso modo, Hubble esplorò l’universo fino a una distanza di circa
1.000 megaparsec da noi (un parsec è circa 3 anni luce, ovvero circa
3·1016m) e cioè una regione che contiene circa 100 milioni di nebulose.
Il carattere più sorprendente della loro distribuzione è il fatto che esse
tendono ad agglomerarsi in ammassi, che variano per dimensioni da un paio
di galassie a quindici o venti, come nel caso del nostro Gruppo Locale, fino
ad ammassi contenenti varie migliaia di galassie, come quelli nella Vergine
o nella Chioma di Berenice.
Hubble studiò anche l’aspetto generale di molte galassie e nel 1926 le
classificò in vari tipi. I tipi principali sono quelli a spirale, a spirale
barrata e quelli ellittici: inoltre ve n’è una piccola percentuale di forma
irregolare.
Un altro grande campo di studi fu la cinematica di queste nebulose, vale a
dire il loro movimento nello spazio. Il metodo d’indagine era spettroscopico
e si basava sulla misura dello spostamento delle righe degli spettri ottici per
effetto Doppler. Già era stato notato intorno al 1915 da Vesto Slipher che la
maggior parte delle galassie esterne presentavano degli spostamenti Doppler
verso il rosso delle loro righe spettrali e che questo spostamento (red shift)
era tanto più cospicuo quanto più lontano sembravano le galassie. Questo
venne immediatamente interpretato come se le galassie possedessero una
41
velocità radiale
di
allontanamento
da
noi,
che
faceva
pensare
a
una
recessione generalizzata, a una fuga da un non specificato centro, fuga tanto
più veloce quanto più esse ne distano.
Non si sarebbe potuto dire di più su questo sconcertante fenomeno finché
non si fosse precisato esattamente in quale misura esso avesse luogo, finché
non
si
fosse
deciso
proporzionalmente
alla
se
la
distanza
velocità
oppure
di
se
lo
allontanamento
fa
seguendo
aumenta
una
legge
matematica più complessa.
Non appena terminato il lavoro di classificazione delle galassie, nel 1926,
Hubble si rivolse a studiare questo nuovo problema con l’aiuto di due
formidabili strumenti: il telescopio Hooker da due metri e mezzo e la
relazione periodo-luminosità delle cefeidi, atta a fornire le distanze delle
galassie. Entro un paio d’anni riuscì a raccogliere un numero di dati
sufficiente a comporre un grafico e a discriminare tra la varie possibili
forme matematiche della relazione. I dati si riferivano a ventiquattro
galassie la cui distanza era da lui stimata fra trentamila e due milioni di
parsec. Per Hubble non fu difficile scegliere la relazione analitica che
meglio rappresentava i dati, enunciando così, nel 1929, quella che forse è la
legge di Natura più profonda e ricca di significati: le galassie si allontanano
da noi con una velocità che è proporzionale alla loro distanza.
Questa scoperta ha segnato la fine dell’immagine statica dell’Universo e ha
aperto la strada all’attuale concezione evoluzionistica, che oggi sappiamo si
applica non solo all’Universo nel suo insieme , ma anche ai singoli oggetti
di cui esso è composto, a cominciare dalle stelle, strutture dinamiche che
nascono, si evolvono e infine muoiono.
Questa
concezione dinamica
dell’Universo
sarebbe
stata
probabilmente
accettata con maggiore difficoltà, se non si fosse trovata in accordo almeno
qualitativo con un modello di Universo proposto qualche anno prima (1922)
dal russo Aleksandr Friedmann e ripreso poco dopo da Georges Lemaître,
basato sulla teoria della relatività generale. Tale teoria, formulata da
Einstein nel 1916, è allo stesso tempo una teoria della gravitazione e della
struttura geometrica dello spazio-tempo in presenza di materia. Le sue
conseguenze sono state finora tutte confermate sperimentalmente.
42
Per questa ragione e per la sua intrinseca coerenza, la relatività generale è
oggi considerata come la base teorica appropriata per una descrizione
globale dell’Universo e della sua storia.
Dalla Legge di Hubble al Big Bang
Il lavoro sperimentale degli anni venti del secolo scorso, ha posto l’uomo
nella condizione di affermare, con un notevole grado di attendibilità
scientifica, che l’Universo ha avuto un’origine, per quanto riguarda sia la
sua dimensione temporale, sia quelle spaziali.
Questa affermazione è interamente basata sul lavoro sperimentale di Hubble
dell’interpretazione dell’osservato red shift delle galassie come dovuto a
effetto Doppler. Riprendiamo brevemente le tappe principali di questo
lavoro.
L’osservazione telescopica ha rilevato la presenza,oltre alla nostra Galassia,
di diversi miliardi di galassie, ognuna delle quali è a sua volta formata da
miliardi di stelle.
E’ possibile determinare la distanza di questi oggetti mediante la tecnica
delle stelle variabili Cefeidi, in quanto la loro luminosità è intrinsecamente
nota.
I movimenti di questi vari oggetti celesti ci sono rivelati mediante la misura
delle loro velocità radiali, tramite l’effetto Doppler, secondo il quale le
righe emesse dallo spettro di una sorgente luminosa sono spostate verso il
violetto se essa si avvicina a noi, o verso il rosso se essa si allontana da
noi, e lo spostamento delle righe è proporzionale alla velocità di avvicinamento o di allontanamento della sorgente luminosa.
Ora, l’indagine sistematica condotta da Hubble (e che continua ancora oggi)
ha mostrato come tutte le galassie abbiano le loro righe spettrali spostate
verso il rosso (il cosiddetto red shift) di un’entità proporzionale alla loro
distanza. Ciò costituisce, come abbiamo visto, la legge empirica di Hubble:
ogni galassia si allontana da ogni altra con una velocità proporzionale alla
distanza; ciò nell’insieme costituisce un moto di dilatazione, il quale
consente di dire che l’Universo si espande conservando la sua forma , ma
con tutte le distanze relative moltiplicate per un fattore di scala che ora
cresce con il tempo.
43
Questo significa, ammettendo che tale moto sia sempre continuato, che,
facendo muovere all’indietro nel tempo le galassie con una velocità di
valore pari a quella osservata, ma cambiata di segno, si arriva a “un istante
iniziale”, in cui tutte le galassie erano sovrapposte, ovvero tutta la materia
dell’Universo
era
concentrata
in
un
volume
piccolissimo,
dal
quale
l’Universo è come esploso, proiettando le galassie in tutte le direzioni.
La legge di Hubble permette di calcolare come quest’istante iniziale sia da
collocarsi a circa una quindicina di miliardi di anni indietro.
Tale quadro di genesi dell’Universo prende il nome di Big Bang (<<grande
esplosione>>).
Sono state avanzate altre ipotesi di spiegazione del red shift galattico che
non sono però riuscite ad imporsi, in quanto ritenute dalla maggioranza dei
fisici come ipotesi ad hoc, ovvero ipotesi che non spiegano nient’altro al di
fuori
del
particolare fenomeno per il
quale sono
state appositamente
escogitate.
Vi sono, inoltre, altri dati sperimentali successivi a quelli ricavati da
Hubble che vengono mirabilmente interpretati dal quadro espansionistico
del big bang, mentre non sarebbero facilmente comprensibili in base alle
suddette altre ipotesi. Ci riferiamo alle due scoperte della radiazione cosmica di fondo e l’abbondanza dell’elio cosmico.
Tutto ciò fa sì che lo schema del big bang sia oggi considerato come ben
sostenuto da tutti i dati osservativi, e pertanto altamente attendibile.
Mo d e l l i c o s mo l o g i c i
La cosmologia teorica moderna ha avuto inizio nel 1917 con la memoria
presentata da Einstein all’Accademia delle scienze di Berlino dal titolo:
“Ricerche
cosmologiche
sulla
teoria
della
relatività
generale”,
dove
Einstein applicò la sua teoria generale della relatività all’intero Universo,
che immaginò uniformemente riempito di materia. Einstein adottò un modello statico dell’Universo, in cui l’autogravitazione è bilanciata da una forza
repulsiva cosmica introdotta artificialmente nelle sue equazioni di campo.
L’Universo è trattato da Einstein come un sistema dinamico descritto da
equazioni relativistiche del moto le cui soluzioni possono definire, in linea
44
di principio, la geometria, l’evoluzione e il contenuto di materia. Il
problema
cosmologico
viene
affrontato
non
a
partire
da
un
sistema
filosofico, ma è considerato l’applicazione di una teoria scientifica che può
avere un riscontro osservativo. In altre parole, il modello di Universo non
proviene da una particolare visione del mondo, ma è, invece, la soluzione di
un sistema di equazioni che prescindono da una qualsiasi visione filosofica.
A partire da questo esordio einsteiniano, i modelli cosmologici proposti
sono stati molteplici e spesso contraddittori.
La maggior parte dei modelli è caratterizzata da una singolarità iniziale che
viene interpretata come origine dell’universo.
Inoltre, l’evidenza sperimentale dell’espansione dell’universo, trova in essi
una solida base teorica.
Proprio
partendo
dell’espansione
da
questo,
è
dell’Universo
interessante
trovi
una
far
sua
vedere
come
il
interpretazione
dato
anche
nell’ambito della meccanica newtoniana.
Può
essere
allora
interessante
iniziare
il
nostro
esame
dei
modelli
cosmologici, basandoci, in un primo tempo, invece che sulla relatività
generale, sulla più semplice meccanica newtoniana in uno spazio euclideo.
Mo d e l l i c o s mo l o g i c i n e w t o n i a n i
In un primo tempo si pensava che la legge di gravitazione universale:
F = -Gm1m2 / r2 ,
pur spiegando bene la dinamica dei corpi del sistema solare, non fosse
adatta a trattare i fenomeni che avvengono su scala universale.
Il problema che si presentava subito era che, in un universo infinito, la
forza newtoniana agente su una massa unitaria posta in qualsiasi punto
doveva essere infinita.
Si supponga infatti una massa unitaria posta nell’origine del sistema di
riferimento (e questa origine può essere scelta a piacere, in un universo
omogeneo). Ogni guscio di raggio r e spessore ∆r contribuisce con una forza
Fguscio = - G mguscio / r2 = - G4π ρ ∆r ,
dove abbiamo sostituito mguscio= 4π r2 ρ ∆r, essendo ρ la densità di materia.
Se quindi il raggio dell’universo è infinito, abbiamo:
45
Ftotale = -4πG ρ Runiverso = infinito.
Riesce dunque impossibile, con una forza di questo tipo, pensare di costruire una qualsiasi dinamica dell’universo, a meno di considerare l’universo
come finito. E’ proprio questa via che sceglieranno nel 1934 Edward Milne
e William McCrea, ma ciò era impensabile alla fine dell’Ottocento, quando
la
tendenza
ufficiale
era
quella
di
attribuire
dimensioni
infinite
all’universo. Se invece si esclude questa scappatoia, è necessario agire o
sulla legge di forza stessa, o sulla densità di materia.
Per curiosità storica, diciamo solo che la prima possibilità fu presa in esame
da Neumann e von Seelinger nel 1896, col suggerimento che l’attrazione
gravitazionale dovesse essere corretta nel modo seguente:
F = (-G m1 m2 / r2) e
L’effetto del termine e
-r/r
0
-r/r
0.
è di ridurre notevolmente l’azione della forza
soprattutto per distanze superiori a r0. le masse poste a distanza maggiore di
r0 eserciterebbero un’azione completamente trascurabile sulla massa posta
all’origine, con il risultato che, anche per un universo infinito, si avrebbe:
Ftotale = -4πG ρ r0.
Questo tipo di proposta, pur fornendo un modello statico dell’Universo
(altro requisito che appariva ovvio verso la fine dell’Ottocento) non ebbe
fortuna e fu completamente dimenticato.
Procederemo ora, come annunziato, alla costruzione, relativamente semplice
e intuitiva, di modelli cosmologici newtoniani, basandoci sugli argomenti di
Milne e McCrea (1934).
Queste
considerazioni,
sfortunatamente,
non
furono
fatte
prima
della
scoperta della relatività generale, né prima delle osservazioni di Hubble,
delle quali l’una richiedeva e le altre confermavano sperimentalmente il
fatto che l’Universo in realtà sembra essere in evoluzione, e non statico.
Fatte a posteriori, rimane loro il sapore di inattese conferme, che tuttavia
aiutano nella difficile interpretazione delle grandezze che appaiono nelle
non dissimili equazioni della relatività generale.
Procedendo per analogia, consideriamo anzitutto un palloncino di gomma
che viene gonfiato. La distanza fra due punti qualsiasi della sua superficie
aumenta col crescere del raggio, mentre restano costanti i rapporti fra le
varie distanze. Raddoppiando il raggio del palloncino tutte le distanze fra
coppie di punti qualsiasi della sua superficie raddoppiano. In modo analogo
46
dovremmo poter descrivere la situazione nel caso dell’Universo, che qui
considereremo
come
una
nuvola
di
polvere
omogenea,
trascurando
le
condensazioni individuali di massa, che non dovrebbero importare su grande
scala.
Sia ρ (t) la densità di materia, dipendente dal tempo. La legge secondo cui
qualsiasi distanza varia in funzione del tempo può allora essere scritta come
r(t) = R(t) r0 ,
dove r0 è il valore della distanza in esame ad un tempo prefissato t0, e
quindi R(t0)=1. La funzione R(t), che si chiama fattore di scala dell’Universo, può essere interpretata come il fattore che dà la dipendenza dal tempo
della distanza tra due particelle di polvere (galassie) e che quindi governa
la velocità di espansione dell’universo.
Possiamo scegliere t0 come l’epoca attuale, sebbene non sia questa l’unica
scelta possibile. A questo punto, non senza qualche mancanza di rigore,
possiamo scrivere la legge di forza. Per far questo, si consideri una
particella di polvere, di massa unitaria, a distanza r dall’origine, che può
essere scelta a piacere. Rispetto a un osservatore fisso nell’origine, la forza
gravitazionale a cui la particella è sottoposta è dovuta unicamente alla
massa M contenuta nella sfera di raggio r, massa che rimane costante con
l’espansione,
se
non
è
creata
materia:
tutte
le
particelle
di
polvere
partecipano infatti dell’espansione. La seconda legge di Newton afferma che
d 2r
GM
=− 2 ;
2
dt
r
sostituendo r(t) = R(t) r0 e ponendo r0 =1, si trova la corrispondente
equazione per il fattore di scala R(t):
d 2R
GM
=− 2 ,
2
dt
R
Formalmente identica all’equazione a cui si può giungere considerando il
moto di un punto sul contorno di una nuvola sferica di raggio R.
Lo studio di questo sistema è molto intuitivo in quanto R assume ora il
significato di raggio ed M di massa totale dell’universo.
Questa equazione dice subito che non si può avere un universo statico se il
potenziale è quello gravitazionale: la nube non muterebbe, cioè R(t) non
subirebbe variazioni col tempo, solo se M fosse uguale a zero, e quindi non
ci fosse massa (niente polvere, niente stelle, niente cosmologi).
47
Se invece M è diversa da zero, abbiamo delle soluzioni non banali che
possono essere trovate con l’equazione di conservazione dell’energia
2
1  dR  GM
=E,

 −
2  dt 
R
dove il primo termine rappresenta l’energia cinetica e il secondo l’energia
potenziale, entrambe per unità di massa; E sarà quindi l’energia totale, e a
seconda del valore che essa assume si può calcolare l’andamento di R nel
tempo, e quindi il modello di Universo.
Esaminiamo ora i vari risultati possibili:
a) E=0. In questo caso l’energia totale è nulla, cioè l’energia cinetica
uguaglia esattamente l’energia potenziale. L’attrazione gravitazionale
non riesce a frenare l’universo se esso si sta espandendo, e quindi
l’universo
si
espande
fino
all’infinito
con
velocità
decrescente.
Risolvendo l’equazione, si ottiene infatti che R(t) è proporzionale a t2/3
b) E>0. In questo caso l’energia cinetica predomina su quella potenziale.
L’universo si espande indefinitamente, dapprima secondo la legge t2/3,
e poi a velocità costante, R(t) diventando proporzionale a t.
c) E<0. In questo caso l’universo non può espandersi all’infinito in quanto
l’energia di legame, potenziale, è superiore all’energia cinetica. Qui si
può
determinare
qual
è
il
raggio
massimo
consentito
in
queste
condizioni, ponendo la velocità uguale a zero (dR/dt=0) nell’equazione
della conservazione dell’energia. In fatti la velocità è zero quando
l’espansione termina, e inizia la contrazione. Rimane così fissato il
raggio massimo di espansione:
R max =
GM
.
E
Utilizzando unicamente la fisica newtoniana, è dunque possibile ottenere dei
modelli di universo in cui si ha espansione illimitata, oppure espansione
seguita da contrazione. Due cose bisogna notare: in primo luogo, come si è
detto, rimane escluso un modello in cui le dimensioni dell’universo restano
le stesse (modello statico); in secondo luogo, all’istante iniziale (t=0) si ha
in ogni caso R=0, cioè una <<singolarità>> (inserire fig.di pag. 1236,
cosmologia, enc. einaudi ).
48
Ma, se insistiamo nel volere un universo statico, occorre introdurre un
termine in più, di segno opposto, cioè repulsivo. Matematicamente più
semplice è il caso di una repulsione del tipo della forza centrifuga, senza
volerci addentrare troppo nella spinosa questione di che cosa significhi una
rotazione dell’universo. Questo termine deve essere trascurabile su distanze
dell’ordine del sistema solare, ma deve essere importante su distanze
dell’ordine del raggio dell’universo. Con questa modifica l’equazione del
moto diventa:
d 2 R GM 1
+ 2 − λ R = 0.
3
dt 2
R
Il termine 1/3 λ appare in questa forma, non essenziale, per ottenere una
identità formale con l’equazione corrispondente che, come vedremo, risulta
dalla relatività generale.
Dall’equazione scritta discende una serie di modelli cosmologici assai più
ricca che nel caso precedente.
Intanto, per esempio, diviene possibile un modello statico: ponendo d2R/dt2
uguale
a
zero
nell’equazione
del
moto,
si
ottiene
un
valore
di
R
indipendente dal tempo, e diverso da zero, che può essere interpretato come
il raggio dell’universo statico, o come scala statica di lunghezza, a seconda
delle nostre stipulazioni iniziali.
Una descrizione dei numerosi modelli ottenibili non è essenziale, basta
sottolineare che i vari modelli possono essere raggruppati in tre classi:
1) modelli statici, in cui non variano le dimensioni dell’universo;
49
2) modelli in cui un’espansione iniziata da una singolarità, o da un
nucleo iniziale di dimensioni finite, si protrae indefinitamente nel
tempo fino a raggiungere dimensioni finite od infinite;
3) modelli in cui a una prima fase di espansione a partire da una
singolarità segue una fase di contrazione che si conclude con un’altra
singolarità.
Mo d e l l i c o s mo l o g i c i r e l a t i v i s t i c i
Il
discorso
newtoniana
condotto
nel
costituisce
paragrafo
soltanto
precedente
sulla
un’approssimazione
base
di
della
quello
fisica
che
è
possibile sviluppare sulla base della teoria della relatività generale, che si
assume come la teoria fisico-matematica corretta della gravitazione.
Alla base di quasi tutti i modelli relativistici sta il principio cosmologico,
che stabilisce che l’Universo è omogeneo ed isotropo, e quindi nessuna
galassia, nessuna direzione di osservazione possono essere considerate
privilegiate.
Come tutti i principi fisici anche quello cosmologico non è altro che una
estrapolazione ottenuta a partire dalle osservazioni.
Tutte le osservazioni indicano che, in media, su volumi abbastanza grandi,
le galassie sono distribuite uniformemente. Più precisamente, questo significa che se consideriamo una porzione di Universo grande abbastanza, se
confrontata con le distanze tipiche tra galassie vicine (assunte dell’ordine
del Mpc), allora il numero di galassie in quella porzione è approssimativamente lo stesso di quello in un’altra porzione con lo stesso volume (omogeneità dell’Universo).
La distribuzione delle galassie appare anche isotropa intorno a noi, cioè è la
stessa, in media, in tutte le direzioni. Se assumiamo che noi non siamo in
una
posizione
privilegiata
tra
le
galassie,
possiamo
ragionevolmente
concludere che la distribuzione delle galassie è isotropa intorno a qualsiasi
galassia (isotropia dell’Universo).
Il principio cosmologico, in sostanza, implica che osservatori in qualunque
punto dell’Universo ne darebbero una descrizione sostanzialmente uguale,
almeno per quanto concerne le proprietà su grande scala: se si vuole, è
50
questa
la
liberazione
definitiva
da
qualunque
residuo
di
illusione
antropocentrica.
Il
principio
cosmologico
semplifica considerevolmente
lo
studio
della
struttura a larga scala, poiché implica, tra l’altro, che la distanza tra due
galassie tipiche è assegnata da un fattore universale che è lo stesso per ogni
coppia di galassie. In generale, risolvere la dinamica cosmologica, vuol dire
ricavare l’evoluzione temporale di questo fattore di scala dalle equazioni di
Einstein.
Per essere più precisi, consideriamo una coppia qualsiasi di galassie a e b
che partecipano al moto globale dell’Universo. La distanza tra queste
galassie può essere scritta come ra,b(t) = R(t) roa,b , dove roa,b è indipendente
dal tempo e R(t) è una funzione del tempo. La costante roa,b dipende dalle
galassie a e b. Analogamente, la distanza tra le galassie c e d può essere
scritta come rc,d(t) = R(t) roc,d , dove la costante roc,d dipende dalla scelta
delle galassie c e d. Così, se la distanza tra a e b cambia di un certo fattore
in un periodo di tempo definito,allora la distanza tra c e d cambia dello
stesso fattore in quel periodo di tempo. La struttura a larga scala e
l’evoluzione globale dell’Universo possono allora essere descritte dalla sola
funzione del tempo R(t), detta appunto fattore di scala. Tale funzione può
assumere il significato di raggio dell’Universo.
Se va,b è la velocità di recessione di due galassie, l’una rispetto all’altra, si
ha che:
v a ,b =
dra ,b
dt
= r o a ,b
dR
 dR  1 
= ra ,b 
  = H ra ,b ;
dt
 dt  R 
 1  dR 
c h e a l t r o n o n è c h e l a l e g g e d i H u b b l e , c o n H =  
 , costante di Hubble.
 R  dt 
Torniamo ora al principio cosmologico che permette anche di costruire una
metrica (distanza tra due punti molto vicini) particolarmente semplice, e
quindi particolarmente gradevole da un punto di vista teorico. Si può
dimostrare infatti (ed è quanto fecero Robertson e Walker indipendentemente l’uno dall’altro nel 1935) che unicamente sulla base di questo principio
la distanza tra due punti infinitamente vicini dello spazio-tempo a quattro
dimensioni può essere scritta come:
51
ds 2 = c 2 dt 2 − R 2 (t )
dx 2 + dy 2 + dz 2
2
kr
(1 + 0 ) 2
4
,
dove ro2 =x o2+ yo2 +z o2 è il valore dell a dist anza i n es ame ad un t empo
prefissato to; k è l’indice di curvatura, inversamente proporzionale a R2,
che determina in ogni istante la curvatura dello spazio tridimensionale e può
essere positivo, negativo o nullo:
-
se k=0, lo spazio è descritto dalla geometria euclidea;
-
se k<0, lo spazio è descritto dalla geometria iperbolica;
-
se k>0, lo spazio è descritto dalla geometria ellittica o di Riemann.
Notiamo che lo spazio euclideo e quello iperbolico sono detti <<aperti>>,
mentre quello ellittico è detto <<chiuso>> (in quest’ultimo tutte le geodetiche sono linee chiuse).
La descrizione fisica dell’espansione dell’Universo è contenuta nel fattore
di scala R(t) che può essere determinato utilizzando le equazioni di Einstein
della relatività generale. Si può dimostrare che se si inserisce la formula
della distanza di Robertson e Walker nelle (sedici) equazioni di Einstein, si
ottiene una formula del Mondo, che ammette parecchie possibilità di soluzione e, con ciò, diversi possibili corsi della storia dell’Universo. La formula è la seguente:
d 2R
4πG 
3p 
1
=−
 ρ + 2  R + λR ,
2
3 
3
dt
c 
dove p rappresenta la pressione, e λ è detta costante cosmologica.
Quest’ultimo
termine,
assente
dalla
forma
iniziale
delle
equazioni
di
Einstein, fu anche in questo caso introdotto perché divenisse possibile una
soluzione
statica,
ragionevole.
In
che
ancora
seguito
alla
nel
1915
scoperta
era
di
considerata
Hubble,
come
Einstein
l’unica
si
pentì
amaramente di avere rovinato la bellezza delle sue equazioni con questa
tardiva e forzata introduzione, chiamandola l’errore più grande della sua
vita. Tuttavia, la costante cosmologica è stata più volte riproposta in
seguito, con alterna fortuna.
Come è facile verificare ponendo la pressione p uguale a zero, questa
equazione diventa esattamente l’equazione a cui deve obbedire il raggio
medio nella trattazione newtoniana corretta con un termine repulsivo. Vale a
dire che il modello non relativistico corrisponde a una situazione in cui si
52
ammette che la pressione nel gas sia trascurabile: per questo si parla in
genere di <<nuvola di polvere>>.
I modelli relativistici, ricavati dall’equazione scritta sopra, possono discostarsi molto dai modelli non relativistici nel caso in cui la pressione non sia
trascurabile:ciò dovrebbe accadere specialmente nei pressi della singolarità,
cioè, in un modello di big bang, nelle fasi iniziali. All’epoca presente, invece, si osserva che il contributo dovuto alla pressione è trascurabile.
Questa equazione, naturalmente, è stata l’oggetto di numerosi studi: se ne
sono esaminate soluzioni particolari ed altri casi più generali: in seguito si
è anche rinunciato all’omogeneità e all’isotropia della metrica, ottenendo
delle equazioni di Einstein diverse e più complesse, a loro volta analizzate
in dettaglio.
Noi ci accontentiamo di considerare l’equazione scritta per un’analisi molto
sommaria dei modelli d’Universo che da essa si ricavano, seguendo un
ordine cronologico.
1) Modello di Einstein (1917). Einstein studiò il caso d2R/dt2=0, che
fornisce un modello di Universo statico, non in espansione, descritto dalla geometria ellittica di Riemann.
2) Modello di de Sitter (1918). Willem de Sitter studiò il caso p=ρ=0, ovvero in assenza di materia, anch’esso corrispondente a un modello statico
di Universo.
3) Modelli di Friedmann (1922,1924), corrispondenti al caso λ=0.
Nel primo dei suoi due famosi articoli sulla cosmologia relativistica,
Aleksandr Friedmann trovò soluzioni per modelli di Universo in espansione caratterizzati da geometrie spaziali chiuse, tra cui quelle che si
espandono fino a un raggio massimo e quindi collassano in una singolarità. Due anni dopo, nel secondo articolo, precisò che vi sono anche soluzioni che si espandono illimitatamente, caratterizzate da una geometria
iperbolica.
Le
soluzioni
presentate
da
Friedmann
corrispondono
ai
modelli standard della relatività generale.
4) Modello di Lemaître (1927). In esso si ha p e λ maggiori di zero. Il
fattore di scala R(t) ha un comportamento interessante. All’inizio aumenta proporzionalmente a t2/3, si ha cioè un’espansione molto rapida. In
seguito, la gravità rallenta l’espansione e vi è un periodo quasi statico
(che sarebbe propizio alla formazione di condensazioni galattiche), dopo
53
il quale l’espansione riprende a crescere rapidamente a causa dell’effetto
di repulsione del termine λ: sarebbe proprio questa la fase in cui ci
troveremmo attualmente. Esso differisce dai modelli precedenti in quanto
l’espansione sarebbe ora in fase di accelerazione (a causa della preponderanza del fattore λ), mentre negli altri modelli essa starebbe rallentando (a causa dell’autogravitazione). Questo è un problema cosmologico
attuale, che potrà essere risolto in futuro migliorando le osservazioni relative al diagramma di Hubble sul red shift di galassie lontane.
Lemaître spinse fino in fondo il ragionamento ripercorrendo a ritroso la
storia dell’espansione fino al tempo più remoto. Concluse che tutto il
cosmo deve essersi originato a raggio zero, da una primitiva inimmaginabile concentrazione della materia in un unico punto. A questo seme iniziale dal quale tutta la realtà fisica avrebbe dovuto nascere, Lemaître
diede il nome di atomo primordiale.
5) Modello di Einstein-de Sitter (1932), ottenuto ponendo k=0 e λ=0. Nel
1932 Einstein e de Sitter unirono le forze ed eliminarono le differenze
tra le rispettive vecchie teorie. Questa volta essi considerarono la
possibilità che lo spazio abbia una geometria euclidea (k=0), cioè del
tutto priva di curvatura, pur subendo una continua espansione. Essi trovarono che questa possibilità dipendeva dalla densità della materia nello
Universo. A un certo suo preciso valore, che era funzione della velocità
di espansione, cioè della costante di Hubble, l’Universo era privo di
curvatura. Il valore trovato era dato dalla seguente formula:
ρc =
3H 2
.
8πG
Ci si riferisce spesso a questa densità come alla “densità critica” e al
modello di Einstein-de Sitter come al “modello critico”, in quanto separa
i modelli che si espandono illimitatamente con geometrie aperte e iperboliche da quelli che sono destinati a collassare in una singolarità e che
hanno geometria sferica chiusa. Quando Einstein e de Sitter inserirono
nella formula H=500 km s-1 Mpc-1 (quello fornito da Hubble stesso per la
sua costante), trovarono ρc=4x10-25 kg m-3. Sebbene questo valore risultasse maggiore della densità media delle galassie osservata da Hubble,
essi argomentarono che potesse essere dell’ordine di grandezza giusto
perché nell’Universo potrebbe essere presente una considerevole quantità
54
di “materia oscura”. Era la prima volta che si parlava di materia oscura.
L’evidenza astrofisica della materia oscura non tardò ad arrivare, con gli
studi dinamici sugli ammassi ricchi di galassie, in particolare, sull’ammasso della Chioma di Berenice, ad opera di Fritz Zwicky del Caltech di
Pasadena, in California, nel 1933.
(inserire figura “Frontiere della vita” vol. I pag 28, con didascalia ESF, vol.
VI, pag.433)
Al giorno d’oggi è tuttora incerto a quale tipo di Universo apparteniamo. Le
misure della densità media ρ basata sulla massa visibile delle galassie
forniscono un valore di circa 10-28 kg/m3, nettamente inferiore alla densità
critica ρc=2·10-26 kg/m3, assumendo per la costante di Hubble H il valore di
100 km/(s·Mpc). Ci sono però buone ragioni per pensare che nelle galassie o
negli ammassi sia presente una quantità di materia oscura, di natura tuttora
enigmatica, tale da poter fare aumentare la densità media di un fattore che
va da 10 a 100, e così riportare il nostro Universo al tipo di modello chiuso,
o sul limite di chiusura.
G a mow e i l B i g B a n g
Nel 1932, in seguito alla scoperta del neutrone, lo stato primordiale dello
Universo fu pensato come un mare di neutroni tenuti fortemente insieme. Si
suppose che i neutroni primordiali fossero decaduti in protoni e che, in interazioni nucleari successive, si fossero formati sia gli elementi chimici sia i
raggi cosmici. Queste idee alimentarono l’approccio di George Gamow al
problema dell’origine degli elementi chimici.
55
Nel 1948, Gamow pubblicò una teoria insieme a Ralph Alpher e Hans Bethe,
l ’anno succes si vo batt ezz at a t eori a del Bi g Bang da Fred Hoyl e, dove venivano applicati gli ultimi successi della fisica nucleare ai modelli di Friedmann-Lemaître.
L’articolo attirò l’attenzione sulla necessità di avere una fase calda e densa
nell’Universo, nell’ipotesi di una sintesi cosmologica degli elementi.
Infatti, il punto cruciale di questa teoria è l’ipotesi che l’Universo abbia
avuto origine dalla deflagrazione iniziale di uno stato della materia ad
altissima densità e temperatura.
Piuttosto di credere che tutti gli elementi presenti siano il prodotto della
nucleosintesi stellare, cosa che lasciava ben più di un dubbio data la loro
quantità, Gamow ed Alpher supposero che si fossero formati nelle primissime fasi che seguirono all’esplosione iniziale, fasi in cui la temperatura era
così alta da consentire il verificarsi delle reazioni necessarie.
Con i calcoli da loro effettuati, trovarono un ragionevole accordo con le
abbondanze osservate degli elementi, in particolare dell’elio cosmico.
Il problema è il seguente: l’osservazione spettroscopica dei vari corpi celesti, e in particolare delle atmosfere stellari, rivela che, rispetto all’idrogeno
presente nell’Universo nella proporzione di circa il 70% in massa, l’elio
raggiunge circa il 23%, mentre il rimanente di tutti gli altri elementi, detti
<<metalli>>, costituisce i pochi per cento residui. Ora, mentre le abbondanze di tutti questi <<metalli>> si spiegano come prodotti delle nucleosintesi
stellari, la percentuale osservata di elio è troppo abbondante per essere
riferita a tale origine, e occorre postulare un 23% circa d’elio come già
presente nel Cosmo prima della formazione delle stelle.
Ora tale dato viene spiegato naturalmente nel quadro teorico del big bang di
Gamow: a un dato momento dell’espansione, le condizioni di temperatura e
di densità sono tali da consentire a protoni e neutroni di combinarsi in deutoni, e questi a loro volta di sintetizzarsi in elio prima di venire distrutti da
successive reazioni nucleari di fissione, come avveniva a temperature anteriori più alte, mentre la formazione di elementi più pesanti non ha luogo,
perché, dopo formato l’elio, la temperatura è gia scesa di troppo per
consentire la loro sintesi.
Il fatto notevole è che la percentuale prevista dal big bang per l’elio così
formatosi, grazie a calcoli accurati svolti alla fine degli anni ’60 da Wago56
ner, Fowl er e Ho yl e, è proprio quell a del 23% circa ri chi est a dal le
osservazioni.
Una delle conseguenze osservative previste da Gamow e collaboratori, sarebbe stata la presenza nello spazio di una radiazione fossile, del residuo
cioè dell’esplosione primordiale o meglio della palla di fuoco che, nei primi
istanti, sarebbe violentemente nata dall’esplosione. L’intensissimo bagliore
di quei momenti, se veramente esplosione c’è stata, deve avere lasciato una
traccia ancora osservabile a distanza di tanto tempo perché i raggi di quella
‘luce’ non possono essere usciti dall’Universo, non lo possono aver abbandonato, devono ancora essere in circolazione. Poiché l’Universo si è enormemente espanso da allora, questa radiazione deve essersi in proporzione
diluita, affievolita tanto da risultare molto più debole. Bisogna inoltre tenere presente che essa giungerebbe ai nostri occhi dal passato più remoto e
perciò rispetto a noi e alla nostra era essa deve apparire affetta da uno spostamento verso il rosso maggiore di quello di ogni altra immagine osservabile. Si calcolò che la sua lunghezza d’onda caratteristica, enormemente
allungata dall’effetto Doppler, non potrebbe essere ormai minore di un
millimetro. Come dire che la sua temperatura di corpo nero non dovrebbe
superare i cinque gradi assoluti (-268 gradi centigradi).
Quando Gamow fece questa predizione non ci si rese immediatamente conto
che tale campo di radiazione avrebbe dominato su tutte le altre sorgenti di
radiazione nella regione delle microonde (cioè delle lunghezze d’onda centimetriche) e che esso sarebbe stato in effetti direttamente osservabile con i
radioricevitori. La previsione di Gamow era poi stata dimenticata, senonchè,
nel 1965, due fisici della Bell Telephone: Arno Penzias e Robert Wilson,
mentre eseguivano i controlli su un’antenna per le telecomunicazioni da loro
progettata, notarono un effetto di interferenza nello studio di onde radio a 7
cm dovuto a un forte rumore di fondo, che li lasciò assai perplessi. Questo
eccesso di rumore a 7cm lo valutarono uguale a quello che sarebbe stato
prodotto, a quella lunghezza d’onda, da un corpo nero alla temperatura di 3
K e superava di circa un fattore 100 la stima del rumore proveniente da tutte
le radiosorgenti conosciute.
Il gruppo di Robert Dicke a Princeton stava tentando esattamente questo
esperimento con la costruzione di un radiometro funzionante alla lunghezza
d’onda di 3 cm, per controllare la proposta, fatta indipendentemente da
57
Dicke, secondo la quale l’Universo avrebbe dovuto essere riempito di radiazione dovuta alla palla di fuoco iniziale. I fisici di Princeton capirono subito che Penzias e Wilson avevano scoperto il segnale da loro cercato. Dopo
alcuni mesi, due di questi fisici, Peter Roll e David Wilkinson, misurarono
una temperatura di fondo di 3 K a una lunghezza d’onda di 3,2 cm, che confermava la natura di corpo nero dello spettro di fondo.
Alla fine degli anni Sessanta, la radiazione di fondo cosmico di microonde e
le abbondanze cosmiche degli elementi leggeri vennero universalmente
riconosciute come prove inconfutabili della fasi iniziali calde dell’Universo
e, perciò, la cosmologia astrofisica assunse come riferimento standard lo
scenario del big bang.
T e o r i a d e l B i g B a n g e s u o i p o s s ib i l i a mp l i a me n t i .
I l Mo d e l l o I n f l az i o n a r i o
La teoria della relatività generale, enunciata nel secondo decennio del
Novecento, ha offerto la possibilità di trattare l’Universo nella sua globalità
e di descriverne le proprietà generali. Da quella data ha inizio la moderna
cosmologia, il cui sviluppo può essere diviso in tre distinti periodi.
Nel
primo,
che
dura
fino
al
1965,
vengono
esplorate
le
proprietà
geometriche dell’Universo, definite soprattutto dai modelli evolutivi di
Friedmann e verificate sperimentalmente dalla legge di Hubble.
A partire dal 1965, quando viene scoperta la radiazione cosmica di fondo, si
intensificano gli studi riguardanti l’evoluzione fisica dell’Universo e si
elabora la teoria del Big Bang, di cui vengono studiate le proprietà.
Nonostante i successi del modello standard del Big Bang, emergono parecchi
problemi che non trovano spiegazione.
Inizia così, nel 1980, la terza fase dello sviluppo della cosmologia relativistica, che contempla l’inflazione dell’Universo nelle primissime fasi.
Nonostante il successo ottenuto, la teoria del Big Bang classico presenta alcune difficoltà o problemi.
Primo fra tutti il cosiddetto problema dell’orizzonte. Il nostro orizzonte ha
un raggio che, espresso in anni luce, è pari all’età in anni dell’Universo. Ne
consegue che quando, per esempio, guardiamo la radiazione cosmica di fon58
do in due regioni opposte del cielo, queste, pur non potendo aver mai comunicato tra loro a causa della velocità finita della luce, si presentano a noi in
modo perfettamente identico, come è indicato dall’altissimo grado di isotropia osservato.
Come possono regioni diverse dell’Universo, che non sono mai state in
contatto tra loro, decidere di presentarsi con le stesse caratteristiche?
Il secondo problema posto dalla teoria del Big Bang classico è quello della
piattezza dell’Universo. La densità media della materia nell’Universo, tenendo conto della materia oscura associata alle galassie e agli ammassi, è
un decimo di quella critica, che caratterizza l’Universo piatto. Se si va a
vedere qual era questo rapporto nell’Universo primordiale, si trova che esso
differiva dall’unità per una quantità infinitesima. Viene pertanto da pensare
che il vero rapporto tra densità media e densità critica sia proprio l’unità e
che resti da scoprire la rimanente materia oscura. La teoria del Big Bang
classico, tuttavia, non è in grado di spiegare perché il nostro Universo
debba proprio essere caratterizzato dalla densità critica.
Il terzo problema lasciato irrisolto dal Big Bang classico è quello della
asimmetria materia-antimateria, che in un certo momento deve essersi
creata per dar luogo all’attuale Universo dominato dalla materia, visto che
nell’Universo primordiale doveva esserci una perfetta simmetria tra materia
e antimateria.
Un altro problema riguarda l’origine delle fluttuazioni di densità che,
amplificandosi con lo scorrere del tempo, hanno dato origine all’attuale
Universo, caratterizzato da un forte contrasto della densità di materia.
Andando a ritroso nel tempo si dovrebbe trovare la causa che ha prodotto i
germi delle fluttuazioni, una causa che non è però indicata dal Big Bang
classico.
Altri problemi erano rimasti senza risposta quando, verso il 1980, si è aperta la terza fase dello sviluppo della cosmologia relativistica segnata dalla
proposta del cosiddetto modello inflazionario, il cui scopo era proprio quello di trovare una soluzione ai problemi or ora accennati.
Il nome deriva da quella che è la caratteristica più saliente di questo modello, che consiste nell’ammettere che, attorno all’epoca corrispondente a 10-34
secondi dal Big Bang, l’Universo abbia subito un processo di accelerazione
che ha fatto aumentare il suo volume di un fattore 1050. Questo processo di
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inflazione trova la sua giustificazione nella presenza di forze che si
eserciterebbero tra la materia nelle condizioni fisiche estreme presenti a
quell’epoca.
L’inflazione spiega i vari problemi a cui si è accennato.
Il problema dell’orizzonte viene spiegato dal fatto che prima dell’inflazione
c’è stato tutto il tempo necessario affinché le varie parti dell’universo
potessero comunicare tra loro. Solo successivamente l’inflazione le porta a
così grande distanze che esse non possono più comunicare tra loro data la
finitezza della velocità della luce.
E’ inoltre possibile dimostrare che, se l’Universo è sottoposto alla rapida
accelerazione tipica del modello inflazionario, la sua geometria tende a
diventare euclidea e pertanto la densità della materia tende a quella critica.
Mentre per questi primi due problemi è bastato ammettere l’inflazione,
senza fare uso della fisica sottostante, per gli altri due bisogna invece
considerare le condizioni fisiche.
Il problema dell’asimmetria tra materia e antimateria trova la sua origine
nelle particolari condizioni che si sono venute a creare nel momento di
transizione tra la fase GUT e quella successiva.
Infine, la risoluzione del problema delle fluttuazioni rappresenta uno dei
successi più brillanti del modello inflazionario. L’idea è che le fluttuazioni
siano di origine quantistica e che si sviluppino con l’inflazione. Lo spettro
delle perturbazioni che si ottiene in questo modo è proprio quello necessario
per spiegare l’origine delle strutture cosmiche attualmente osservate.
La teoria dell’inflazione, che all’inizio era stata proposta come mezzo per
superare alcune difficoltà della teoria del Big Bang classico, tende ora a
proporsi come una visione del mondo di ben più larghe proporzioni, dove il
Big Bang del nostro Universo è da considerarsi un fenomeno molto limitato.
Secondo il fisico Andrei Linde, l’universo inflazionario è un universo che si
autoriproduce dando luogo a infiniti miniuniversi attraverso infiniti mini
Big Bang di cui quello che ha dato origine al nostro Universo è solo uno dei
tanti. Si torna così a un modello di durata eterna entro il quale nascono, si
sviluppano e muoiono infiniti universi.
Questa teoria non è priva di fascino. Essa dovrebbe tuttavia indicare quali
siano le basi osservative che, come si è visto, costituiscono il fondamento
di ogni modello cosmologico. Comunque, il quadro dell’Universo inflazio60
nario viene oggi considerato come molto promettente, in grado di fornire
una veduta d’insieme quanto più coerente possibile con quanto conosciamo
della cosmologia.
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