Report Kurdistan Iracheno

Transcript

Report Kurdistan Iracheno
Documento elaborato in merito al
progetto Speciale Iraq ed a seguito
del viaggio condotto da ASRIE
Associazione e Notizie Geopolitiche
nella
Regione
Autonoma
del
Kurdistan iracheno
Report
Kurdistan
Iracheno
ASRIE Associazione – Notizie Geopolitiche
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Introduzione
ASRIE – Associazione di Studio, Ricerca ed Internazionalizzazione in Eurasia ed
Africa ha dato vita all’inizio dell’anno 2016 al progetto Speciale Iraq con l’obiettivo di
migliorare la conoscenza della realtà politica, economica, sociale e culturale dello Stato
iracheno attraverso le analisi ed i contributi di analisti e specialisti scelti tra la rete di
collaboratori interni dell’Associazione.
Sull’esempio del progetto Focus Sicurezza Libia che ha permesso la redazione del
Report Libia pubblicato e veicolato da ASRIE Associazione attraverso il nostro network
ed i canali mediatici, l’Associazione ha organizzato in partnership con Notizie
Geopolitiche, quotidiano indipendente online di informazione geopolitica, un viaggio
nella Regione Autonoma del Kurdistan situata nell’Iraq settentrionale con l’obiettivo di
venire a conoscenza dell’attuale e reale situazione regionale focalizzando l’attenzione
sulla minaccia terroristica rappresentata dallo Stato Islamico, sulla crisi umanitaria e sui
problemi economici locali.
Il Report Kurdistan iracheno è quindi una raccolta di analisi, interviste, foto ed
impressioni del team che ha partecipato al viaggio in Kurdistan nel febbraio 2016.
Obiettivo del report è quello di dare una panoramica della situazione politica, economica,
umanitaria, sociale e della sicurezza della regione curda e di evidenziare quali rischi futuri
potranno interessare il Kurdistan, l’Iraq ed in generale la regione mediorientale.
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Indice
Introduzione .................................................................................................................................................. 2
La stabilità interna del Kurdistan iracheno e le relazioni con Baghdad........................ 5
di Giuliano Bifolchi
Conclusioni .............................................................................................................................................. 7
Kurdistan iracheno: interessi economici e scontri etnici le cause di un prossimo
conflitto ............................................................................................................................................................ 9
di Enrico Oliari e Giuliano Bifolchi
Interviste e foto dal Kurdistan Iracheno....................................................................................... 14
Karaman Mufti: “È ora che l’Italia investa nel Kurdistan” ................................................... 29
di Giuliano Bifolchi
Il Kurdistan dei campi profughi. Di chi ha il passato ma non ha il presente ............. 32
di Enrico Oliari
Kurdistan: la guerra che c’è. E quella che ci sarà...................................................................... 34
di Enrico Oliari
Crisi e guerra all’ISIS non spengono Erbil. Intervista al Governatore Nawzad Hadi
............................................................................................................................................................................. 37
a cura di Enrico Oliari, Giuliano Bifolchi, Ehsan Soltani
Lo slancio del Kurdistan iracheno verso l’emancipazione. Intervista a Nazhad Adid
Surme ............................................................................................................................................................... 40
a cura di Enrico Oliari e Ehsan Soltani
I curdi che prenderanno Mosul. A tu per tu con il generale Atu Zibari ........................ 42
a cura di Enrico Oliari e Ehsan Soltani
Il Generale peshmerga Hezar Umar Ismael, “3 miliardi alla Turchia, ma da noi
stessa emergenza” .................................................................................................................................... 45
a cura di Enrico Oliari, Ehsan Soltani e Giuliano Bifolchi
Autori ............................................................................................................................................................... 50
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La stabilità interna del Kurdistan iracheno e le relazioni con
Baghdad
di Giuliano Bifolchi (aprile 2016)
Durante l’incontro avvenuto tra il Presidente della Regione Autonoma del Kurdistan
(KAR) Masoud Barzani e l’ambasciatore del Regno Unito in Iraq Frank Baker il presidente
curdo ha posto l’attenzione sulla crisi politica esistente tra Erbil e Baghdad e sulla
precarietà del futuro di Mosul dopo la futura riconquista da parte delle forze irachene e
della coalizione. I rapporti tra Kurdistan ed Iraq si sono deteriorati lungo gli ultimi due
anni e danneggiano dal punto di vista economico la regione curda gravemente colpita a
livello sociale ed umanitario dai fenomeni migratori. Erbil attualmente sta facendo valere
la sua importanza militare nella lotta allo Stato Islamico per ottenere vantaggi finanziari
e politici dalla comunità internazionale e da Baghdad.
La rivalità tra Baghdad ed Erbil è stata confermata dal Generale Hezar Umar Ismael1,
direttore del Dipartimento delle Relazioni e Coordinazione del ministero dei Peshmerga,
il quale ha dichiarato che da circa 18 mesi il governo iracheno non supporta
economicamente quello curdo a causa di un taglio del budget che ha provocato il mancato
pagamento degli stipendi dei soldati peshmerga negli ultimi 5 mesi ed in generale degli
impiegati statali curdi.
La crisi economica curda, ha affermato Rory Moylan, Deputy Head of Sub Delegation in
Erbil dell’International Committee of the Red Cross2, è aggravata dalla situazione
umanitaria in progressivo deterioramento con un aumento di rifugiati e IDPs (Internally
Displaced Person) dovuto alla riconquista di territori appartenenti in precedenza allo
Stato Islamico da parte dei peshmerga ed ai fenomeni migratori che caratterizzano la
regione. Hezar Umar Ismael ha confermato che la comunità internazionale fornisce fondi
pari al 18% della totalità degli aiuti umanitari erogati dal governo di Erbil destinati alla
creazione e gestione di campi di accoglienza e servizi (elettricità, generi alimentari,
approvvigionamento idrico, assistenza sanitaria). Senza un incremento del supporto
Intervista condotta il giorno 22 febbraio 2016 ad Erbil presso il Ministero dei Peshmerga (Kurdistan
iracheno)
2 Intervista condotta il giorno 25 febbraio 2016 ad Erbil presso la sede dell’International Committee of the
Red Cross di Erbil alla presenza della Dott.ssa Maria Cecilia Goin, Communication Coordinator, e del
Dott.ssa Avin Yassin, Communication Officer
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economico internazionale la situazione interna del Kurdistan rischia di degenerare; nel
2014 il territorio curdo contava una popolazione totale di 6,5 milioni di persone che ha
raggiunto nel 2016 un valore superiore ai 10 milioni di persone a causa dei rifugiati e
IDPs.
Dal punto di vista della sicurezza le forze peshmerga controllano il 98% del totale
territorio curdo ed una linea di confine lunga 1050 chilometri. La minaccia interna dello
Stato Islamico è stata arginata ed attualmente le forze guidate da Abu Bakr al-Baghdadi,
ha dichiarato il Generale Atu Zibari3, attuano una strategia bellica volta soltanto a colpire
i checkpoint e le linee di difesa curde con attacchi esplosivi suicida.
Il numero totale delle vittime tra le file dei peshmerga nella lotta allo Stato Islamico è
superiore ai 1.400 soldati a cui vanno aggiunti più di 8 mila feriti e 62 dispersi in azione.
Il Kurdistan presenta il problema dell’ospedalizzazione dei feriti non disponendo di un
ospedale militare sul proprio territorio: la necessità di ricorrere per le cure mediche agli
ospedali militari stranieri influisce ulteriormente dal punto di vista economico.
Da notare all’interno della regione una forte diffidenza e contrasto tra la popolazione
curda e quella araba sunnita: Atu Zibari e Hezar Umar Ismael hanno confermato il
supporto da parte della popolazione araba sunnita allo Stato Islamico fornito tramite
operazioni di raccolta di Intelligence, aiuti economici e unione nella lotta contro le forze
curde.
In merito alla presa di Mosul, città sotto il controllo dello Stato Islamico che attualmente
è interessata dalla azione di riconquista da parte delle forze irachene e della coalizione,
Hezar Umar Ismael ha notato come la maggioranza della popolazione sunnita ha giocato
un ruolo importante nella conquista delle truppe di Abu Bakr al-Baghdadi della città e
potrebbe continuare a sostenerle anche dopo la liberazione. Attualmente la popolazione
della città è composta da sunniti, sciiti, cristiani, arabi, curdi e yazidi e dopo la sua
liberazione il governo di Erbil prevede un aumento significativo di rifugiati e IDPs i quali
interesseranno il Kurdistan dal punto di vista umanitario ed economico e potranno
causare scontri a livello etnico e religioso all’interno del territorio.
Intervista condotta il giorno 23 febbraio 2016 presso la località di Khazer nel settore 7.1 della linea di
difesa curda a 18 chilometri di distanza da Mosul
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Per questo motivo il giorno 8 aprile 2016 durante l’incontro tra il Primo Ministro curdo
Nechirvan Barzani, il Segretario di Stato Usa John Kerry e la controparte irachena Haider
Abadi, sono stati presi in esame lo stato attuale del conflitto e la crisi finanziaria che ha
colpito Kurdistan ed Iraq. Secondo quanto affermato dal ministro della cultura curdo
Firyad Rawanduzi in merito a tale incontro, Barzani ha promesso di partecipare alla
battaglia finale di Mosul alla condizione che il Kurdistan possa giocare un ruolo nella
pianificazione della guerra allo Stato Islamico e condividere con l’Iraq gli aiuti militari e
finanziari. Rawanduzi ha informato i media locali che Kerry ha promesso di destinare ai
curdi il 17% degli aiuti e del supporto fornito a Baghdad.
La partecipazione del Kurdistan nella battaglia finale di Mosul è da inquadrare nel ruolo
che il paese ha avuto a livello regionale nella lotta allo Stato Islamico: tale azione ha
permesso alle forze peshmerga di mettere in sicurezza il territorio nazionale, di
indebolire lo Stato Islamico e di spingersi all’interno del territorio iracheno conquistando
città ed aree di importanza strategica ed economica.
Un caso esempio è la città di Kirkuk, attualmente gestita dalle forze peshmerga guidate
da Kemal Kirkuki4, il quale ha dichiarato la volontà del Kurdistan di mantenere il controllo
dell’area anche dopo la fine del conflitto con lo Stato Islamico. Secondo quanto affermato
da Kemal Kirkuki, tale regione, come altre in Iraq, era originariamente abitata dai curdi
deportati come turcomanni durante il regime di Saddam Hussein per sostituire la
popolazione locale con gli arabi. Grazie alla conquista di questi territori da parte delle
forze peshmerga attualmente il Kurdistan è pronto a discutere la sua indipendenza ed il
controllo di queste aree tramite la diplomazia internazionale e, qualora il processo
diplomatico registrasse un fallimento, ad ingaggiare una lotta con Baghdad.
Conclusioni
La strategia militare delle forze peshmerga evidenzia la volontà di mantenere sotto il loro
controllo le città ed i territori conquistati dallo Stato Islamico anche in territorio iracheno
utilizzandoli come carta di scambio per una eventuale indipendenza o per maggiori
concessioni da parte del governo di Baghdad e della comunità internazionale. Tale
volontà potrebbe comportare uno scontro con le forze irachene, in special modo per la
Intervista condotta il giorno 25 febbraio 2016 presso la località Alture di Qarrah nell’area di Kirkuk nel
settore 5 della linea di difesa curda
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gestione di quei territori di maggiore interesse perché caratterizzati dalla presenza di
pozzi petroliferi e giacimenti di gas naturale. Di primaria importanza anche la gestione
della popolazione del Kurdistan aumentata e caratterizzata da diverse etnie e religioni i
cui attriti potrebbero portare ad uno scontro interno.
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Kurdistan iracheno: interessi economici e scontri etnici le
cause di un prossimo conflitto
di Enrico Oliari e Giuliano Bifolchi (aprile 2016)
Provincia di Erbil, ore 8 di sera, la nostra automobile si avvicina alla lunga fila del
checkpoint che permette di giungere nella capitale del Kurdistan, un traffico raro per la
città mai incontrato fino a quel momento. Veniamo da Kirkuk dopo una lunga giornata
dove abbiamo incontrato Kamal Kirkuki, comandante delle forze peshmerga che
combattono lungo i confini del settore 5 ed affrontano quotidianamente lo Stato Islamico.
L’automobile si avvicina al checkpoint ed il soldato intima l’Alt: un breve dialogo con
l’autista, curdo ed originario di Erbil, nel quale il soldato chiede se “ci sono arabi a bordo”.
“Non ho mai trasportato nessun arabo in vita mia!” risponde il nostro autista sorridendo,
delineando una situazione reale ad Erbil ed in generale nel Kurdistan, dove la popolazione
araba sunnita viene vista come una minaccia perché spesso ha appoggiato l’avanzata
delle truppe di Abu Bakr al-Baghdadi.
La mente mi riporta all’incontro con il generale Atu Zibari presso l’avamposto di Khazer
nel settore 7.1 a soli 18 chilometri da Mosul, città che in questi giorni vede l’offensiva
delle truppe irachene e della coalizione internazionale pronta a riprenderla. Davanti ad
un ponte distrutto fatto detonare dalle forze dello Stato Islamico, a soli un paio di
chilometri dal fronte, il generale ci mostra un villaggio arabo sunnita e con un pizzico di
rancore esclama: “Lo vedi quel villaggio lì? Per liberarlo le truppe peshmerga hanno
combattuto non solo contro Daesh, ma anche contro la popolazione araba sunnita locale.
Alcuni dei nostri uomini migliori sono morti a causa loro”.
A questa affermazione gli uomini della nostra scorta, circa una quindicina di peshmerga
curdi, annuiscono facendo trapelare il dispiacere e la rabbia per la morte dei propri
compagni. Questo status di rancore o diffidenza nei confronti degli arabi, in particolare
sunniti, lo percepiamo anche durante le nostre camminate nella città di Erbil. Invano ho
cercato di comunicare in quell’arabo appreso all’università e nei miei soggiorni in Medio
Oriente e Nord Africa con i commercianti o le persone del posto i quali, forse per il mio
aspetto “arabeggiante” contraddistinto da una barba incolta, spesso hanno preferito non
rivolgermi la parola. Eppure siamo nella Regione Autonoma del Kurdistan che,
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teoricamente, fa parte dello Stato iracheno e quindi l’arabo dovrebbe essere conosciuto
almeno come lingua ufficiale.
Questo clima di paura e tensione non è nuovo nel Kurdistan ed in generale in Iraq. Atu
Zibari ci aveva spiegato come molti dei suoi uomini erano morti per gli attacchi esplosivi
suicida condotti dallo Stato Islamico contro le sue forze peshmerga al fronte; “Non è una
strategia offensiva! È solo la volontà di ricordarci che Daesh c’è e la minaccia incombe su
di noi ogni giorno. Non possiamo dormire sonni tranquilli!”. È vero lo Stato Islamico c’è
ma non appare più così forte come nel 2014. “Le forze peshmerga hanno lottato ed ora
controllano un confine lungo 1050 chilometri che arriva fino a Sinjar” ci dichiara con
soddisfazione il generale Hezar Umar Ismael, direttore del Dipartimento delle Relazioni
e Coordinazione del ministero dei Peshmerga. “Oramai Daesh è sulla difensiva e noi
riusciamo a controllare e difendere i nostri confini. Se vogliamo però sconfiggere
definitivamente questa minaccia abbiamo bisogno di più aiuti ed armi. Abbiamo 1.7
milioni di profughi e rifugiati ma non riceviamo abbastanza dalla Comunità
Internazionale. Mi dica lei perché invece la Turchia ha ottenuto dall’Unione Europea 3,5
miliardi di euro?”. A questa domanda io ed i miei colleghi ci troviamo spiazzati.
Alla fine tutta questa guerra, questo clima di terrore, rientrano nei giochi politici ed
economici che coinvolgono la regione Medio Orientale da secoli e che vedono troppi
interessi e poche soluzioni. Gli stessi interessi però che molto probabilmente porteranno
ad un conflitto tra Erbil e Baghdad se la comunità internazionale non agisce in tempo. Con
il generale Kirkuki siamo sull’altura di Qarrah, prima linea del fronte dei peshmerga nel
settore di Kirkuk che dal confine turco si snoda ben oltre il Kurdistan iracheno, fin dove
iniziano le linee dei militari di Baghdad.
Il panorama è mozzafiato, le linee del Daesh si seguono con lo sguardo per chilometri. In
lontananza, intanto, si odono colpi di cannone. Siamo arrivati al fronte schivando
tubature e pozzi di petrolio. Sul piccolo altipiano i peshmerga escono dalle postazioni e
dalle trincee per salutare il loro generale che ci precisa: “Siamo pronti a difendere questi
territori conquistati a costo della nostra vita se la diplomazia internazionale non dovesse
funzionare”. La fotografia è chiara, da lì si capisce tutto: jihad e Corano non c’entrano
pressoché nulla: si tratta di controllare le aree del petrolio, essenziali per lo Stato
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Islamico, per lo Stato iracheno e per il futuro Stato curdo, almeno così sperano nella
regione di Erbil.
Ma sono loro, i peshmerga curdi, ad aver fermato nel 2014 l’esondazione in Iraq del
Daesh, mentre interi reparti di militari iracheni fuggivano a piedi e i villaggi
semplicemente venivano presi, uno a uno, dallo Stato Islamico. Che è appunto uno Stato,
con una sua struttura che ha assorbito funzionari, militari e imprenditori ex simpatizzanti
o militanti del partito Baath di Saddam Hussein messi da parte con la caduta del rais.
Quando alla sera rientriamo ad Erbil tiriamo un sospiro di sollievo. È andata bene, siamo
ancora intatti e ci possiamo dedicare ai colori di una città vivace e fatta di gente ospitale.
La via vicina all’albergo dove alloggiavamo, è un continuo di bancarelle, lustrascarpe e
polli allo spiedo cotti in strada in un brulichio di uomini - solo uomini – che si spostano
solo per lasciare passare le auto per poi riappropriarsi degli spazi. Salta la corrente
elettrica, accade più volte nella giornata per via delle molte (forse tutte) derivazioni
clandestine.
Si accendono i generatori di cui è dotata ogni casa, ogni albergo e ogni commerciante,
mentre improvvisamente si viene avvolti dal frastuono dei motori e dai gas di scarico.
Anche lì si fa di ogni necessità virtù: gli uomini sugli autobus per gli uomini, le donne sugli
autobus per le donne, la preghiera dai minareti ma al tempo stesso sul palmare
l’applicazione Grindr, specifica per incontri gay, scoppia. In pochi secondi si aprono
quattro chat, salvo il fatto che nessuno degli astanti, ovviamente, sia così coraggioso o
sfrontato fino a mettere la foto del proprio viso. Nei ristoranti si mangia carne a volontà
e verdura, anche se olio, aceto e sale sono elementi sconosciuti. Ma ci si adatta. L’area di
Erbil, infatti, di questi tempi non è terra per turisti, nemmeno estremi, per quanto già la
Cittadella da sola con la sua storia, le sue torri e le mura ciclopiche meriti da sola il viaggio.
Oggi è patrimonio Unesco ma è in fase di restauro e i soldi mancano.
Per gli alcolici scoviamo un negozietto non distante dal nostro albergo, pochi metri quadri
e tante bottiglie da ogni dove. È un continuo viavai di uomini che escono con le bottiglie
in piccoli sacchi neri, discreti.
Nell’area specifica notiamo più taxi che all’aeroporto. La crisi economica che avvolge il
Kurdistan iracheno è delle peggiori. Centinaia di chilometri di frontiera, una moltitudine
di profughi da gestire e il crollo del prezzo del petrolio stanno esercitando una pressione
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enorme, per quanto ancora le fondamenta resistano. Al Board Investment ci dicono di
quali investimenti avrebbero bisogno e che verrebbero favoriti con dieci anni di
esenzione dai dazi, come l’industria della pasta e dell’olio. Sperano molto negli investitori
italiani per le capacità di produrre quantità e qualità.
I profughi sono invece nei campi, ce ne sono diversi a qualche decina di chilometri da
Erbil, nel nord del paese e ad est. Visitiamo quello di Qushtapa, dove tra le tende e le
baracche corrono bambini perlopiù siriani. Un uomo di Kobane ci tiene a raccontare la
sua storia. È stato costretto a fare le valige in fretta, a prendere moglie e bambini e a
scappare, perché stavano arrivando quelli del Daesh. “Sono stati i miliziani del Ypg
(partito curdo-siriano) a farci arrivare in Turchia, ma lì non ci trovavamo bene, perché
sentivamo l’ostilità dei turchi nei confronti di noi curdo-siriani. Per questo siamo entrati
in Kurdistan da nord, ma i campi profughi di Dohuk erano colmi, per cui ci hanno portati
qui. È un dramma nel dramma, perché oltre a non avere più niente, essendo rifugiati non
abbiamo il permesso di lavorare”.
“Qui sono ospitate 6.500 persone – ci spiega il direttore del campo, Sirwad Abed -. 1.800
famiglie, con poca acqua, insufficiente corrente elettrica e scarsità di medicine. Sono quasi
tutte di fede musulmana, perché i cristiani sono passati di qui ma poi sono partiti per
l’Europa”. L’UNHCR c’è, ma tutto il resto grava sulle magre casse della Regione autonoma.
Giustamente il generale Hezar Umar Ismael ci fa notare che “l’Unione Europea dà tre
miliardi alla Turchia per tenersi i profughi, a noi neanche un quattrino, ed abbiamo la
stessa emergenza”. Vien da chiedersi se non è il caso di lavorare alla fonte, cioè rendere
vivibili i campi e creare il lavoro, invece che assistere allo spettacolo di chi annega in mare
e dei burocrati che non sanno come modellare Schengen alle nuove emergenze.
Torniamo in prima linea, questa volta più a nord, nella zona di Khazer. Neppure il vento
trova il coraggio di soffiare tra la linea dei peshmerga e quelle del Daesh. Il fossato e il
campo minato che separano le due posizioni sono avvolti da un silenzio surreale. Al
settore 7.1 siamo arrivati passando per strade impervie e ponti distrutti. “Siamo a 18
chilometri da centro di Mosul - ci spiega il generale Atu Zibari. Qui siamo arrivati
combattendo, sono territori presi al Daesh. Ma è stato difficile, perché le popolazioni dei
villaggi sunniti si sono unite all’Isis, combattono con loro, com’è accaduto al villaggio di
Hassan Shami, dove sul terreno sono rimasti un centinaio di abitanti che avevano
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imbracciato le armi per fermare la nostra avanzata”. “Ci stiamo preparando per attaccare
Mosul, ma anche lì la popolazione si è unita al Daesh: erano solo trecento i miliziani
entrati nella città di un milione e mezzo di abitanti, che oggi è una roccaforte di Abu Bakr
al-Baghdadi”. “Tenete giù la testa – ci intima un miliziano armato di kalashnikov e con gli
scarponi sprofondati nel fango - se vedono che ci sono giornalisti stranieri quelli
sparano”. Parliamo piano, ci muoviamo lentamente. Perché “quelli” sono i jihadisti,
rannicchiati anche loro dietro i sacchi di sabbia ben nascosti. In lontananza è issata la
bandiera nera.
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Interviste e foto dal Kurdistan Iracheno
Interviste e foto realizzate dal team di ASRIE Associazione e di Notizie Geopolitiche
durante la missione organizzata nel febbraio 2016 nel Kurdistan iracheno. Per maggiori
informazioni è possibile consultare la pagina Viaggio Kurdistan Iracheno febbraio 2016
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Verso il fronte a bordo del pickup con i soldati peshmerga
Avamposto peshmerga
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A pochi passi dal fronte di Khazer
I soldati peshmerga salutano il Generale Atu Zibari e la sua scorta
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Immagine della linea che separa le forze peshmerga e lo Stato Islamico
Enrico Oliari fotografa il fronte dalla postazione di difesa peshmerga
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Struttura di difesa al fronte
Veduta di Erbil dalla Cittadella
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Bandiera del Kurdistan all'interno della Cittadella
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Vista di Erbil
Il Bazar di Erbil, vero motore economico e commerciale cittadino
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Ingresso della Cittadella di Erbil, (sito archeologico patrimonio dell'Unesco)
Moschea di fronte alla Cittadella di Erbil
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Campo di Qushtapa vicino ad Erbil
Vita interna del campo
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Sulla destra un piccolo esercizio commerciale nel campo di Qushtapa
Crisi umanitaria e politica: una bandiera di partito nel campo di Qushtapa
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Bambini giocano nel campo di Qushtapa
Campo di Qushtapa, area dei curdi siriani
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Una scuola all'interno del campo
Vita notturna di Erbil
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Erbil avvolta da una nube di vento e sabbia
La linea elettrica di Erbil
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Linea elettrica e gruppo elettrogeno di un albergo di Erbil
Insieme a Kemal Kirkuki al fronte sulle alture di Qarrah
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Ehsan Soltani cammina insieme a Kemal Kirkuki e la sua scorta
Enrico Oliari e Giuliano Bifolchi insieme ai peshmerga al fronte nella zona di Qarrah
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Karaman Mufti: “È ora che l’Italia investa nel Kurdistan”
di Giuliano Bifolchi (marzo 2016)
Quando parliamo della Regione Autonoma del Kurdistan o del Kurdistan iracheno
abbiamo l’immagine di un paese in completo conflitto dove sicurezza e stabilità sono i
primi elementi a mancare. Il viaggio effettuato da ASRIE Associazione e da Notizie
Geopolitiche ha invece permesso di evidenziare gli aspetti positivi di una regione, quella
curda, che può essere considerata relativamente sicura grazie all’azione delle forze
peshmerga, le quali controllano un confine lungo più di mille chilometri, e che sta
realmente cercando di avviare un processo di sviluppo economico nazionale.
In uno dei nostri ultimi giorni ad Erbil abbiamo incontrato Kamaran Mufti, direttore
generale della promozione, valutazione e licenze del Kurdistan Board of Investment
(KBI), il quale ci ha illustrato quali sono le potenzialità della regione ed in che modo una
compagnia straniera, in special modo italiana, possa entrare nel mercato nazionale.
“Dal 2006 a fine 2015 – ha dichiarato Mufti – nel Kurdistan sono stati investiti 6,351
miliardi di dollari per un totale di 48 progetti finanziati da investitori esteri. Tra i paesi
leader negli investimenti stranieri (FDIs) figurano gli Emirati Arabi Uniti con un totale di
3,314 miliardi di dollari (il 52,18% del totale degli investimenti), a cui fanno seguito
Turchia, Libano, Regno Unito e Svizzera. È per noi importante poter attrarre investitori
stranieri e crediamo sia giunto il momento che l’Italia investa nel Kurdistan”.
Analizzando infatti i dati presentati dal KBI (vedere tabella) si evince come l’Italia non
abbia ancora preso parte al processo di sviluppo curdo sebbene all’interno del paese sia
presente dal punto di vista militare con soldati impegnati nelle attività di addestramento
e, dopo la firma della compagnia Trevi per il restauro della diga di Mosul, con forze
militari in attività di sicurezza e difesa.
Paese
Capitale in
Numero progetti
dollari
Emirati Arabi
% investimenti per
capitale
3.314.216.000
3
52.18
1.133.405.340
17
17.84
Uniti
Turchia
29
Libano
995.136.871
8
15.67
Regno Unito
214.403.975
3
3.38
Svizzera
158.665.762
1
2.50
Egitto
150.000.000
1
2.36
Nuova Zelanda
139.389.850
2
2.19
Stati Uniti
115.822.925
4
1.82
Germania
81.205.712
3
1.28
Iran
25.440.802
2
0.40
Svezia
13.500.000
1
0.21
Libano/Francia
7.082.207
1
0.11
Russia
2.505.670
1
0.04
Georgia
600.000
1
0.01
TOTALE
6.351.675.114
48
100
Ad eccezione dei settori del petrolio e del gas naturale, la Legge degli Investimenti N.4
del 2006 riguarda tutti gli altri settori. In base a tale disposizione legislativa viene
affermato che:
“L’investitore straniero ed il capitale straniero verranno trattati come gli
investitori ed il capitale nazionale. L’investitore straniero avrà il diritto di
possedere l’intero capitale di ogni progetto che ha stabilito nella regione
tramite la legge degli investimenti. Il progetto sarà esentato da tutte le
tasse doganali per un periodo di 10 anni a partire dalla data in cui il
progetto ha iniziato ad offrire servizi o dal giorno della reale produzione.”
Inoltre si apprende dalla legge che il KBI può fornire ulteriori incentivi a quei progetti di
investimento che sono stati approvati con licenza dal 1 agosto 2006 al 21 settembre 2015
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nella provincia di Duhok (195), Sulaimaniya (203) ed Erbil (333) per un totale di 731
progetti ed un ammontare complessivo di 42,584 miliardi di dollari da investire nei
settori agricoltura, arte, banche, comunicazioni, educazione, salute, costruzioni, industria,
servizi, sport, turismo, trasporti e commercio.
Nello specifico, nel settore agricolo il maggiore interesse è dato alla produzione primaria
e all’industria agroalimentare; nel settore industriale grande attenzione è data alla
produzione alimentare e di bevande, ai prodotti cartacei, chimici, derivati della plastica,
minerali non ferrosi, mobili, pelle e relativi prodotti.
Importante anche il turismo con progetti che prevedono la realizzazione di alberghi,
resorts, residence, parchi giochi, villaggi turistici ed uno zoo. A questi settori si vanno
aggiungere poi quelli della salute e benessere (ospedali, cliniche private, materiale ed
equipaggiamento medico), quello scolastico (realizzazione di infrastrutture per scuole ed
università, erogazione di corsi di aggiornamento), quello bancario con una forte necessità
per lo sviluppo di un network di banche internazionali ed infine quello dei trasporti e
delle comunicazioni con la priorità data a ponti, tunnel, dighe ed autostrade.
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Il Kurdistan dei campi profughi. Di chi ha il passato ma non
ha il presente
di Enrico Oliari (marzo 2016)
Qushtapa sorge poco distante da Erbil, capitale del Kurdistan iracheno. È un campo
profughi come ce ne sono tanti altri, sorto in mezzo al nulla, dove il dramma umano
sprofonda nel fango e nella miseria, trascinando con sé il passato e il futuro di intere
famiglie fuggite ad una guerra che subiscono e che non comprendono.
Sono molti i campi di questo genere nel Kurdistan, ed anche qui, a una manciata di
chilometri dal fronte dell’Isis, negli occhi dei molti bambini che corrono la novità di una
telecamera si legge la voglia di divertirsi, di respirare la vita. Non la rassegnazione, quello
è un lusso riservato ai grandi.
“La maggioranza dei rifugiati provengono da Qamshili, Diralok e Hassaka, in Siria”, ci
spiega il direttore del campo Sirwan Abed. “Qui ci sono 6.500 persone, 1.800 famiglie, da
gestire con i problemi cronici del limitato accesso all’acqua e dell’assistenza sanitaria.
Come sempre, all’inizio dell’emergenza piovono risorse e organizzazioni di aiuto, che poi
svaniscono, mentre i rifugiati continuano ad esserci ed a venirne altri”.
Quello dei rifugiati è uno dei fattori che pesano in modo serio sull’economia della Regione
autonoma del Kurdistan iracheno, insieme al crollo del prezzo del petrolio e alla guerra
all’Isis, che comporta un fronte lungo oltre mille chilometri.
Erbil cerca fra mille difficoltà di far giungere ai campi energia, acqua e servizi, ma è palese
che l’aiuto esterno è del tutto carente e che i governi, anche quelli europei, sentono il
dramma dei rifugiati solo quando i flussi migratori arrivano, non quando partono.
“All’inizio vi erano siriani di religione cristiana, ma poi, trovandosi in una realtà a
maggioranza islamica, hanno lasciato la struttura”, spiega Abed. “Il problema – continua
– presenta anche un aspetto burocratico: il Kurdistan rilascia un certo numero di
permessi di 15 giorni per visite a parenti o per esami sanitari, ma una volta entrati i
migranti giungono qui per farsi registrare come rifugiati; con una tal qualifica rientrano
nella protezione umanitaria, ma non possono lavorare, per cui giovani e adulti si trovano
qui disoccupati, senza sapere cosa ne sarà di loro. Vi è gente che parte per l’Europa, gente
che arriva, ogni giorno”.
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Gente con il proprio passato, gente senza il presente. “Sono dovuto fuggire con la mia
famiglia da Kobane – ci racconta Hekmat, uomo ben piantato sulla quarantina -. Prima i
curdo-siriani del Ypg ci hanno portati in Turchia, ma, trovando un clima ostile, ci siamo
diretti verso il Kurdistan. Siamo giunti al campo di Dohuk, che però era alla sua capienza
massima, quindi ci hanno portati qui. A Kobane ero un agricoltore, ora non ho più niente,
non so nulla della mia casa”.
Dalle tende c’è chi fa capolino, uomini fumano all’ombra delle lamiere, donne avvolte nei
veli lavano le stoviglie sotto un filo d’acqua. Una ragazza incinta cammina tenendo per
mano il figlio piccolo. I piedi affondano nel fango di Qushtapa.
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Kurdistan: la guerra che c’è. E quella che ci sarà
di Enrico Oliari (febbraio 2016)
ALTURA DI QARRAH – La via che porta all’avamposto dei peshmerga sulla montagna che
domina la vallata del Daesh, è tortuosa e piena di curve secche, come lo è la storia, il
presente e – cerchiamo di essere realisti – l’immediato avvenire del popolo curdo.
Kemal Kirkuki lo incontro con il mio team di Notizie Geopolitiche nel suo ufficio in zona
di guerra. È il capo delle pubbliche relazioni del Partito democratico, in una realtà dove
le formazioni politiche sono le istituzioni: ha la divisa dei peshmerga, ma non ha i gradi,
perchè lì conta più di un generale. Anzi, è “il generale”. E comanda il “Settore 5” della zona
strategica di Kirkuk.
L’intervista è chiara, risponde con delicatezza ma con lucida determinazione alle molte
domande, ha sul corpo i segni della guerra. Ma è sul fuoristrada, dove ci separano due
kalasnikov messi lì come se fossero due passeggeri, a farmi capire come stanno le cose.
Tutto si riassume in una parola magica: petrolio. Che, nero finché si vuole, è sempre oro,
e come tale tutti cercano di metterci sopra le mani.
Anche il Daesh, al netto dei molti slogan, della dialettica jihadista e del terrorismo, non è
altro che uno “stato” che cerca di avere il suo petrolio, tanto che i combattimenti più duri
sono stati nella regione di Mosul e di Kirkuk, dove le strutture dei pozzi sostituiscono nel
paesaggio infinito gli alberi che il deserto non offre.
“Dove ci troviamo ora – mi spiega – fino al 2014 c’era il Daesh. Abbiamo preso questa
zona combattendo, e non la molleremo per nessun motivo”.
Beh, per nessun motivo… La regione di Kirkuk non è in Kurdistan, è in pieno Iraq.
“Kirkuk è sempre stata abitata dai curdi, deportati come i turcomanni da Saddam Hussein
per sostituire la popolazione con gli arabi. E siamo noi peshmerga ad aver lottato e sparso
sangue per liberarla dal Daesh. E ce la terremo per il nostro Kurdistan indipendente, a
costo di fare un’altra guerra”.
Un’altra guerra contro chi?
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“Agli iracheni non cediamo questa terra. Se non funzionerà la diplomazia, combatteremo
come abbiamo combattuto fino ad oggi”.
Forse è per questo che Baghdad non vi consegna tutte le armi e gli equipaggiamenti
destinati a voi dalla coalizione anti-Daesh. Non crede?
“Qui in prima linea non arriva ciò che ci manda la coalizione, ma siamo stati noi, non gli
iracheni, a fermare l’Isis. E continueremo a combatterlo, ma abbiamo bisogno di armi, di
equipaggiamenti e soprattutto di fondi. Baghdad non sta facendo un gioco pulito, ma
faccio notare l’esercito iracheno si è praticamente dissolto davanti all’avanzata dei
jihadisti, persino dandosela letteralmente a gambe e lasciando le auto con le chiavi nel
quadro. Io ho detto alla coalizione che non accetterò neanche un proiettile che sia passato
per Baghdad, perchè già in passato Usa e Nato hanno dato armi agli iracheni, e sono finite
nelle mani del Daesh, non a noi”.
Perchè il Daesh è tanto forte? Immagino che abbia risucchiato la nomenclatura di
Saddam Hussein, resa disoccupata dagli americani…
“In realtà le popolazioni delle città e dei villaggi arabi sunniti si sono unite al Daesh. A
Mosul sono entrati 300 jihadisti, del tutto insufficienti per prendere il controllo di una
città di tali dimensioni. Qui nella zona i villaggi arabi sunniti, anche quelli che abbiamo
conquistato, si sono schierati col Daesh. Ed in quelli curdi abbiamo arrestato dei
collaborazionisti. Ma non si dica che noi commettiamo barbarie o che facciamo giustizia
sommaria: tra quattro mesi riprenderemo l’avanzata e valuteremo chi sarà da processare,
non da passare per le armi”.
Ci sono organizzazioni internazionali che vi accusano di eliminazioni etniche.
Pensava a questo?
“Sono cose inventate, prive di fondamento. D’altronde vi sono organizzazioni, come la
Croce Rossa, con cui non vorrò avere rapporti fino a quando si rifiuteranno di definire il
Daesh un’organizzazione terroristica, parlando semplicemente di “opposizione armata”.
Con lui arrivo all’avamposto dei pesmerga, sull’altura di Qarrah, che domina una vallata,
un panorama mozzafiato a 360 gradi. È un tripudio di peshmerga, che accorrono per il
loro “generale”, già ferito in battaglia e che soprattuto li ha portati fino lì e che li porterà
oltre.
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Sotto un silenzio che tradisce, qualche rimbombo di artiglieria leggera a distanza. Terra
del Daesh. E forse di un’altra, prossima, guerra.
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Crisi e guerra all’ISIS non spengono Erbil. Intervista al
Governatore Nawzad Hadi
a cura di Enrico Oliari, Giuliano Bifolchi, Ehsan Soltani (febbraio 2016)
ERBIL (Iraq). Il governatorato di Erbil si trova poco distante dalla Cittadella, sito
archeologico divenuto patrimonio dell’Unesco nel 2014. A notte inoltrata – prova di un
certo stakanovismo – il governatore della regione di Erbil, Nawzad Hadi, ha ricevuto il
team di Notizie Geopolitiche e di ASRIE in un ambiente cordiale, prova dell’alto
sentimento di ospilità che i curdi sanno offrire.
Con tranquillità il governatore ha affrontato la complessa situazione della capitale del
Kurdistan iracheno ed in generale dell’area da lui amministrata, approfondendo l’aspetto
economico ed evidenziando come le continue sfide nel campo dell’assistenza umanitaria
e della sicurezza rappresentino un significativo problema per il governatorato.
“Ovviamente lo Stato Islamico – ha spiegato Hadi – è uno dei nostri maggiori problemi
visto che le forze militari dei peshmerga sono attualmente impegnate su una linea di
frontiera lunga più di mille chilometri, che corre a poca distanza da qui. A questo
aggiungerei la componente economica dovuta ad un taglio del budget del Kurdistan
operato da circa due anni dal Governo di Baghdad, che ha lasciato la nostra regione sola
ad affrontare la minaccia terroristica e la crisi umanitaria”.
Che impatto ha la crisi dei profughi sulla vostra regione?
“In merito alla crisi umanitaria ed al problema sociale devo fare notare come Erbil abbia
attualmente un milione e mezzo di profughi iracheni e 120 mila rifugiati siriani, un
numero molto alto che sta incidendo sulla città e sulla popolazione locale. Infatti queste
persone necessitano di servizi quali acqua, cibo, assistenza sanitaria, un luogo dove stare,
tutte cose fornite dal nostro governo e che ricadono economicamente sulle nostre casse.
Tra i profughi ed i rifugiati si contano sunniti, sciiti, cristiani, yazidi, curdi, arabi i quali
continuano a caratterizzare la città di Erbil ed in generale il Kurdistan come una regione
multietnica e multi religiosa, che necessità però di un grande supporto internazionale per
non implodere in una crisi sociale ed umanitaria”.
La guerra è vicina: Erbil è sicura?
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“Il lavoro dei peshmerga è ottimo e grazie al supporto della nostra agenzia di intelligence
attualmente la città di Erbil si deve considerare sicura. Ovviamente anche noi abbiamo i
nostri problemi: una situazione che vorrei mettere in risalto è il difficile rapporto tra il
PKK e la Turchia, come pure i continui scontri al confine curdo che minacciano la stabilità
della regione. È di questi giorni la notizia dell’attacco ad un oleodotto turco-curdo, azione
mirata a minare i rapporti tra Erbil ed Ankara ed anche a danneggiare la nostra economia.
Come governatore di Erbil ed anche rappresentante del Kurdistan devo inoltre
ringraziare la comunità internazionale per il continuo supporto alle nostre forze e la
nostra battaglia contro lo Stato Islamico; devo tuttavia dire che il paese ha bisogno di un
maggior numero di aiuti, in special modo finanziari, per poter far fronte alla crisi
economia attuale, e militari, per poter equipaggiare i nostri soldati fornendo loro un
training adeguato per affrontare una guerra senza quartiere, come quella contro i
terroristi del Daesh”.
Si parla di una prossima liberazione di Mosul: che impatto potrebbe avere su Erbil?
“Attualmente il governo di Erbil, insieme alla comunità internazionale, sta pianificando la
riconquista di Mosul, città dove l’economia è completamente collassata a causa dello Stato
Islamico. Tale liberazione potrebbe produrre più di 800 mila profughi, la maggior parte
arabi sunniti, i quali verranno distribuiti principalmente tra Erbil e Dohuq, grazie anche
alla cooperazione che stiamo avviando con le Nazioni Unite per essere pronti ed
affrontare al meglio un problema umanitario di tale portata”.
Il basso costo del petrolio ha accentuato ulteriormente la crisi. In che modo il,paese
potrebbe uscire da una tal empasse, fatta anche di profughi, guerra in corso e non
semore ottimimrapporti con Baghdad?
“Diffusamente vengono sommati i concetti di Kurdistan e petrolio, ma non molti sanno
che il nostro paese dispone anche di gas naturale: proprio in questo settore stiamo
valutando la possibilità di realizzare una pipeline con la Turchia per raggiungere anche il
mercato europeo.
Purtropo la crisi economica ha fatto registrare una battuta di arresto nel settore delle
costruzioni e per ovviare a questo problema il nostro governo sta cercando di stringere
accordi per ripagare le compagnie che hanno iniziato a lavorare in loco. Già il prossimo
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mese a Ankara verrà firmato l’accordo che permetterebbe il pagamento delle compagnie
edili tramite le banche turche, le quali verranno poi rimborsate dai proventi del petrolio
e del gas esportati nel paese. Questo esempio dimostra come noi abbiamo bisogno di un
sistema finanziario e bancario forte, in grado di supportare i nostri progetti e le
compagnie che vi prendono parte.
Permettetemi di concludere ponendo l’attenzione sull’aspetto culturale e storico di Erbil,
città patrimonio dell’UNESCO e considerata tra le più antiche al mondo. Invito tutti a
venire qui, a godere della nostra ospitalità e a visitare la cittadella, vero capolavoro
architettonico oggi in fase di restauro grazie anche all’apporto di compagnie straniere,
tra cui italiane”.
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Lo slancio del Kurdistan iracheno verso l’emancipazione.
Intervista a Nazhad Adid Surme
a cura di Enrico Oliari e Ehsan Soltani (febbraio 2016)
ERBIL (Iraq) – Dalle persecuzioni di Saddam Hussein al muro eretto per fermare i
jihadisti dello Stato Islamico: l’evoluzione del Kurdistan è la corsa ad ostacoli di un popolo
che vuole, che pretende la propria emancipazione in un quadro geopolitico difficile, dove
la guerra, la crisi economica e la gestione dei molti profughi rendono il futuro, se non
incerto, quanto meno imprevedibile.
Eppure c’è chi ha lottato e lotta per andare avanti: Nazhad Aziz Surme ha alle spalle una
storia fatta di penna e di passione politica iniziata a 14 anni, quando giovanissimo parlava
ad una radio allora clandestina, di opposizione al regime Baath. “Si tratta della prima
radio clandestina del Medio Oriente – ci racconta –, nata nel 1963 con lo scopo di dare
voce alla lotta contro il regime. Nel 1974 vi è stata la seconda rivolta dei curdi guidata da
Mustafà Barzani per l’autonomia della regione e la radio ha svolto un ruolo
fondamentale”.
Surme, che è archeologo, scrittore, poeta e traduttore, è stato direttore del principale
quotidiano della regione, Khabat, e deputato per più legislature. La sua testimonianza è
qualcosa di più di un semplice percorso di vita: è una finestra tra passato e presente che
aiuta a comprendere le vicessitudini di questo angolo di mondo. Ci racconta che “Saddam
Hussein aveva programmato di annientare il popolo curdo, tanto che vennero distrutti
ben 8mila villaggi e deportati oltre 180mila individui al confine fra l’Iraq e l’Arabia
Saudita, della maggior parte dei quali non si è più saputo nulla. Sono state impiegate le
armi chimiche, contro i curdi. Chi era all’opposizione veniva arrestato o messo a tacere,
ed anch’io sono stato in carcere, a Baghdad. Per cui la caduta di Saddam Hussein è stata
per noi una liberazione, e negli anni Novanta è stata creata la Regione autonoma del
Kurdistan irq. con la linea di demarcazione al 36mo parallelo, per proteggere il popolo
curdo. Da allora ho preso parte all’avvio di un’informazione libera e valida, utile a
comunicare con l’estero”.
Eppure è stato il Partito Democratico curdo a ricorrere a Saddam Hussein per prendere
il controllo di Erbil nella lotta contro il Partito Patriottico curdo…
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“Allora vi era la guerra civile interna fra il Partito Democratico, con base ad Erbil, e il
Partito Patriottico di Sulaymanyya. È vero, è stato chiesto aiuto a Saddam Hussein per
riprendere il controllo di Erbil, ma questa è una ferita aperta, una pagina brutta della
nostra storia”.
Com’è finita?
“Anche grazie all’intervento da fuori, in particolare alla mediazione di Francia e dell’allora
segretario Usa Madeleine Allbright, si è riavviato il dialogo e si è giunti alla pace, la quale
è alla base di tutto”.
Come vede la situazione di oggi e come immagina quella di domani per il Kurdistan
iracheno?
“In questo momento soffriamo, come nel resto del mondo, la crisi economica. I villaggi
distrutti da Saddam Hussein erano entità produttive, oggi il prezzo del petrolio, nostra
prima risorsa, è crollato, vi è la guerra, vi sono i profughi da gestire… nonostante tutto,
nonostante la situazione in cui si trova Baghdad, il Kurdistan è rimasto in piedi”.
Vi è tuttavia una crisi politica, che vede il Parlamento sostanzialmente fermo da
ottobre e il governo addirittura da settembre, poi la questione inerente la
presidenza, con il mandato di Masud Barzani procrastinato ben oltre la scadenza
di agosto, anche perché i partiti non hanno trovato un accordo…
“Oggi c’è l’Isis e certamente vi sono state influenze straniere per destabilizzare la regione:
una questione come la presidenza passa in secondo piano per la gente che aspetta lo
stipendio da quattro mesi”.
E per l’indipendenza?
“Si tratta di un nostro diritto, se non l’otteniamo oggi, la otterremo domani. Nostro
compito è preparare il terreno, per gli obiettivi futuri”.
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I curdi che prenderanno Mosul. A tu per tu con il generale Atu
Zibari
a cura di Enrico Oliari e Ehsan Soltani
KAZHER – Il settore 7.1 non è situato nel deserto arido. È più a nord, dove l’infinito
tappeto di erba ha come soluzione di continuità il fossato che per chilometri rappresenta
la linea difensiva dei peshmerga contro l’Isis.
Le posizioni dei combattenti curdi sono oggi sui terreni conquistati, e le linee corrono a
soli 18 chilometri dal centro di Mosul.
“Se i jihadisti sanno che ci sono qui giornalisti italiani, sparano, certamente per
guadagnare la cronaca”, spiega a Notizie Geopolitiche un ufficiale dei peshmerga, mentre
dalla feritoia dell’avamposto ci mostra dove si trova l’Isis. È lì, poco oltre i sacchi di sabbia
sul quale siamo appoggiati: una rete, il fossato, un campo minato e poi loro, “quelli
dell’Isis”.
Il silenzio rende quel fazzoletto di terra che separa le due linee ancora più agghiacciante,
gli scarponi sono appesantiti dal fango e dagli uomini da per giorni non riposano e non
vedono le famiglie. Stanno lì, in una calma apparente ma che può tradire.
“Anche perché – ci spiega il generale di brigata Atu Zibari – l’Isis si è molto indebolito ed
al momento non è in grado di riprendere queste zone. Questo è comunque un settore
strategico, perché si trova sulla strada che collega Erbil con Mosul, le due principali città
dell’area”.
O collegava: il ponte di Hadith, sul Nahr el-Khazir, è stato distrutto dall’Isis per fermare
l’avanzata dei curdi, ora vi è una struttura provvisoria che noi abbiamo attraversato,
sufficiente per far transitare un atto alla volta.
“Il nostro settore – continua Zibari – copre oltre 40 chilometri di linea, comincia
dall’altura di Zardak, che abbiamo preso l’anno scorso con il supporto della coalizione
internazionale, e arriva fino villaggio di Vardak. Da questa posizione teniamo sotto
controllo i loro movimenti, ed in più occasioni hanno tentato di riprendere la zona di
Khazer, dove ci troviamo ora, ma li abbiamo respinti”.
Ma vi è un piano per prendere Mosul?
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“Sì, certo. Ma non è una cosa che i peshmerga possono fare da soli, c’è bisogno del
sostegno del governo centrale dell’Iraq e di un buon coordinamento delle forze sul campo.
Il problema semmai è determinato dalla miriade di villaggi, dove è difficile distinguere fra
chi sostiene l’Isis e chi no. Ad esempio, un villaggio presso il ponte di Hadith, che si chiama
Hassan Shami, è formato da una maggioranza islamico-sunnita, e la popolazione ha
combattuto contro di noi. Sono rimasti uccisi più di cento abitanti. Per questo temo che
Mosul sia difficile da riprendere”.
Servono più armi ed equipaggiamenti?
“Servono più armi, equipaggiamenti e soldi, dal momento che i combattenti curdi non
hanno ricevuto paga per quattro mesi ed a casa hanno le famiglie da mantenere. Consideri
che la difficile situazione economica della Regione autonoma preoccupa i peshmerga, che
sono qui al fronte e non a casa loro”.
Che scopo hanno i fossati che avete scavato lungo la linea?
“Se non arrivano con specifiche macchine da guerra, come carri armati pesanti, non
superano il fossato, fossero anche in più di mille. Di certo non passano i pick-up carichi di
esplosivi. Hanno anche costruito macchine per riempire i fossati ed avanzare, ma al
momento le abbiamo distrutte”.
Tuttavia c’è chi, come il governo centrale iracheno, vi accusa di aver segnato con
questi fossati, che partono da Rabiaa (al confine con la Turchia e la Siria) e arrivano
a Jalawla (nella provincia di Diyala, a ridosso dell’Iran), la linea del confine del
nuovo Kurdistan, che tra l’altro divide la provincia dell’al-Anbar…
“No, le cose non stanno così. Il lungo fossato ha uno scopo meramente difensivo, anche
perché noi contiamo di andare anche oltre. Due chilometri da qui, oltre il fossato, vi è il
villaggio a maggioranza curda di Moftiyah, che contiamo di liberare”.
Siamo a poca distanza da Ba’ashiqah, dove due mesi fa la Turchia ha mandato più
di 150 soldati con armamenti pesanti, ma che poi ha ritirato su richiesta di
Baghdad. Tuttavia giungono spesso notizie di sconfinamenti da parte dei militari
turchi. Che dice in proposito?
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“Nulla di strano: la Turchia è un paese membro della Nato e fa parte della coalizione
internazionale. La loro presenza presso la base di Ba’ashiqah rientrava nei piani per
conquistare Mosul”.
Collaborate anche con le forze popolari sciite Hashd al-Shabi?
“Fortunatamente nel nostro settore no, mentre vi sono alcuni reparti dell’esercito
iracheno. Entrambi abbiamo avuto perdite nei combattimenti congiunti”.
Vi sono poi le forze della mobilitazione nazionale sunnita Hashd al-Watani, le quali,
si dice, sarebbero aiutate dalla Turchia…
“Si tratta di abitanti arabi sunniti dell’al-Anbar, anche loro preparati ed addestrati per
prendere parte alla conquista di Mosul. Li guida Athil Najifi, ex presidente della provincia
di Mosul. Anche noi peshmerga, come i turchi e gli altri partecipanti della coalizione,
abbiamo provveduto ad addestrarli”.
Tuttavia in passato partecipavano al progetto panarabista di Saddam Hussein,
anche contro i curdi…
“Al momento non possiamo formulare dei giudizi: oggi noi pensiamo solo a eliminare la
minaccia dell’Isis e collaboriamo con tutti coloro che hanno questo medesimo scopo”.
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Il Generale peshmerga Hezar Umar Ismael, “3 miliardi alla
Turchia, ma da noi stessa emergenza”
a cura di Enrico Oliari, Ehsan Soltani e Giuliano Bifolchi (febbraio 2016)
ERBIL (Iraq) – Non si esaurisce l’energia dei peshmerga contro Daesh (noto in occidente
come ISIS), una linea di fuoco che dal Kurdistan iracheno si spinge verso ovest e che
indebolisce giorno dopo giorno il fronte della Bandiera nera. Un impegno sostenuto dai
raid e dagli addestramenti della coalizione internazionale a guida Usa, ma che per i
peshmerga ha significato la perdita fino ad oggi di più 1.400 combattenti, il ferimento di
altri 8 mila e 62 dispersi.
Quello dei peshmerga è stato – lo ricordiamo – il primo baluardo efficace nel contrastare
l’espansione dello Stato Islamico, e Notizie Geopolitiche ed ASRIE, in “missione
giornalistica” nel Kurdistan iracheno, ne hanno parlato con il generale Hezar Umar
Ismael, a capo del Dipartimento delle Relazioni e Coordinazione del ministero dei
Peshmerga, il quale ci ha detto che “Le forze dei peshmerga stanno combattendo il Daesh
lungo un confine di 1.050 chilometri che si estende da Khaneqin, nel sud dell’Iraq, fino ad
arrivare a Sinjar, in Siria.
La nostra lotta contro il Daesh è iniziata molti anni fa quando le forze guidate dal Abu
Bakr al-Baghdadi ebbero la meglio sulle truppe del governo di Baghdad a Mosul,
riuscendo a prendere possesso della città anche a fronte della disparità delle forze in
campo. Questa conquista da parte dei jihadisti dello Stato Islamico fu ancora, dal punto di
vista tattico, più prestigiosa perché cinque divisioni dell’esercito iracheno, fuggendo dalla
città, lasciarono l’equipaggiamento militare ed i veicoli dati loro in dotazione dalla NATO
e dalle forze internazionali, permettendo un notevole arricchimento del proprio
potenziale bellico. In aggiunta alle armi irachene, lo Stato Islamico entrò in possesso
anche di armamenti sul territorio siriano, come ad esempio quelli di fabbricazione russa.
Con a disposizione di un significante numero di armi, il Daesh era diventato una seria
minaccia per le nostre forze, le quali erano costrette ad affrontare le truppe di alBaghdadi in una situazione di netta disparità per potenza militare. Grazie al supporto
delle forze della coalizione internazionale, cioè ai raid aerei e l’invio di armi, le nostre
truppe sono tuttavia riuscite a difendere il paese e ad organizzare una controffensiva
verso lo Stato Islamico.
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Come risultato abbiamo fino ad oggi liberato città importanti dal punto di vista strategico
come Saaadiya, oppure dal punto di vista economico come Kirkuk, per i suoi pozzi
petroliferi, fino a raggiungere un totale di 28mila chilometri quadrati di territorio
sottratto al Daesh, ossia il 98% del totale territorio curdo.
Mentre in passato le nostre forze difendevano una popolazione di sei milioni e mezzo di
abitanti, oggi il nostro governo deve fronteggiare una situazione sociale a lungo
peggiorata a causa degli sfollati e dei rifugiati che hanno fatto lievitare il numero delle
persone sotto la nostra tutela e protezione superiore a dieci milioni. I rifugiati vengono
dalla Siria o dall’Iraq, sono sunniti, sciiti, curdi, yazidi: come potete vedere, non
difendiamo soltanto la popolazione curda ma anche le altre popolazioni e minoranze
etniche.
Questa lotta per il Kurdistan è stata e continua ad essere molto dura con un numero di
vittime tra le file dei peshmerga superiore ai 1.400, a cui si devono aggiungere più di
8mila feriti e 62 dispersi in azione; non avendo il Kurdistan un ospedale militare, i nostri
feriti vengono curati negli ospedali dei paesi stranieri, fatto che ha una forte conseguenza
dal punto di vista economico per il nostro paese.
Sfortunatamente per più di 18 mesi il governo di Baghdad ha bloccato i pagamenti con un
taglio del budget e da più di 4 mesi i nostri soldati sono senza stipendio, problema che
riguarda in generale tutti gli impiegati statali. Capite che la situazione si sta facendo
sempre più complicata con le forze dei peshmerga che necessitano di tali risorse per le
proprie famiglie.
Se guardiamo ai problemi derivati dal taglio del budget per circa 2 anni, dall’aumento
degli sfollati che ha prodotto l’apertura di numerosi campi di accoglienza, per i quali il
Kurdistan fornisce servizi come elettricità, acqua e cibo, supportati soltanto per il 18 %
dalla comunità internazionale, e dal calo del prezzo del petrolio, è possibile affermare che
la situazione all’interno della regione sta divenendo insostenibile.
Spiegatemi perché l’Unione Europea ha dato al governo della Turchia, paese ricco
e membro delle NATO, 3,2 miliardi di euro per supportarlo in tema di migranti e
rifugiati, i quali hanno raggiunto quota 2 milioni di persone, mentre al Kurdistan,
con un totale di 1,7 milioni di sfollati e rifugiati, non è stato dato opportuno aiuto
economico. Senza l’aiuto dell’Unione Europea e con il mancato supporto da parte del
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governo iracheno, ci ritroviamo a difendere da soli più di 10 milioni di persone su una
linea di più di mille chilometri; è giunto il tempo per il governo iracheno di rimediare ai
problemi da lui stesso generati negli ultimi anni e di effettuare una politica equilibrata e
mirata nella regione per evitare di ricadere negli errori del passato.
Pensiamo a Mosul, ad esempio, attuale capitale del Daesh in Iraq e vera e proprio
roccaforte con una maggioranza della popolazione sunnita a cui è possibile unire sciiti,
cristiani, curdi, yazidi: è importante liberare la città, ma la domanda che ci poniamo è cosa
accadrà dopo, chi dovrà governare ed in che modo il governo iracheno si comporterà nei
confronti delle minoranze e delle forze peshmerga che stanno combattendo pur senza
ricevere il supporto economico”.
Parlando dei problemi economici che hanno animato il Kurdistan negli ultimi mesi
e riguardato le forze dei peshmerga e gli impiegati statali, recentemente è apparsa
la notizia sui media internazionali nella quale veniva indicato che i peshmerga
avessero venduto le armi fornite dalla Germania al mercato nero. Può fornirci la
versione di Erbil e fare chiarezza su quanto circolato nel mondo dell’Informazione?
“Per prima cosa vorrei fare una precisazione e dire che il supporto della coalizione
internazionale, per quanto riguarda gli armamenti, è stato fondamentale ed ha permesso
di salvare numerose vite; paesi come l’Italia, gli Stati Uniti e la Germania hanno inviato le
armi alle nostre forze ma queste non sono sufficienti per far fronte a tutti i nostri
problemi, tra cui in particolare quelli economici, come ho enunciato prima.
Per quanto riguarda la notizia delle armi vendute, anche io l’ho appresa tramite i giornali
ed i media. Quello che posso dire è che l’accaduto è stato molto ingigantito e che il nostro
governo ha avviato un’indagine interna per stendere un rapporto da presentare alla
comunità internazionale.
Mi preme dire però che, vedendo le immagini pubblicate dai giornali, queste non
riportano il numero di serie che il nostro paese fornisce ad ogni singola arma che è stata
fornita dalla parte tedesca e questo mi permette di sollevare dubbi sulla fondatezza e
completa veridicità delle fonti”.
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In merito a Mosul, potrebbe dirci quale è l’attuale situazione nella regione, in
special modo pensando al prossimo impiego di 450 soldati italiani in
un’operazione di controllo e difesa della diga dove l’italiana Trevi opererà?
“All’inizio la situazione nella regione era molto pericolosa a causa della presenza dei
militanti dello Stato Islamico, ma grazie alle forze dei peshmerga molto è stato fatto per
rendere sicura la zona della diga attualmente sotto il nostro controllo. Per quanto
concerne la diga di Mosul, voglio sottolineare che esiste un ottimo rapporto di
coordinamento e di lavoro interforze tra l’Italia ed il Kurdistan.
Parlando della città e della sua liberazione, le forze curde stanno progettando una
riconquista completa insieme alle truppe irachene; al giorno d’oggi Daesh è meno forte
che in passato, ha meno combattenti, ma ancora di fonti economiche e di un arsenale
militare importante. È di questi giorni la notizia dell’utilizzo da parte dello Stato Islamico
di armi chimiche a Sinjar contro le nostre truppe, fatto che ha visto il ferimento di 176
peshmerga; anche in passato il Daesh ha utilizzato armi chimiche al cloro ed all’iprite a
dimostrazione di quanto sia elevata la sua pericolosità”.
Su chi ricadranno i costi dell’impiego dei militari italiani?
“Non ne sono certo, ma credo che a sostenere le spese sarà il governo italiano”.
Quali sono le relazioni tra le forze peshmerga ed il PKK ed in che modo queste
stanno collaborando nella lotta all’ISIS?
“I combattenti del PKK sono nostri fratelli come tutti i combattenti curdi, tra cui anche
YPG in Siria. Parlando ad esempio di Kobane, i combattenti curdi del YPG hanno chiesto
il nostro aiuto ed il governo di Erbil ha inviato i peshmerga permettendo la liberazione
della città.
Il Governo Regionale del Kurdistan è impegnato nella lotta contro il Daesh e, come dicevo
prima, sta affrontando numerosi problemi dal punto di vista economico, umanitario e
sociale. Abbiamo bisogno di sostegno e non di divisione ed auspichiamo anche che il
governo turco possa parlare con il PKK per evitare il procrastinarsi della lotta e dei
continui scontri”.
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Autori
Ehsan Soltani. Di nazionalità iraniana, si è formato nel settore della Sicurezza nazionale
e studi strategico-militari presso l’Università militare Imam Hussein di Tehran.
Collaboratore di diverse testate iraniane ed esperto di Medio Oriente (Iran, Turchia,
Qatar, Bahrain), è redattore di Notizie Geopolitiche fin dalla sua fondazione. Si occupa di
ricerca sul tema di estremisti e di al-Qaeda, coopera con gruppi Onu sui diritti umani in
Iran ed è impegnato presso l’Eurac (Accademia Europea di Bolzano / Bozen),
Dipartimento "Istituto sui Diritti delle Minoranze".
Enrico Oliari. L’interesse per la politica estera e la geopolitica lo ha portato a collaborare
con più testate; nel 2011 è tra i fondatori di Notizie Geopolitiche, di cui è attualmente
giornalista e direttore responsabile. Aree di maggiore interesse sono il Mondo arabo e il
fenomeno dei migranti-rifugiati Altre attività di impegno sono quella dei diritti civili delle
persone omoaffettive e gli studi storici, di cui è autore di saggi. Collabora con la OSINT
Unit di ASRIE come Analista Desk Medio Oriente & Nord Africa.
Giuliano Bifolchi. Analista geopolitico specializzato nel settore Sicurezza, Conflitti e
Relazioni Internazionali. Laureato in Scienze Storiche presso l’Università Tor Vergata di
Roma, ha conseguito un Master in Peacebuilding Management presso l’Università
Pontificia San Bonaventura specializzandosi in Open Source Intelligence (OSINT)
applicata al fenomeno terroristico della regione mediorientale e caucasica. Ha collaborato
e continua a collaborare periodicamente con diverse testate giornalistiche e centri studi.
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ASRIE Associazione
Associazione di Studio, Ricerca ed Internazionalizzazione
in Eurasia ed Africa
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Notizie Geopolitiche
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Direttore responsabile: Enrico Oliari
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