dispense del corso 2014-2015

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dispense del corso 2014-2015
UNIVERSITÀ DI PARMA
Corso di Laurea Magistrale in
Giornalismo e cultura editoriale
[Anno 2014-2015]
VERSO UNA DEMOCRAZIA ECOLOGICA?
LA DISCUSSIONE PUBBLICA E LA PARTECIPAZIONE POLITICA
DI FRONTE ALLA CRISI AMBIENTALE
Prof. Marco Deriu
16 febbraio – 23 marzo 2015
Dispense di
Sociologia della
comunicazione politica
[email protected]
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Corso di Sociologia della comunicazione politica - a.a. 2014/2015
Verso una democrazia ecologica?
La discussione pubblica e la partecipazione politica
di fronte alla crisi ambientale
Docente: Marco Deriu
PREMESSA AL CORSO
Il corso comincia riflettendo sull'idea di insegnamento e di apprendimento. Si
prende spunto per la discussione da un frammento di un dialogo tra Carl Rogers e
Gregory Bateson.
Il 28 maggio 1975, presso il College of Marin, nel Kentfield in California, si tenne
una strana conversazione tra il fondatore della Psicologia Umanistica Carl
Rogers e il teorico dell'ecologia della mente o dell'ecologia delle idee Gregory
Bateson1.
Quelli su cui vi vorrei far riflettere sono alcuni dei passaggi più interessanti di
questo dialogo che in gran parte toccava i temi dell'apprendimento.
Carl Rogers: «Voglio parlare un po’ della politica dell'istruzione e
dell'apprendimento ma in primo luogo sarebbe meglio che specificassi a quale
tipo di apprendimento io sono interessato: si tratta di quello che io definisco
apprendimento significativo. È un termine, diciamo così, personale. In questo
tipo di apprendimento è profondamente coinvolta l'intera persona, con il suo
intelletto e i suoi sentimenti. È un apprendimento che parte dall'individuo ed è
caratterizzato da un senso di scoperta in cui si prova questo tipo di sensazione:
"Oh, questo è proprio quello che da tanto tempo stavo cercando di scoprire!". In
altre parole, c'è il forte desiderio di afferrare qualcosa di nuovo. […] Infine, si
tratta di qualcosa che lo studente vuole apprendere perché ha un significato per
lui, per la sua vita e il suo modo d'essere. […]
Ora, quanto di questo apprendimento avviene nell'istruzione convenzionale? Per
quanto mi riguarda molto poco e quando si verifica accade per caso».
Carl Rogers ritiene che l'apprendimento convenzionale si basa sul potere, sulla paura
e sull'ansia attraverso strumenti quali test, gli esami, i voti, l'essere criticati o
ridicolizzati di fronte agli altri.
Non c'è spazio per la persona nella sua totalità. Non c'è un ruolo riconosciuto per le
proprie possibilità di scelta o per intraprendere autonomamente un proprio
apprendimento.
Rogers propone un apprendimento che è "autoiniziato" (self-initiated) nel
quale l'intera persona nella sua totalità (sentimenti, passione e intelletto) è coinvolta
nel processo.
1
Il frammento di conversazione tra Carl Rogers e Gregory Bateson che segue è tratto da
Dialoghi di Carl Rogers, a cura di H. Kirschenbaum e V. Land Henderson, La meridiana,
Molfetta, 2008, pp. 181-210.
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Gregory Bateson è d'accordo su molte cose ma ritiene che l'insegnante abbia un
importante ruolo attivo. Anzitutto sta in gran parte a lui creare una situazione in cui
gli studenti possano scoprire qualcosa di significativo e in questo ruolo non solo
comunica informazioni e conoscenze, ma prepara «le condizioni per la scoperta di
qualcosa o un'altra o in realtà sto attento e cerco di apprendere io stesso»2.
Ad un certo punto Bateson pone una domanda molto particolare e la conversazione
prende una piega particolarmente interessante:
Gregory Bateson «Mi domando, quanti studenti sono ricercatori?»
Carl Rogers: «Presumo che sulla base dell'esperienza siano ricercatori fino a
quando non sono gradualmente ridotti al silenzio dal nostro sistema scolastico.
Penso che la migliore prova di questo sia un bambino di quattro o cinque anni. È
un ricercatore? Io direi di sì! Assorbe tutto ciò che può in qualsiasi campo.
Impara ad avvertire i sentimenti che le persone hanno nei suoi confronti,
raccoglie informazioni riguardanti il suo mondo e ha una grande sete di sapere. E
penso che sia nel contesto del nostro sistema scolastico che, per cosi dire, si
spegne il ricercatore che c'è in lui. Ciononostante, il ricercatore può essere
risvegliato».
Gregory Bateson: «Si, in generale sono ovviamente, d'accordo».
Carl Rogers: «Lei è d'accordo ma non ovviamente».
Gregory Bateson: «Va bene, non ovviamente, ma sono veramente d'accordo. E
sono d'accordo che dalla mia posizione avendo a che fare con studenti
universitari e laureati, circa metà del mio problema o forse più sta nel
relazionarmi a ciò che stato spento. Avverto due grandi frustrazioni: una,
corrisponde all'essere spento - usando la sua espressione - e la seconda, perché
diavolo non hanno detto a queste persone queste piccole e semplici cose?
(Entrambi ridono) Cose che avrebbero dovuto essere comunicate molto tempo
prima ma suppongo che erano troppo impegnati nella loro azione di
spegnimento». […]
Carl Rogers: «Si. Spesso le persone sono stimolate ad apprendere, talvolta da
pessimi insegnanti. (Bateson ride) Questo è un dato di fatto. Ho conosciuto
studenti che hanno ascoltato una lezione arbitraria, autoritaria e che hanno
pensato: "Dimostrerò che quel bastardo ha torto, fosse pure l'ultima cosa che
farò". E allora iniziano a imparare veramente, a studiare e ad approfondire al fine
di fare questo. Quindi ci sono molti modi per stimolare un tipo di apprendimento
che parte da sé. Io ho semplicemente cercato di parlare del metodo che
preferisco».
Carl Rogers parlava di apprendimento "autoiniziato" (self-initiated). Gregory
Bateson accennava d'altra parte ad alcune piccole e semplici cose che andrebbero
comunicate agli studenti o meglio ai ricercatori e ricercatrici.
Ce ne sono alcune che vorrei dirvi anch'io per iniziare e per mettervi sull'avviso
nella ricerca che compirete.
2
Ivi p. 199.
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1) La mappa non è il territorio: l’importanza delle rappresentazioni sociali
Gregory Bateson, sosteneva che la scienza – qualsiasi scienza - esplora, ma non
prova mai nulla perché la nostra conoscenza è sempre funzione della soglia dei mezzi
di percezione di cui disponiamo in un dato momento. Ricorrendo ai principi di Alfred
Korzybski, secondo cui «la mappa non è il territorio» e «il nome non è la cosa
designata», Bateson insisteva nel sottolineare che le mappe mentali e culturali che
utilizziamo normalmente sono solo strumenti con cui attivamente ci facciamo
un’immagine della realtà indispensabile per orientarci.
Questo significa in primo luogo che quando parliamo di un ombrello, di un lago o di
una città, nel nostro cervello non ci sono ombrelli, laghi o città. Noi registriamo
notizie, informazioni, differenze e in qualche modo le codifichiamo in schemi, immagini
o mappe.
Quindi non bisogna dimenticare che qualsiasi descrizione della realtà non può
corrispondere relamente alla cosa descritta. Qualsiasi percezione, qualsiasi
descrizione, qualsiasi comunicazione sono prodotti delle nostre capacità percettive e
dei nostri mezzi di registrazione e riproduzione sensoriali e cognitivi. Una mappa, una
mappa culturale, una mappa sociologica, dunque serve per orientarsi nella realtà. Ci
può essere un sistema di segni e riferimenti corrispondenti che ci aiuta ad orientarci,
ma tra la descrizione e la cosa descritta c’è sempre uno scarto incolmabile. Anche
una mappa estremamente elaborata e precisa, in scala 1:1 non coincide con la realtà.
Oltre a questo dato di fondo, diversi altri autori – sia sociologi che con angolatura
differenti anche psicologi - hanno sottolineato che il nostro modo di conoscere e
pensare non è solamente un processo individuale, ma dipende da forme di pensiero
sovra individuali, sociali. Dunque la dimensione di costruzione della realtà sociale non
è solo un fatto che riguarda l’individuo nelle sue relazioni con figure di prossimità,
riguarda più in generale tutti i processi culturali e di significazione sociale.
In altre parole il nostro linguaggio, le nostre categorie, le nostre idee, le nostre
convinzioni sono sempre in qualche misura debitrici di un pensiero collettivo.
Émile Durkheim, fu il primo a prestare attenzione a questo aspetto introducendo
la nozione di “coscienza collettiva” e di “rappresentazioni collettive”. Durkheim
si riferiva ad un ampio insieme di forme intellettuali quali la religione, la morale, il
diritto, la scienza, il mito. Per Durkheim i fatti sociali
«si risolvono in modi di agire, di pensare e di sentire, esteriori rispetto
all'individuo. Questi fatti sono provvisti di un potere di coercizione con il quale
riescono a imporsi sul singolo. Poiché consistono in rappresentazioni e in azioni, non
devono esser confusi con i fenomeni organici e neppure con i fenomeni psichici i
quali non esistono che nella coscienza individuale e grazie ad essa. La qualifica di
sociali spetta ed è riservata a questi fenomeni che costituiscono una specie nuova.
Non avendo quale loro sostrato l'individuo, questi fatti non possono avere altro
fondamenteo che la società» (Durkheim 1895, trad. it. 1996 p. 25).
La riflessione di Durkheim sulle rappresentazioni collettive rischiava però di essere
troppo rigida, poiché presupponeva delle conoscenze sovra individuali che si
impongono dall’esterno con una forma di coercizione, che pur non escludendo il ruolo
della personalità individuale, tende a enfatizzare l’aspetto statico su quello dinamico.
Psicologi contemporanei come Serge Moscovici hanno sviluppato in senso più
fenomenologico e dinamico l’idea di “rappresentazioni sociali” che ci guidano nella
lettura o nella definizione della realtà e nella nostra azione in tale realtà.
Come scrive Moscovici:
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«Nessuna mente è libera dagli effetti del condizionamento precedente che
viene imposto attraverso le rappresentazioni, il linguaggio e la cultura che le
sono proprie. Noi pensiamo per mezzo di una lingua; organizziamo i nostri
pensieri in base ad un sistema che è condizionato, sia dalle nostre
rappresentazioni sia dalla nostra cultura; e vediamo solo quello che le
convenzioni sottostanti ci permettono di vedere, senza essere consapevoli di tali
convenzioni» (Moscovici, 2005, pp. 13-14.).
Da questo punto di vista – sottolinea Moscovici - la nostra posizione non è diversa
da quella di una qualsiasi tribù a cui attribuiamo un sistema di “credenze”. Noi
possiamo naturalmente divenire più consapevoli dell’aspetto “convenzionale” dei
nostri linguaggi, idee, rappresentazioni ma non potremo mai sottrarci completamente
al loro condizionamento. Una strategia migliore, ci dice Moscovici, è quella di
scoprire, riconoscere e tentare di rendere esplicite queste rappresentazioni in
modo da poterle in qualche modo vedere e discutere. Insomma non essere
passivamente succubi.
2) Pensiamo attraverso il linguaggio. Le rappresentazioni e formazioni
discorsive
È possibile dunque rintracciare una serie specifica di categorie, di parole ed
immagini, per comprendere quale specifica costruzione di significati si sta in un certo
momento e in un certo contesto costruendo. Michel Foucault indicava con il termine
“formazioni discorsive” quegli insiemi, più o meno eterogenei, di concetti
valutazioni, enunciati, osservazioni, regole e prescrizioni giuridiche ricorrenti, che
danno forma a degli oggetti di sapere, quali per esempio la follia, la delinquenza, la
sessualità. L’aspetto importante da comprendere, suggerisce a sua volta Stuart Hall
è che queste formazioni discorsive producono significati e questi contribuiscono a
«regolare e a organizzare le nostre condotte e pratiche – essi aiutano a
stabilire le regole, le norme e le convenzioni attraverso cui la vita sociale è
ordinata e governata» (Hall, 2003, p. 4).
Nei rapporti con le nostre alterità, per esempio, queste formazioni discorsive
contribuiscono non solo a dirci come guardare all’altro, ma in maniera più profonda
contribuiscono a creare una specifica realtà dell’altro nella nostra testa, a costruire
l’altro. In queste rappresentazioni le nostre alterità non sono tanto soggetti della
rappresentazione quanto soggetti alla rappresentazione. In altre parole c’è un
rapporto tra la definizione di certi codici linguistici, di certe formazioni
discorsivi, di certi linguaggi e le pratiche di potere. C’è un rapporto tra nominare
e normare. Tra imporre i nomi e le categorie e imporre le regole, i codici di condotta.
E ancora di più c’è un rapporto tra imporre questi codici e la costruzione di identità e
di soggettività. Dunque chi attraverso delle formazioni discorsive può imporre un
linguaggio, un immaginario, acquisisce un grande potere sugli altri.
Ma d’altra parte può essere che questo linguaggio che si impone agli altri si scopra
ad un certo punto anche una gabbia per se stessi. Se queste formazioni discorsive
costruiscono una specie di “frame” o "script" o all’interno del quale ci abituiamo
a guardare, pensare e parlare, può essere che questa cornice acquisisca una certa
stabilità e solidità tale per cui diventa difficilissimo uscirne. Queste cornici culturali
sono infatti così profondamente interiorizzate e stratificate nel nostro mondo culturale,
sociale, materiale da risultare implicite e indiscusse.
Come ha notato George Lakoff:
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«il linguaggio trae il suo potere dal fatto di essere definito relativamente a frame,
prototipi, metafore, narrazioni, immagini ed emozioni» (Lakoff, 2009, p. 18)
Non è semplice liberarsi da questi pregiudizi. Da quando siamo venuti al mondo, da
quando abbiamo appena iniziato a parlare, tutto attorno a noi ci spinge a pensare in
questo modo.
Secondo George Lakoff certi schemi divengono narrazioni che sono fissate nei
circuiti neurali del cervello e possono essere attivate e funzionare inconsciamente,
automaticamente e per riflesso (Lakoff, 2009, p. 39).
«i modelli culturali sono nel nostro cervello. E noi li usiamo automaticamente,
senza controllo conscio e senza memoria per la maggior parte del tempo» (Lakoff,
2009, p. 18)
Nella quasi totalità dei casi noi non conosciamo la ristrettezza - a volte la miseria delle cornici culturali dentro alle quali ci muoviamo.
Come diceva in maniera più secca e caustica un altro sociologo, Gabriel Tarde,
«Non avere che idee suggerite e crederle spontanee: tale è l’illusione propria
del sonnambulo, così come dell’uomo sociale» (Tarde, 1976, p. 120).
Per prendere coscienza di questo condizionamento e di questi limiti, bisogna aver
provato uno scacco nel proprio modo di pensare. Bisogna aver personalmente cozzato
contro le pareti di queste cornici. Essersi trovati almeno per una volta nelle condizioni
di vederle almeno parzialmente da fuori.
Il fatto è purtroppo è che non siamo padroni del nostro immaginario. Non
scegliamo fino in fondo quello che pensiamo. Il nostro compito è anche quello di
provare a pensare quello che pensiamo, a riflettere sui nostri pensieri, e per quello
che possiamo cercare buttare un occhio al di là dell’orizzonte condiviso, magari
ponendoci domande problematiche.
Il compito di un pensiero critico, dunque, è quello di sottrarre i concetti e le
nozioni che utilizziamo quotidianamente alla loro dimensione di apparente
ovvietà e auto evidenza. Come ha scritto Michel Foucault
«Bisogna rimettere in questione queste sintesi belle e pronte, quei
raggruppamenti che in genere si ammettono senza il minimo esame, quei
collegamenti di cui si riconosce fin dall’inizio la validità; bisogna scalzare quelle
forme e forse oscure con cui si ha l’abitudine di collegare tra loro i discorsi degli
uomini; bisogna scacciarla dall’ombra in cui regnano» (Foucault, 2005, p. 30).
E ancora:
«In pratica bisogna strapparle dalla loro condizione di quasi evidenza, far
emergere i problemi che pongono; riconoscere che non sono quel posto
tranquillo a partire dal quale si possono porre altri problemi (sulla loro struttura,
la loro coerenza, la loro sistematicità, le loro trasformazioni), ma che in loro
stesse pongono tutto un fascio di problemi» (Foucault, 2005, p. 36).
La sociologia della cultura ci aiuta dunque a interrogare le parole, i concetti,
le categorie, le rappresentazioni con cui quotidianamente leggiamo e costruiamo
attivamente il mondo, di cui normalmente non vediamo i limiti, le dimensioni rimosse,
gli elementi oscuri, contraddittori o perturbanti.
Come saggiamente notava Mark Twain:
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«Il pericolo non viene da quello che non conosciamo, ma da quello che
crediamo sia vero e invece non lo è» .
Da questo punto di vista non si tratta solamente di costruire delle descrizioni o delle
narrazioni efficaci o più corrispondenti al “vero” ma di porci costantemente in un
atteggiamento riflessivo, dubbioso, auto-critico. Come sottolinea Gregory Bateson
«Dobbiamo quindi esaminare in primo luogo le discrepanze sistematiche che
necessariamente esistono tra ciò che possiamo dire e ciò che tentiamo di
descrivere» (Bateson G., Bateson M.C., 1989, p. 228).
Un pensiero critico, avvertito, è un pensiero che riconosce di essere parziale
e si sforza di riconoscere e indagare i propri limiti, fino addirittura al paradosso,
quando si usano i propri limiti anche come possibilità di comunicare.
«Una vecchia barzelletta in voga nell’ex Repubblica Democratica Tedesca
racconta di un operaio tedesco che trova lavoro in Siberia. Consapevole del fatto
che tutta la sua posta verrà letta dalla censura, dice ai suoi amici: “Stabiliamo un
codice: se la lettera che ricevete è scritta in normale inchiostro blu, significa che
è veritiera; se invece è scritta in inchiostro rosso quella lettera dice il falso”.
Dopo un mese, gli amici ricevono la prima lettera, scritta in inchiostro blu: “Qui è
tutto meraviglioso: i negozi sono pieni di merci, il cibo è abbondante, gli
appartamenti sono grandi e ben riscaldati, nei cinematografi si proiettano film
occidentali, ci sono ovunque belle ragazze disponibili per un’avventura. L’unica
cosa che non si trova è l’inchiostro rosso”.»
(Raccontata da Slavoj Zizek, 2002, p. 7)
Divenire consapevoli di questo, così dei nostri processi di conoscenza, e dei nostri
limiti, ci può permettere di relativizzare le nostre idee, ma anche di comprenderne la
singolarità e l’importanza, di divenire più coscienti di noi stessi e, possibilmente, di
confrontarci con più umiltà con gli altri.
Nel nostro corso ci occuperemo dunque di alcuni temi chiave della società
contemporanea, ed in particolare la crisi ecologica e la crisi della democrazia
e di come queste cose entrino nella comunicazione politica e nella
comunicazione ambientale.
Ma attraverso questo percorso auspico che vi facciate un’idea più critica e
problematica dei fondamenti e dei giudizi sui quali riposa la nostra visione del mondo.
Allo stesso tempo mi auguro che acquisiate degli strumenti critici per continuare da
soli questo lavoro nelle realtà e nelle esperienze che incontrerete.
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Corso di Sociologia della comunicazione politica - a.a. 2014/2015
Verso una democrazia ecologica?
La discussione pubblica e la partecipazione politica
di fronte alla crisi ambientale
Docente: Marco Deriu
CHE COS'È LA COMUNICAZIONE POLITICA?
Quando si parla di comunicazione politica in genere si pensa principalmente alle
forme di comunicazione che riguardano gli attori politici ed istituzionali. Sia quindi
i processi di comunicazione attivati dagli attori politici ed istituzionali verso i cittadini o
specifici soggetti sociali. Sia i processi di comunicazione attivati da cittadini o da
specifici soggetti sociali verso gli attori politici e istituzionali. O anche le forme di
comunicazione che hanno come “oggetto” i soggetti politici e istituzionali e le loro
attività.
Tuttavia questo tipo di definizione presenta alcuni limiti. Essa identifica alcuni attori
specifici – coloro che hanno incarichi politici o istituzionali – e li mette a confronto con
altri attori – i cittadini o l’opinione pubblica. In realtà non è così semplice ritagliare con
nettezza chi sono gli attori politici e chi i cittadini o l’opinione pubblica.
Da un certo punto di vista gli stessi attori politici sono cittadini e possono essere
visti a loro volta come parte ed espressione dell’opinione pubblica. Deputati, senatori,
segretari di partito possono partecipare a
manifestazioni di piazza contro una legge o una
manovra ingiusta o in difesa dell’acqua pubblica.
Non di rado alcune forze politiche organizzano
delle messe in scena o dei gesti simbolici durante
le sedute del parlamento per manifestare la propria
contrarietà
all’interno
dell’aula
e
contemporaneamente per “bucare” più facilmente
nella comunicazione televisiva.
Per esempio nel luglio del 2011 in Italia alcuni
senatori della formazione Italia dei valori hanno esposto e rivolto dei cartelli con la
scritta "Ladri di valori" verso gli altri senatori
per protestare contro l'approvazione del
disegno di legge Lussana sul "processo lungo"
che riforma il codice di procedura penale.
Nel
settembre
2015,
invece
alcuni
parlamentari di Hong Kong hanno protestano
contro il governo durante un consiglio
legislativo, usando degli ombrelli gialli,
simbolo del movimento per la democrazia
Occupy central.
D’altra parte, non si possono definire “attori politici” solamente coloro che hanno
incarichi nei partiti o nelle istituzioni pubbliche. Per fare un esempio ci sono molti
soggetti – associazioni, comitati, circoli, fondazioni, reti, movimenti, ecc. – che
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svolgono chiaramente un ruolo politico e di fatto promuovono una comunicazione
politica che non necessariamente si rivolge ai partiti o ai rappresentanti eletti, ma può
rivolgersi direttamente ai cittadini o agli
elettori senza altre mediazioni.
In secondo luogo la comunicazione può
assumere forme diverse che hanno a che fare
con codici differenti: linguistici, fisici,
teatrali, simbolici, estetici, ecc.
Per fare qualche esempio è possibile
occupare una piazza con delle tende e
manifestare di fronte a Wall Street per
denunciare gli abusi del capitalismo finanziario,
come è accaduto con il movimento Occupy
Wall Street nel 2011.
Oppure è possibile organizzare dei flash mob
sui temi più diversi. Per esempio, nell’agosto 2011
a Teheran giovani iraniani e iraniane hanno
organizzato dei raduni in parchi o nelle strade
giocando con gavettoni o delle pistole ad acqua
per sfidare il regime e le convenzioni sociali che
regolano i rapporti tra uomini e donne. Diciassette
di loro sono stati arrestati solamente per questo
atto simbolico.
In India nel 2014 è stata lanciata a partire dal
Kerala una forma di protesta che è diventata una vera e propria campagna nazionale
dal titolo Kiss of Love con raduni per baci di massa a Delhi, Mumbai, Calcutta,
Hyderabad, Chennai allo scopo di sfidare il
bigottismo morale sessuale. Il movimento è
partito con una pagina di Facebook chiamato
'Kiss of love' nella quale si chiedeva ai
giovani del Kerala di partecipare il 2
novembre 2014, a Marine Drive, nella città di
Kochi a una protesta contro quello che è
stato chiamato "moral policing" (polizia
morale). In un paese puritano come l'India
infatti baciarsi in pubblico è considerato un
fatto osceno. La rivendicazione di questa
manifestazione politica è chiara: «Il bacio è
solo un simbolo. Chiediamo la fine del moral
policing, di un controllo pubblico sul rispetto di una presunta moralità indiana»3.
Un altro elemento importante da comprendere è che nella comunicazione non
contano solo le parole e i significati letterali o referenziali, o gli eventi in quanto tali,
ma conta anche la valenza simbolica che essi vengono ad assumere.
La politica e la comunicazione politica sono continuamente attraversati da
gesti e atti simbolici. Con questo non vogliamo dire che sono simbolici in sé ma che
lo diventano agli occhi degli osservatori. Sono certamente simboli le bandiere
3
Valeria Fraschetti, "L'india in cerca dell'amore protesta a colpi di baci", il venerdì, 13 febbraio
2015, pp. 30-31.
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(pensate alla bandiera americana o a quella italiana), le insegne, i loghi, i colori, ma
anche certi vestiti o certi gesti (si pensi al pugno chiuso o al braccio teso fascista).
Come ha sottolineato Enrico Caniglia:
«esiste tutta una tradizione di ricerca in cui i simboli non sono soltanto "qualcosa
che sta per qualcos'altro" bensì una finestra che offre un accesso privilegiato a
fenomeni più complessi e che sono costitutivi della vita sociale» (Caniglia, 2013,
p.3)
I simboli portano con sé significati razionali ed emozionali e sono capaci di suscitare
sentimenti e comportamenti specifici. La politica dunque si nutre di risorse e
dimensioni simboliche.
In generale dunque la comunicazione politica non è riconducibile ad un soggetto
specifico o a una modalità specifica della comunicazione, ma alla natura pubblica della
comunicazione e alla finalità politica.
Ritengo dunque preferibile definire comunicazione politica la creazione, la
diffusione e lo scambio intenzionale di messaggi, informazioni e contenuti nello spazio
pubblico da parte di attori politici e sociali, dai cittadini o dai mass media al fine di
consolidare, modificare o influenzare il contesto politico.
La comunicazione politica può intrecciarsi dunque con la comunicazione
istituzionale da parte di pubbliche amministrazioni o organi dello Stato, con la
comunicazione elettorale da parte di candidati o partiti nel periodo delle elezioni,
ma non è riducibile ad uno di essi.
Possiamo notare che il problema della comunicazione politica si è posto in qualche
modo fin dall’antichità. Le forme di retorica nello spazio pubblico, la questione della
propaganda, i comizi, la ricerca di affermazione e di sostegno per le proprie iniziative
politiche ha interessato anche il mondo antico - dai Greci ai Romani - ma dal nostro
punto di vista l’età della “comunicazione politica” vera e propria è connessa
alla nascita dei mezzi di comunicazione moderna: giornali, radio, televisioni,
internet. La comunicazione politica assume poi delle caratteristiche specifiche nei
regimi cosiddetti “democratici” legati alla competizione politica tra soggetti
organizzati, all’espressione del voto popolare attraverso delle tornate elettorali e
quindi all’influenza dell’opinione pubblica e alla costruzione del consenso.
Nella Letteratura sulla comunicazione politica4 si individuano solitamente tre fasi:
un’età premoderna, un’età moderna e un’età postmoderna. Questi schemi sono molto
orientati più che altro alla comunicazione elettorale ma hanno un valore orientativo
anche più ampio.
La prima fase è quella precedente il 1950, in cui la comunicazione è molto
legata ai territori, alla carta stampata e ai giornali e, a partire dagli anni ‘20 alla
radio. In questa fase contano molto le forme ritualizzate come i comizi, le parate, le
manifestazioni politiche, ma anche i rapporti diretti e il lavoro svolto porta a porta.
Giocano un ruolo centrale le organizzazioni politiche popolari come i partiti e i
sindacati.
La seconda fase parte dalla seconda metà degli anni ’50 con l’avvento della
televisione, che modifica il rapporto tra politici e popolazione. Si tratta di una
comunicazione molto verticale, top-down, che assume i caratteri di massa. È
importante capire che l’avvento della televisione determina una forte discontinuità che
trasforma non solo le forme della comunicazione ma la politica stessa, introducendo
elementi di spettacolarizzazione, estetizzazione, velocizzazione.
La terza fase è quella che comincia negli anni ’90 con l’avvento di Internet e
del Web. Questa fase permette una moltiplicazione crescente delle fonti, una
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Si veda per esempio Mazzoleni 2004, Campus 2008, Sorice 2011.
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struttura multimediale e in generale un decentramento nella diffusione dei messaggi e
delle informazioni. In anni più recenti si assiste a un’evoluzione ulteriore, con
l’avvento Web 2.0. Con questo nome si intende l’introduzione di tutte quelle
applicazioni online che favoriscono una significativa interazione tra gli utenti e il sito o
che creano forme di implementazione e costruzione aperta dei contenuti e della
comunicazione (blog, forum, chat, sistemi quali Wikipedia, YouTube, Facebook,
Myspace, Twitter, Gmail, Wordpress, TripAdvisor).
Come vedete questa periodizzazione è strettamente legata ai tipi di media e di
strumenti di comunicazione che sono diffusi in un dato periodo. Questo deve portarci a
riflettere sul fatto che non esiste una politica o un opinione pubblica separata
dai media e che si pone anche il problema di come comunicare fra loro nello spazio
pubblico. In realtà dovremmo concepire questi elementi come mutualmente
dipendenti, come se ciascuno contribuisse a definire l’altro. La politica è
strettamente condizionata dai mass media e dalle forme di comunicazione
che questi permettono.
A sua volta l’opinione pubblica prende forma a partire dal tipo di
comunicazione che si sviluppa in rapporto a certi strumenti di comunicazione.
Infine non esiste uno spazio pubblico indipendente dalle forme e dagli
strumenti di comunicazione. Per esempio il tipo di comunicazione, di spazio
pubblico, di opinione pubblica e di politica che si va definendo nell’era del web 2.0
sono diversi da quelli che si definivano nell’epoca dei comizi e delle parate di massa o
all’epoca delle tribune politiche in televisione. Basta guardare da una parte la
campagna elettorale di Obama del 2008 che dal punto di vista finanziario e del
supporto politico si è ampiamente basata sul web. Allo stesso tempo basta pensare al
ruolo dei social network nelle rivolte arabe, o nella diffusione dei movimenti di
indignados per capire come un tipo di comunicazione reticolare, la diffusione di slogan
e parole d’ordine, la velocità e la diffusione anche al di là dei confini nazionali, la
riproduzione di forme di intervento e di manifestazione simili in molti paesi disegnano
una situazione molto diversa dal passato: una diversa percezione dello spazio pubblico
non ristretto al sistema parlamentare, alla propria regione o nazione, un’opinione
pubblica meno controllabile e meno reprimibile, un diverso modello di funzionamento
della comunicazione politica di tipo orizzontale e virale, infine forme di organizzazione
e di azione politica coordinate ed immediate senza essere centralizzate. Non sto
dicendo che tutto questo dipende unicamente dai media, ma piuttosto che c’è una
creazione reciproca. Una certa esigenza spinge a creare, date le conoscenze
tecniche, anche un certo tipo di sistema mediale e di comunicazione.
Un esempio interessante è il modo in cui è stata costruita la recente costituzione
islandese (2011), il cui testo è stato redatto da un gruppo di persone che lo hanno
implementato in crowdsourcing su piattaforme di condivisione online con l’aiuto di
migliaia di netizen (cybercitizen). Se guardate su Wikipedia (che è a sua volta una
piattaforma di condivisione) trovate che il crowdsourcing è un neologismo (da crowd,
gente comune, e outsourcing) che definisce un modello di business o di lavoro nel
quale un’azienda o un’istituzione affidano lo sviluppo di un progetto, di un servizio o di
un prodotto ad un insieme distribuito di persone organizzate in una comunità virtuale.
Netizen (o cyber citizen) è invece un termine proposto da Michael Hauben (1973–
2001) per indicare un utente di Internet che possiede un senso di responsabilità civica
per la sua comunità virtuale più o meno allo stesso modo in cui altri cittadini si
sentono responsabili per una comunità fisica. Sono “persone che partecipano
attivamente alla vita di Internet, contribuendo e credendo fermamente nella libertà di
espressione tramite questo mezzo”.
Vedete dunque che cambia la stessa nozione di cittadino, di cittadinanza, di
comunità politica, di sfera pubblica, col mutare della comunicazione politica e delle
12
piattaforme di comunicazione (che come face book sono tuttavia progettate dagli
stessi cittadini). Si tratta di quelli che vengono chiamati gli effetti sistemici o
strutturali dei media5, ovvero quei cambiamenti della comunicazione che hanno un
impatto anche sul sistema politico in quanto tale.
IL MEDIA MANAGEMENT
Tra gli ambiti della comunicazione politica rientra anche quella che chiamiamo
comunicazione elettorale. Diversi studiosi hanno osservato che se in passato era più
chiara la distinzione tra comunicazione politica e comunicazione elettorale oggi questa
differenziazione è meno pronunciata. In parte perché le attività finalizzate a obiettivi
elettorali sono divenute sempre più estese se non permanenti. Questa tendenza verso
campagne permanenti (permanent campaigning) si è cominciata a manifestare già
negli '80 ma è divenuta molto più evidente dopo la metà degli anni '90.
Le ragioni di questo cambiamento vanno ricercate nel cambiamento verso la
personalizzazione, la leaderizzazione, la spettacolarizzazione e al contempo
nell'indebolimento delle organizzazioni politiche tradizionali, come i partiti e i sindacati
che in passato presidiavano il rapporto con la base nei diversi territori.
Questa modalità di competizione permanente produce diversi effetti: da una parte
indebolisce il senso delle istituzioni e genera una competizione continua che spesso
assume la forma di un gioco delle parti. Dall'altra ha prodotto un investimento di
attenzione e di risorse verso la cura delle strategie di comunicazione come elemento
permanente e non ciclico del sistema politico. La comunicazione politica dunque
diventa una dimensione strutturale e sempre più professionalizzata nel rapporto tra
soggetti istituzionali, media e cittadini.
In questo quadro assume un'importanza crescente il cosiddetto media
management, ovvero le risorse, le strategie e le tecniche messe in campo dagli attori
politici per cercare di influenzare gli organi di informazione e l'opinione pubblica al fine
di rafforzare la propria immagine, di guadagnare consenso, di ottenere supporto per
un obiettivo politico, o di imporre un tema o una questione al centro della discussione.
Il media management è qualcosa di molto più complesso delle forme tradizionali di
censura o di propaganda. Non si tratta semplicemente di impedire la pubblicazione di
una notizia o di diffondere messaggi standardizzati e ripetitivi. Si tratta invece di
inserirsi ed intervenire efficacemente nelle logiche, nei bisogni e nelle dinamiche di
funzionamento dei media, cercando di ordinare, filtrare, controllare, orientare o
produrre informazioni (news making) e messaggi al fine specifico di indirizzare la
comunicazione.
Quello che occorre comprendere è che l'obiettivo in questo caso, apparentemente
non è quello di intralciare il giornalista, ma al contrario di prevenire il suo bisogno di
notizie, di dati, di immagini, di slogan, di eventi simbolici, di narrazioni, ecc… in modo
da facilitarlo nel suo lavoro di costruzione di notizie e di servizi.
In questa direzione i soggetti pubblici, che siano politici, o imprese si sono sempre
di più appoggiati a risorse professionali e a strumenti tradizionali di marketing:
sondaggisti, agenzie di pubbliche relazioni, consulenti d'immagine, spin doctor, ghost
writer, lobbisty.
Dal consulente politico al marketing politico
Lo spin doctor (dall'inglese [top] spin, nel gioco del tennis «colpo a effetto» e
doctor, «esperto») o consulente politico è una figura professionale di consulente a
servizio di personaggi politici o pubblici, al fine di progettare e pianificare strategie di
5
Cf. Sorice, 2011, p. 52.
13
immagine, di comunicazione e di presentazione al fine di massimizzare il consenso
politico ed elettorale.
Di fatto è una figura di media management.
Può gestire informazioni e notizie, produrre
comunicati, preparare smentite o minimizzare
alcune notizie, scrivere discorsi, costruire una
certa immagine o un certo tono e approccio
nella comunicazione, gestire pagine web, o
impostare la comunicazione sui social network,
costruire campagne pubblicitarie, organizzare
eventi mediatici, cercare di deviare l'attenzione
o di imporre dei temi all'agenda dei media ecc.
Molti politici importanti hanno fatto ricorso a
questa figura. Bill Clinton si appoggiò a Stanley
Greemberg, Blair si appoggiò a Alastair Campbell, Barack Obama a David Axelrod.
Anche in Italia esiste questa professione è c'è anche un'Associazione italiana
consulenti politici6.
Da un po’ di anni è stato introdotto ed esplorato
in letteratura il termine marketing politico.
Quello che è stato messo in luce è la derivazione
dalle filosofie commerciali e dal marketing
economico di una serie di tecniche, di strumenti, di
approcci e anche di linguaggi tali per cui si inizia a
considerare un politico o un partito o i loro
rispettivi programmi come una merce da piazzare
con successo sul mercato.
Questo significa studiare i cittadini come
mercato di consumatori potenziali, definire i target
da colpire, studiare gusti, preferenze, definire il
prodotto politico che si intende vendere, analizzare
la possibile concorrenza, immaginare forme di
promozione adeguate a uno o più target, definire i
mezzi e le strategie più adeguate, elaborare un
piano e controllare i flussi comunicativi.
Si è parlato ancora più esplicitamente di brand
communication in campo politico. Ovvero la
definizione di una specie di "marchio di fabbrica"
anche a un prodotto (un soggetto o un partito) o a
una linea politica in modo da stimolarne la
visibilità, l'identificabilità, e differenziarlo e
by Shepard Fairey, 2008.
renderlo più appetibile rispetto alla concorrenza.
L'uso di segni, simboli, disegni, immagini, parole chiave o slogan, icone, o una
combinazione di tutto questo per identificare un soggetto politico è diventato un tratto
ricorrente nella comunicazione politica degli ultimi decenni. L'obiettivo, come in campo
commerciale è quello di unire immagini, percezioni, sensazioni, per produrre
riconoscibilità, identificazione, adesione, legittimazione e consenso. Più nello specifico
la cura del branding politico - in un'epoca in cui l'adesione ideologica si è fortemente
indebolita e in cui è aumentata la frammentazione delle esperienze e la volatilità
politica - è quella di assicurare una fedeltà, una continuità, battezzando una linea di
6
http://www.aicop.it/joomla/
14
idee e proposte per renderle riconoscibili e identificabili con un attore, in modo da
ispirare approvazione e fiducia.
In questo scenario, afferma Nello Barile, lo spin doctor:
«da buon consulente postmoderno, non si pone più l'obiettivo di "modellare"
l'opinione pubblica, bensì quello di modellare l'identità del leader analizzando
costantemente la sua brand image, ovvero il modo in cui gli elettori percepiscono
tale identità»7.
Come ricorda lo stesso Barile, nel film I due presidenti di R. Loncraine (2010), Tony
Blair si reca con il suo staff al cospetto dello Spin Doctor di Clinton, che spiega loro le
linee di fondo della nuova politica democratica:
«Dovete ascoltare quello che dice la gente, non continuate a proporre idee e
un linguaggio che non vuole. È molto più facile cambiare il programma del partito
che cambiare la testa della gente».
Questo tipo di impostazione che rinuncia in partenza non solo all'idea di un
orientamento etico politico, ma anche all'impegno di contribuire all'autoeducazione o
all'autoformazione democratica quel che succede è che si fa strada un forte
opportunismo, assieme paradossalmente a una sfumatura delle diversità delle
posizioni politiche, che mirano a invadere sempre di più ciascuna il campo dell'altro o
per rubare voti e consensi.
Da questo punto di vista è stato esplicitamente teorizzata la strategia della
triangolazione, che mira a intercettare pezzi di programma e di elettorato
tradizionalmente identificabili con altre posizioni politiche.
7
Nello Barile, "Il politico come marca. Identità, posizionamento strategico e canali di
comunicazione del brand Matteo Renzi", Mediascapes journal, 3, 2004.
15
Corso di Sociologia della comunicazione politica - a.a. 2014/2015
Verso una democrazia ecologica?
La discussione pubblica e la partecipazione politica
di fronte alla crisi ambientale
Docente: Marco Deriu
LE DIMENSIONI DELLA COMUNICAZIONE AMBIENTALE
L'importanza della comunicazione ambientale dipende dal fatto che il nostro
comportamento verso la natura e le problematiche ambientali dipendono in gran parte
dall'idea che abbiamo della natura e dal modo in cui ne parliamo.
La studio della comunicazione ambientale è fondamentale per comprendere le
nostre immagini e le nostre idee della natura, per riflettere sul linguaggio che usiamo
per parlarne, per osservare la qualità dell'informazione giornalistica e della
comunicazione popolare attorno ad essa, per verificare la qualità e l'efficacia delle
campagne di comunicazione sociale o d'impresa, per riconoscere i termini su cui si
basano i possibili conflitti ambientali, per valutare la correttezza e l'accuratezza della
comunicazione del rischio nelle scelte collettive e infine per aumentare la qualità della
partecipazione dei cittadini alle decisioni pubbliche e private.
Secondo Robert Cox, per comunicazione ambientale si intende
«il veicolo pragmatico e costitutivo per comprendere l'ambiente così come le
nostre relazioni con il mondo naturale; è il medium simbolico che usiamo nel
costruire i problemi ambientali e negoziare le diverse risposte della società ad
essi» (Cox, 2010, p. 20).
La comunicazione ambientale è intesa come "pragmatica" nel senso che il modo in
cui nominiamo e comunichiamo le cose rappresenta già un'azione con degli effetti:
può educare, persuadere, influenzare, mobilitare, oppure manipolare, ingannare.
È intesa come "costitutiva" perché definisce il nostro modo di comprendere la natura,
definisce il mondo in cui percepiamo, incorniciamo e interpretiamo i problemi
ambientali, ma anche il modo in cui leggiamo e rappresentiamo noi stessi, il nostro
posto nel mondo, le nostre relazioni col pianeta, con le altre specie, con gli ecosistemi.
Dunque nella comunicazione ambientale possiamo rintracciare diverse
dimensioni:
 La natura, le emergenze ambientali, i segnali che ci arrivano dagli ecosistemi;
 Il nostro raffigurarci - come umanità, come cittadini, come istituzioni ed enti
pubblici, come aziende, come associazioni ed enti privati - in qualche genere di
rapporto con l'ambiente e le sue condizioni;
 Le nostre possibilità di comportamento e di azione nei confronti dell'ambiente e
delle emergenze ambientali;
 Gli scenari e i rischi relativi ai trend attuali e alle possibili alternative messe in
campo.
 Come tutti questi aspetti entrano e prendono forma nel flusso della comunicazione
contribuendo a costruire degli immaginari, dei linguaggi, delle prospettive di senso
e dei modelli di comportamento e di azione perseguibili.
16
 Quale spazio il tema ambientale e le emergenze ecologiche assumono nella sfera
pubblica, nell'agenda dei media e in quella politica.
Nel caso della comunicazione ambientale il confronto con la definizione di una
sfera pubblica assume un significato particolare perché il tema ambientale non ha
ancora guadagnato nella discussione e nell'immaginario collettivo il posto e
l'importanza che gli spettano. E nella misura in cui è presente questa discussione e
questo immaginario occorre domandare quali sono gli attori che hanno più risorse e
potere per definire il carattere e i termini del confronto.
Nella sfera pubblica agiscono diversi attori: cittadini e comunità; gruppi
ambientalisti; scienziati e istituzioni scientifiche; industrie, multinazionali e lobby
economiche; media e i giornalisti ambientali; amministratori e pubblici ufficiali. La
sfera pubblica è dunque un luogo in cui si confronto e discutono linguaggi, simboli,
letture, tra loro differenti o addirittura alternative.
Le aree di studio e di indagine da questo punto di vista possono essere
differenti:
1. Le concezioni della natura, dell'ambiente e la costruzione del linguaggio ecologico.
2. La comunicazione scientifica relativa all'ambiente, la salute, le problematiche
ambientali, i rischi ambientali.
3. La comunicazione politica relativa a conflitti ambientali e dispute legate all'uso delle
risorse.
4. La comunicazione pubblica ed istituzionale, nonché la comunicazione del rischio da
parte degli enti pubblici (amministrazioni, aziende sanitarie locali, agenzie educative
ecc.)
5. La comunicazione d'impresa e commerciale nell'ottica della responsabilità sociale
d'impresa, delle strategie d'immagine del brand (green marketing).
6. Il giornalismo, i media e l'informazione in campo ambientale
7. La comunicazione popolare relativa all'ambiente e alla natura, nella letteratura, nel
cinema, nella fotografia, nel teatro, e in tutte le altri arte.
8.La discussione pubblica e la partecipazione dei cittadini e delle comunità al processo
di decision making.
Quello della comunicazione ambientale è dunque un campo complesso. Il
raggiungimento di forme di sostenibilità, la prevenzione di rischi o il confronto con
problematiche di conflitti, di disastri ambientali o di veri e propri collassi ecologici
dipende anche dal modo in cui comprendiamo, comunichiamo, discutiamo
della natura e dell'ambiente. Il nostro accesso alla natura, all'ambiente è sempre
mediato dalle nostre categorie culturali, sociali, simboliche, comunicative.
In questo senso dunque, come nota Cox la comunicazione ambientale è già di per
sé una forma di azione simbolica che contribuisce a creare il mondo in cui viviamo
a definire lo spazio possibile di aspettative, aspirazioni, responsabilità, diritti e doveri.
Dunque parole, immagini, simboli, codici, valori, paradigmi, discorsi, storie,
narrazioni, si formano, si definiscono e viaggiano attraverso giornali, televisioni, siti
internet, film, documentari, pubblicità, discorsi e comunicati istituzionali,
manifestazioni e spettacoli di strada, campagne di comunicazione o di boicottaggio,
conferenze e lezioni; attraverso tutto questo si costruisce e si definisce una sfera
pubblica ambientale, che è il luogo in cui si gioca il nostro futuro e quello delle
generazioni a venire.
17
Corso di Sociologia della comunicazione politica - a.a. 2014/2015
Verso una democrazia ecologica?
La discussione pubblica e la partecipazione politica
di fronte alla crisi ambientale
Docente: Marco Deriu
L'IDEA DI NATURA E DI AMBIENTE
Nelle scorse lezioni abbiamo detto che: a) La mappa non è il territorio; b) Le nostre
mappe, le nostre rappresentazioni, le nostre categorie linguistiche e mentali
costruiscono una nostra visione delle cose. Per cui a differenti idee di essere umano e
natura, corrispondono atteggiamenti diversi verso il mondo attorno a noi.
Tutta la comunicazione ambientale si struttura attorno ad alcune categorie centrali
quale natura, ambiente, sostenibilità ecc… che strutturano il nostro campo di
percezione. Noi pensiamo di sapere di cosa stiamo parlando ma in realtà si tratta di
questioni molto indeterminate e ambigue.
L'uso di parole come "natura" e "ambiente", non è così ovvio. L'idea di "natura" ci
porta a pensare qualcosa in cui l'essere umano non è ancora intervenuto anche se di
fatto l'essere umano fa parte della natura. Diversamente l'idea di ambiente rischia di
farci percepire il mondo attorno a noi come una scenografia, un ambiente come un
altro, rispetto al quale l'essere umano si può ritagliare la sua autonomia.
Va la pena soffermarci a questo proposito su una dicotomia fondamentale quella tra
natura e cultura.
La dialettica natura/cultura
Storicamente si sono date visioni diverse di natura.
C'è l'approccio animistico per il quale molti aspetti della natura, luoghi, ambienti o
cose materiali possiedono proprietà spirituali o divine. O detta altrimenti la divinità o
le divinità hanno attributi immanenti e non trascendenti. Insomma la natura sarebbe
viva e sacra.
C'è il creazionismo, secondo il quale la natura, o in questo caso il "creato" sono
una creazione della divinità, che quindi è esterna e non coincide con la natura. Al
creazionismo di solito è associato un certo "finalismo". Ovvero la natura ha un senso,
una direzione, una finalità.
Con l'avanzare del positivismo e della scienza è prevalsa, specialmente nel mondo
occidentale, una visione materialistica e meccanicistica, secondo la quale la
natura non ha né anima né scopo, è frutto del caso e risponde solamente a leggi
meccaniche.
Nella storia del pensiero si è pensato che queste visioni corrispondessero a stadi
diversi di coscienza, dalla mentalità primitiva a quella moderna e scientifica. Ma si
tratta di semplificazioni.
Nelle scienze moderne ci sono approcci molto differenti che vanno dalle ipotesi di
autocostruzione e automantenimento presenti negli organismi viventi come nell'idea di
autopoiesi di Humberto Maturana, all'idea della terra come un unico organismo
vivente presente in James Lovelock e nella sua ipotesi di Gaia.
18
D'altra parte si può sostenere che un certo meccanicismo e finalismo accomuna sia il
creazionismo che la tradizione scientifica positivista.
Se ci limitiamo al contesto culturale occidentale, si può dire che le nostre idee
su cultura e natura nei fatti si fondano su tre opposizioni:
1. L’opposizione tra essere umano e ambiente;
2. L’opposizione tra cultura e natura;
3. L’opposizione tra pensiero (mente) e natura
Queste opposizioni sono un tratto ricorrente nella nostra cultura. E tuttavia, da un
punto di vista sociologico tali opposizioni non sono affatto scontate, dobbiamo
piuttosto prenderle come questioni da interrogare. Ognuna di esse si porta dietro
alcune domande.
Prendiamo la prima per esempio: l’opposizione tra essere umano e ambiente.
L’idea di una possibile opposizione tra essere umano e ambiente ci stimola a porci
alcuni interrogativi:
Esisterebbe questo essere umano senza l’ambiente?
Esisterebbe questo ambiente senza esseri umani?
E più in generale esiste una sorta di unità della natura che legherebbe insieme
l’esistenza degli esseri umani a quella di tutti gli altri esseri?
Anche la seconda opposizione, quella tra cultura e natura, ci suggerisce subito
un paio di questioni:
La cultura si oppone alla natura o la continua?
La natura è anche frutto della cultura?
Infine, anche l’ultima opposizione – quella tra pensiero umano e natura – ci
pone inevitabilmente alcuni interrogativi:
La natura pensa?
L’essere umano è il prodotto di un pensiero naturale?
Il pensiero umano è un prodotto della natura?
Si tratta di domande molto profonde e importanti che non possiamo certo presumere
di poter risolvere una volta per tutte. Ci accontenteremo piuttosto di impostare alcuni
percorsi di riflessione, ognuno dei quali potrebbero essere ulteriormente approfonditi e
discussi, senza alcuna pretesa di esaustività e di sistematicità.
Partiamo dunque dalla prima opposizione quella tra essere umano e ambiente. Il
fondamento di tale opposizione ha radici molto antiche. Si può dire che in gran parte
derivi dalla cultura giudeo cristiana e in parte dalla cultura greca.
Per esempio nel Salmo 8 attribuito a Davide nella Bibbia, l'autore rivolgendosi a
Dio chiede "Signore che cos'è l'uomo?", oppure traducendo differentemente "Signore
chi è l'uomo?".
chi è mai l'uomo perché ti ricordi di lui?
Chi è mai, che tu ne abbia cura?
L'hai fatto di poco inferiore a un dio,
coronato di forza e splendore,
signore dell'opera delle tue mani.
Tutto hai messo sotto il suo dominio:
pecore buoi e bestie selvatiche,
uccelli del cielo e pesci del mare
e le creature degli oceani profondi.
Già in questo salmo si vede che l'essere umano è rappresentato all'esterno del suo
ambiente e quindi vi si contrappone per dominarlo. Da questo punto di vista viene
19
ipotizzata una sorta di gerarchia degli esseri viventi, al cui vertice sta l'uomo - ritenuto
di poco inferiore a un dio – mentre tutti gli altri animali vengono posti sotto il suo
dominio.
A distanza di migliaia di anni la nostra cosmologia, la nostra concezione del vivente,
il nostro pregiudizio antropologico sono rimasti sostanzialmente invariati. Anche se
naturalmente in questa stessa tradizione ci sono state voci differenti da San Francesco
a Théodore Monod, a Eugen Drewermann, solo per fare alcuni nomi.
Un tratto comune di diverse religioni tradizionali (dei monoteismi in particolare) in
effetti è quello di ipotizzare un dualismo tra Dio e creato, cui corrisponde un dualismo
tra essere umano (creato ad immagine divina) e il resto della natura. Secondo
Gregory Bateson tali presupposizioni sono una delle radici epistemologiche
dell’attuale crisi ecologica:
«Se mettete Dio all’esterno e lo ponete di fronte alla sua creazione, e avete
l’idea di essere stati creati a sua immagine, voi vi vedrete logicamente e
naturalmente come fuori e contro le cose che vi circondano. E nel momento in
cui vi arrogherete tutta la mente, tutto il mondo circostante vi apparirà senza
mente e quindi senza diritto a considerazione morale o etica. L’ambiente vi
sembrerà da sfruttare a vostro vantaggio. La vostra unità di sopravvivenza
sarete voi e la vostra gente o gli individui della vostra specie, in antitesi con
l’ambiente formato da altre unità sociali, da altre razze e dagli animali e dalle
piante. Se questa è l’opinione che avete sul vostro rapporto con la natura e se
possedete una tecnica progredita, la probabilità che avete di sopravvivere sarà
quella di una palla di neve all’inferno. Voi morrete a causa dei sottoprodotti
tossici del vostro stesso odio o, semplicemente, per il sovrappopolamento e
l’esagerato sfruttamento delle riserve» (Bateson, 1976, p. 480).
Anche la cultura moderna e scientifica, quella “laica”, sia di matrice illuminista,
sia marxista, si inscrive - anche se non ne è consapevole - in questo grande solco
culturale e ne condivide gli assunti antropocentrici e specisti. Da questo punto di vista
almeno una parte della cultura laica e scientifica moderna è in continuità e anzi ha
rafforzato le premesse di fondo di questa cosmovisione. In essa l’uomo è il centro del
mondo e il centro della vita. La specie umana è superiore e ha un diritto di dominio
sulle altre specie. Mentre la natura è vista come un giacimento inerte di risorse
disponibili per lo sfruttamento e le necessità dell'essere umano.
Dunque ancora oggi la cultura occidentale rappresenta l’essere umano come un
soggetto pensante autonomo a fronte di un ambiente esterno sul quale egli è libero di
intervenire a suo piacimento. Se si vuole comprendere qualcosa dei sistemi viventi e
della loro organizzazione dobbiamo cominciare a mettere in discussione tale visione
individualistica e atomistica. L’idea fondamentale secondo cui nell’universo vi sono
“cose” separate – nota Gregory Bateson - è una creazione e una proiezione della
nostra psicologia (Bateson, 1997, p. 148).
In realtà non è possibile separare l'essere umano dall'ambiente in cui è
immerso. Non esiste un "là fuori", un ambiente dato e oggettivo e nemmeno un “io”
separato dal suo ambiente e dalle sue infinite interazioni. Ambienti ed esseri viventi si
costruiscono e si adattano gli uni con gli altri, mediante le loro attività ed interazione.
Nell'evoluzione naturale, il processo di selezione nell'evoluzione è basato su una
relazione reciproca: l'ambiente seleziona gli organismi, e gli organismi selezionano
l'ambiente.8 Si tratta dunque di comprendere che l’essere umano non esiste come
forma vivente isolata al di fuori del suo ambiente.
Ricordiamo quanto diceva Edgar Morin,
8
Su questo aspetto vedi il bel libro di Richard C. Lewontin (1991), in particolare il cap. 2.
20
«L’eco-sistema non è l’eco-sistema dal quale siano stati eliminati gli individui,
è l’eco-sistema insieme agli individui; l’individuo non è l’individuo separato
dall’eco-sistema, ma l’individuo insieme all’eco-sistema» (Morin, 1988, p. 88).
Dunque essere umano e ambiente non sono in opposizione ma sono integrati e in
simbiosi l’uno con l’altro. Da questo punto di vista possiamo dunque anche
interrogarci sul tipo di legame che lega l’essere umano a tutte le altre forme viventi.
Possiamo a questo proposito riproporre la domanda formulata da Gregory Bateson.
«Quale struttura connette il granchio con l’aragosta, l’orchidea con la primula
e tutti e quattro con me? E me con voi? E tutti e sei noi con l’ameba da una parte
e lo schizofrenico dall’altra?» (Bateson, 1984, p. 21).
Questa frase di Gregory Bateson sarebbe certamente piaciuta anche al sociologo
Roger Caillois un altro studioso dei rapporti tra essere umano e natura, il quale
tuttavia non avrebbe tralasciato di aggiungervi qualche riferimento all’universo dei
minerali e a quello dell’immaginazione.
A parere del sociologo francese esisterebbero infatti delle leggi più vaste che
governerebbero ad un tempo l’inerte e l’organico (Caillois, 1988, p. 24).
«Come tutti, sono consapevole dell’abisso che separa la materia inerte dalla
materia vivente – afferma il sociologo francese-, ma immagino egualmente che
l’una e l’altra possano presentare delle proprietà comuni, tendenti a ristabilire
l’integrità delle loro strutture, sia che si tratti dell’una o dell’altra. Così non ignoro
certo che una nebulosa contenente migliaia di mondi e la conchiglia secreta
da qualche mollusco marino sfidino qualsiasi tentativo di accostamento.
Ciononostante, io le vedo tutte e due sottomesse alla medesima legge dello
sviluppo a spirale. E di ciò non ci si dovrebbe stupire più di tanto, poiché la
spirale costituisce la sintesi perfetta di due leggi fondamentali dell’universo, la
simmetria e la crescita, che riescono a comporre l’ordine con l’espansione. È
quasi inevitabile che l’animale, la pianta e gli astri si ritrovino egualmente
sottomessi ad esse» (Caillois, 1988, p. 5).
Caillois, pur essendo consapevole dell’abisso che separa il mondo vivente da quello
inanimato, non rinuncia tuttavia a sottolineare gli elementi di continuità e di
comunanza tra di essi. A questo proposito si richiama a Pasteur per proporre
l’accostamento tra le attività di ricostituzione di una qualunque parte rotta da parte di
un cristallo rimesso nella sua acqua madre e le attività di cicatrizzazione riscontrabili
nelle piante o nell’essere umano.
Dunque tra l’intelligenza umana e i fenomeni puramente biologici di calcificazione
presso gli organismi inferiori vi sarebbe, nonostante l’abisso che li separa, una
profonda comunanza.
«Quando, in occasione del suo ottantesimo compleanno, un fotografo venne da
Parigi e chiese a Monet di farsi ritrarre, il pittore gli rispose: “venite la primavera
prossima e fotografate i miei fiori nel giardino, essi mi assomigliano più di quanto
io non somigli a me stesso”» (Bloch, 1994, pp. 166-167).
Un qualcosa di simile, racconta in qualche modo il rapporto di Roger Caillois con le
“sue” pietre alla cui descrizione ha dedicato tanti libri e sulle quali ritorna in molte
situazioni della sua vita.
21
«La pietra mi restituisce a una storia lunga e oscura, anteriore all’uomo, una
storia che non lo riguarda per nulla e da cui io sono nato alla fine di un percorso
tra innumerevoli germogli altrettanto effimeri e vani. Sono sconcertato da questo
cippo stemmato. Esso mi fa conoscere meglio la mia condizione di essere
frazionato e caduco, ma d’una origine così lontana e preparato da un numero
così sterminato di casi. Non mi spiace di ritrovarmi solo, senza enciclopedia né
documenti né codice di fronte a un enigma probabilmente insignificante, la cui
soluzione, in ogni caso, non potrebbe interessare un organismo sensibile,
sessuato, mortale (mi sorprende improvvisa l’idea che ogni essere sessuato, vale
a dire destinato alla riproduzione, è necessariamente mortale)» (Caillois, 1999,
p. 76).
Nei percorsi di Caillois relativi alle conformazioni e ai disegni delle pietre, alle abitudini
e ai comportamenti degli animali, alle origini del mito e alle strutture che sottendono a
tutte queste cose e anche al mondo dell’immaginazione, si ritrova in nuce un tentativo
di rovesciare un modo di ragionare che ha radici antiche, quello per cui l’uomo si vede
al centro del mondo e al centro della vita. Per cui la specie umana si proclama
superiore e vanta un diritto di dominio sulle altre specie.
Caillois richiama e critica più volte quella specie di “antropocentrismo negativo”
che risulta dal tentativo di escludere l’essere umano dall’universo e di sottrarlo a tutte
le regole e le corrispondenze che lo legano agli altri esseri viventi e alle strutture
dell’universo.
Come altri Caillois non rinuncia a ricordare all’essere umano la sua natura animale e
il suo legame con gli altri regni naturali a costo di frustrare le proprie rappresentazioni
narcisistiche.
Su questo piano, in particolare, tra Gregory Bateson e Roger Caillois di fronte a
differenze pur significative emergono tuttavia più profonde corrispondenze. Intenti a
celebrare “l’unità della natura” (Bateson) o “l’indivisibilità dell’universo”
(Caillois), entrambi cercano a proprio modo di restituire l’essere umano ad una più
ampia prospettiva che contempla assieme essere umano e natura.
Ma che può significare dunque restituire l’uomo alla natura? Cos’è allora quella
natura che ha prodotto l’essere umano e che cos’è l’essere umano che può riflettere
sulla natura e addirittura credere di contrapporvisi e dominarla senza per questo mai
smettere di esserne parte?
Probabilmente l’importanza di questi discorsi non sta tanto nella risposta ma
nell’impegno che possiamo spendere per continuare a riproporre questo genere di
domande, con l’idea di poter ogni volta afferrare una connessione più profonda,
un’intuizione ancora, o un briciolo di consapevolezza in più.
Fin dal suo saggio giovanile, scritto poco più che ventenne, sulla mantide religiosa e
sui miti e i riferimenti simbolici che l’accompagnano tra le culture umane, Caillois
sottolineava che
«l’uomo non è isolato dalla natura, è un caso particolare solo per se stesso.
Non sfugge all’azione delle leggi biologiche che determinano il comportamento di
altre specie animali, ma queste leggi, adattate alla sua propria natura, sono
meno evidenti, meno imperative: esse non condizionano più l’azione, ma soltanto
la rappresentazione» (Caillois, 1998, p. 45).
In altre parole sosteneva che per quanto riguarda l’essere umano si può parlare di
un
condizionamento
biologico
non
tanto
del
comportamento
quanto
dell’immaginazione e che questo condizionamento agisce allo stesso modo nei miti
quanto nei deliri ovvero nei due poli estremi dell’affabulazione. «Il mito – nota Caillois
22
- rappresenta alla coscienza l’immagine di un comportamento di cui essa avverte la
sollecitazione»(Caillois, 1998, p. 47).
Da questo punto di vista Caillois non si limita a ricordarci darwinianamente che
deriviamo da un’evoluzione animale, ma insiste sul fatto che da quella natura
originaria non ci emanciperemo mai completamente. La stessa civiltà umana può
opporsi alla natura ma non può negarla poiché ne è piuttosto un frutto
legittimo.
«Non esiste abisso tra il mondo naturale e il mondo umano. L’uomo è natura,
ma la natura in lui è libera e inventiva. Suppone un individuo che esita e che si
sbaglia, che riflette ed è responsabile, che, in una parola, è cosciente. La
coscienza tentenna, ricomincia senza sosta, va di scacco in scacco, è maldestra e
dolorosa. Ma alla fine crea»(Caillois, in Olivieri 2004, p. 91).
Certamente il comportamento umano non appare mai altrettanto meccanico e
implacabile di quello delle altre forme viventi: l’essere umano esita, tentenna, riflette,
si contraddice, ha più gioco degli altri animali e tuttavia non cessa mai completamente
di confrontarsi con un certo schema dinamico, con un canovaccio antico e profondo.
In tutti i modi la prospettiva di una comunione tra essere umano e natura deve –
come ha ripetutamente sottolineato Théodore Monod (Monod, 2004) - spodestare
l’essere umano dal trono di re della creazione in cui si è indebitamente autocollocato.
All’essere umano va forse ricordata la sua natura animale a costo di frustrare le
proprie rappresentazioni narcisistiche. Non è possibile nessun passo avanti sul piano
della consapevolezza ecologica se non rifiutando l’idea che il resto della natura e delle
specie viventi non abbia altro motivo di esistenza che quello di essere utile alla specie
umana. La prossima conquista della specie umana che ci dobbiamo augurare sarebbe
una rivoluzione psichica da cui discenda una maggiore umiltà verso l’insieme della
natura vivente.
Come ha sottolineato il teologo tedesco Eugen Drewermann, l’essere umano fa
parte della natura, dunque ogni ideologia che promuove un dominio dell’uomo sulla
natura diventa ipso facto un’ideologia del dominio dell’uomo su altri esseri umani.
Basta pensare per esempio come la distruzione della natura promossa dalla cultura
occidentale in tutto il Novecento abbia coinvolto evidentemente anche tutti i popoli
che vivevano a stretto contatto con la natura: «ogni dottrina che contrappone l’uomo
alla natura invece di inserirlo nella natura, pone al tempo stesso l’uomo contro l’uomo.
Che lo voglia o no, una simile dottrina provoca guerra e distruzione per quanto i suoi
discorsi possano invocare la pace» (Drewermann, 1999, pp. 114-115).
L’opposizione tra cultura e natura
Ancora nella società moderna è molto diffusa un notevole grado di ignoranza rispetto
alla storia naturale, ovvero all’avventura biologica ed animale, all’evoluzione del
vivente. Gran parte della nostra cultura è da questo punto di vista alienata,
morta, ignorante rispetto alle condizioni stesse della propria riproduzione e
sopravvivenza.
C’è d’altra parte qualcosa del patrimonio storico spirituale dell’umanità che
dev’essere recuperato e riconosciuto nella sua capacità di comprendere e
rappresentare metaforicamente la nostra condizione, attraverso la consapevolezza
della fondamentale unicità ed unità dell’essere. Bisogna riconoscere e ascoltare da
questo punto di vista la saggezza e le intuizioni di altre tradizioni religiose e spirituali
(orientali, africane, indigene) così come rivalutare quei pensatori che sia nella
tradizione religiosa cristiana (S. Francesco, Albert Schweitzer, Karl Barth, Eugen
Drewermann) che in quella filosofica-scientifica (Alfred North Whitehead, Gregory
23
Bateson, Théodore Monod e altri) hanno saputo mostrare una sensibilità diversa verso
il vivente.
Ora un modo per affrontare in modo interessante il rapporto tra natura e cultura è
quello di interrogarci sull’idea di “bellezza”.
Sia Caillois che Bateson per esempio fanno discendere l’idea di bellezza da una
sensibilità a queste relazioni, ricorrenze, connessioni. Per Bateson per definizione
estetico indica proprio «sensibile alla struttura che connette».
Allo stesso modo Caillois suggerisce l’esistenza di una certa sensibilità basata su
una continuità inaspettata tra trame naturali e frutti dell’ingegno e dell’arte umana.
Per Caillois la nostra stessa idea di bellezza, ovvero la nostra inesplicabile ed inutile
propensione a suddividere le cose in belle e brutte è debitrice di queste norme
permanenti, di questi sistemi di relazioni.
Lo stesso osservatore in fondo non fa che utilizzare modelli che ha già appreso e
che in qualche modo derivano da questa disciplina o conoscenza primaria. Regole
geometriche, matematiche, proporzioni, simmetrie e asimmetrie sono presenti
nell’universo ad ogni livello persino negli elementi più elementari e infinitesimali.
Nell’infinita varietà di corpi, materiali, forme di vita, livree, fiori, maschere, dipinti,
ovunque si trovano gli stessi disegni, le stesse immagini, le stesse ricorrenze, gli
stessi accostamenti cromatici. Queste corrispondenze non si trovano solo nella natura
ma si prolungano anche nel mondo dell’immaginazione.
Il punto importante è comprendere la condizione in cui ci troviamo oggi. La
modernità ha coltivato l'illusione di fare a meno della natura, di rendersi
completamente autonomi dalla natura, e di vivere in un mondo completamente
artificiale o ricreato. Ma questa illusione oggi si rovescia nel suo opposto.
Potremmo dire che mai come oggi l'umanità dipende da un flusso costante e
crescente di beni e risorse sottratte alla natura: risorse fossili, minerali, terra,
legno, cibo, animali, tutto viene saccheggiato e incorporato in un enorme metabolismo
sociale che produce un enorme disequilibrio.
Come ha scritto Michel Serres:
«Sì, una volta acquisiti, o quasi, la padronanza e il possesso della natura
finiscono per il fatto che la natura ci possiede e praticamente ci padroneggia.
Eravamo sul punto di manipolarla, e ormai essa ci manipola a sua volta. Come il
mercato. Si direbbe che dinanzi a noi si levi un altro soggetto. Questo qui.»
(Serres 2009, p. 41).
Secondo Serres noi facciamo ancora oggi affidamento su una politica che
storicamente si definisce in un gioco a due, tra uomini. Infinite competizioni e
negoziazioni tra partiti, tra governo ed opposizioni, tra sindacati e industrie, credenti e
laici ecc. Sono giochi di equilibrio e di forza, ma sempre di umani con umani. Quello
che la filosofia ha chiamato dialettica. Ma, ci avverte Serres, oggi subiamo un colpo
definitivo al narcisismo umano: siamo «costretti a far entrare il mondo come
terzo nelle nostre relazioni politiche» (Ivi. p. 44). Il nuovo gioco a tre potremmo dire tra scienze, società e biogea - rimpiazzerà il vecchio gioco a due? E
come questo cambierà non solo la politica ma il nostro modo di pensare e di agire?
La novità è che le mosse della natura oggi ci appaiono più forti delle nostre, e
improvvisamente essa assume quel ruolo di soggetto che fino ad ora non eravamo
disposti a riconoscerle.
«Nel corso di alcuni decenni, l'antico oggetto passivo è diventato attivo. L'antico
soggetto umano - l'abbiamo visto - si mette a dipendere da ciò che, appunto
dipendeva da lui. Quale novità per i filosofi della conoscenza e dell'azione!»
(Serres 2009, p. 58).
24
Corso di Sociologia della comunicazione politica - a.a. 2014/2015
Verso una democrazia ecologica?
La discussione pubblica e la partecipazione politica
di fronte alla crisi ambientale
Docente: Marco Deriu
LA PERDITA DI BIODIVERSITÀ:
DALLA DEFORESTAZIONE ALLA SESTA ESTINZIONE
Nel nostro modo di guardare la natura, noi uomini occidentali, siamo influenzati
dallo sguardo del moderno homo œconomicus. Per noi la natura è essenzialmente
un ambiente da controllare e un patrimonio di risorse a cui attingere in base alle
nostre capacità. Nella natura vediamo tutto ciò che ci è immediatamente utile ovvero
che direttamente o indirettamente tramutabile in merce o in guadagno. Questo
sguardo peculiare permette continuamente ai cantori della globalizzazione di esaltare
le performance produttive dei paesi sviluppati e più in generale dell’economia globale.
Da questo punto di vista effettivamente la produttività, ovvero la capacità di creazione
di merci e di ricavi economici non ha mai raggiunto nella storia umana livelli analoghi.
Tuttavia tale prospettiva omette di interrogarsi sugli effetti ecologici di queste
performance economiche e sul funzionamento più profondo degli ecosistemi
che non si limitano a produrre beni, risorse o frutti ma a garantire attraverso cicli
biogeochimici – creazione di humus, fotosintesi, impollinazione, il ciclo delle acque,
ecc… - la riproduzione delle condizioni vitali necessarie alla sopravvivenza di tutte le
specie viventi inclusi gli umani.
Attualmente il nostro mondo sta fronteggiando due crisi ecologiche diverse
seppure connesse.9
La prima riguarda la finitezza delle risorse fisiche, e si presenta nella forma della
scarsità e del progressivo esaurimento delle risorse energetiche fossili, dei minerali,
dei metalli. Su questa crisi si concentra la pur scarsa attenzione dei paesi sviluppati.
C’è tuttavia anche una seconda crisi che riguarda le risorse viventi e che si presenta
attraverso una progressiva perdita di biodiversità e un progressivo degrado degli
ambienti che rischia di compromettere le capacità di recupero (resilienza) degli
ecosistemi.
Come hanno notato gli autori del Wuppertal Institute:
«Già prima che i contraccolpi finanziari diventino tangibili, la foresta comincia a
perdere la capacità di svolgere il proprio ruolo nella riproduzione della trama della
vita. Si filtra e si trattiene meno acqua, con la siccità i ruscelli si assottigliano e
con le piogge straripano, i terreni si erodono più facilmente, la selvaggina
sparisce, così come gli uccelli, e l’aria ha uno strumento in meno per purificarsi.
Ciò che permette agli ecosistemi di conservarsi comincia a mancare quando un
eccessivo utilizzo o la diffusione di sostanze inquinanti ne danneggiano la
capacità di rigenerarsi; morte biologica delle acque, riscaldamento dell'atmosfera,
o riduzione della fertilità dei terreni sono solo altri esempi. Questo tipo di limite è
evidente soprattutto per le risorse biologiche; in un primo momento non
9
Si veda in proposito Sachs, Santarius, 2007 p. 203.
25
colpiscono ancora l'economia, deteriorano però l'ospitalità di spazi naturali grandi
e piccoli alle varie forme di vita, essere umani inclusi» (Sachs, Santarius, in
Wuppertal 2007, p. 33).
Spesso le metafore che usiamo per parlare della crisi ecologica, fanno riferimento a
catastrofi improvvise, a disastri subitanei, ma Sachs ci consiglia di pensare anche
attraverso altre metafore alla crisi ecologica che stanno attraversando.
«Una metafora più appropriata potrebbe essere quella della sfilacciatura di un
tessuto. All'inizio si spezza solo qualche filo e la rottura si nota appena, poi
cominciano a svanire tanto la funzionalità quanto la bellezza della trama fino a
quando non compaiono veri e propri buchi, strappi o addirittura la stoffa si disfa»
(Sachs, Santarius, in Wuppertal 2007, p. 34).
Quello a cui dovremmo pensare in questi termini è il declino della capacità di
resilienza degli ecosistemi, ovvero la loro capacità di recuperare un equilibrio dopo
lo stress causato da elementi negativi.
La resilienza è legata al mantenimento della biodiversità e della complessità delle
trame viventi.
Da questo punto di vista vorrei farvi notare che noi sappiamo in verità ancora poco
della complessità e della varietà degli ecosistemi. I biologi non sono nemmeno
d’accordo sul numero delle specie viventi sul pianeta. Anni fa si pensava che fossero
pochi milioni, ma c’è stato anche chi si è avventurato a ipotizzare qualche decina di
milioni. La maggior parte degli studiosi stima che sulla terra ci siano circa 10-14
milioni di specie viventi. L’essere umano ne ha classificate per ora circa un milione
e cinquecento mila. Per esempio conosciamo nemmeno un milione di insetti su circa
gli otto milioni che sono stimati esistere, circa 50.000 vertebrati su oltre 100.000,
circa 300.000 vegetali su circa mezzo milione esistenti. La nostra conoscenza della
natura vivente è ancora oggi molto parziale. Moltissimo rimane ancora da scoprire e
da conoscere. Ma molto minaccia di venir distrutto prima che ne comprendiamo la
natura ed il ruolo. Ad ogni modo quello che sappiamo, oltre alla conoscenza diretta di
un certo numero di specie animali, è l’importanza che il mantenimento della
biodiversità ha per la conservazione della vita, dell’evoluzione e della sopravvivenza
stessa dell’essere umano.
La biodiversità si determina a tre livelli diversi:
1.
2.
3.
la biodiversità genetica relativa ad ogni specie; ovvero la variabilità del
patrimonio di geni presente in ciascuna specifica specie di animali o di piante.
Questa biodiversità è importante soprattutto perché assicura una certa
elasticità e capacità di adattamento della specie ai cambiamenti esterni.
la biodiversità di specie presenti in ogni ecosistema; ovvero il numero e
la differenziazione delle diverse specie animali e vegetali presenti in un
determinato ambiente. Questo definisce la ricchezza e anche la complessità
delle relazioni e dei processi che possono registrarsi in un particolare
ecosistema.
la biodiversità degli ecosistemi, detta anche “ecodiversità”; ovvero la
varietà dei diversi ecosistemi presenti in un’area o nel pianeta stesso. Anche
in questo caso la biodiversità assicura una fitta trama di intrecci, relazioni e
interazioni complesse tra animali, vegetali ed elementi fisici dando luogo a
processi complessi di cooperazione e competizione.
Le possibilità dell’evoluzione della vita dipendono dal mantenimento della diversità
biologica complessiva, di questi tre livelli. Questa biodiversità è il risultato di quattro
26
miliardi di anni di evoluzione e allo stesso tempo la riduzione di biodiversità altera le
possibilità di evoluzione della vita sul pianeta per il futuro.
Come ha notato Niles Eldredge,
«La ragione per cui molti di noi hanno difficoltà a comprendere il valore della
biodiversità è tutto sommato semplice: non viviamo più in ambienti confinati in un
ecosistema locale e siamo perciò portati spontaneamente a pensare di non essere
più parte del mondo naturale. Ciò che davvero è avvenuto negli ultimi 10.000 anni
non è stato però un vero abbandono, ma una ridefinizione di noi stessi e del nostro
modo di inserirci nel mondo in senso ecologico; siamo però ancora parte del
mondo naturale, a dispetto della relazione del tutto nuova che abbiamo stabilito
con esso» (Eldredge, 2000, pp. 211-212).
Tale relazione, sostiene Eldredge, è una specie di strada a doppio senso. Si tratta di
capire per un verso l’impatto che noi abbiamo sulla natura e la biodiversità, ovvero sul
sistema globale, e, per un altro verso l’impatto – e l’importanza – che la natura e la
sua biodiversità ha ancora oggi su di noi. Dobbiamo dunque produrre una specie di
“doppia comprensione”: chi siamo noi come esseri umani che possiamo alterare oggi
gli equilibri di questo sistema naturale, della vita e dell’evoluzione sulla terra, e che
cos’è e come funziona questo sistema naturale che può avere influenza su di noi e
permetterci di vivere o farci scomparire.
Vediamo dunque questi due aspetti a partire dal primo, ovvero dall’impatto che
l’uomo oggi ha sul sistema naturale ed in particolare sulla biodiversità.
Le minacce agli ecosistemi e ai loro patrimoni di biodiversità oggi riguardano
diversi elementi:
-
deforestazione
riscaldamento climatico
inquinamento
perdita delle zone umide
desertificazione
erosione e cementificazione di terreni fertili
prosciugamento e inquinamento di fiumi e laghi
distruzione delle barriere coralline
scomparsa di specie vegetali
scomparsa di specie animali
Stiamo lentamente cominciando a comprendere come la progressiva sottomissione e
trasformazione della natura a merce per il mercato globale oggi finisce col minacciare
gli stessi equilibri degli ecosistemi nei quali viviamo e da cui dipendiamo.
Vediamo in particolare gli effetti sul suolo, sulla foresta e sugli animali.
Il suolo
Il suolo è lo strato superficiale formato dalla disgregazione delle rocce. Diventa
fertile se contiene una certa quantità di Humus, ovvero una sostanza organica
composta da resti animali, e vegetali decomposti dall’attività di batteri. Questa
sostanza organica nella misura in cui contiene anche una certa quantità di sostanze
minerali permette lo sviluppo di piante e vegetali. La crescita delle piante dipende
dalla presenza di una dozzina circa di sostanze nutritive tra cui azoto, fosforo, zolfo,
potassio, calcio, magnesio, ferro, zinco, rame molibdeno, boro, cloro. Un suolo fertile
si forma in ragione di processi naturali con una velocità dell’ordine di un millimetro di
spessore ogni secolo. I suoli si dividono in eluvionali o alluviali. Sono eluvionali o
27
autoctoni, se si trovano nei luoghi dove si sono formati, e sono alluviali o alloctoni,
se si sono formati per trascinamento (pioggie, vento) in luoghi diversi da quelli che
ospitano le rocce da cui derivano.
La fertilità del suolo è alla base di molti processi naturali e rappresenta anche il
fondamento della produzione agricola e quindi della catena alimentare. Se il suolo
viene eroso, diventa sterile o viene inquinato questo si trasforma tra le altre cose in
una diminuzione delle potenzialità di produzione alimentare. Per questo oggi la terra
rappresenta uno dei beni più fragili e più importanti da conservare. Ma i doni della
terra sono molti e differenti:
-
-
-
-
-
-
-
-
Regimazione delle acque. La terra svolge le funzioni di una spugna. Quando
piove una parte dell’acqua viene assorbita e diventa nutrimento per le piante, una
parte viene lasciata percolare lentamente e finisce con arricchire la falda idrica
sottostante. La perdita da parte del terreno di capacità di assorbimento delle acque
fra le altre cose aumenta l’effetto di allagamento in caso di maltempo e di pioggie
consistenti.
Qualità delle acque. Se il suolo non è inquinato esso svolge in questo processo
anche una funzione importante di filtro e depurazione delle acque che giungeranno
alla falda. Alcune sostanze potenzialmente inquinanti possono essere assorbite
dalla piante, rendento l’acqua della falda utilizzabile per usi umani. Viceversa se i
terreni sono contaminati o se sono sterili perdono questa capacità naturale di
filtraggio e l’acqua diventa inutilizzabile o di scarsa qualità anche per gli esseri
umani.
Mitigazione del clima. I terreni liberi da edifici si scaldano meno nei periodi
estivi, favoriscono il ricircolo dell’aria e restituiscono lentamente calore e umidità
all’atmosfera. Al contrario città e terreni cementificati d’estate hanno un effetto di
trattenimento di calore e di riscaldamento dell’aria.
Qualità dell’aria. I terreni e la vegetazione assorbono e in parte metabolizzano
diversi inquinanti atmosferici, fra cui l’anidride carbonica, responsabile dell’effetto
serra.
Qualità dei prodotti locali. La conservazione della qualità del suolo è
fondamentale per l’agricoltura ed in particolare contribuisce a definire le
caratteristiche specifiche dei prodotti locali: vino, pane, formaggi, carne ecc.
Biodiversità. Il suolo è un ambiente ricco di vita. In un metro quadrato di suolo
vivono circa 200 mila lombrichi, un milione di funghi, 60 mila miliardi di batteri e
tanti altri organismi.
Habitat per la fauna. Campi e prati sono un habitat importante per molte specie
di piante e animali che trovano qui la loro casa e la loro possibilità di nutrimento e
di riproduzione. Anche l’allevamento di molti animali richiede la presenza di un
terreno fertile e non contaminato.
Bellezza. Infine il suolo e i suoi abitanti vegetali e animali sono la base del
paesaggio e, se ben conservati, una fonte di piacere e relax.
Ma nelle società industriali, in seguito all’espansione dell’urbanizzazione, alla
creazione di grandi reti stradali e della cementificazione si è in gran parte persa la
consapevolezza dell’importanza per la natura e per la nostra stessa sopravvivenza di
questo bene prezioso e della sua conservazione.
Segnale di questa indifferenza è la facilità e la rapidità con cui nel mondo ed in
particolare nei paesi più sviluppati si continua a costruire e a cementificare la terra
sottraendo terre all’agricoltura e trasformando terreni vivi e produttivi in superfici
impermeabili e sterili che non potranno più essere riportate allo stato fertile e
produttivo per centinaia e centinaia di anni.
Va considerato in questo quadro il processo crescente di urbanizzazione.
28
Nel 1800 soltanto il 3% della popolazione viveva in città. Nel 1900 la percentuale di
cittadini diventa il 14%. Nel corso del XX secolo i rapporti tra popolazione urbana e
popolazione rurale si sono invertiti. La popolazione urbana per la prima volta
nella storia umana ha superato numericamente la popolazione rurale nel
corso del 2007. Oggi la maggioranza della popolazione mondale vive in città.
Nel mondo attualmente si registra un tasso di incremento delle superfici
urbanizzate del 2,7%, pari a 128.000 km2 in un anno. Solamente in Italia ogni
giorno vengono cementificati circa 161 ettari di terreno.
Come ha notato Michel Serres
«Nel corso del XX secolo, in paesi analoghi al nostro, la percentuale dei
contadini e delle persone occupate nelle attività di aratura e pascolo, in rapporto
alla popolazione globale di un gruppo dato, precipitò da più della metà al 2 per
cento. Questo calo divenne addirittura un crollo nel decennio considerato, e
prosegue tuttora. Benché continui a nutrirsi grazie a essa, l'umanità occidentale
ha quindi abbandonato la terra, almeno qui» (Serres 2009, p. 14).
In questo modo dunque - nota ancora Serres - si chiude un'era iniziata diecimila
anni fa.
Il fatto che questo radicale processo di cambiamento, e la conseguente
cementificazione della terra avvenga in maniera così fortemente irriflessa, quasi con
indifferenza, è un segnale della nostra alienazione, ovvero della nostra incapacità di
riconoscere le fondamenta ecologiche del nostro essere.
Ma naturalmente questo consumo indiscriminato della terra e questa erosione dei
terreni agricoli non significa che non ci cibiamo più di frutta, verdura, carne.
Evidentemente molti paesi sviluppati sono abituati ad importare prodotti della terra a
basso prezzo da altri paesi, in particolare dal sud del mondo. Questo però lega in
maniera sempre più strette le scelte compiute in un posto a quelle compiute in un
altro, diminuendo in fondo la libertà per entrambi.
Eppure molte misure possono essere prese per tutelare la perdita di suolo e
fermare o bilanciare i processi di cementificazione e costruzione.
Per esempio prima di dare concessioni edilizie e consentire nuove costruzioni si
potrebbe investire sul recupero e sul riutilizzo di edifici dismessi. Un’espansione
incontrollata della città e delle zone residenziali rende molto più difficile garantire e
distribuire servizi, in particolare legati alla mobilità e genera un aumento consistente
di traffico e di consumo privato.
Oltre a scoraggiare opere di costruzione e cementificazione edilizia non
strettamente necessarie bisognerà provare anche a promuovere processi di
rinaturalizzazione di suoli urbanizzati o degradati.
Ovviamente i processi di cementificazione e urbanizzazione non sono gli unici a
determinare un degrado del suolo e delle aree naturali.
Anche uno sfruttamento intensivo e squilibrato dei campi per uso agricolo
possono alla lunga ottenere lo stesso risultato, ovvero degradare la qualità del suolo e
renderlo via via più arido e povero di sostanza nutritive.
Come abbiamo visto nella prima lezione un sovrasfruttamento agricolo e
un’erosione dei terreni – anche in conseguenza della deforestazione - è alla base del
collasso di molte civiltà antiche, dai Sumeri, ai Greci, dai Maya all’isola di Pasqua.
Come ha notato David R. Montgomery
«Come molti problemi ecologici che diventano più ardui da affrontare più a lungo
sono stati negletti, l’erosione del suolo minaccia le fondamenta della civiltà in una
scala temporale più lunga della durata delle istituzioni sociali. Così più a lungo
l’erosione del suolo continua a superare la produzione di suolo, è solo questione
29
di tempo prima che l’agricoltura cessi di supportare la crescita della popolazione»
(Montgomery, 2007, p. 234).
Purtroppo forse anche più di altri problemi ecologici, il consumo e la perdita di suolo
avviene in tempi e in modi così lenti e burocratici che difficilmente attira l’attenzione
dell’opinione pubblica.
Tuttavia si tratta di una risorsa non sostituibile nel breve periodo. Dunque la
speranza di vita di una società dipende dalle caratteristiche del suolo e dalla velocità
in cui esso viene bruciato dalle attività umane. Ora mentre la velocità di
riproduzione del suolo è più o meno costante – un millimetro ogni cento anni
– la velocità di erosione invece nell’ultimo secolo è andata aumentando
vertiginosamente rispetto ai normali tempi geologici.
Dunque non c’è da stupirsi se globalmente il processo di desertificazione avanza
inesorabilmente e oggi interessa due terzi dei paesi del mondo e un terzo della
superficie terrestre. Secondo i dati forniti nelle ultime conferenze sulla desertificazione
dell’ONU (Recife 1999, Bonn, 2000), ogni anno il deserto si prende 150.000 km2
di terra (circa la grandezza della Grecia), generando profughi ambientali (13,5 milioni
di persone) e facendo scomparire flora e fauna. Da questo punto di vista il continente
più colpito è l’Africa, dove il 40% della popolazione ormai vive in zone aride o
semiaride. Anche l’America Latina e la Cina settentrionale sono molto esposte a
questo tipo di problema.
Questi processi si traducono fra l’altro in una riduzione o compromissione
dell’habitat per molte specie animali che divengono vittime indirette di questi
fenomeni.
Le foreste
Le foreste oggi ricoprono circa un quarto dell’intera superficie del pianeta, pari a
3,9 miliardi ettari, in particolare nella zona equatoriale e in quella boreale
temperata. Esse offrono l’ambiente ottimale per tantissime specie viventi – più della
metà delle specie della Terra -, proteggono il suolo dal fenomeno dell’erosione
assicurando l’assestamento idrogeologico e forniscono un contributo fondamentale
al ciclo delle acque, all’assorbimento del CO2, alla circolazione atmosferica,
svolgendo un’importante funzione anche dal punto di vista della regolazione del
clima.
Tuttavia negli ultimi 8.000 anni circa il 45% che un tempo ricoprivano la
terra sono state cancellate, ma gran parte di questa distruzione è avvenuta
nell’ultimo secolo. In ventinove paesi a partire dal sedicesimo secolo è andato perduto
oltre il 90% delle foreste. Il 95% del patrimonio forestale degli Stati Uniti è stato
distrutto.
Nell’ultimo decennio del ventesimo secolo il patrimonio forestale mondiale
si è ridotto di un ulteriore 4,2% in particolare l’America Latina e i Carabi hanno
perso più di 7 milioni di ettari di foresta tropicale e l’Asia sudorientale e l’Africa ne
hanno perso altre 8 milioni. Si calcola che ogni anno vengano distrutti quasi 14 di
ettari di foresta tropicale. A rischio sono in particolare le foreste del Brasile, della
Guyana, dell’Alaska, del Canada, della Russia, della Malaysia, dell’Indonesia. In
quest’ultimo paese circa tre quarti del patrimonio forestale è ormai scomparso in gran
parte tramite abbattimenti illegali. In Africa sono state colpite soprattutto le foreste
del Sudan, dello Zambia e della Repubblica democratica del Congo.
Per quanto riguarda le foreste rimaste, la maggior parte non sono comunque allo
stato originale e la loro condizione varia da situazione a situazione.
30
Un’indagine sulle foreste mondiali realizzata dall’Unep, il programma ambientale
dell’Onu assieme alla Nasa e al US Geologica Survey ha stabilito che l’80% delle
foreste ancora intatte sono concentrate in soli 15 paesi, fra cui i più rilevanti
sono tre: Russia, Canada e Brasile.
Ora i principali paesi responsabili in quanto primi consumatori di legname sono i
paesi più sviluppati del nord del mondo che approfittano della quasi totalità (80%)
della esportazione dei paesi del sud del mondo. La maggior parte dei paesi infatti
esporta una quantità di legno molto superiore a quella che utilizzano per il fabbisogno
interno. Dal 1960 la produzione industriale di legname a livello mondiale è
cresciuta del 50% fino a raggiungere attualmente la cifra di 1,5 miliardi di metri
cubi. Il legno viene utilizzato per l’arredamento e i mobili, per la pasta di legno, per i
pannelli, come materiale industriale, come compensato, come carta e cartoni.
All’incirca altri 1,5 miliardi di metri cubi di legname vengono usati a fini energetici e
per riscaldamento nei paesi del sud del mondo. Altre cause di disboscamento sono fra
altro la creazione di terreni agricoli, l’estrazione mineraria e petrolifera, gli incendi,
l’inquinamento e le piogge acide.
Nel mondo esistono attualmente circa 200 aree forestali protette per la loro
importanza ecologica e per il patrimonio di biodiversità che conservano. Ma anche
queste riserve sono colpite da pratiche di disboscamento illegale.
Contemporanemente alcuni paesi hanno avviato da alcuni anni delle forme di
riforestazione e a fianco di questo anche delle forme di coltivazioni – arboricoltura –
per soddisfare in maniera più sostenibile la domanda di legno di mercato. Altre misure
importanti per la difesa del patrimonio forestale sono la creazione di aree protette, la
promozione dei prodotti di riciclo, come la carta riciclata, e i processi di controllo e
certificazione da parte di organismi indipendenti, come il Forest Stewardship
Council (FSC) che assicurano che i prodotti di legno provengano da foreste gestite in
maniera responsabile e sostenibile.
La sesta estinzione
Da qualche anno alcuni scienziati e studiosi hanno iniziato a documentare e a metterci
in guardia sul fenomeno della perdita di biodiversità, sulla scomparsa impressionante
di specie animali, tanto da arrivare a parlare di una vera e propria nuova estinzione,
precisamente la sesta estinzione di massa sul nostro pianeta.
I palontologi inglesi Anthony Hallam e Paul Wignall, definiscono estinzione di
massa un evento che elimina una «significativa porzione della biota del pianeta
in un arco di tempo insignificante dal punto di vista geologico»10.
La prima grande estinzione, secondo gli scienziati, avvenne circa 444 milioni di
anni fa, a causa dell’avvento di un era glaciale, quando scomparve quasi la metà
delle specie esistenti, in particolare i piccoli animali marini.
La seconda – a causa di un raffreddamento e forse anche a causa della
precipitazione di grandi meteoriti - avvenne 360 milioni di anni fa e portò alla
scomparsa di circa il 70% delle forme viventi in particolare ammoniti e pesci primitivi.
La terza avvenne 251 milioni di anni fa a causa di enormi eruzioni vulcaniche in
Siberia e portò all’eliminazione del 96% delle specie marine e al 70% delle specie
terrestri.
La quarta si ebbe 200 milioni di anni fa, forse a causa del rilascio di grandi
quantità di metano dal fondo oceanico e portò alla scomparsa dei grandi anfibi e
terapsidi.
L’ultima e più famosa, avvenne 65 milioni di anni fa, quando la caduta di un
enorme asteroide costo la scomparsa dei dinosauri.
10
Cit in Elisabet Kolbert, La sesta estinzione. Una storia innaturale, Neri Pozza, Vicenza, 2014.
31
L’estinzione attualmente in corso è quella che stiamo causando noi, esseri umani.
Ora lo studio sugli ecosistemi nel mondo nel terzo millennio patrocinato dall’Onu ha
rivelato un dato sconcertante. Dalla analisi delle specie fossili, risulta che nel passato
della storia del vivente ci sia stata una perdita di una specie di mammiferi ogni 700 o
1000 anni. Attualmente questa scomparsa avviene ad una velocità mille volte
superiore. Negli ultimi cento anni si è registrata la scomparsa di oltre duecento
specie di vertebrati e di piante.
Per quanto riguarda gli anfibi attualmente sono la classe di animali più a rischio e il
loto tasso di estinzione sembrerebbe attestarsi a un livello quarantacinquemila volte
maggiore rispetto al tasso di estinzione di fondo (Kolbert 2014, p. 28).
L’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN), nel suo
ultimo aggiornamento della Lista Rossa delle specie minacciate nel 2014 ha indicato
che delle 76.199 specie valutate, 22.413 sono minacciate di estinzione, tra cui il
41% degli anfibi, il 34% delle conifere il 33% dei coralli, il 26% dei mammiferi, il 13%
degli uccelli.
Possiamo elencare dunque quali sono le cause di questa sistematica scomparsa di
specie viventi.
In primo luogo possiamo citare la crescita popolazione umana. Prima
dell’avvento dell’agricoltura, 10.000 anni fa circa, si stima che la popolazione umana
sul pianeta si limitasse a 3-4 milioni. Attualmente siamo circa 6 miliardi. Questo
significa l’invasione e l’occupazione di grandi aree di territorio e la competizione con
gli animali.
Questo aumento demografico si connette con una seconda causa che è quella della
distruzione dei grandi spazi naturali sia terrestri che acquatici: la deforestazione,
l’avanzata del deserto, la scomparsa delle zone umide, il prosciugamento o
l’alterazione di ambienti fluviali, lacustri o marini.
In terzo luogo l’emissione di agenti tossici e inquinanti che può compromettere
non solo alcuni esemplari ma intere nicchie ecologiche: emissioni aeree, polveri
chimiche, fanghi, acque di scarico. Poiché la vita si basa su una catena alimentare è
sufficiente che vengano compromesse o contaminate alcune specie nei livelli più bassi
di questa catena per determinare un effetto negativo su tutti gli altri livelli.
32
Un quarto aspetto connesso ai precedenti riguarda l’alterazione del clima e
l’effetto di riscaldamento globale. Le emissioni di CO2, il buco nell’ozono, l’effetto
serra hanno messo in moto un meccanismo di riscaldamento climatico del pianeta che
può produrre sconvolgimenti ecologici profondi ed alterare fra l’altro le nicchie
ecologiche di alcune specie.
Un altro aspetto importante è la diffusione di specie patogene o infestanti.
Questo può avvenire volontariamente per opera dell’uomo o involontariamente.
Migliaia di specie si diffondono o per opera intenzionale dell’uomo o anche
involontariamente attraverso trasporti e commerci o attravero l’acqua di zavorra delle
grandi navi, come le petroliere.
Gli esseri umani hanno spesso provato a introdurre specie vegetali o animali in
nuovi ambienti, senza preoccuparsi troppo degli effetti, che l’introduzione di organismi
estranei può causare nel nuovo contesto. Per esempio l’introduzione di conigli in
Australia dove non sono presenti possibili nemici o cacciatori ha portato nel giro di
pochi decenni ad una catastrofe ecologica, poiché i cononigli mangiano l’erba e le
piante in grande quantità e contribuiscono all’inaridimento di un territorio.
Anche l’allevamento di alcune specie funzionali ad uso commerciali può produrre
conseguenze ecologiche. I bovini per esempio sono quadruplicati arrivando alla cifra di
circa 1,4 miliardi, mentre i suini sono aumentati di 9 volte. Attualmente si stima che i
gas prodotti dalla loro digestione sono una delle principali fonti di metano. Il loro
nutrimento contribuisce a distruggere l’habitat per altre specie animali.
Un sesto aspetto riguarda l’eccesso di sfruttamento. Per esempio la pesca nel XX
secolo è aumentata di 35 volte. L’impatto delle nuove tecnologie di pesca, barche,
sonar, ecoscandagli, ha prodotto un sovrapescaggio che ha messo in crisi molti
ambienti ittici. I grandi pescherecci europei possono pescare in pochi giorni oltre 400
tonnellate di pesce, pari a circa 2 milioni di euro per ogni uscita. Le reti criminali poi
utilizzano tecniche ancora più distruttivo come le reti a strascico larghe fino a una
decina di chilometri. I contrabbandieri poi attentano a particolari specie di pesci
protette come le balene, gli squali, il tonno ecc. Il risultato è che i mari stanno
perdendo gran parte della loro ricchezza.
Molte specie sono a rischio di estinzione, altre vivono un pericoloso stress. Il Krill
antartico, i piccoli gamberetti che nutrano migliaia di specie di pesci e cetacei è
diminuito di quasi l’80 per cento dal 1970 ad oggi.
In Indonesia si stima che quasi l’85% della barriera corallina stia perdendo le
condizioni adatte per la sopravvivenza e la riproduzione di molte specie ittiche. Inoltre
la capacità di prelievo delle flotte di pescherecci occidentali non ha pari.
Tutto questo ha effetto anche sui paesi del sud, sulle loro coste e sulla popolazione
che vive di pesca. Il declino delle riserve ittiche e del pescato sta mettendo in crisi
paesi come la Mauritania, il Senegal, la Guinea Bissau.
Infine un ultimo aspetto molto importante di minaccia alla biodiversità è data anche
dal traffico commerciale di specie viventi. Si tratta ancora una volta di un
gigantesco processo di mercificazione della natura.
Per avere un’idea di questa riduzione della natura a merce si può osservare che
oggi va crescendo moltissimo il commercio internazionale di animali anche selvatici.
Come ha notato Hilary French (French, 2000, p. 26) ogni anno passano le frontiere
circa 40.000 primati, tra i 2 e i 5 milioni di uccelli, 3 milioni di tartarughe di
allevamento, tra i 2 e i 3 milioni di rettili, 500-600 milioni di pesci
ornamentali, tra i 10 e i 15 milioni di pelli di rettili, tra le 1000 e le 2000
tonnellate di coralli grezzi, 7-8 milioni di cactus e 9-10 milioni di orchidee.
Alcuni sequestri ricordati da Moisés Naìm possono contribuire ulteriormente a dare
un’idea di questi traffici. Un sequestro in Tibet nel 2003 ha riguardato una partita con
pellicce di 31 tigri, 581 leopardi e 778 lontre;
33
In Thailandia un autocarro intercettato nel 2004 comprendeva un carico di 600
pangolini (animali simili al formichiere) destinati ai ristoratori cinesi. Questo paese
sembra essere un crocevia del traffico internazionale di animali. Soltanto durante un
operazione di qualche mese nel 2003 sono stati sequestrati ai trafficanti dei carichi per
un totale di oltre 33.000 animali da tigri, ad orsi o a uccelli.
I maggiori consumatori di specie selvatiche sono Cina, Europa, Stati Uniti, Giappone
e alcuni paesi del Sud-Est Asiatico.
Gli usi sono diversi: animali da compagnia, zoo, trofei e collezionismo, pellicce,
abbigliamento e accessori, floricoltura, uso medicinale, specialità culinarie.
Alcune convenzioni hanno cercato negli ultimi anni di impedire o rendere più
difficile il commercio di molti animali in pericolo. Attualmente esistono circa 30.000
specie di animali e di piante protette. Per circa 1.000 di queste è proibito il commercio
in qualsiasi forma. In particolare la Convenzione sul traffico internazionale di specie di
fauna e flora selvatiche in pericolo (CITES) firmato nel 1963 e a cui hanno aderito
oltre 166 paesi. C’è anche una rete di agenzie, associazioni e istituzioni ecologiste
TRAFFIC che si occupa di controllare i traffici illeciti. Si può richiamare inoltre la
Convenzione sulla Biodiversità, firmata a Rio de Janeiro durante l’Earth Summit del
1992 che stabilisce una serie di principi e di diritti a tutela dell’utilizzo delle risorse
biologiche, ma purtroppo tali norme non hanno valore vincolante. Dunque la
commercializzazione illegale e incontrollata non è affatto cessata o diminuita.
Possiamo segnalare alcuni tra i traffici più redditizi. Gli Stati Uniti sono il
principale mercato di animali esotici come rettili (pitoni, boa, alligatori), pavoni,
macachi. La Cina importa ed esporta tartarughe sia per la farmacopea che per
l’alimentazione; nel 1995 ne sono state importate circa 2,5 milioni e l’anno successivo
ne sono state esportati circa 9,5 milioni di esemplari vivi.
Il classico traffico di avorio non è ancora tramontato. I principali paesi coinvolti
sono la Cina, la Thailandia, il Camerun, la Repubblica democratica del Congo, l’Etiopia
e la Nigeria. Pur essendo bandito in quasi tutti i paesi, i commercianti di avorio cinesi
o di Singapore non si fanno scrupoli di mostrarli nelle loro vetrine.
Il valore dell’avorio sul mercato internazionale viaggia attorno ai 3.000 euro a
zanna. Il valore delle pelli di tigre sul mercato sui 10.000 euro; quelle di panda
possono raggiungere perfino i 100.000 euro. Le radici di ginseng da 12.000 ai 35.000
euro al kg. In Giappone alcuni tonni valgono oltre 50.000 euro ciascuno. Le specialità
gastronomiche sono una delle fonti di domanda su cui si basano traffici animali: la
carne di balena in Giappone, il caviale di contrabbando del Caspio , il toothfisc cileno
ecc… Complessivamente il valore di questo traffico internazionale di specie selvatiche
ammonta circa 10-20 miliardi di dollari l’anno, di cui un quarto di natura
completamente illegale.
Tutti gli elementi che abbiamo richiamato – dall’aumento demografico al degrado
ambientale, dal riscaldamento climatico, alla diffusione di specie infestanti, fino al
commercio di specie viventi, ingenerano una forte pressione nei confronti delle altre
specie animali e vegetali. Nei fatti in generale la perdita di specie viventi degli ultimi
decenni rappresenta la più grande estinzione di massa dalla scomparsa dei dinosauri
ad oggi. Un quinto delle specie vegetali e animali ancora esistenti potrebbe sparire nel
giro dei prossimi trent’anni.
Ora anche su questo genere di risorse e sul loro utilizzo o sequestro si consuma un
conflitto tra paesi ricchi e paesi poveri. Dei 25 hot spots della biodiversità –
ovvero i luoghi che conservano la maggior ricchezza di flora e fauna e la più grande
capacità di riproduzione di diversità biologica - la stragrande maggioranza, ben 21, si
trovano nei paesi del sud del mondo. Ma questa ricchezza è richiesta soprattutto dai
paesi più ricchi e si trasforma anche in una fonte di interessi e di guadagni per i
soggetti attivi nel mercato. In particolare le zone tropicali, quelle più ricche in termini
34
di biodiversità sono quelle più colpite dai cambiamenti climatici e anche dalla
biopirateria.
In questi ultimi decenni uno degli ambiti di scontro più forte tra interessi del
mercato globale e i diritti delle comunità locali riguarda il tema dei brevetti11 e dei
diritti di proprietà intellettuale. I precursori sono stati naturalmente gli Stati Uniti che
hanno attribuito all’Ufficio brevetti americano (US Patent Office) il diritto di concedere
brevetti sul vivente. Così il 12 aprile 1988 l’US Patent Office ha concesso alla
multinazionale Du Pont il primo brevetto su un mammifero, in particolare su un topo
su cui erano stati impiantati geni umani e di pollo infetti in modo da causare il cancro.
Si pensava che l’Oncotopo potesse servire a trovare una cura per il cancro, ma così
non fu. La questione dei brevetti e dei diritti di proprietà intellettuale (IPRs) fu
introdotta su richiesta degli Stati Uniti nell’agenda dell’Uruguay Round del Gatt. In
sede Gatt/Wto fu quindi siglato - senza nemmeno una discussione pubblica - un
accordo sui diritti di proprietà intellettuale legati al commercio (TRIPs, Trade
Related Intellectual Property Rights Agreement) che globalizzava le leggi sui brevetti
di ispirazione statunitense. Oggi esistono brevetti su ogni cosa: semi, piante, parti del
corpo umano. L’articolo 27.1 del TRIPs afferma che possono essere concessi brevetti
per ogni invenzione prodotta con qualsiasi tecnologia o procedimento purché sia
realmente nuova, implichi un passo avanti e sia applicabile alla produzione industriale
e al commercio. L’articolo 27.5.3(b) consente i brevetti anche sulle forme viventi.
Questi brevetti attribuiscono ai loro detentori un diritto esclusivo sull’invenzione, che
tutela la produzione, la commercializzazione, lo sviluppo, l’utilizzo del bene o della
sostanza brevettata. Quando riguarda piante, semi o animali, il brevetto impone il
divieto di riproduzione autonoma. In altre parole per avere altri semi o piante o
animali ci si dovrebbe rivolgere e pagare di nuovo la società detentrice del brevetto.
L’introduzione o l’imposizione di queste varietà alle popolazioni del sud del mondo
avrebbe dunque il risultato di rendere agricoltori e allevatori dipendenti dalle
multinazionali. Poiché molte di queste invenzioni sono in realtà semplicemente la
richiesta di brevetti su saperi e conoscenze comuni e diffuse tra le popolazioni
indigene, spesso il sistema dei brevetti diventa anche un modo per appropriarsi di un
sapere diffuso, una “biopirateria”, come la chiama Vandana Shiva. Si tratta si un
nuovo stadio del colonialismo che invade e sfrutta gli spazi offerti dalle
biotecnologie di piante, animali, esseri umani.
Un altro campo di profitto chiama in causa le Case Farmaceutiche. Come nota
Vandana Shiva sono
«oltre settemila i composti naturali adottati dalla medicina e dalla chimica
moderne che da secoli vengono impiegati dai guaritori indigeni. Le ditte
farmaceutiche svolgono spesso ricerche sulle proprietà curative di sostanze note
alla alle comunità tribali, isolandole il principio attivo» (Shiva, 2005, p. 87).
Il riduzionismo implicito in questi processi è chiaro: in primo luogo il vivente non
viene riconosciuto nel suo valore per se stesso ma solamente come strumento per il
profitto e per l’accumulazione di ricchezza; in secondo luogo le forme viventi sono
trattate come oggetti o macchine e si cancella le loro caratteristiche capacità di
autorganizzarsi e autoriprodursi; infine un diritto e un patrimonio comune viene
ridotto ad un bene privato. Le realtà ecologiche e sociali cui questi viventi sono
intrecciati non sono riconosciute, anzi spesso ne subiscono le principali conseguenze. I
principi legati alla rigenerazione e alla sostenibilità sono semplicemente rimossi.
11
Su questi temi si veda Vandana Shiva, Biopirateria. Il saccheggio della natura e dei saperi indigeni,
Cuen, Napoli, 1999, e della stessa autrice Campi di battaglia. Biodiversità e agricoltura industriale,
Edizioni Ambiente, Roma, 2001, Il mondo sotto brevetto, Feltrinelli, Milano, 2002.
35
Insomma attraverso i diritti sul vivente si estende ulteriormente la tendenza alla
mercificazione della natura.
«Il conflitto attualmente in atto a livello mondiale – ha scritto Vandana Shiva,
costituisce l’inevitabile passo successivo per la globalizzazione economica e delle
multinazionali: un pugno di grandi società e di Paesi potenti cercano di acquisire
il controllo delle risorse terrestri, trasformando il pianeta in un supermarket in cui
tutto è in vendita. Vogliono insomma, arrivare a venderci quello che, in realtà,
già ci appartiene: l’acqua, i geni, le cellule, gli organi, il sapere, la cultura, il
futuro» (Shiva, 2005, p. 4).
Si tratta dunque di promuovere uno sforzo culturale per riconoscere l’importanza della
biodiversità e della sua salvaguardia, nonché per comprendere come questa non
possa essere ridotta a merce e al suo aspetto commerciale.
Secondo Niles Eldredge ci sono almeno tre tipi di motivazioni per cui occorre
lottare per promuovere il rispetto e la salvaguardia del patrimonio di diversità
biologica.
La prima motivazione riguarda una ragione strettamente utilitaristica, ovvero
l’importanza che essa rappresenta per l’agricoltura e la medicina. Sapete quante sono
le specie che gli esseri umani utilizzano normalmente per la propria vita quotidiana,
come cibo, come fonte di sostanze medicinali, come integrazione per i propri processi
biochimici o per il contributo dei processi biogeochimici fondamentali alla nostra vita?
La risposta approssimativamente più corretta è circa 40.000. Certo possiamo non
chiederci di cosa è fatto il pane, la pasta, il formaggio e tutti gli altri cibi che
mangiamo. Con che materiali sono fatti i vestiti che indossiamo o i mobili che abbiamo
in casa. Da dove provengono l’aspirina o gli antibiotici che utilizziamo, o come si
produce l’ossigeno che respiriamo. Sta di fatto che siamo dipendenti da una infinità di
organismi viventi, animali e vegetali per svolgere le nostre necessità. Allo stesso
tempo la variabilità genetica è fondamentale per la nostra agricoltura e la
sopravvivenza delle piante che mangiamo.
La seconda ragione ancora più importante per la protezione della diversità
riguarda la salvaguardia della salute globale del pianeta. La biodiversità presente
è fondamentale semplicemente per continuare a produrre quei cicli biogeochimici di
base che connettendo atmosfera, litosfera, idrosfera,e biosfera, mantengono la vita su
questo pianeta. I cicli dell’aria e la composizione dell’atmosfera, i cicli dell’acqua, la
qualità e la circolazione delle acque. Tanto per fare un solo esempio l’ossigeno che
respiriamo è il prodotto della fotosintesi di alberi e del placton fotosintetico oceanico
che intrappolando l’energia solare producono zuccheri e ossigeno come gas di scarto.
La terza motivazione riguarda invece dei valori estetici e morali che riguardano il
riconoscimento della vita in se, della vita delle altre specie, vegetali e animali, ma
anche della vita in quanto sistema unico, complesso e integrato. Un riconoscimento
che in una forma o in un altro ancora ci appartiene, sia attraverso i sentimenti
religiosi, sia attraverso l’esperienza del contatto con la natura. Se tutto questo non
bastasse c’è infine un’altra considerazione da fare. Come ha scritto Niles Eldredge,
«Poiché siamo ancora convinti di essere sfuggiti dal mondo naturale, pochi di
noi riescono a cogliere la reale dipendenza della nostra specie dalla salute del
sistema globale. La principale ragione per cui ritengo che dobbiamo temere la
Sesta estinzione è il fatto che noi stessi abbiamo buone probabilità di esserne
coinvolti come vittime. Se anche qualcuno dicesse che l’estinzione, diciamo, di 10
miliardi di persone è un evento poco probabile, non bisogna dimenticare che
esiste anche un’estinzione culturale oltre che biologica. Forse infatti potremmo
evitare l’effettiva estinzione biologica ma la nostra diversità culturale e, per i
36
paesi sviluppati, il nostro alto tenore di vita, sono certamente a rischio»
(Eldredge, 2000, p. 212).
Oggi siamo di fronte al fenomeno di una sesta estinzione massiccia di specie viventi
con risultati che non possiamo nemmeno immaginare. Dopo ogni estinzione, la vita è
cambiata significativamente per tutto il pianeta e non sappiamo cosa questo
comporterà in termini di perdite e di stravolgimenti. Occorre riflettere e provare a
cambiare il nostro atteggiamento.
Table 1: Numbers of threatened species by major groups of organisms (1996–2014) 10.
37
38
Corso di Sociologia della comunicazione politica - a.a. 2014/2015
Verso una democrazia ecologica?
La discussione pubblica e la partecipazione politica
di fronte alla crisi ambientale
Docente: Marco Deriu
CONSUMI, RISORSE E CONFLITTI AMBIENTALI
Qualcuno giustamente ha definito la crisi che stiamo attraversando la prima grande
crisi socio-ecologica del capitalismo (Alain Lipietz). Dietro la crisi economicafinanziaria si nasconde una profonda crisi ecologica.
Non solo queste due crisi sono chiaramente intrecciate tra loro, ma manifestano
anche molti aspetti in comune. La società di crescita in cui viviamo non funziona
solamente soddisfacendo i nostri bisogni ma creandone di sempre nuovi. I nostri
consumi crescono continuamente. Secondo il Worldwatch Institute, i nostri
consumi sono cresciuti del 28% dal 1996 ad oggi. Oggi un americano consuma
in media circa 90 tonnellate di materiali naturali ogni anno, un tedesco 80, un italiano
50.
Questo ha conseguenze sia sociali – la spinta al consumo e all’indebitamento – ma
anche ecologiche, la pressione sulle risorse e la creazione di conflitti ambientali.
Questo aumento dei consumi si sostiene nei fatti su una crescente domanda di
risorse:12 ciò significa che negli ultimi anni per stare al passo della richiesta dei
produttori e dei consumatori è stato estratto più petrolio, più gas, più minerali, si sono
pescati più pesci, si sono tagliati più alberi ecc.
Negli ultimi 45 anni la domanda di risorse è più che raddoppiata. Per esempio
tra il 1950 e il 2005 la produzione di metalli è cresciuta di sei volte, il consumo di
petrolio di otto volte, il consumo di gas naturale addirittura di 14 volte. Ogni anno
si estraggono circa 60 miliardi di tonnellate di risorse. Questo prelievo
scriteriato ha naturalmente un enorme prezzo ecologico.
Attualmente consumiamo circa il 40% in più delle risorse che la terra è in
grado di rigenerare. Si può dire che ci siamo comportati come se lo stock di risorse
naturali fosse più o meno illimitato senza preoccuparci della loro possibilità di
ricostituzione o del loro esaurimento (nel caso di beni non rinnovabili).
Questo non è un fatto nuovo. Gli studiosi che studiano la cosiddetta impronta
“impronta ecologica”,13 hanno notato che nel 1961 l'umanità consumava solo tre
quarti della capacità della Terra di generare cibo, fibre, legname, risorse ittiche e di
assorbire quei gas climalteranti. Per tutti gli anni sessanta la biocapacità della maggior
12
Tutto il nostro sistema produttivo si basa su un prelievo continuo, e indiscriminato di materie prime in
tutto il mondo. Risorse basilari per i processi vitali e produttivi come l’acqua, il suolo fertile, le foreste;
Risorse energetiche quali il petrolio, il carbone, il gas naturale; Risorse minerarie sia minerali
metallici sia minerali non metallici; Risorse vegetali quali il legno, caucciù, cotone, le risorse alimentari,
ma anche l’universo delle droghe; Risorse animali per alimentazione (caccia, pesca, allevamento) per
vestiti e suppellettili (pellicce, scarpe, cinture) per uso scientifico ecc.
13
Per “impronta ecologica” si intende l’area degli ecosistemi terrestri ed acquatici richiesta per produrre
le risorse che la popolazione umana consuma e per assimilare i rifiuti (M. Wackernagel, W.E. Rees,
1996).
39
parte delle nazioni superava la loro impronta ecologica. Poi con l'inizio degli anni
settanta la crescita economica e demografica ha aumentato rapidamente l'impronta
ecologica dell'umanità e nel 1986, questa ha superato per la prima volta la biocapacità
globale della terra.
Nasce così l'idea e l'immagine dell'Overshoot day. Con questo nome si indica
convenzionalmente il giorno in cui l’umanità comincia a vivere oltre la disponibilità dei
suo mezzi ecologici, ovvero il momento in cui si inizia a utilizzare più risorse di quelle
che la terra è in grado di rigenerare (ovvero di produrre e riciclare) in un anno. Dal
primo sconfinamento nel 1986 la tendenza è quella di anticipare ogni anno il giorno in
cui si sono impiegate le riserve annue. La crisi economica ha alterato
temporaneamente questa tendenza. Nel 2008 era stato il 23 settembre. Nel 2009 è
stato il 25 settembre, nel 2010 il 24 agosto, nel 2011 il 27 settembre, nel 2012 il 22
agosto, nel 2013 è stato il 20 agosto.
Secondo il Global Footprint Network nel 2014 l’Earth Overshoot Day14 è stato il
19 Agosto. Dunque abbiamo consumato in 8 mesi quello che il pianeta rigenera in un
anno. O detta in altre parole la Terra ha bisogno di un anno e quattro mesi per
rigenerare quello che usiamo in un anno. Per esempio tagliare alberi ad un ritmo più
veloce di quello che occorre per ricrescere o pescare pesci ad un ritmo più rapido di
quello che occorre per ripopolare i mari o produrre più CO2 di quanto può essere
riassorbito.
Almeno per quanto riguarda i paesi più industrializzati ci siamo comportati come se
lo stock di risorse naturali fosse più o meno illimitato senza preoccuparci del loro
esaurimento o come se la crescita della produzione e del consumo di beni non
producesse anche una crescita dei rifiuti e dell’inquinamento.
Così ci troviamo a confrontarci con la prospettiva del declino del petrolio ma anche
di alcuni minerali15 nonché con il crollo della biodiversità.
Stiamo dunque sfruttando, e mettendo a rischio nel giro di pochi decenni un
patrimonio di beni naturali che sono sulla terra da centinaia di migliaia di anni o
addirittura milioni di anni.16
Che cosa significa tutto questo?
Significa che noi stiamo accumulando un enorme debito ecologico a fianco del debito
economico. O se volete, che dietro la bolla crisi economica noi stiamo producendo una
grande bolla speculativa ecologica, la cui esplosione minaccia di produrre conseguenze
ancora più vaste e più profonde della crisi che stiamo vivendo.
Quello che colpisce – ha notato in proposito Wolfgang Sachs
«noi viviamo ogni giorno di crediti non pagati, di crediti morbosi che prendiamo
dalla natura. Crediti che non vengono mai ripagati. E anche queste sono in
fondo scommesse sul futuro. Scommesse che probabilmente un giorno le
generazioni di domani dovranno pagare o sopportare. In altri termini noi ogni
giorno viviamo in una grande bolla speculativa ecologica» (Sachs in A. Bosi, M.
Deriu, V. Pellegrino, Il dolce avvenire, Diabasis, Reggio Emilia, 2009, p. 119).
È lo sviluppo industriale e la crescita economica delle nostre società che ci spingono
ad uno sfruttamento continuo delle risorse naturali senza preoccuparci del loro
esaurimento.
A questo si aggiunge un altro aspetto. L’aumento dei consumi nelle società
industrializzate non solo ha prodotto debito e pressione sulle risorse ma ha prodotto
14
http://www.footprintnetwork.org/en/index.php/GFN/page/earth_overshoot_day/
Due studiosi italiani Ugo Bardi e Marco Pagani hanno identificato undici minerali che hanno già
superato il picco di produzione: mercurio, tellurio, piombo, cadmio, potassio, rocce fosfatiche, tallio,
selenio, zirconio, renio, gallio.
16
Il consumo annuo di carbone e petrolio equivale a una biomassa accumulata nel corso di 100.000 anni.
15
40
anche una crescita dell’inquinamento, dei rifiuti, della distruzione dell’ambiente
generando rischi e conseguenze enormi per le popolazioni locali che vivono nei
territori dove andiamo a sfruttare queste risorse.
Di fatto abbiamo goduto di questi beni scaricando i costi lontano nel tempo o
nello spazio. Ovvero sottraendo beni per un verso alle le generazioni future per un
altro agli altri popoli che vivono su queste terre da migliaia di anni.
Perché è chiaro che questo sfruttamento e questo consumo non è omogeneo. I
consumatori globali, che vivono in gran parte nei paesi più industrializzati si arrogano
di fatto il diritto di andare a prendere le materie prime la dove si trovano anche contro
il parere delle popolazioni locali.
Stiamo consumando le risorse di altre terre e altri popoli per nutrire il nostro
sviluppo. Noi consumatori occidentali spesso non ce ne rendiamo conto. Ma gli
oggetti che utilizziamo ogni giorno, dal cellulare, al computer, alla macchina, ai
prodotti di plastica o ai beni alimentari come la carne ci arrivano perché possiamo
contare su uno sfruttamento di territori e popoli lontani da noi.
Certo possiamo sempre dire che non siamo noi a sfruttare direttamente quei popoli,
ma questo non diminuisce la nostra responsabilità. Non possiamo difenderci dicendo
semplicemente che siamo solo degli “utilizzatori finali” di quei beni. A noi cittadini
dei paesi più industrializzati spetta il compito di capire il ruolo che come cittadini e
come consumatori giochiamo in queste dinamiche globali e che rapporto c’è tra questa
diseguaglianza di consumo e di prelievo e la questione della giustizia e dei conflitti
sociali e ambientali.
Quando parliamo della centralità delle risorse naturali nel quadro geopolitico attuale
non dobbiamo pensare solamente al petrolio. Il quadro infatti è più complesso. Non
riguarda una sola risorsa o una sola tipologia ma diverse risorse.
Tecnicamente si parla di risorse della litosfera (crosta terrestre), risorse
dell’idrosfera (acqua solida, liquida, gassosa), risorse della biosfera.
Semplificando stiamo parlando di:
- Risorse basilari per i processi vitali e produttivi come l’acqua, il suolo fertile, le
foreste;
- Risorse energetiche quali il petrolio, il carbone, il gas naturale;
- Risorse minerarie sia minerali metallici sia minerali non metallici;
- Risorse vegetali quali il legno, caucciù, cotone, le risorse alimentari, ma anche
l’universo delle droghe
- Risorse animali per alimentazione (caccia, pesca, allevamento) per vestiti e
suppellettili (pellicce, scarpe, cinture), per compagnia, per esibizione, per
farmacopea ed uso scientifico.
È lo sviluppo industriale e la crescita economica delle nostre società che ci spingono
ad uno sfruttamento continuo delle risorse naturali. Negli ultimi 45 anni la domanda
di risorse è più che raddoppiata e con questa è cresciuta la nostra impronta
ecologica (oggi si bruciano in media 2,7 ettari reali contro i 2,1 sostenibili per ogni
cittadino).
A cosa si deve questa crescente domanda di materie prime? Essenzialmente a
tre fattori:
1. l’aumento della popolazione
2. l’affermazione del modello di sviluppo occidentale
3. l’estendersi del consumo dei beni di lusso: auto, computer, palmari, cellulari,
tecnologie domestiche ecc…
41
Vediamo questi aspetti uno per uno.
1) L’aumento della popolazione
Le società pre-neolitiche erano caratterizzate da scarsa popolazione, quindi da
una densità demografica molto bassa e grandi spazi a disposizione. Il genere umano
ha vissuto per gran parte del tempo di caccia e raccolta, attorno a piccoli gruppi
composti da meno di un centinaio di individui. Questi gruppi umani portavano con sé
poche cose, ma per il resto godevano di una dieta ricca e in generale di una certa
abbondanza. Per soddisfare le proprie esigenze bastavano poche ore di lavoro al
giorno,mentre il resto era dedicato al riposo, allo svago o alle esigenze sociali. Per
decine di migliaia di anni la popolazione è rimasta attorno ad un milione di
individui.
Una prima rivoluzione demografica è avvenuta nel Paleolitico superiore, grazie
ad alcune innovazioni tecniche che permettono di migliorare le proprie condizioni
sociali, la popolazione può crescere fino a circa 4 milioni di individui.
Una seconda rivoluzione demografica si determina nel Neolitico – con la
cosiddetta “rivoluzione neolitica”. Il passaggio alle società agricole sedentarie si è
probabilmente compiuto in tempi dilatati, e in momenti diversi a seconda delle diverse
zone della terra, ma diciamo mediamente attorno al 10.000 a.C. Il passaggio è stato
probabilmente favorito da una diminuzione della disponibilità di selvaggina e
dall’aumento demografico e dalla necessità di sfamare un maggior numero di persone.
La risposta è stata trovata nella sperimentazione progressiva di colture agricole e nella
domesticazione degli animali. Le tradizionali attività di caccia e raccolta sono
affiancate e progressivamente sostituite da una attività di produzione agricola e di
allevamento. Queste innovazioni ebbero conseguenze sociali. Maggior lavoro ma
anche maggiore produzione di cibo, quindi espansione demografica e maggior
organizzazione. In effetti l’agricoltura organizzata permette entro certi limiti di
accumulare un surplus di cibo e dunque di nutrire un numero più ampio di persone,
anche a coloro che non lavorano direttamente la terra. Le società agricole sedentarie
dunque possono sviluppare un’ampia divisione e differenziazione del lavoro e dar
luogo ad un’articolata stratificazione sociale, producendo classi di lavoratori della
terra, di amministratori, di religiosi, di militari, di tecnici, di mercanti ecc. Non è un
caso che attorno a questi primi sistemi di produzione si siano andate definendo anche
forme sociali, politiche e religiose più complesse, centralizzate e gerarchizzate e ne
siano discese le prime grandi “civiltà storiche” e le prime grandi città. Tuttavia
l’adattamento ecologico e il successo sociale di queste società organizzate talvolta può
mettere in moto dei circoli viziosi. La produzione di surplus può creare una crescita
incontrollata della popolazione e una sempre maggior richiesta di cibo,
l’organizzazione e il potere politico e religioso possono richiedere beni di lusso e
realizzazioni monumentali sempre più complesse e impegnative. Per mantenere
queste organizzazioni complesse c’è bisogno di sempre più lavoro, terra, e risorse, il
che ha sua volta innesta una spinta espansiva dal punto di vista politico-militare e una
maggiore impatto sull’ambiente che viene sempre più colonizzato e sfruttato in
maniera sempre più insostenibile. Durante tutto questo periodo la popolazione
aumenta costantemente fino a raggiungere nel 2500 a.C. una cifra di circa 100
milioni di persone.
La terza rivoluzione demografica si profila con l’avvento dell’industrialismo e
dell’economia basata sulle risorse fossili (carbone e petrolio). Con l’aumento della
disponibilità di beni e il miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie la popolazione
cresce in misura sempre più significativa. Nel 1800 si raggiunge il miliardo di
persone. Dopo di che la crescita è stata geometrica. Sono bastati 130 anni per
raggiungere nel 1930 i 2 miliardi. Altri 30 anni per arrivare nel 1960 a 3 miliardi,
42
14 anni per arrivare nel 1974 a 4 miliardi, 13 anni per arrivare nel 1987 a 5
miliardi, 12 anni per arrivare nel 1999 e superare i 6 miliardi.
Certamente il consumo di risorse è fortemente diseguale, ma non c’è dubbio che
questi tassi di crescita contribuiscono alla pressione sulle materie prime a partire dalla
necessità di produrre cibo a sufficienza e quindi di avere terre fertili impiegate per la
coltivazione e l’allevamento.
2) L’affermazione del modello di sviluppo occidentale
Per quanto riguarda il secondo aspetto oggi paradossalmente ci troviamo a fare i conti
con il successo del modello di sviluppo industriale dei paesi occidentali. Le
performance economiche dei paesi sviluppati hanno rappresentato nell’ultimo secolo
un modello “vincente” ed esportabile, ampiamente condiviso e perseguito per decenni
non solo dai paesi occidentali ma anche da molti altri paesi che nel gergo tradizionale
avremmo chiamato appunto “paesi in via di sviluppo” o “paesi emergenti”. Tuttavia
negli ultimi anni si è preso sempre più coscienza che queste performance
economiche dello sviluppo si sono realizzate esternalizzando i costi e andando
a credito dal patrimonio naturale, dal patrimonio di altri paesi e dal patrimonio virtuale
delle generazioni future.
Oggi per la prima volta si comincia a guardare al modello dello sviluppo in termini
riflessivi e problematici, ovvero a riconoscerne la natura implicitamente conflittuale.
Come ha scritto l’economista inglese John Gray,
«Il ventunesimo secolo sembra avviato verso una serie di guerre per il
controllo delle risorse. Ma non perché alcuni paesi – oggi gli Stati Uniti, nel futuro
la Cina – si stanno impossessando freneticamente delle risorse del pianeta. Bensì
perché la logica della guerra per le risorse è più profonda: la crescente
competizione per le risorse naturali deriva dall’industrializzazione globale, un
processo che oggi tutti considerano uno strumento di emancipazione per i paesi
più poveri. Ma l’industrializzazione crea scarsità».
L’osservazione di Gray coglie nel segno. La scarsità delle risorse di cui tanto si
parla - e di cui parleremo anche noi - non è un dato assoluto, oggettivo, naturale, ma
relativo. È una costruzione sociale, culturale, politica ed economica.
La scarsità si misura relativamente al rapporto tra i paesi occidentali, di fatto i più
industrializzati e i paesi del “sud del mondo” meno industrializzati (si pone in questo
senso una questione di riconoscimento e giustizia), e relativamente al rapporto tra
diverse generazioni e (si pone una questione di sostenibilità e di giustizia).
Per quanto riguarda il primo punto la diseguaglianza è molto netta. Gli abitanti dei
paesi più industrializzati pur rappresentando appena il 20% della popolazione
mondiale consumano e rivendicano per sé:
- il 70% delle risorse energetiche;
- l’85% della foreste;
- l’81% della carta;
- il 61% della carne;
- il 75% delle riserve minerarie;
Detto in altri termini i paesi industrializzati (Ocse) utilizzano una biocapacità17 più
che doppia rispetto a quella disponibile sul loro territorio.
Per biocapacità si intende la capacità della natura di produrre aria ed acqua pulita, alimenti, materiali
e contemporaneamente di assorbire gli scarti dei processi produttivi e di consumo. La percentuale di
biocapacità non è evidentemente distribuita in modo equo tra i diversi paesi o tra le diverse classi sociali.
17
43
Questo significa che nei fatti i paesi più industrializzati attingono a beni e a risorse
naturali che provengono da aree anche molto lontane dai loro territori e in misura
sproporzionata rispetto allo spazio ambientale con cui ciascun essere umano deve
poter vivere. La loro “impronta ecologica” è molto superiore ai loro stessi territori e
alla loro popolazione (alla loro biocapacità). Come fanno notare gli autori dello The
Jo’burg-Memo, in termini ecologici e di equità, i paesi OCSE superano quella che
sarebbe l’impronta ecologica media pro capite ammissibile di un valore compreso tra il
75 e l’85%. Nei fatti il 25% più ricco dell’umanità occupa un’impronta ecologica vasta
quanto l’intera superficie biologicamente produttiva della terra (Heinrich Boll
Foundation, 2002, p. 30).
Nello specifico l’impronta ecologica degli Usa è circa 5 volte superiore alla
media globale, mentre la maggior parte dei paesi europei hanno un’impronta
ecologica tra due e tre volte superiore alla media. Tutto questo significa che
strutturalmente e non solo occasionalmente i paesi più ricchi ed in particolare la classe
più ricca si trovano in una condizione permanente di guerra con i paesi e le classi
popolari.
D’altra parte si possono sottolineare anche le differenze sociali transnazionali
tra la classe più ricca e la classe più povera, quella che vive con poche risorse e
sopravvive con un basso o bassissimo reddito.18 Oggi circa il 20% della
popolazione mondiale più ricca consuma circa l’80% delle risorse. In
particolare mangia il 45% di tutta la carne e il pesce, consuma il 68% di tutta
l’elettricità, l’84% di tutta la carta, l’85% del ferro e dell’acciaio e possiede
l’87% delle automobili.
Da questo punto di vista, tuttavia la situazione si sta modificando. E qui entriamo
dunque nel terzo aspetto, l’estendersi delle forme di consumismo.
3) l’estendersi del consumo dei beni di lusso
La novità degli ultimi anni – diciamo a partire dagli anni ’80 - è che stiamo
assistendo, senza la consapevolezza necessaria, al boom di una classe di quelli
che Norman Myers e Jennifer Kent (2005) hanno chiamato i “nuovi
consumatori”. In alcuni paesi, fra l’altro tra i più popolosi del mondo oltre un
miliardo di persone oggi sta dandosi ad uno stile di vita consumista.
Secondo questi due autori i “nuovi consumatori” sono persone che fanno parte di
una famiglia media di quattro persone con un potere di acquisto di almeno 10.000
dollari PPA (Parità di Potere di Acquisto) o 2.500 pro capite. Queste persone possono
essere identificate in base ad alcuni elementi di consumo specifico. In particolare:
- acquistano ed usano numerosi elettrodomestici: televisioni, frigoriferi,
lavastoviglie, lavatrici, condizionatori, tecnologie hi fi, video-registratori, computer,
palmari ecc.
- acquistano e consumano molta carne, soprattutto di animali allevati con cereali.
- prelevano e consumano grandi quantità d’acqua sia per consumi personali e
domestici che per irrigazione.
- acquistano ed utilizzano automobili nuove (con una percentuale crescente di
suv).
È bene specificare che la classe di consumatori globali è in gran parte localizzata nei paesi del nord,
ma comprende in realtà anche le élite dei paesi del sud del mondo che sono ormai completamente
integrate nel mercato mondiale. Allo stesso modo la classe di poveri è principalmente localizzata nei paesi
del sud, ma sempre più comprende anche fasce di emarginazione ed esclusione che si sviluppano nel
nord.
18
44
Si tratta di piccoli imprenditori, medici, avvocati, banchieri, contabili, funzionari,
architetti, dirigenti di marketing, agenti immobiliari, assicuratori, impiegati di alto
livello, programmatori ecc.
Siamo anche consapevoli che ragionare in termini di paesi è anche parzialmente
fuorviante. Perché con la ricchezza cresce anche la disuguaglianza. E nello stesso
paese ci possono essere persone che mangiano la carne tutti i giorni e persone che
muoiono di fame, persone che si collegano a Internet con il loro portatile e persone
che non ricevono nemmeno la luce elettrica, persone che possiedono due macchine e
persone che contano solo sui propri piedi.
Tuttavia semplificando un poco si può osservare che gran parte di questa classe di
nuovi consumatori si distribuisce in una centina di paesi “emergenti”: Cina, India,
Corea del Sud, Filippine, Indonesia, Malesia, Thailandia, Pakistan, Iran, Arabia
Saudita, Sud Africa, Brasile, Argentina, Venzuela, Colombia, Messico, Turchia, Polonia,
Ucraina, Russia. Come si vede si tratta di 9 paesi dell’Asia, 5 dell’America Latina, 4
dell’Europa Orientale e 1 dell’Africa.
Se prendiamo l’esempio della Cina, nel 1990 i nuovi consumatori erano poche
decine di milioni, mentre nel 2000 si registravano ben 300 milioni di nuovi
consumatori (su una popolazione di 1,3 miliardi di persone), pari a circa il 30% del
totale dei nuovi consumatori. Ma anche l’India conta oggi 130 milioni di nuovi
consumatori (su una popolazione di 1,1 miliardi di persone). Questi due paesi da soli
fanno la parte del leone tra i nuovi consumatori con due quinti sul totale (circa 430
milioni). Mentre l’Asia in generale raccoglie 677 milioni di nuovi consumatori parti a
circa due terzi del totale.
Il numero di questi nuovi consumatori, calcolato al 2000, era di circa 1,1
miliardi di persone, più dunque degli 850 milioni di superconsumatori del
mondo più ricco, che tuttavia vivono ad un livello economico e di consumi superiori.
Insomma stiamo vivendo in una bolla di euforia. Sono soltanto pochi decenni
che abbiamo iniziato a consumare in maniera così massiccia beni di ogni genere,
eppure a questi ritmi rischiamo di bruciare in poco tempo il patrimonio naturale
creatosi e evolutosi in milioni di anni. Ci crediamo evoluti ma ci sfugge completamente
il tessuto della vita attorno a noi.
Molte di queste tecnologie si fondano sull’estrazione e trasformazione di un ampio
ventaglio di materiali, in particolare minerali metallici e non metallici che vengono
prelevati in tutto il mondo.
Geopolitica delle risorse
Gli attori politici ed economici internazionali sono sempre più consapevoli della
criticità che alcune risorse rivestono oggi per l'industria ed il mercato.
Per esempio la Commissione Europa per l'Impresa e l'industria ha stilato nel
2013 una accurata lista delle materie prime più importanti per l'economia europea.
Questa comprende: Antimonio, Berillio, Borati, Cromo, Cobalto, Carbone da Coke,
Fluorite, Gallio, Germanio, Indio, Magnesite, Magnesio, Grafite naturale, Niobio,
PGMs (Platinum Group Metals: platino, palladio, rodio, rutenio, iridio, osmio) rocce
fosfatiche, Terre rare (pesanti) Terre rare (leggere), Silicio metallico, Tungsteno.
Le venti materie prime critiche per l'Europa.
Fonte: European Commission Enterprise and Industry (2013).
45
Le venti materie prime critiche per l'Europa.
Fonte: European Commission Enterprise and Industry (2013).
Possiamo ricordare l’uso e l’importanza di alcuni minerali.
L’antimonio (Sb) viene usato in elettronica per costruire diodi, sensori agli
infrarossi, per semicondutture e batterie.
Il berillio (Be) è un metallo leggero dotato di un'elevata temperatura di fusione e
non è attaccato né dall'aria, né dall'acqua. Per questo viene usato nell'industria
aeronautica e spaziale, nonchè nell'industria petrolifera.
Il cobalto (Co) estratto in Congo, nell’Europa del Nord e in Canada, è
fondamentale per le produzioni dell’elettronica (trasformatori, trasduttori, testine di
registrazione e hard disk) e dell’aeronautica (leghe strutturali).
Il gallio (Ga), viene utilizzato per realizzare circuiti integrati e dispositivi
optoelettronici come diodi LED (semafori, display) e diodi laser (lettura e registrazione
Dvd).
L’indio (In) viene usato per i led e display a cristalli licquidi (LCD) degli schermi
piatti dei computer e televisori al plasma.
Il niobio (Nb) viene utilizzato per produrre gli elettromagneti dei motori lineari
usatoi per esempio nei treni a levitazione magnetica.
Il platino (Pt) viene utilizzato per produrre orologi ultrapiatti e per le marmitte
catalitiche delle automobili. Ma è diventato fondamentale anche per realizzare le celle
a combustibile che nelle auto a idrogeno convertono il gas in elettricità.
Il palladio (Pd) un minerale utilizzato sia nell’industria del petrolio sia per le casse
degli orologi più preziosi (per es. gli orologi di Cartier e Parmigiani).
Il rodio (Rh) è particolarmente essenziale per la produzione delle marmitte
catalitiche perché scompone gli ossidi di azoto del gas di scarico. Viene usato anche
come generatore di raggi X.
Il rutenio (Ru) viene usato in lega con platino e palladio per produrre contatti
elettrici resistenti all’usura e per aumentare la memoria dei dischi fissi del computer.
Il silicio (Si) è un semiconduttore, usato per la produzione di vetro, cemento,
mattoni, ceramica, silicone, pannelli fotovoltaici. È particolarmente importante per
realizzare i chip per computer e apparecchi elettronici.
Diverse terre rare sono importanti: il neodimio (Nd) è utilizzato per produrre
magneti in grado di generare campi magnetici molto intensi particolarmente aprrezzati
nel produrre altoparlanti di alta qualità; il samario (Sm) viene usato nei magneti di
46
alcuni orologi di qualità e nelle barre delle centrali nucleari; l’europio (Eu) viene
utilizzato nei tubi catodici dei monitor dei televisori (per produrre il colore rosso e
colori più brillanti) e nei display organici a cristalli liquidi; il terbio (Tb) è
particolarmente importante per fabbricare i fosfori verdi dei tubi catodici e dei
fluerescenti ed alcuni componenti elettronici quali i chip. Una lega di terbio viene usata
invece per produrre supporti di registrazione quali minidisc e dischi magneto-ottici.
Il tungsteno (W) viene utilizzato principalmente per realizzare i filamenti delle
comuni lampadine. Viene estratto dalla wolframite.
L’uranio (U) è radioattivo ed utilizzato anzitutto come combustibile nucleare.
Il rame (Cu) per la sua grande duttilità e conducibilità viene usato per l’industria
elettrica ed elettronica, dalla produzione e trasporto di energia alla costruzione di parti
di motori e generatori, o nel campo dell’illuminazione o delle telecomunicazioni (fili e
cavi elettrici, fibre ottiche ecc.). Viene usato anche per la produzione di alcune leghe,
tra cui l’Ottone e il Bronzo. Quest’ultimo viene utilizzato per la produzione di armi.
Lo stagno (Sn) o cassiterite viene normalmente usato per produrre latte per la
conservazione dei cibi, ma è diventato fondamentale anche nella produzione dei
cellulari come il tantalio.
Il litio (Li) viene usato per produrre batterie delle auto e per produrre farmaci
antidepressivi.
Il tantalio (Ta) ha un'alta temperatura di fusione ed è molto resistente alla
corrosione. Viene utilizzato per costruire microcondensatori per dispositivi portatili
quali cellulari, cercapersone, computer ma anche la Play Station. Viene usato inoltre
per strumenti chirurgici, protesi (ossa artificiali e protesi dentarie) e negli impianti
elettronici delle automobili. Oltre al suo potenziale economico effettivo, il tantalio è
strategico, perché è indispensabile per la fabbricazione di superleghe per motori a
reazione usati nell’industria aeronautica, aerospaziale e della difesa, per missili e
reattori nucleari. Viene estratto dal coltan.
Abbiamo detto dunque come nella situazione attuale la convergenza e la sinergia di
diversi fenomeni – l’estendersi del modello di sviluppo e dell’industrializzazione,
l’aumento della classe dei nuovi consumatori, la richiesta crescente di beni di lusso e
in particolare lo sviluppo delle nuove
tecnologie e di nuovi materiali – stia
portando
ad
un
aumento
della
pressione su tutta una serie di beni
limitati. In altre parole la crescita
sproporzionata del consumo di questi beni
ne determina uno stato di scarsità. Per
esempio si calcola che ai ritmi di crescita
del consumo attuale le riserve di petrolio
esistenti si esauriranno in un poche decine
di anni. Allo stesso modo il consumo di
riserve d’acqua dolce raggiungerà il suo
limite
naturale
all’incirca
entro
cinquant’anni.
C'è un minerale, il mercurio che ha
Il picco globale della produzione del mercurio.
raggiunto il suo picco di produzione già nel
Fonte: Ugo Bardi and Marco Pagani, Peak Minerals, october, 2007,
http://www.theoildrum.com/node/3086
1962. Mentre alcuni minerali utilizzati
dall’industria potrebbero esaurirsi in tempi relativamente brevi:
 entro pochi decenni per oro, argento, rame, piombo, zinco, stagno, cadmio,
terbio, indio, afnio, antimonio, tantalio, litio, rodio;
 entro cent’anni o più per alluminio e ferro, cromo, vanadio ed altri.
47
Due studiosi italiani Ugo Bardi e Marco Pagani19 hanno identificato undici
minerali che hanno già superato il picco di produzione: mercurio, tellurio,
piombo, cadmio, potassio, rocce fosfatiche, tallio, selenio, zirconio, renio, gallio.
Altri metalli come
per
esempio
il
platino
possono
durare per secoli
finché sono utilizzati
solo in un settore
come
quello
dell’oreficeria, ma se
dovesse scattare il
mercato dell’auto a
idrogeno e l’obiettivo
diventasse
intervenire
sull’attuale
parco
macchine
di
780
milioni di veicoli con
celle a combustibile
per
le
quali
è
Fonte: Ugo Bardi and Marco Pagani, Peak Minerals, october, 2007, http://www.theoildrum.com/node/3086
necessario il platino
questo determinerebbe un’enorme impennata della domanda, del suo prezzo e ed
esporrebbe le riserve ad esaurimento nel giro di una quindicina d’anni.
Il primo effetto di un uso non sostenibile delle risorse è un aumento dei
conflitti sociali attorno alle risorse. Questa guerra viene dichiarata verso le
popolazioni povere del sud del mondo e verso le generazioni a venire che si
troveranno un mondo povero di risorse e degradato dal punto di vista dei cicli vitali.
Un elemento determinante nel contesto attuale dipende dalla relazione tra paesi
produttori e paesi consumatori. Bisogna tener conto non solo della diversità della
domanda a seconda dei paesi ma anche del fatto che una delle caratteristiche
ambientali di queste risorse è quella di non essere distribuita uniformemente sul
pianeta.
I giacimenti di petrolio più significativi, che coprono oltre l’80% del patrimonio
mondiale, si trovano nel Golfo Persico, nel bacino del Mar Caspio, nel Mar Cinese
meridionale ed in alcuni paesi come Nigeria, Sudan, Algeria, Angola, Ciad, Venezuela,
Colombia, Indonesia.
I principali campi diamantiferi, per esempio, si concentrano in Angola, nella
Repubblica Democratica del Congo, nella Sierra Leone. Gli smeraldi abbondano in
Colombia, le miniere di oro e di rame più importanti si trovano in Congo, Indonesia
e Papua Nuova Guinea (nell’isola di Bougainville).
In rapporto a questa diseguale distribuzione e al diseguale consumo si va dunque
delineando una nuova geografia sociale e politica dei conflitti.
Nell’interessante studio Resource War. The New Landscape of Global Conflict,
Michael Klare sottolinea che tre fattori tra loro correlati – l’espansione della
domanda, la crescente scarsità di materie prime, e la proliferazione di siti e
fonti disputate tra più paesi – introdurranno una tensione crescente nel sistema
internazionale (Klare, 2001). In alcune aree critiche numerosi paesi si stanno
disputando l’accesso a queste risorse.
19
Ugo
Bardi
and
Marco
http://www.theoildrum.com/node/3086
Pagani,
Peak
Minerals,
october,
2007,
48
I 20 produttori delle materie prime critiche per l'Europa.
Fonte: European Commission Enterprise and Industry (2013).
In questo contesto i paesi più potenti, in particolare quelli occidentali, sono portati
ad intervenire in maniera sempre più diretta per assicurarsi il rifornimento di queste
materie prime fondamentali, che ciascun governo tende a presentare come “interessi
vitali” per la propria economia. Per mantenere il proprio livello di produzione e di
consumo invariato - e finché non metteranno in discussione il proprio stile di vita e il
proprio modello di benessere - le democrazie occidentali necessitano di controllare in
maniera sistematico i luoghi di estrazione e rifornimento.
Tutti questi paesi potenti in termini economici e politici sono interessati ad
assicurarsi il rifornimento costante di alcuni beni fondamentali.
Nei fatti nei paesi chiave dal punto di vista delle riserve, le risorse naturali
costituiscono il motivo fondamentale dello scatenamento o del prolungamento delle
guerre intestine tra diversi soggetti: governi statali, signori della guerra, clan familiari,
minoranze etniche, popolazioni indigene. Le spiegazioni di questo fatto risiedono in
diversi aspetti.
Numerose analisi20 hanno sottolineato a questo proposito che dietro a fenomeni
apparentemente caotici e incontrollabili, ci celano in realtà interessi e calcoli economici
estremamente razionali, per quanto perversi o criminali. Il più delle volte lo strumento
della guerra e della violenza deriva da un calcolo strumentale di tipo economico e
politico, per quanto cinico e spietato possa risultare.
Certamente allo sviluppo di questi processi concorrono anche altri aspetti, quali la
debolezza delle istituzioni statali che non riescono ad amministrare il paese e a
governare lo sfruttamento di queste risorse, regolando interessi e ridistribuendo
equamente i profitti. Gli stessi governi spesso sono rappresentativi solamente delle
élites dominanti e non dell’intera popolazione. Si creano dunque conflitti tra gruppi
organizzati (etnie, clan o classi sociali) taluni dei quali si trovano in una situazione
avvantaggiata nello sfruttamento di questi beni, mentre altri vengono emarginati o
esclusi dalla ripartizione della ricchezza e spesso si trovano a sopportare piuttosto i
costi ambientali e sociali di questo sfruttamento.
20
Si veda per es. Mark Duffield, 2002, Global Governance and the New Wars, Zed Books, London, Mark
Duffield, 2004, Guerre postmoderne, a cura di Claudio Bazzocchi, Il Ponte, Bologna.
49
Non di rado sono le stesse élites politiche che per riciclarsi o per ridistribuirsi il
potere si fanno promotori di conflitti e lotte intestine, apparentemente irrazionali ma
in realtà estremamente funzionali alla rilegittimazione interna.
Nei fatti nessuno degli attori principali di questi conflitti ha interesse a
portarle a termine: governi locali, eserciti, clan e boss locali, warlords,
multinazionali, governi occidentali. Tutti guadagnano qualcosa dalla situazione,
tutti godono di un “dividendo” della guerra per le risorse; tutti tranne
naturalmente la popolazione e le comunità locali che vengono devastate nel loro
ambiente umano e naturale. Si crea dunque un’economia di guerra, ovvero una
dipendenza tra l’instabilità dovuta alla guerra e le opportunità di traffici economici
criminali particolarmente redditizi. La situazione di mancanza di controllo democratico
e di trasparenza, la totale deregulation, che si produce in questi conflitti facilita la
concentrazione e la moltiplicazione dei conflitti.
Siamo di fronte dunque a dei fenomeni conflittuali e di “warfare” chiaramente
moderni, che si comprendono solamente nel quadro di un’economia e di un
modo di produzione e consumo fortemente sviluppato e globalizzato. Come
suggerisce un causticamente Mark Duffield, i “signori della guerra” di oggi veramente
“pensano globalmente e agiscono localmente”.
Suggerirei dunque di leggere questi fenomeni in termini più specifici di
“estrattivismo militarizzato” ma anche di “militarismo estrattivo”. Da una parte
infatti possiamo avere compagnie minerarie che per ottenere l’accesso o per difendere
il controllo di una zona strategica per le sue risorse non esitano ad appoggiarsi e a
finanziare eserciti o a fazioni coinvolte nella guerra o a dotarsi autonomamente di
forze di sicurezza e di protezione che costituiscono veri e propri eserciti privati.
Dall’altra parte si registra contemporaneamente un ricorso sempre più diretto di forze
militari (governative o non governative) nel controllo o nella gestione di siti strategici
e di commerci e traffici di risorse.
Da un punto di vista generale, possiamo notare infatti che le risorse chiave (oro,
diamanti, minerali preziosi, legno pregiato ecc…) influiscono a diversi livelli
nella configurazione di questi conflitti, in quanto:
a) possono essere tra le cause scatenanti del conflitto;
b) sono facilmente causa del prolungamento della durata del conflitto, poiché
nessuno ha vero interesse a concluderlo;
c) sono uno dei fattori di “messa in forma” del conflitto;
d) costituiscono una delle ragioni della radicalità delle forme di violenza e di
brutalità;
e) stimolano una forte corruzione delle istituzioni politiche, economiche e
militari.
In termini generali, insomma, le guerre per le risorse sono autofinanzianti. La
guerra per le risorse si paga con le risorse conquistate in guerra, con il commercio o la
concessione di diritti di sfruttamento. La conquista di luoghi strategici permette
l’accesso a nuove risorse il cui sfruttamento finanzia il mantenimento della
mobilitazione o addirittura il rilancio dell’azione militare.
Non a caso per lungo tempo gli studiosi hanno dibattuto attorno all’idea di
“maledizione delle risorse”, ovvero l’idea che la presenza di grandi concentrazioni
di risorse preziose, o la forte dipendenza dall’esportazione di queste risorse per la
propria economia, sia piuttosto un fattore di rischio e di esposizione alla violenza che
non di promozione di benessere e di democrazia.
In questi termini, tuttavia, tale correlazione causale risulta essere piuttosto
semplicista. Ci sono paesi ricchi di risorse che stanno bene e altri che stanno male, e
paesi poveri di risorse che possono attingere altrove e altri che si devono arrangiare.
50
Una simile ricchezza diventa una sventura solo in un contesto socio-economico
definito che stabilisce valori, rendite, relazioni economiche e politiche di un certo tipo.
Il rischio di violenza e di scatenamento di vere e proprie guerre dipende dunque da
interrelazioni particolari tra elementi geografici, economici, politici, culturali e sociali.
Come ha notato Philippe Le Billon
«Piuttosto che essere semplicemente provocati dal bisogno (scarsità di risorse)
o dall’avidità (abbondanza di risorse), i conflitti potrebbero essere interpretati
come un prodotto storico inseparabile dalla costruzione sociale e dall’economia
politica delle risorse. Intendere i conflitti come un processo comporta una
ristrutturazione delle reti politiche e commerciali dal momento che i paesi
vengono (selettivamente) incorporati nell’economia globale, spesso nella forma di
enclave di risorse, in un rapporto di dipendenza reciproca che incoraggia e
sostiene i conflitti armati, tanto più che l’origine del potere non va più ricercata
nella legittimità politica ma nel controllo violento di nodi cruciali della catena di
beni» (Le Billon, 2001, pp. 575-576).
Insomma queste condizioni lungi da essere solamente responsabilità di attori locali
devono essere interpretate come prodotti storici e politici complessi. In gran parte
questi conflitti rispondono alle esigenze di una rete di interessi che connette alcuni
soggetti locali ad istituzioni economiche e politiche esterne, tagliando fuori grandi fette
di popolazione locale che finisce col rimpinguare le schiere di sfollati o di rifugiati. È il
segnale di una ristrutturazione politico-economica di tipo nuovo che lungi da essere
espressione di una condizione primitiva rappresenta una condizione in gran parte
inedita e originale del sistema politico economico contemporaneo.
Dunque, molte delle guerre attuali rivelano questo legame con le risorse
fondamentali: petrolio e diamanti in Angola; diamanti in Sierra Leone; rame, oro,
diamanti, pietre preziose, cobalto, coltan e uranio nella Repubblica Democratica del
Congo; petrolio e droghe in Nigeria; legname pregiato, gas naturale e pietre
preziose in Myanmar; petrolio e coca in Colombia; petrolio, minerali, acqua e terra
in Sudan; legname, zaffiri e rubini in Cambogia; gas naturale, legname e oro in
Indonesia; diamanti e legname in Liberia; rame e minerali in Papua Nuova
Guinea; laspislazzuli, smeraldi e oppio in Afghanistan; petrolio in Iraq.
Per avere un’idea dell’entità di queste economie di guerra per le risorse si stima
che durante la guerra dell’Angola il reddito per il traffico di diamanti è stato pari a
oltre 4 miliardi di dollari; in Sierra Leone, il traffico di diamanti ha reso circa 125
milioni di dollari ogni anno; in Liberia il legname tropicale al centro della guerra ha
reso tra i 100 e i 187 milioni annui; in Congo il commercio di coltan ha fruttato oltre
250 milioni di dollari; in Cambogia negli anni novanta il legname tropicale ha fruttato
tra i 230 e i 390 milioni di dollari; in Birmania il traffico del legno durante i conflitti
degli anni ’90 ha reso circa 112 milioni all’anno; in Colombia il traffico di cocaina
rende sui 140 milioni di dollari annui; in Afghanistan fino alla guerra del 2001 il
traffico di oppio e pietre preziose rendeva circa 100 milioni annui.21
Finché c’è richiesta nel mercato occidentale le guerre possono continuare all’infinito.
Come dice Klare, si combatte per i ricchi della terra. I risultati di queste guerre
per le risorse sono devastanti. Solamente tra il 1990 e il 2000 si calcola che siano
morte almeno 5 milioni di persone per conflitti collegati alle risorse.
21
Fonte: Renner, 2003.
51
Esempi di conflitti legati alle risorse
Afghanistan
Angola
Cambogia
Colombia
Congo (Rep. Dem. del)
Equador/Perù
Indonesia: Aceh
Indonesia: West Papua
Iraq
Israele/Siria/Palestina
Liberia
Myanmar
Nigeria
Papua Nuova Guinea
Sierra Leone
Siria/Iraq
Sud Africa/Angola
Sudan
19791975-2002
1988-1997
194819961995
1976Metà ’60199119671989194819901988-1998
1991-2001
1974-1975
1975
1956-
Oppio, lapislazzuli, smeraldi
Diamanti, petrolio
Legno, rubini, zaffiri
Petrolio, coca
Diamanti, oro, coltan, rame, cobalto, legno, caffè
Acqua
Gas naturale, legno
Oro
Petrolio
Acqua
Diamanti, legno
Droga, legno, gas naturale, pietre preziose
Petrolio
Rame, minerali
Diamanti
Acqua
Acqua
Petrolio, minerali
Nei fatti nessuno degli attori principali di questi conflitti ha interesse a portarle a
termine: governi locali, eserciti, clan e boss locali, warlords, multinazionali, governi
occidentali. Tutti guadagnano qualcosa dalla situazione, tutti godono di un “dividendo”
della guerra per le risorse; tutti tranne naturalmente la popolazione e le comunità
locali che vengono devastate nel loro ambiente umano e naturale. Si crea dunque
un’economia di guerra, ovvero una dipendenza tra l’instabilità dovuta alla guerra e le
opportunità di traffici economici criminali particolarmente redditizi. La situazione di
mancanza di controllo democratico e di trasparenza, la totale deregulation, che si
produce in questi conflitti facilita la concentrazione e la moltiplicazione dei conflitti.
Dunque multinazionali, governi occidentali, eserciti mercenari, rappresentanti del
mondo economico e finanziario internazionale, in realtà non hanno nessun interesse
che la popolazione locale raggiunga un’autonomia democratica e che possa decidere
autonomamente e democraticamente di se e come utilizzare quelle risorse. Al
contrario hanno interesse a favorire e mantenere conflitti a bassa intensità, in modo
tale che il disordine e la violenza impediscano il controllo, la regolazione e la sovranità
democratica su quei territori e quei beni.
In definitiva il principale strumento di cambiamento riposa sul lato della domanda.
Come ha sottolineato Michael Renner,
«C’è sempre maggiore consapevolezza del fatto che fino a quando le società
consumiste continueranno a importare e usare materiali senza curarsi della loro
origine né delle condizioni in cui sono stati prodotti, le risorse naturali
continueranno ad alimentare sanguinosi conflitti» (Renner, 2002, p. 240).
Dunque la questione essenziale da sottolineare è che senza un disarmo
ecologico non ci sarà nessuna giustizia:
«Giacché non c’è dubbio che la giustizia non può essere raggiunta
ripercorrendo gli stessi livelli di consumo del Nord. La finitezza della biosfera
proibisce di prendere lo standard di vita del Nord come misura per il benessere in
generale. Il modello di benessere dei paesi ricchi non è capace di giustizia, non
52
può essere democratizzato in tutto il globo se non al prezzo di rendere il globo
inospitale» (Sachs, 2002, p. 30).
Il compito che attende le società democratiche è quello di inventare un benessere
capace di giustizia. Questo dipenderà anche dalla capacità di riconvertire la nostra
economia all’uso di risorse ecologiche rinnovabili che essendo disponibili dappertutto
non dipendono dal controllo e dall’approvvigionamento presso fonti localizzate e
remote. In senso più ampio si può notare che i tre termini in questione: pace,
sostenibilità ecologica e giustizia sociale sono fra loro inestricabilmente e
profondamente connessi ed è del tutto illusorio se non ipocrita pensare di portare
avanti l’uno lasciando da parte gli altri. Il compito che ci attende, dunque, è quello di
ripensare in misura significativa il nostro modello socio-economico in modo da ridurre
l’uso dello spazio ambientale globale, permetterne un uso equilibrato tra popoli e
generazioni diverse e ridurre dunque il livello di competitività e di conflitto attorno alle
risorse naturali.
Il caso della Repubblica Democratica del Congo
Il caso della RDC (ex-Zaire)22 si inserisce all’interno di questa configurazione
politica ed economica emergente dalle nuove guerre. La guerra per le risorse del
Congo ha causato quasi 8 milioni di vittime in vent'anni.
Si tenga conto del resto che la RDC, in termini di risorse, rappresenta uno dei paesi
più ricchi al mondo. Può vantare infatti enormi riserve di oro, diamanti, coltan,
petrolio, cobalto, uranio, cassiterite, wolframite, rame, caffè e legname pregiato.
In particolare, il Congo rappresenta:
- il 17% della produzione mondiale di diamante grezzi;
- il 34% della produzione mondiale di cobalto;
- il 10% della produzione mondiale di rame;
- Il 4/5% della produzione di stagno;
- infine il 60/80% delle riserve di coltan.
La maggior parte di questi minerali si trovano nella zona del Nord e Sud Kivu.
Può essere utile forse avere alcune informazioni relative all’importanza di questi
materiali per l’industria e il commercio internazionale.
Il cobalto è fondamentale per le produzioni dell’elettronica (trasformatori,
trasduttori, testine di registrazione e hard disk) e dell’aeronautica (leghe strutturali).
In generale è usato come matrice per “metalli duri” (cemented carbides) che trovano
impiego nella lavorazione di acciai e di altre leghe ad elevate proprietà meccaniche. Il
rame per la sua grande duttilità e conducibilità viene usato per l’industria elettrica ed
22
Sul caso del Congo si possono vedere: GLOBAL WITNESS, 2004, Rush and Ruin. The Devastating
Mineral Trade in Southern Katanga, DRC, September; GLOBAL WITNESS, 2009, “Faced with a Gun What
Can You Do?”. War and the militarization of mining in Eastern Congo, July; MONTAGUE Dena, 2002,
Stolen Goods: Coltan and Conflict in the Democratic Republic of Congo, SAIS Reviev vol XXII, n. 1,
Winter-Spring; NATIONS UNIES, DROITS DE L’HOMME Haut Commissariat, 2010, République
démocratique du Congo, 1993-2003. Rapport du Projet Mapping concernant les violations les plus graves
des droits de l’homme et du droit international humanitaire commises entre mars 1993 et juin 2003 sur
le territoire de la République démocratique du Congo; RENAULD Anne, 2005, République Démocratique
du Congo. Ressources Naturelles et Transferts d’Armes, Groupe de recherche et d’information sur la paix
et la sécurité (GRIP), Bruxelles. Si veda anche la puntata di Report: Furto di Stato
http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-22500777-a7e9-406e-b38de2ed5ba0e5e8.html
53
elettronica, dalla produzione e trasporto di energia alla costruzione di parti di motori e
generatori, o nel campo dell’illuminazione o delle telecomunicazioni (fili e cavi elettrici,
fibre ottiche ecc.). Viene usato anche per la produzione di alcune leghe, tra cui
l’Ottone e il Bronzo. La cassiterite è fondamentale per la produzione di stagno che
viene normalmente usato per produrre latte per la conservazione dei cibi ed è
divenuto strategico per la produzione di barrette per la saldatura e leghe per
l’industria elettronica, importanti in produzioni come gli Mp3 players. La wolframite
serve per produrre il tungsteno, utilizzato principalmente per realizzare i filamenti
delle comuni lampadine è importante anche nella produzione di “metalli duri” usati per
fabbricare trivelle per rocce (e quindi strumenti per l’industria mineraria). È utilizzato
inoltre per produrre leghe e acciai e per la funzione di allarme in vibrazione per i
telefoni cellulari.
Il coltan, un composto da colombite e tantalite, da cui si estrae il tantalio usato
per strumenti chirurgici, protesi (ossa artificiali e protesi dentarie). Viene utilizzato
anche per costruire microcondensatori per dispositivi portatili quali cellulari,
cercapersone, computer, palmari, videocamere e anche la Play Station. Viene usato
inoltre negli impianti elettronici delle automobili e nei sistemi airbag.
Il prezzo del coltan ha avuto una svolta attorno al 2000. È passato da 65 dollari al
Kg nel 1998 a 550 nel 2000 (per poi decrescere a partire dal 2001). Si calcola che tale
commercio durante gli anni di guerra abbia fruttato oltre 250 milioni di dollari.
Il rapporto ONU sulla RDC (NATIONS UNIES, 2010) sottolinea tre tipi di violenza
legati all’economia delle risorse:
A) La lotta per l’accesso e il controllo delle zone più ricche, così come delle
strade, dei posti di frontiera, e dei centri di commercio.
B) La violazione dei diritti dell’uomo commessi dai gruppi armati una volta
occupata stabilmente una zona economicamente ricca. Quindi un regime di
terrore e coercizione, ricorso al lavoro forzato, utilizzazione di bambini per il
lavoro, violenze sessuali, torture, deportazione forzata di popolazione,
condizioni di lavoro terribilmente pericolose.
C) Il finanziamento dei conflitti grazie agli immensi profitti ricavati dallo
sfruttamento delle risorse naturali (ma anche al commercio delle armi).
Stando al rapporto le violazioni più gravi di diritti umani e internazionali sono state
nelle province di Nord-Kivu e sud-Kivu, Manierma, provincia Orientale e Katanga. In
queste zone interi villaggi sono stati distrutti e bruciati e le popolazioni deportate. In
molti casi la popolazione dedita all’agricoltura è stata costretta a dedicarsi
all’estrazione di risorse. Sono stati impiegati anche migliaia di bambini, costretti al
lavoro forzato, per l’estrazione. Queste stesse zone sono state anche il terreno di
azioni sistematiche di violenze sessuali.
In Congo tutte le principali parti belligeranti sono risultate fortemente implicate nel
commercio dei minerali del Nord e Sud-Kivu. Questa pratica non si limita ai gruppi
ribelli. Anche i militari dell'esercito nazionale congolese e i loro comandanti
partecipano anch'essi all'attività mineraria di queste due province. Le imprese di stato
(MIBA, Gécaminese, OKIMO e le petrolifere) hanno fatto affari d’oro sotto Kabila. Ma
anche i paesi vicini quali il Rwanda e l’Uganda hanno approfittato di questa economia
di guerra. Nei fatti l’estrazione artigianale, informale e non regolamentare effettuata
da più di un milione di persone ha coperto in questi anni fino al 90% della produzione
minerale.
Il gruppo di esperti delle Nazioni Unite ha descritto la situazione come una
gigantesca impresa in cui tutti i belligeranti traggono guadagni, quella condizione che
in letteratura viene descritta come “win-win situation”. In questo caso ovviamente a
perderci è “solo” il popolo congolese.
54
È evidente dunque, che malgrado il conflitto si sia strutturato lungo fratture di tipo
etnico, le cause profonde del conflitto sono principalmente economiche. E questo si
vede anche dal fatto che anche tra i contendenti ci sono stati scambi e commerci
economici durante la guerra. In altri termini il fatto di combattersi non ostacolava (o
forse facilitava) gli affari.
Il rapporto sottolinea che le imprese di Stato come la MIBA, la Gécamines, l’OKIMO
e le compagnie petroliere hanno finanziato direttamente lo sforzo bellico del Governo;
d’altra parte il gruppo di esperti delle Nazioni Unite non si espone nell’indicare i
referenti stranieri per questo tipo di commerci.
Per ricostruire questa rete ci si può basare sui diversi rapporti di Global Witness
(2009 e 2004). Il rapporto del 2009, “Faced with a Gun What Can You Do?”. War and
the militarization of mining in Eastern Congo, sottolinea che gli acquirenti sono in gran
parte società belghe (Trademet, Traxys, SD, STI, Specialty Metals).
In particolare:
- per quanto riguarda la cassiterite, oltre le società belghe sopracitate si segnala la
Thailand Smelting and Refining Corporation (THAISARCO) quinto produttore
mondiale di stagno che fa parte del gigante britannico AMC Group; la Afrimex
registrata nel Regno Unito e la MPA, filiale ruandese della sudafricana Kivu
Resources; quindi La Malaysian Smelting Corporation Berhad (quarto produttore
di stagno) e altre imprese con sede in Austria, Cina, India, Paesi Bassi, Russia.
- per quanto riguarda il coltan: i più grossi importatori erano Traxys, THAISARCO e
delle imprese con base a Hong Kong e in Sud Africa.
- per quanto riguarda la wolframite: troviamo ancora le società belghe Trademet,
e Specialty Metals, quindi Afrimex, THAISARCO e imprese registrate nei Paesi
Bassi, Cina, Austria, Emirati Arabi Uniti e Russia.
- per quanto riguarda l’oro: gran parte delle esportazioni sono illegali e non
vengono registrate.
Il dato di fondo è dunque quello di un regime di impunità generalizzato per quanto
riguarda i crimini connessi allo sfruttamento delle risorse. C’è una spregiudicatezza da
parte delle imprese e d’altra parte risulta estremamente difficile inchiodarle alle loro
responsabilità.
In sintesi, si può dire che finché c’è richiesta nel mercato occidentale guerre come
quella del Congo o comunque forme di violenza strutturale possono continuare
all’infinito.
Questo fatto apre un interrogativo profondo sul senso della parola democrazia.
Nella tradizione politica democratica, infatti, il comportamento delle imprese private
che agiscono all’estero è a tutti gli effetti sottratto al controllo democratico e configura
un sistema di pressoché totale irresponsabilità. Dare una possibilità ai costruttori di
pace, significa oggi, reinterrogare l’idea di democrazia, richiamando un’idea di
relazione e una nuova responsabilità che ci lega a ciò che avviene anche molto
lontano dai nostri ristretti confini nazionali.
55
Corso di Sociologia della comunicazione politica - a.a. 2014/2015
Verso una democrazia ecologica?
La discussione pubblica e la partecipazione politica
di fronte alla crisi ambientale
Docente: Marco Deriu
IL CAMBIAMENTO CLIMATICO
Il cambiamento climatico, o come si dice con minore accuratezza, il
riscaldamento globale, rappresenta oggi forse la più drammatica emergenza
ambientale del nostro tempo.
Come si legge nel primo volume del V Assessment Report dell'IPCC:
«Il riscaldamento del sistema climatico è inequivocabile, e a partire dagli anni
'50, molti dei cambiamenti osservati sono senza precedenti su scale temporali
che variano da decenni a millenni. L'atmosfera e l'oceano si sono riscaldati, la
quantità di neve e ghiaccio e diminuita, il livello del mare si è alzato, e le
concentrazioni di gas serra sono aumentate»23.
«Ciascuna delle ultime tre decadi sono state in successioni le più calde nella
superficie terrestre rispetto ad ogni altro decennio dal 1850. Nell'emisfero
settentrionale, il periodo 1880-2012 è stato probabilmente il più caldo trentennio
degli ultimi 1400 anni»24.
Stimando la tendenza lineare, la temperature media superficiale globale della
terra e degli oceani è aumentata di 0,85°C (range tra 0,65 – 1,08°C) nel
periodo 1880–2012.
Dunque la situazione in cui ci troviamo è molto grave per diversi motivi.
Intanto per la vastità dei suoi effetti: esso riguarda tutto il pianeta e tutti gli
ecosistemi. Certamente ci sarà chi è più colpito, ma nessun ne sarà risparmiato.
In secondo luogo per la profondità delle sue conseguenze: causa di eventi climatici
estremi, dell’innalzamento del mare, della morte o della migrazione di molte specie e
popolazioni a causa della variazione delle temperature, distruzione di raccolti ecc.
Inoltre per la non linearità dei processi che innesca. Si stanno già osservando una
serie di effetti a catena, nonché dei meccanismi di feedback positivo che amplificano
terribilmente questi cambiamenti. In gran parte non riusciamo nemmeno a
immaginare questi effetti non-lineari.
Infine per la durevolezza dei cambiamenti che produce. Una volta innescati una
serie di processi e realizzate delle modificazioni, questi effetti non saranno
immediatamente o completamente reversibili. Le forme di vita scomparse non
23
IPCC 2013, Climate Change 2013: The Pshysical Science Basis. Contribution of Working Group 1 to the
Fifth Assessment Report of the Intertergovernmental Panel on Climate Change, Cambridge University
Press, New York, p. 4.
24
Ivi, p. 5.
56
potranno essere riportate in vista mentre per rimediare ad alcuni disequilibri negli
ecosistemi occorrerà molto tempo.
Tutto questo del resto produce un enorme problema di giustizia e responsabilità
ambientale verso le generazioni future, i nostri figli, i nostro nipoti e chiunque verrà
dopo di noi. Le scelte che oggi prendiamo saranno cruciali anche in prospettiva per le
generazioni future.
Gran parte delle consapevolezze che oggi abbiamo in questo campo sono dovute
agli studi scientifici.
In termini di diffusione di informazioni l'organismo più autorevole è
Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) - Gruppo intergovernativo di
esperti sul cambiamento climatico. Si tratta di un foro scientifico formato nel 1988 da
due organismi delle Nazioni Unite, l'Organizzazione meteorologica mondiale (WMO) ed
il Programma delle Nazioni Unite per l'Ambiente (UNEP) per condividere e
sistematizzare i risultati delle ricerche e la comprensione del cambiamento climatico e
anche per fare da interfaccia tra ricerca scientifica e decisori politici. L'IPCC non
fa ricerca in quanto tale ma raccoglie, integra, sintetizza e divulga lo stato della
conoscenza scientifica fin ora raggiunta.
L'organismo è diviso in tre gruppi di lavoro:
il gruppo di lavoro I si occupa delle basi scientifiche dei cambiamenti climatici;
il gruppo di lavoro II si occupa degli impatti dei cambiamenti climatici sui sistemi
naturali e umani, delle opzioni di adattamento e della loro vulnerabilità;
il gruppo di lavoro III si occupa della mitigazione dei cambiamenti climatici, cioè
della riduzione delle emissioni di gas a effetto serra.
L'IPCC pubblica periodicamente dei rapporti con i dati, le informazioni e le analisi
più aggiornate relative ai mutamenti climatici, al loro impatto e alle possibili azioni di
contenimento, mitigazione, adattamento. Tali rapporti sono dunque particolarmente
importanti per i governi e per gli organismi internazionali, e sono alla base di accordi
quali la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici e il
Protocollo di Kyōto.
L'IPCC è stato guidato da Robert Watson e a partire dal 2002 da Rajendra K.
Pachauri. In Italia l'organismo è rappresentato dal Prof. Sergio Castellari senior
scientist del Centro Euromediterraneo per i Cambiamenti Climatici. Nell'ottobre del
2007 ha ricevuto il premio per la pace assieme a Al Gore per l'impegno per diffondere
la conoscenza sui cambiamenti climatici.
Fin'ora sono stati pubblicati i seguenti rapporti di valutazione:
 I Assessment Report (Primo Rapporto di Valutazione) - 1990
 II Assessment Report (Secondo Rapporto di Valutazione) - 1995
 III Assessment Report (Terzo Rapporto di Valutazione) - 2001
 IV Assessment Report (Quarto Rapporto di Valutazione) - 2007
 V Assessment Report (Quinto Rapporto di Valutazione) - 2013/14
Le cause del cambiamento climatico sono differenti, alcune naturali alcune
artificiali. Tra le prime si può citare ad esempio la naturale variazione della
radiazione solare, o le complesse interazioni tra le diverse componenti del sistema
climatico o ancora le eruzioni vulcaniche. Tra le seconde possiamo citare le immissioni
di gas serra (i cosidetti “climalteranti”), l’immisione di aereosols, e la modificazione
della superficie terrestre, per esempio con la diminuzione delle foreste o la
diminuzione dell’albedo (ovvero della capacità di riflettere la radiazione solare).
Negli ultimi anni gli scienziati si sono sempre più convinti che il principale
responsabile (al 90-95%) del cambiamento climatico è l’essere umano,
attraverso le emissioni di gas climalteranti. Tra questi possiamo citare il
biossido di carbonio (CO2), il metano, il protossido di azoto, i
clorofuorocarburi.
57
Cerchiamo di capire nella maniera più semplice possibile dove nasce il problema. Il
clima è connesso all’assorbimento dell’energia solare. Contrariamente a quando si può
pensare il problema non è l’effetto serra in sé, che è una componente fondamentale
dell’equilibrio naturale, senza il quale moriremmo di freddo; il problema è il rapido
aumento di questo effetto.
In breve: c’è uno strato di gas nell’atmosfera che di fatto agisce come una specie di
La CO2 in atmosfera è ai livelli più elevati degli ultimi 800.000 anni
Fonte: IPCC, 2009, The Physical Science Basis of Climate Change:
Latest Findings to be Assessed by WGI in AR5
manto isolante che lascia penetrare i raggi solari. Questi vengono assorbiti dalla Terra
e quindi vengono riflessi e rimandati indietro con onde di lunghezza superiore. I gas
serra assorbono una parte di questo calore e lo trattengono nelle fasce più basse
dell’atmosfera.
Tuttavia se la concentrazione di questi gas serra aumenta, allora viene trattenuta
una maggiore quantità di calore, dunque la temperatura atmosferica e sulla superficie
terrestre aumenta sensibilmente.
58
Concentrazioni in atmosfera di CO2,
metano (CH4) e protossido di azoto (N2O) negli ultimi 2000 anni
Fonte: Intergovernmental Panel On Climate Change (IPCC), 2007,
Quarto Rapporto sul Clima (AR4), Primo Gruppo di lavoro (WG1), Capitolo 2. www.ipcc.ch.
Ci sono diverse componenti che concorrono all’emissione di CO2. Ed in
particolare le attività residenziali e commerciali contribuiscono con circa il 14%, le
attività industriali con circa il 20%, i trasporti con circa il 24% e la produzione di
energia elettrica con circa il 42%. I livelli attuali di concentrazione di CO2 sono i
più alti degli ultimi ottocento mila anni. Secondo le ultime rilevazioni nel
febbraio 2015 la CO2 ha raggiunto le 400.26 ppm.25
Allo stesso tempo anche le concentrazioni di metano e di protossido di azoto sono
cresciute enormemente negli ultimi duemila anni.
Il livello di metano (CH4) è cresciuto del 145% al di sopra dei livelli
naturali. È prodotto dalla deforestazione, dalla decomposizione dei rifiuti, dalla
produzione di riso e dal bestiame. Anche lo scioglimento del permafrost o permagelo,
ovvero il suolo perennemente ghiacciato delle regioni artiche può aumentare le
emissioni di metano.
Il protossido di azoto (N2O) è cresciuto del 15%, a causa soprattutto
dell’impiego massiccio di fertilizzanti chimici in agricoltura industriale.
Infine i clorofluorocarburi (Cfc) sono gas che vennero fabbricati a partire dagli
anni ’30 per usi quali la refrigerazione, la climatizzazione, per gli spray nebulizzanti e
gli schiumogeni. Il loro contributo al riscaldamento è molto più grande della CO2. Negli
scorsi decenni una grande campagna di pressione ha portato al graduale abbandono di
questi gas, ma anche quelli già emessi dureranno migliaia di anni.
Con questi dati non stupisce dunque il fatto che negli ultimi vent’anni il ritmo di
cambiamento è stato particolarmente rapido.
Nell’ultimo secolo la temperatura media globale è aumentata di circa 0.7°.
Le temperature del primo decennio del XXI secolo non hanno precedenti negli ultimi
2000 anni. Il mutamento climatico non riguarda dunque solamente il futuro ma il
nostro presente.
25
Si veda il sito in costante aggiornamento: http://co2now.org/
59
Le proiezioni climatiche prevedono che la temperatura media globale
superficiale atmosferica entro il 2100 potrebbe variare in un intervallo,
dipendente dagli scenari applicati e dai modelli usati, da 1,1 °C a 6,4 °C.
60
Questo cambiamento avrà numerosi effetti che vanno dallo scioglimento
dei ghiacci (il problema non è tanto con quelli marini ma con quelli terrestri),
l’innalzamento dei livelli marini, l’aumento dei fenomeni climatici estremi,
l’alterazione dei cicli stagionali, fenomeni di inaridimento e desertificazione,
impatto sulla produzione agricola e alimentare, creazione di rifugiati climatici
ecc…
Proiezioni dell’aumento delle temperature globali
Le proiezioni climatiche prevedono che la temperatura media globale
superficiale atmosferica nel 2100 potrebbe variare in un intervallo,
dipendente dagli scenari applicati e dai modelli usati, da 1,1 °C a 6,4 °C.
LE ACQUISIZIONI DEL V ASSESSMENT REPORT DELL'IPCC26
Dati sintetici tratti dalla presentazione del rapporto fornita da Sergio Castellari,
referente italiano del IPCC:
È “estremamente probabile” che più della metà dell’aumento osservato della
temperatura superficiale dal 1951 al 2010 sia stato provocato dall’effetto
antropogenico sul clima (emissioni di gas-serra, aerosol e cambi di uso del suolo).
Questo ha provocato il riscaldamento degli oceani, la fusione di ghiacci e la riduzione
della copertura nevosa, l’innalzamento del livello medio globale marino e modificato
alcuni estremi climatici nella seconda metà del XX secolo (“confidenza alta”).
Questo effetto antropogenico è confermato in maniera più dettagliata rispetto all’AR4
(IV Assessment Report) mediante la stima del forzante radiativo (la perturbazione del
bilancio energetico planetario) di ogni possibile driver dei cambiamenti climatici. Per la
26
Si veda in particolare il rapporto del Working Group I: IPCC 2013, Climate Change 2013: The Pshysical
Science Basis. Contribution of Working Group 1 to the Fifth Assessment Report of the
Intertergovernmental Panel on Climate Change, Cambridge University Press, New York.
61
prima volta è stato stimato anche il forzante radiativo dei “gas-serra di breve durata”
come il monossido di carbonio (CO) e gli ossidi di azoto (NOx). I risultati mostrano
che il forzante radiativo totale causato da attività antropogeniche è positivo ed è
2.29W/m2 nel periodo 1750 – 2011, molto più grande di quello causato dalla attività
solare nel medesimo periodo (0.05 W/m2).
Temperatura:
Gli ultimi tre decenni sono stati i più caldi dal 1850, quando sono iniziate le misure
termometriche a livello globale. L’ultimo decennio è stato il più caldo.
In base alle analisi dei record paleoclimatici, il periodo 1983–2012 “probabilmente” è il
periodo di 30 anni più caldo degli ultimi 1400 anni (“confidenza media”).
Stimando la tendenza lineare, la temperature media superficiale globale è
aumentata di 0,85°C (range tra 0,65 – 1,08°C) nel periodo 1880–2012.
L’aumento totale della temperatura media globale superficiale tra la media 1850-1900
e la media 2003-2012 è 0,78°C (0,72 – 0,85).
Precipitazione:
Nelle terre emerse alle medie latitudini la precipitazione è aumentata dal 1901 ed in
particolare dal 1951 (“confidenza media” prima del 1951 poi “confidenza alta”).
Mentre nelle altre aree del pianeta i dati di precipitazione non sono sufficienti o non
sono disponibili per una valutazione dei cambiamenti a lungo termine.
Eventi estremi:
Dal 1950 sono stati osservati cambiamenti negli eventi estremi meteorologici e
climatici:
• a livello globale “molto probabilmente” il numero di giorni e notti fredde è diminuito
e il numero di giorni e notte calde è aumentato;
• in alcune aree del pianeta la frequenza di ondate di calore “probabilmente” è
aumentata in vaste aree dell’Europa, Asia e Australia;
• ci sono “probabilmente” più terre emerse con un aumento del numero di eventi di
intensa precipitazione che con una diminuzione del loro numero.
• in Europa e Nord America la frequenza o l’intensità di forte precipitazione è
“probabilmente” aumentata.
Oceani:
È “virtualmente certo” che l’oceano superficiale (0–700 m) si sia riscaldato durante gli
ultimi decenni del 1971-2010.
Nel periodo 1971-2010 il riscaldamento oceanico si manifesta in forma accentuata
superando 0.11°C/decennio (tra 0,09 e 0,13) nei primi 75m.
È “probabile” che gli oceani tra i 700m e 2000m si sono riscaldati nel periodo 19572009. È “probabile” che gli oceani si siano riscaldati anche a profondità oltre i 3000m
dal 1992 al 2005 con valori maggiori nell’emisfero sud.
Criosfera:
Le calotte glaciali in Groenlandia e Antartide hanno perso massa negli ultimi due
decenni. I ghiacciai si sono ridotti quasi in tutto il pianeta e la diminuzione stagionale
estiva della banchisa artica sta aumentando.
La calotta glaciale in Groenlandia ha perso massa in maniera più veloce negli ultimi
anni: “molto probabilmente“ il tasso medio di diminuzione è aumentato da 34 Gt/anno
in 1992-2001 a 215 Gt/anno in 2002-2011.
Le calotte glaciali in Antartide hanno perso massa negli ultimi due decenni Il tasso di
diminuzione della calotta glaciale in Antartide è “probabilmente” aumentato da 30
Gt/anno in 1992-2001 a 147 Gt/anno in 2002-2011. Questa diminuzione è
62
concentrata principalmente nella Penisola Antartica Settentrionale e nel Mare
Amundsen nell’Antartide Occidentale (“confidenza alta”).
L’estensione annuale media della banchisa artica (ghiaccio marino) è diminuita nel
periodo 1979-2012 “molto probabilmente” di 3.5 - 4.1% per decennio (range di 0.45
- 0.51 million km2 per decennio) e “molto probabilmente” di 9.4 - 13.6% per
decennio (range di 0.73 1.07 million km2 per decennio) per il minimo estivo. Questa
diminuzione è più accentuata in estate, ma è evidente in tutte le stagioni.
La copertura nevosa nell’emisfero nord è diminuita da metà del secolo scorso.
Nell’emisfero nord nel periodo 1967-2012 il valore medio dell’estensione della
copertura nevosa è diminuito di 1,6% per decennio nei mesi di marzo e aprile e di
11,7% per decennio nel mese di giugno.
Le temperature del permafrost sono cresciute in molte aree del pianeta fin dagli anni
80 (“confidenza alta”).
Livello del mare:
Il livello globale medio del mare è cresciuto di 0.19 m (0.17 - 0.21 m) nel periodo
1901−2010 (mediante una stima di una tendenza lineare). Basandosi su ricostruzioni
paleoclimatiche, è “virtualmente certo” che il tasso di innalzamento del livello globale
medio marino ha accelerato negli ultimi due secoli.
È “molto probabile” che il tasso medio di innalzamento del livello globale medio
marino sia:
• 1.7mm/anno nel periodo 1901-2010
• 3.2mm/anno nel periodo 1993-2010.
Gas serra e aerosol:
La concentrazione atmosferica globale di CO2 è aumentata di circa 40% dal 1750.
Questo aumento è stato causato dall’uso dei combustibili fossili, dalla deforestazione e
da un piccolo contributo della produzione cementifera.
Tutte le attuali concentrazioni atmosferica globali di CO2, metano (CH4), protossido di
azoto (N2O) sono maggiori delle concentrazioni registrate nei carotaggi di ghiaccio
negli ultimi 800000 anni.
Le concentrazioni atmosferiche globali dei gas CO2, CH4, N2O sono cresciute
rispettivamente di circa il 40%, 150%, e 20% dal 1750.
Dal 1750 al 2011 le emissioni di CO2, provocate dall’uso dei combustibili fossili e dalla
produzione cementifera, hanno rilasciato in atmosfera 365 miliardi di tonnellate di
carbonio (o PgC3), mentre la deforestazione e altri cambi di uso del territorio hanno
rilasciato in atmosfera 180 miliardi di tonnellate di carbonio. Le emissioni cumulative
antopogeniche sono 545 miliardi di tonnellate di carbonio
Considerando le totali emissioni accumulate antropogeniche dal 1750 al 2011 sono
545 miliardi di tonnellate di carbonio: 240 di queste si sono accumulate
nell’atmosfera. 155 negli oceani e 150 negli ecosistemi naturali terrestri.
L’assorbimento oceanico della CO2 di origine antropogenica provoca acidificazione
oceanica: Il pH marino è diminuito di 0,1 dall’inizio dell’era industriale causando un
aumento del 26% nell’acidificazione oceanica (“confidenza alta”).
I futuri cambiamenti climatici globali e regionali:
Le emissioni di gas serra che continuano a crescere provocheranno ulteriore
riscaldamento nel sistema climatico. Il riscaldamento causerà cambiamenti nella
temperatura dell’aria, degli oceani, nel ciclo dell’acqua, nel livello dei mari, nella
criosfera, in alcuni eventi estremi e nella acidificazione oceanica. Molti di questi
cambiamenti persisteranno per molti secoli.
63
L’aumento della temperatura media globale alla superficie (TMGS) per il periodo
2016–2035 “probabilmente” sarà nel range di 0.3°C - 0.7°C per tutti i quattro RCP. È
“molto probabile” che le ondate di calore accadranno con maggior frequenza e durata.
Le proiezioni climatiche, infatti, mostrano che entro la fine di questo secolo la
temperatura globale superficiale del nostro pianeta probabilmente raggiungerà 1.5oC
oltre il livello del periodo 1850 - 1900 secondo tutti gli scenari RCP eccetto RCP2.6.
Senza serie iniziative mirate alla mitigazione e alla riduzione delle emissioni
globali di gas serra, l’incremento della temperatura media globale rispetto al
livello preindustriale potrà superare i 2oC e arrivare anche oltre i 5oC.
In particolare, l’aumento della Tmgs alla fine di questo secolo (media 2081–2100)
rispetto a questi anni (1986–2005) probabilmente può crescere nei range;
0.3°C - 1.7°C (RCP2.6),
1.1°C - 2.6°C (RCP4.5),
1.4°C - 3.1°C (RCP6.0),
2.6°C - 4.8°C (RCP8.5).
Il riscaldamento (TMGS) sarà più accentuato nelle aree subtropicali e tropicali del
pianeta
Il livello globale medio marino continuerà a crescere durante il XXI secolo e queste
proiezioni sono considerate più adeguate dalla comunità scientifica rispetto a quelle
presentate nell’AR4 perché riproducono meglio le osservazioni e includono la dinamica
rapida di fusione delle calotte glaciali (ice-sheet rapid dynamical changes).
L’innalzamento del livello medio globale marino per il 2100 sarà “probabilmente” nel
range di:
• 0.26 - 0.55 m (RCP2.6)
• 0.32 - 0.63 m (RCP4.5)
• 0.33 - 0.63 m (RCP6.0)
• 0.45 - 0.82 m (RCP8.5)
In queste proiezioni di innanzamento del livello medio marino, la espansione termica
vale per il 30 - 55% e o la fusione dei ghiacciai per il 15 - 35%.
Secondo le proiezioni climatiche la precipitazione media “probabilmente” diminuirà in
molte aree secche alle medie latitudini e in molte aree secche subtropicali, mentre in
in aree umide alle medie latitudini “probabilmente” aumenterà entro la fine di questo
secolo (scenario RCP8.5). In un pianeta più caldo eventi estremi di precipitazione nella
maggior parte delle terre emerse alle medie latitudini e nelle aree umide tropicali
“molto probabilmente” diventeranno più intensi e più frequenti entro la fine di questo
secolo.
Secondo tutti i quattro scenari gli oceani continueranno a riscaldarsi e a causa della
loro capacità termica continueranno per secoli, anche se le emissioni di gas serra
diminuiranno o le concentrazioni di gas serra rimarranno costanti.
È “molto probabile” che in questo secolo la banchisa artica continuerà a ridursi e ad
assottigliarsi e anche la copertura nevosa nell’emisfero settentrionale continuerà a
diminuire con l’aumento della temperature globale.
È “virtualmente certo” che la copertura di permafrost nelle alte altitudini si ridurrà. Il
volume dei ghiacciai diminuirà in tutti gli scenari.
È “virtualmente certo” che l’assorbimento di carbonio negli oceani causerà un
aumento della acidificazione oceanica.
64
Al fine di limitare l’entità di questi impatti le emissioni di CO2 e degli altri gas serra
devono essere ridotte in maniera sostanziale. Limitare il riscaldamento globale
causato dalle emissioni antropogeniche di CO2 a meno di 2oC rispetto ai livello
preindustriali richiederà che le emissioni cumulative di CO2 di tutte le sorgenti
antropogeniche rimangano sotto i 1000 GtC. 545 GtC sono già state emesse entro il
2011.
65
Corso di Sociologia della comunicazione politica - a.a. 2014/2015
Verso una democrazia ecologica?
La discussione pubblica e la partecipazione politica
di fronte alla crisi ambientale
Docente: Marco Deriu
CAMBIAMENTO CLIMATICO E CONSEGUENZE SOCIALI:
PROSPETTIVE SCIENTIFICHE, TECNOLOGICHE E POLITICHE
L’ERA DELL’ANTROPOCENE
Nel 1873, un geologo italiano, l’abate Antonio Stoppani, professore del Museo di
Storia naturale di Milano, parlò per primo di una «nuova forza tellurica che per la sua
potenza e la sua universalità può essere comparata alle grandi forze della terra».
Nel 1926, Vladimir I. Vernadsky, nel suo libro La Geochimica scrisse
«Ma nella nostra epoca geologica – era psicozoica, era della ragione - si
manifesta un fatto geochimica di importanza capitale. […] È l’azione della
coscienza e dello spirito collettivo dell’umanità sui procesi geochimici. L’uomo ha
introdotto una nuova forma d’azione della materia vivente con la materia bruta».
Queste intuzioni furono riprese dal chimico Paul J. Crutzen autore di alcuni
importanti studi sulla chimica dell’atmosfera che hanno portato a riconoscere e
comprendere il problema del buco dell’ozono e alla messa al bando dei
clorofluorocarburi (Cfc) che gli valsero nel 1995 il premio Nobel.
Secondo Crutzen l’umanità è entrata nell’era dell’Antropocene, «l’epoca
geologica dell’uomo»:
«A differenza del Pleistocene, dell’Olocene e di tutte le epoche precedenti, essa
è caratterizzata anzitutto dall’impatto dell’uomo sull’ambiente» (Crutzen, 2007,
p. 25).
In effetti, le emissioni di Co2 sono aumentate nel corso di due secoli del 30%, il
metano è più che raddoppiato, la temperatura si alza, i ghiacciai si sciolgono,
l’atmosfera diventa più opaca, nello strato di ozono si è aperto un buco in
corrispondenza del Polo Sud (causato dai Cfc), una nube bruna di gasi inquinanti
(anidride carbonica, ossi d’azoto e ozono, e particelle minuscole dette areosol) sta
ricoprendo i cieli dei tropici, mentre le foreste diminuiscono progressivamente e il
suolo fertile si riduce sempre più.
L’essere umano è oramai a tutti gli effetti una forza geologica in grado di
modificare l’aspetto globale della terra.
Nel XX secolo abbiamo spostato circa 40 miliardi di roccia all’anno, circa 40 volte di
più di quanto non possa fare l’erosione del vento o 10 volte di più dei ghiacciai. E
perfino più dei 30 miliardi di tonnellate di materia eruttati ogni anno dai vulcani
oceanici. Secondo Crutzen noi oramai
«siamo capaci di spostare più materia di quanto facciano i vulcani e il vento
messi insieme, di far degradare interi continenti, di alterare il ciclo dell’acqua,
66
dell’azoto e del carbonio e di produrre l’impennata più brusca e marcata della
quantità di gas serra in atmosfera degli ultimi 15 milioni di anni» (Crutzen, 2007,
pp. 25-26).
La specie umana, insomma, è diventata improvvisamente centrale nella
determinazione degli equilibri della Terra e del clima, è forse il fattore più
determinante. Oramai abbiamo modificato fra il 30 e il 50% della superficie della
terra.
Secondo Crutzen l’inizio dell’Antropocene comincia con la rivoluzione industriale
e con la capacità dell’uomo tecnologico moderno di sfruttare con molta più facilità le
risorse ambientali. A partire dal 1784, quanto l’ingegnere scozzese James Watt
inventò il motore a vapore - oppure restringendo il periodo come suggerisce
Jacques Grinevald a partire dagli sessanta del IX° secolo - fino ad oggi abbiamo
determinato una rapida e profonda modificazione degli equilibri de pianeta. Nei fatti in
poche generazioni – nota ancora Crutzen - abbiamo bruciato combustibili fossili che si
erano formati nel corso di molti milioni di anni. L’anidride solforosa è aumentata
nell’ultimo secolo di tredici volte, arrivando alla cifra di 180 milioni di tonnellate
all’anno, dovute soprattuto alla combustione del petrolio e del carbone, causando un
forte inquinamento dell’aria.
Di fronte a questa nuova condizione possiamo dire che dobbiamo divenire più
responsabili di quello che facciamo. Dobbiamo dunque assumerci una nuova
responsabilità. Tuttavia, come ha notato acutamente Jean Pierre Dupuy,
«la consapevolezza della nostra responsabilità molto probabilmente accrescerà
a dismisura l’orgoglio di partenza. A furia di convincerci che la salvezza del
mondo è nelle nostra mani e che l’umanità ha nei propri confronti il dovere di
salvare se stessa, corriamo il rischio di gettarci sempre più a capofitto in quella
fuga in avanti, in quel grande moto panico cui somiglia ogni giorno di più la storia
mondiale» (Dupuy, 2006, p. 7)
Questo orgoglio antropocentrico, questa convinzione di poter comunque
governare ed aggiustare le cose rischia di essere la nostra condanna piuttosto che una
via di uscita, perché ci fa credere che possiamo continuare sulla stessa strada
solamente con qualche aggiustamento tecnico, con qualche sostituzione tecnologica
anziché convincerci a cambiare rotta e a rimettere in discussione la nostra stessa
civiltà moderna. Tutta la nostra conoscenza scientifica, tutto il suo potere
tecnologico oggi appare sempre più evidentemente preso in una spirale
autodistruttiva. Siamo dentro una cultura che oramai si riduce a pensare a palliativi
per ridurre l’inquinamento di un poco, di contenere il riscaldamento climatico di
qualche grado, di ritardare un poco l’esaurimento di questa o quella risorsa.
Lo stesso Paul Crutzen, citato prima, termina il suo libro con un ragionamento
preoccupante che conferma le ambituità di questo pensiero:
«Già oggi, l’Antropocene è caratterizzato dall’impronta dell’uomo, domani
potrà esserne plasmato in maniera consapevole, e i nostri discendenti potranno
ambire alla costruzione di un mondo su misura. Gli ingegneri del clima
impareranno a produrre piogge artificiali, o a inibire le precipitazioni, a ricavare
acqua dolce dal mare per mezzo di processi di desalinizzazione e trasformare i i
deserti in aree verdi. Soprattutto, cercheranno di addomesticare l’effetto serra, di
aumentalo o diminuirlo secondo le necessità» (Crutzen, 2007, pp. 130-131).
Questa riflessione sull’ingegneria climatica non è una faccenda buttata lì, senza
pensare. Rispecchia esattamente un indirizzo presente nel mondo scientifico,
67
tecnologico e politico. E un indirizzo che rischia di attrarre grande interesse e
montagne di soldi nell’immediato futuro.
In Europa e in America c’è già chi propone di investire sull’adattamento al
mutamento climatico. Ci sono scienziati che propongono di intervenire già in un
ottica di mega progetti di “ingegneria climatica” modificando artificialmente e
localmente il clima.
Recentemente due libri hanno affrontato il problema delle prospettive sociopolitiche
conseguenti ai cambiamenti climatici da diversi punti di vista.
Mi riferisco a Guerre climatiche di Harald Welzer e Le guerre del clima di Gwynne
Dyer27.
I due libri partono da assunti abbastanza simili.
Entrambi riconoscono la limitatezza delle misure fin ora intraprese per ridurre le
emissioni, e prendono atto che data la rapida velocità dell’incremento di queste ultime
il riscaldamento climatico procederà probabilmente nettamente al di sopra della soglia
dei due gradi che la maggior parte degli scienziati poneva come limite oltre i quali i
cambiamenti sarebbero risultati incontrollabili.
Entrambi si concentrano sulle conseguenze sociopolitiche legate a questi
cambiamenti e ipotizzano degli scenari geopolitici decisamente drammatici dovuti a:
- Carenze di scorte alimentari;
- Acidificazione degli oceani;
- Diminuzione di disponibilità di acqua potabile;
- Aumento della desertificazione e della salinità dei terreni;
- Inondazioni causate dalle alterazioni climatiche;
- Migrazioni di massa e profughi climatici
- Conflitti per le risorse;
- Moltiplicazione di occasioni di violenza (guerre climatiche).
Entrambi mettono in luce il fatto che i mutamenti climatici si tradurranno in un
vistoso aumento delle catastrofi sociali che colpiranno fra l’altro in modo
disuguale i paesi più ricchi e responsabili di questo stato di fatto e i paesi meno
responsabili ma anche meno attrezzati a fare fronte ai disastri climatici.
Noi non siamo abituati a pensare che queste emergenze possano colpire anche noi,
ma Welzer ci mette sull’avviso:
«una fase di prosperità che ormai dura nei paci occidentali da due generazioni
fa si che si ritenga la stabilità ciò che è lecito attendersi e l’instabilità ciò che è da
escludere. Se si è cresciuti in un mondo in cui non ha mai avuto luogo una
guerra, non sono mai state distrutte delle infrastrutture a causa di terremoti, non
c’è mai stata fame, si ritengono la violenza di massa, il caos e la povertà
problemi che riguardano gli altri»28.
Entrambi pensano che in queste condizioni la pressione per soluzioni rapide si farà
più intensa. Entrambi pensano che questo stimolerà l’uso della violenza. E Dyer
ricorda come gli scenari legati al cambiamento climatico giocano un ruolo sempre più
importante nella pianificazione militare delle grandi potenze. In altre parole sono le
agenzie militari e di sicurezza le prime a basarsi su scenari realistici di tensioni o
conflitti dovuti a mutamenti climatici.
27
Harald Welzer, Guerre climatiche, Asterios, Trieste, 2011; Gwynne Dyer, Le guerre del
clima, Tropea, Milano, 2012.
28
Welzer, op. cit, p. 207.
68
Tuttavia l’approccio al problema e le vie di uscita delineate da questi due studiosi
sono profondamente differenti.
Dyer ritiene del tutto irrealistica la possibilità di contenere le emissioni e il
riscaldamento climatico e confida in primo luogo sulle possibilità tecnologiche ovvero
sulle soluzioni di geoingegneria climatica.
Dyer ne presenta in rassegna diverse possibilità.
C’è la proposta sostenuta dal Nobel Paul Crutzen l’immissione nella stratosfera
di anidride solforosa che aiuti a creare uno scudo di aerosol che rifletta in parte i
raggi solari, diminuendo la temperatura media terrestre di 0,5 °C per due anni. Lo
zolfo può essere portato con palloni aerostatici o sparato con cannoni, oppure può
essere diffuso con i carburanti dei jet o ancora può essere diffuso da missioni aeree ad
hoc.
Rogel Angel, direttore del Center for Astronomic Adaptive Optics dell’Università
dell’Arizona propone invece di lanciare alla distanza di 1,6 milioni di chilometri dalla
terra in asse col Sole sedici trilioni di leggerissimi mini-dischi spaziali riflettenti che
possano trattenere una parte della radiazione solare che arriva sulla terra. Secondo
l’autore di questa ipotesi dovrebbero essere lanciati in lotti da un milione da lanciatori
elettromagnetici sulle vette di una montagna nell’equatore.
Due società di ricerca la Climos e la Planktos hanno invece sviluppati dei progetti
per fertilizzare la superficie dell’oceano con piccole dosi di ferro che favorisce la
crescita del fitoplancton, le piante microscopiche che sono alla base della catena
alimentare oceanica. Queste piante catturano l’anidride carbonica e quando non sono
mangiate muoiono depositandola sul fondo.
La società australiana Ocean Nourishment Corporation allo stesso scopo di
favorire la crescita di fitoplancton propone di rilasciare un flusso modesto ma costante
di urea (un fertilizzante a base di azoto) altamente diluita attraverso condutture
sottomarine.
David Keith dell’Università di Calgary e Klaus Lackner della Colombia University
puntano invece sulla creazione di alberi artificiali che aspirino direttamente l’anidride
carbonica dell’aria per poi stoccarla nel sottosuolo. Per controbilanciare l’anidride
carbonica emessa dall’umanità ne servirebbero circa venti milioni.
Infine John Latham del National Center for Atmospheric Research di Boulder,
propone di creare sull’oceano delle nubi – gli stratocumuli marittimi - che riflettano più
raggi solari di quanto facciano abitualmente. Lo scienziato propone flotte di navi che
controllate da satelliti che irrorino di minuscole goccioline di acqua marina l’aria
sottostante gli stratocumuli.
Ci sono poi progetti per costruire tecno isolotti in Groenlandia e Islanda per
ghiacciare l’acqua salata e rilasciarla in primavera (per riattivare la corrente del golfo),
e progetti per pompare acqua fredda sulla superficie degli oceani, prendendola
dal fondo (statunitense Atmocean).
Molti di questi sistemi si finanzierebbero con la compravendita di crediti verdi per le
emissioni.
Occorre inoltre ricordare fra l’altro che se non diminuisce la CO2 emessa la sola
riduzione della temperatura terrestre non basterà a salvarci. Infatti l’anidride
carbonica si trasforma nell’acqua degli oceani in acido carbonico che porta a
distruggere la vita marina il che ha effetto di nuovo sul clima perché diminuisce la
capacità di assorbimento della CO2 degli oceani.
Dietro a queste proposte si delinea una visione del ruolo dell’essere umano come
possibile controllore del sistema terra. Dyer aspira che il genere umano raggiunga le
cognizioni e il potere per prendere le redini della gestione del sistema terra:
69
«ora siamo sulla buona strada per acquisire tali capacità, almeno in forma
rudimentale, e comincia a sembrare probabile che di alcune di esse avremo
effettivamente bisogno»29.
Insomma Dyer non mette in discussione né il sistema socio-economico che ha
prodotto questa situazione né l’abito mentale di dominio sulla natura che ci ha guidato
fin qui.
In effetti una parte non marginale della nostra società coltiva ancora l’illusione che
anche il problema climatico globale possa esser risolto con una soluzione tecnologica
definitiva. Come ha notato Edgar Morin,
«noi sviluppiamo tecnologie di controllo di disinquinamento, di igiene: ma
queste hanno l’effetto subitaneo di imprigionarci sempre di più nella logica delle
macchine artificiali. Intraprendiamo una corsa infernale fra la degradazione
ecologica che ha come suo effetto la nostra degradazione e le soluzioni
tecnologiche che si preoccupano degli effetti di questi mali continuando però a
sviluppare le loro cause» (Morin, 2004, p. 85).
Welzer propone invece uno sguardo realistico ma profondamente riflessivo e fa i
conti con la nostra abitudine passata e presente a rivedere i nostri codici morali alla
luce delle difficoltà in modo da ridurre le dissonanze cognitive. In altre parole Welzer
fa i conti con le pulizie etniche e i genocidi che hanno accompagnato i processi di
modernizzazione e industrializzazione.
In altri termini Dyer comprende i cambiamenti climatici innanzitutto come un
problema da porre sotto un controllo tecnico intanto che si fa strada a fonti
energetiche meno inquinanti, mentre Welzer lo vede come problema eco sociale e
quindi culturale.
Mentre Dyer ritiene che le nostre società vivranno o moriranno come società
altamente tecnologizzate (e consumiste) e non vede ragioni per mettere in
discussione la propria mentalità, per Welzer la questione è invece da porre in relazione
con la configurazione (e ri-configurazione) della propria società e del proprio modo di
vita in relazione all’uso sostenibile delle risorse e al rapporto con le generazioni future.
«la convinzione secondo cui tutte le società prima o poi seguiranno i modelli di
sviluppo dei paesi della OECD si è rivelata nient’altro che un’illusione, e per
giunta antistorica: l’esperimento occidentale è in corso da 250 anni e la fine di
questo esperimento non segnerà certo la fine della storia»30.
Dobbiamo dunque porci delle domande più ampie. Già nel 1971, nel saggio “Il
pianeta malato” Guy Debord, ci ricordava la condizione schizofrenica dentro a cui ci
poneva questa mentalità:
«il problema del degrado della totalità dell’ambiente naturale e umano ha già
completamente cessato di porsi sul piano della pretesa vecchia qualità, estetica o
che altro, per diventare radicalmente il problema stesso della possibilità materiale
di esistenza del mondo che prosegue in un tale movimento. La sua impossibilità e
in effetti già perfettamente dimostrata da tutta la conoscenza scientifica
separata, che non discute più se non della scadenza e dei palliativi che
potrebbero, se applicati con fermezza, farla leggermente ritardare. Una tale
scienza può soltanto accompagnare verso la distruzione il mondo che l’ha
29
30
Dyer, op. cit, p. 262.
Welzer, op. cit, p. 239.
70
prodotta e che la possiede; ma è costretta a farlo a occhi aperti» (Debord, 2007,
p. 52)
Occorre dunque un’elaborazione culturale all’altezza delle sfide del nostro tempo, ma
un’elaborazione riflessiva che ci aiuti a guardare noi stessi e il nostro modo di
pensare mentre guardiamo i problemi attorno a noi. Un atteggiamento di cautela
autocritica che ci aiuti a bloccare gli automatismi che mettiamo in atto nel momento in
cui ci precipitiamo con la convinzione e la fretta di risolverli.
Quello che oggi possiamo dire è che non si tratta più di evitare il mutamento
climatico, ma di diminuirne e contenerne la portata. Per contenere questo
cambiamento occorre modificare diverse cose: modificare il nostro modo di produrre
energia, eliminando o quantomeno rinunciando all’uso dei fonti fossili e convertendosi
all’uso di fonti rinnovabili.
Per ridurre la quantità di anidride carbonica immessa nell'atmosfera ci sono
essenzialmente due modi:
1. Ridurre la produzione mondiale di energia o riconvertendola dall’uso di
fonti fossili (petrolio, carbone, metano) a fonti rinnovabili (solare, eolico,
geotermico ecc).
2. Aumentare la superficie della terra coperta da foreste, in quanto mediante la
fotosintesi clorofilliana le piante utilizzano l'anidride carbonica dell'atmosfera
estraendo dalla molecola il carbonio e rilasciando ossigeno.
Tuttavia ci sono forti resistenze a intraprendere questi cambiamenti.
Il principale strumento negli ultimi anni è stato il cosiddetto protocollo di Kyoto,
un trattato internazionale sottoscritto appunto nella città giapponese l’11 dicembre
1997 da oltre 160 paesi, durante la Conferenza COP3 delle Nazioni Unite.
Concretamente il trattato è entrato in vigore a seguito della ratifica anche da parte
della Russia il 16 febbraio 2005.
Tale trattato prevede per i Paesi industrializzati l’obbligo di operare una riduzione
delle emissioni di elementi inquinanti (biossido di carbonio ed altri cinque gas serra,
ovvero metano, ossido di azoto, idrofluorocarburi, per fluorocarburi, esafluoruro di
zolfo) in una misura non inferiore al 5% rispetto alle emissioni registrate nel 1990,
entro il periodo 2008-2012.
Nel vertice sullo sviluppo sostenibile di Rio + 20 (giugno 2012) non sono
stati presi delle decisioni veramente significative rispetto al tema del mutamento
climatico. Si riconosce che il problema è serio e ineludibile ma ci si orienta più sulle
politiche di adattamento che non di riduzione delle emissioni. Soprattutto non c’è
traccia di un nuovo accordo dopo quello di Tokyo.
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Corso di Sociologia della comunicazione politica - a.a. 2014/2015
Verso una democrazia ecologica?
La discussione pubblica e la partecipazione politica
di fronte alla crisi ambientale
Docente: Marco Deriu
LA CRISI IDRICA E I CONFLITTI PER L’ACQUA
L’acqua è un elemento fondamentale per la vita su questo pianeta. Il ciclo
dell’acqua è alla base di ogni catena biologica. Il suo impiego è fondamentale per
gli esseri umani da diversi punti di vista: dall’alimentazione alla pulizia e all’igiene
personale, dall’irrigazione agricola e alla produzione di cibo all’uso industriale, dalla
produzione di energia elettrica alla riproduzione simbolica, sociale e culturale di molte
comunità. Dalla disponibilità di questa risorsa dipendono dunque equilibri ecologici,
sociali, economici, politici, culturali.
L’acqua ricopre il 71% della superficie terrestre. Circa il 97,5% di questa
acqua corrisponde a quella dei mari e
degli oceani e trattandosi di acqua
salata non può essere utilizzata per usi
domestici o agricoli. Solamente il 2,5%
di quest’acqua è costituito da acqua
dolce. Ma nemmeno questa piccola
percentuale di acqua è completamente
utilizzabile, poiché una gran parte di
essa, circa l’87%, si trova nei ghiacciai,
ai poli o in falde acquifere a grandi
profondità.
Insomma
solamente
l’1%
circa
dell’acqua
dolce
presente nel pianeta (lo 0,01% di
tutta l’acqua terrestre) pari a 13.500
Km3
all’anno è effettivamente
Fonte: Fao, 2004.
accessibile
e
utilizzabile
dalle
comunità umane.
Nel ciclo naturale ogni anno cadono circa 100.000 miliardi di tonnellate d’acqua
sulle terre emerse. Di queste circa 60.000 miliardi di tonnellate evaporano. Nei fatti il
flusso delle acque superficiali e sotterranee nelle terre emerse che tornano al mare è
stimato intorno a 40.000 tonnellate all'anno; tuttavia questo flusso non è distribuito
uniformemente sul pianeta. Al contrario è distribuito in modo piuttosto irregolare nello
spazio e anche nel tempo. Questo significa che alcuni paesi possono avere
sovrabbondanza di acqua mentre altri sono soggetti a privazione o siccità.
Secondo la Banca Mondiale, circa 80 paesi, ossia il 40% delle popolazione
mondiale, sono toccati dal problema della penuria d'acqua.
Nel rapporto dell’UNDP sullo Sviluppo Umano (2006) si stima che circa 1,1
miliardi di persone nel sud del mondo abbiano un accesso inadeguato
72
all’acqua (circa un abitante del pianeta su 5) e oltre 2,6 miliardi di persone siano
prive di servizi igienico-sanitari di base. A questo si
aggiunge ogni anno un gran numero di morti per
malattie dovute all’inquinamento idrico (3,4 milioni).
Secondo l’Oms il livello minimo vitale è di 50
In termini quantitativi si stima che
dieci paesi si dividano oltre il 60%
litri di acqua procapite al giorno.
delle risorse idriche del pianeta:
Sullo sfondo delle lotte per l’acqua c’è un
Brasile (8.233 km3), Russia (4.507
problema di giustizia assieme globale e locale. Un
km3),
Canada
(2.902
km3),
problema di modelli di produzione e di consumo
Indonesia (2.838 km3), Cina
squilibrati e insostenibili.
(2.830 km3), Colombia (2.132
In termini quantitativi il 70% del volume
km3), Stati Uniti (2.071 km3),
d’acqua dolce utilizzato al mondo è destinato
Perù (1.913 km3), India (1.908
ad usi agricoli, il 23% viene utilizzato
km3), Repubblica Democratica del
dall’industria e dal settore energetico, mentre
Congo (1.238 km3).1
solamente il 3,5% viene utilizzato per usi
Viceversa dal punto di vista idrico i
domestici.
più poveri sono il Kuwait (0,02
D’altra parte la disponibilità di risorse idriche di
km3)
che
praticamente
non
ciascun paese o territorio non corrisponde
possiede risorse rinnovabili di
acqua dolce, Malta (0,05 km3),
necessariamente ad un suo proporzionale accesso e
Qatar (0,05 km3), Striscia di Gaza
prelievo.
(0,06 km3), il Bahrein (0,12 km3),
Se prendiamo ad esempio il caso del Brasile, si
quindi gli Emirati Arabi Uniti (0,15
tratta del paese più ricco d’acqua al mondo, ma nei
km3), Capo Verde (0,30 km3),
fatti una parte significativa della popolazione
Gibuti (0,30 km3), Cipro (0,40
residente nei suoi confini non ha accesso all’acqua
km3), Singapore (0,60 km3), Libia
potabile. Un caso opposto è quello della California,
(0,60 km3), Giordania (0,88 km3),
un territorio che può contare su risorse idriche molto
Israele (0,67 km3).
scarse ma che nonostante questo vanta un
consumo procapite di 4.100 litri al giorno, tra i
più alti al mondo.
L’accesso all’acqua dipende dunque anche da una suddivisione socio-economica e
da un’organizzazione politica ed economica.
Qui ci sono dunque già due elementi importanti da sottolineare.
Il primo è che il problema principale non riguarda necessariamente una scarsità
fisica di acqua in un paese o in un territorio ma la grande disparità di accesso tra
ricchi e poveri a livello locale e globale.
Come nota il rapporto dell’UNDP:
«In breve, la scarsità è il prodotto di processi politici e istituzionali che
penalizzano i poveri. Per quanto riguarda l’acqua pulita, lo schema in molti paesi
è il seguente: i poveri ottengono meno, pagano di più e sostengono tutto il peso
dei costi dello sviluppo umano associato alla scarsità» (UNDP, 2006, p. 25).
In secondo luogo, e naturalmente in connessione con quanto abbiamo appena
detto, dobbiamo sottolineare come il problema attuale della scarsità di acqua non è un
processo naturale, fisiologico, ma un effetto di quello che siamo abituati a
chiamare sviluppo.
Può essere difficile da accettare ma nei fatti proprio questo è il problema. Dal 1960
ad oggi, nel mondo si è consumata più acqua che nei tre secoli precedenti.
All’inizio del ‘900 il prelievo complessivo di acqua era di 500 km3 l’anno,
attualmente è di 5.000 km3. Il trend attuale registra un raddoppio della domanda
d'acqua ogni 21 anni.
73
Si può pensare che alla base di questo fenomeno vi sia il crescere della
popolazione. Certamente tra le due cose vi è una correlazione. Infatti si calcola che
la disponibilità media di acqua potabile pro capite sia diminuita negli ultimi
cinquant’anni, soprattutto a causa dell’aumento demografico. Tuttavia in realtà non è
la crescita demografica il maggior problema. Durante l’ultimo secolo il tasso di
diminuzione di acqua ha superato quello della crescita di popolazione di 2,5 volte.
Per comprendere questo fenomeno si deve notare come la maggior parte del
consumo di acqua - pari a circa il 70% del prelievo - avvenga nei paesi nel
Nord del mondo. Nei fatti questo prelievo risponde sostanzialmente ai bisogni
dell'11% più ricco della popolazione mondiale.
Come abbiamo già detto, infatti, gran parte del prelievo d’acqua è destinato ad usi
agricoli e industriali. Per esempio negli Stati Uniti, il 70% è per uso agricolo, il 20% è
utilizzato per uso industriale e il 10% per uso domestico, mentre solamente l'1%
riguarda il consumo di acqua da bere. Dunque il consumo d’acqua aumenta
soprattutto in relazione alle performance agricole e industriali dei paesi più
ricchi o dei paesi emergenti.
In generale si può sottolineare come negli ultimi quarant’anni la superficie di
terreno irrigata sia aumentata al ritmo di 2,7% annuo.
Ora le tecniche moderne permettono la distribuzione idrica in maniera più estesa e
capillare fino all’utopia, coltivata esplicitamente da paesi come Israele, l’Arabia
Saudita, la Libia di far fiorire il deserto, utilizzando solitamente fonti di acqua
fossile. Bisogna tuttavia domandarsi se questo tipo di performance sia sostenibile sul
lungo periodo. E la risposta è sostanzialmente negativa. Come ha notato la direttrice
del Global Water Policy Project, Sandra Postel, nel suo pioneristico libro sulle illusioni
dei moderni sistemi di irrigazione Last Oasis: Facing Water Scarcity,
«le due decadi di esperimenti massicci dei
Sauditi con l’agricoltura nel deserto ha lasciato la
nazione molto più povera d’acqua. Nel suo anno di
picco nella produzione del grano, la nazione ha
prodotto un deficit idrico di 17 milioni di m3 annui,
consumando più di 3.000 tonnellate di acqua per
ogni tonnellata di grano prodotta nel deserto caldo
e battuto dal vento. A questo ritmo, le riserve
idriche sotterranee saranno esaurite entro il 2040,
se non prima» (Postel, 1999, p. 78).
Il caso più impressionante di sfruttamento di acque fossili e di agricoltura nel
deserto si deve all’ormai tramontato regime di Gheddafi. Nel 1953, la ricerca di
nuovi pozzi petroliferi nel sud della Libia, portò alla scoperta, oltre che di petrolio,
anche di vaste quantità d’acqua fossile
intrappolate nel sottosuolo. I bacini fossili
raccoglievano acque di epoche diverse, in
maggioranza tra i 38/40.000 anni fa (ovvero
prima dell’ultima glaciazione). In altri casi
attorno ai 14.000 anni fa. I depositi più
“giovani” risalivano ai 7.000 anni fa. Questi
bacini fanno parte del Nubian Sandstone
Aquifer System, il più grande sistema di
acqua fossile al mondo, che si trova sotto
quattro paesi: Ciad, Egitto, Sudan, Libia. Nel
territorio libico in particolare si trovano i quattro principali bacini: 1) Kufra basin; 2)
Sirt basin; 3) Murzuk basin; 4) Hamadah & Jufrah basins.
74
Attorno a questa scoperta, si svilupparono due progetti:
a) Un grande progetto agricolo di coltivazioni circolari nel deserto attorno
all’oasi di Kufra. L’irrigazione è fatta con un sistema radiale a goccia. I cerchi che
ne conseguono hanno un diametro di 1 km e sono ben visibili dai satelliti nello
spazio
b) The Great Manmade River Project (GMR). Il progetto del grande fiume
artificiale fu concepito alla fine degli anni ’60. I primi studi concreti risalgono al
1974. I lavori partono nel 1984 e proseguono in cinque fasi. Per Gheddafi si
trattava dell’Ottava meraviglia del mondo. Nei fatti stiamo parlando del più lungo
acquedotto della terra, oltre 5.000 km di condutture dal deserto verso le città della
costa: Sirte, Bengasi, Tripoli, Tobruk. L’opera si compone di tubi di calcestruzzo di
4 metri e assicura una portata d’acqua di 6 milioni di m3 al giorno da oltre 1.300
pozzi. Il progetto è stato steso dall’americana Brown and Rooth an Price Brothers,
la realizzazione è stata affidata alla sudcoreana Don Ha. Costo totale
dell’operazione sarà attorno ai 25-30 miliardi di dollari.
Il problema del sovra sfruttamento riguarda tuttavia anche le fonti rinnovabili,
come i fiumi e i bacini idrici.
Lo sfruttamento delle acque è tale che alcuni dei più grandi fiumi del mondo, il
Fiume Giallo (Huang ze) e il Fiume Azzurro (Yangtze) in Cina, il Gange e l’Indo
nell’Asia del Sud, l’Amu Dar’ya in Asia Centrale, il Chao Phraya in Thailandia, il Nilo
nel nord-est dell’Africa, il Colorado e il Rio Grande negli Usa e in Messico in certi
periodi dell’anno non raggiungono più il mare.
Per fare qualche esempio il Fiume Giallo, il secondo fiume della Cina, con una
lunghezza di 5.464 km e le cui risorse alimentano 120 milioni di persone, a partire da
metà degli anni ’90 si prosciuga e interrompe la sua corsa verso il mare per un
numero sempre maggiore di giorni all’anno. Alla fine degli anni novanta oramai i giorni
“di secca” superavano i 200, ovvero più dei due terzi dell’anno.
Possiamo richiamare alcuni esempi impressionanti di prosciugamento di grandi
bacini idrici dovuti ad un eccesso di prelievo e sfruttamento.
Un primo caso è quello del Lago Ciad un bacino poco profondo situato nell’area del
Sahel e lambisce le rive di quattro nazioni Niger, Ciad, Nigeria e Camerun. Il Ciad è il
quarto lago dell’Africa per estensione e il settimo al mondo.
Negli ultimi cinquant’anni il lago,
alimentato dal fiume Chari e dal suo
affluente Logone e in misura minore dal
Komadougou-Yoube
si
è
ridotto
enormemente:
nel 1960 la sua superficie era
circa di 25.000 Km2, nel 2001
l’ampiezza si era ridotta a 1.500
Km2
pari
a
circa
il
6%
dell’estensione degli anni ‘60.
Alla base di questa involuzione ci sono
la diminuzione delle precipitazioni e
l’eccessivo prelievo delle acque dal lago
e dagli affluenti. Il processo di riduzione
dell’estensione del lago Ciad non è un
fatto recente poiché dura in verità da
millenni, ma negli ultimi decenni questo
lento processo naturale è andato
assumendo
una
velocità
e
una
75
drammaticità senza precedenti.
Gli effetti sociali di questo disastro ambientale non si sono fatti attendere. La
cittadina più grande del lago, N’guimi, come molti altri villaggi, si trovava una volta a
ridosso delle rive del lago. Ma l’arretramento della linea costiera tra i 100 e i 150 km2
a seconda della zona ha reso quasi impossibile la continuazione della pesca
tradizionale. Molti ex pescatori si sono dedicati alla coltivazione agricola o hanno
escogitato nuove forme di acquacoltura tramite canali e piccoli bacini.
Nei fatti le persone la cui attività dipendeva dall’acqua hanno seguito l’arretramento
della linea costiera anche attraverso le frontiere senza curarsi del superamento dei
confini nazionali. Così a partire dal 1983 molti migranti si sono ritrovati in territori
stranieri senza rendersi conto del cambiamento. Ne sono seguite numerose dispute
territoriali tra paesi sulle acque e sulle nuove isole emergenti dal lago, così come dei
conflitti sul reinsediamento delle comunità.
Un secondo caso, ancora più impressionante, è la vicenda del Lago Aral in Asia
Centrale.
Una volta l’Aral era il quarto lago più grande al mondo. Veniva rifornito da due
fiumi, l’Amu Dar'ya e il Sir Dar'ya. Le popolazioni locali – attualmente divise tra
Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan - sfruttano le acque
dei due fiumi per l’irrigazione da molti secoli. Ma nel frattempo l’area irrigata si è
espansa enormemente.
I primi progetti per lo sfruttamento dell’Amu Dar'ya e del Sir Dar'ya datano
addirittura al 1918. Il governo rivoluzionario bolscevico intendeva fin da allora irrigare
il deserto per far crescere riso, meloni, cereali e soprattutto cotone, l’oro bianco che
doveva diventare una materia fondamentale per l’esportazione. I canali – di scarsa
qualità e soggetti a grande dispersione ed evaporazione - furono costruiti a partire
dagli anni ’30.
A partire dalla fine degli anni ‘60 i canali cominciarono a deviare tra i 20 e i 50 km 3
di acqua dai due fiumi immissari del lago per irrigare terreni aridi e sviluppare le
immense coltivazioni di cotone e riso che andarono a sostituire le tradizionali
coltivazioni di canapa.
Tra gli anni ’60 e gli anni ’80 la percentuale di acqua prelevata per l’agricoltura
raddoppiò e parallelamente, nello stesso periodo, raddoppiò anche la produzione di
cotone.
Il prosciugamento del lago non era affatto una sorpresa per i pianificatori sovietici
che avevano al contrario già messo in conto la scomparsa dell’Aral.
In effetti nel giro di pochi decenni la superficie del lago che negli anni ‘60 si
estendeva per 68.000 km2 si
ridusse di due terzi. Alla fine
degli anni ’90 la superficie si
limitava
a
28.687
km2
determinando
un
forte
arretramento della linea costiera.
Attualmente le stime ipotizzano
un’estensione di 17.650 km2.
Nei fatti a partire dal 1990 il
lago si presenta distinto in
almeno due parti: il Grande Aral
(o North Aral) e il Piccolo Aral
(o South Aral) a sua volta
ripartitosi in due a partire dal
2003. Il ritiro della linea costiera
76
ha lasciato vecchie navi abbandonate in balia delle dune di sabbia del deserto mentre
le acque rimanenti hanno visto aumentare la propria salinità.
Questo fenomeno ha messo in crisi le popolazioni costiere, in particolare della
cittadina che vivevano di pesca. Al sud la cittadina di Moynag, che un tempo
emergeva dal delta dell’ Amu Dar'ya oggi dista dall’acqua più di 100 km. Mentre al
nord la città di Aral’sk oggi è un porto in un mare di sabbia con imbarcazioni
insabbiate e stabilimenti dismessi. A partire dal 1982 l’industria della pesca locale è
stata completamente abbandonata.
Ma negli ultimi anni di fronte alla situazione drammatica sono stati portati avanti
anche progetti unilaterali. Il tentativo più rilevante di invertire la scomparsa del fiume
è stato avviato dal Kazakistan con un progetto da 86 milioni di dollari condiviso con la
Banca mondiale di una diga di 13 km chiamata “Diga Kokaral” nei pressi del delta del
Syr Dar’ya. La diga in questione separa definitivamente in due il North Aral dal South
Aral puntando a salvare e ripristinare il bacino settentrionale lasciando al suo destino
il più ampio bacino meridionale. Dopo due tentativi falliti (nel 1992 e nel 1998) la diga
entra in funzione il 7 agosto del 2005. L’operazione sta effettivamente riportando in
vita il bacino del North Aral, aumentando il livello dell’acqua, diminuendo il grado di
salinità, quindi ha rallentato il fenomeno di evaporazione e sta permettendo anche il
ritorno del patrimonio ittico, in particolare di carpe e storioni e il rilancio dell’industria
ittica. La città di Aral’sk che si era ritrovata alla distanza massima di 100 km dalla
linea costiera oggi si trova solamente a 25 km di distanza. E si pensa in futuro quando
le distanze si saranno ulteriormente ridotte di poter ricollegare, grazie alla costruzione
di un canale, l’antico porto al mare. Anche il microclima sembra averne tratto
giovamento rimettendo in moto il ciclo della pioggia.
Concretamente tuttavia è solo la parte settentrionale dell’Aral a crescere. La parte
meridionale del lago – il South Aral o Grande Aral - che fa capo al più povero
Uzbekistan non può contare su progetti di recupero e la linea costiera è arretrata qui
di circa 250 km, mentre il livello di salinità e di inquinamento delle acque è diventato
intollerabile con il conseguente peggioramento della situazione sanitaria.
Si pensa che la parte occidentale del South Aral potrebbe scomparire del tutto in 15
anni, lasciando solamente la parte orientale nutrita dal Amu Dar’ya.
È chiaro dunque che l’operazione seguita dal Kazakistan è stata vissuta
negativamente da parte dell’Uzbekistan anche se la diga Kokaral presenta alcune
chiuse che vengono saltuariamente aperte per convogliare parte delle acque
provenienti dal Syr Dar’ya nel bacino meridionale del lago.
Negli ultimi decenni la tensione tra Uzbekistan e Kazakistan per la gestione delle
acque è aumentata, anche a seguito di alcuni incidenti di confine e se non cambia
qualcosa si inizia a temere la possibile
evoluzione di queste tensioni.
Un terzo caso, più recente è quello
del lago di Urmia (Orumiyeh),
nell’Iran nordoccidentale. Si tratta del
terzo lago salato più grande del
mondo, ed è alimentato da oltre una
sessantina di fiumi e torrenti che
trasportano sali minerali. Quando il
clima si fa più arido, l’acqua evapora e
i sali si cristallizzano. Ma il lago pian
piano si sta ritirando. Il satellite
Landsat ha scattato queste due foto
del lago il 25 agosto del 1998 e il 13
agosto del 2011. Tra il 1992 e il 2011
77
si è registrato un abbassamento di circa quattro metri del livello dell’acqua e il lago ha
perso più di metà della sua superficie. Le cause sono attribuibili sia alla siccità dovuta
al cambiamento climatico che alle troppe
dighe costruite sui suoi affluenti. Ben 35 dighe
sono già state costruite e altre 10 sono in
costruzione.31
Tra agosto e settembre 2011 la popolazione di
Tabriz e Orumiyeh si è mobilitata per
protestare contro l’immobilismo dei regime e
per chiedere misure urgenti per impedire il
prosciugamento del lago salato di Urmia
considerato dall’Unesco riserva mondiale della
biosfera. Le manifestazioni sono state
repressa con ferocia dal regime di Teheran
che ha arrestato almeno una sessantina di attivisti. Le proteste si sono espresse anche
in forma artistica su facebook. Ma Oltre al disastro ecologico la scomparsa del lago
comprometterà l’agricoltura della zona, sia per la perdita dell’acqua che per la
possibile diffusione del sale sui territori circostanti. Concretamente produrrà danni sia
economici che alimentari per la popolazione locale.
Queste storie, esempi di progetti di sviluppo del tutto insostenibili ci
segnalano fra l’altro la connessione forte che esiste tra sistemi alimentari,
forme di sviluppo e impatto sulle risorse naturali.
Di fronte alla crescente crisi idrica, negli ultimi anni alcuni paesi hanno investito in
tecnologie ed impianti dissalatori, che permettono di depurare l’acqua marina o di
riciclo. In particolare nel 2008 l’Arabia Saudita ha prodotto 7,1 milioni di m3 di acqua
al giorno, gli Emirati Arabi Uniti 6,4 milioni di m3, gli Stati Uniti 4,6 milioni, la spagna
2,8 milioni, il Kuwait 2,1 milioni. Ma il problema con i dissalatori è che richiedono un
forte consumo energetico. Circa il 60% dei costi viene dall’elettricità usata. Dunque il
problema viene spostato sul consumo di energia. Inoltre hanno un certo impatto
ambientale sia in termini di emissioni di CO2 sia in termini di impatto sulle coste,
poiché pompano acqua di mare con tutti gli organismi compresi e restituiscono forti
quantità di sale.
Nel ragionamento attorno a queste risorse non si deve dimenticare di prendere in
considerazione quella che viene chiamata “acqua virtuale”. Come spiega Tony Allan
in riferimento all’Egitto e al Nilo, «Acqua virtuale è l’acqua contenuta nel cibo che la
regione importa». In altre parole un paese può ricevere una grande quantità di acqua
attraverso l’importazione di derrate alimentari piuttosto che impiegare le proprie
risorse idriche per sviluppare l’agricoltura locale.
Come notano Giuseppe Anzera e Barbara Marniga
«Servono 1.000 m3 d’acqua per produrre una tonnellata di grano, ed è molto
più semplice trasportare una tonnellata di grano che 1000 m3 di acqua. In
sostanza “l’acqua virtuale” serve a bilanciare il deficit idrico di uno Stato. Esiste
infatti una strettissima relazione tra il gap idrico di una nazione e il gap
alimentare» (Anzera, Marniga, 2003, p. 9).
Val la pena ricordare a questo proposito che uno dei motivi del crescente
disequilibrio nel prelievo idrico ha a che fare anche con le trasformazioni delle
forme di alimentazione e con la dieta tipica dei consumatori occidentali o
31
Internazionale, n. 924, 18 novembre 2011, p. 99.
78
delle élites più ricche dei paesi del sud oramai abituati a mangiare carne a ritmi
quasi giornalieri. Tale dieta richiede in effetti grandi quantità di cereali per nutrire il
bestiame da cui si ricava la carne. Le coltivazioni di cereali a loro volta richiedono
grandi quantità d’acqua. Per produrre una tonnellata di cereali occorrono
almeno 1.000 tonnellate di acqua, mentre occorrono circa 7 kg di cereali per
produrre un kg di carne bovina (4 kg per 1 kg di maiale e 2 kg per 1 kg di pollo)32.
In sostanza come è stato notato (Myers, Kent, 2004), una dieta che prevede carne
quasi tutti i giorni della settimana richiede due volte l’acqua dell’alimentazione
standard della popolazione dei paesi non sviluppati. Nei fatti l’eccesso di alimentazione
basata sulla carne, in specie bovina, produce una forte pressione sui mercati
internazionali e contribuisce in misura significativa all’aumento dello stress idrico e alla
diminuzione di cereali per le popolazioni più povere. In prospettiva dunque anche le
nostre abitudini alimentari devono trovare un nuovo equilibrio.
Oltre alle dimensioni socio-economiche appena richiamate, si possono comunque
rintracciare alcuni elementi che contribuiscono a determinare l’attuale
pressione crescente sulle risorse idriche e che fanno supporre che l’acqua
diventerà sempre più un elemento strategico e una possibile fonte di conflitti.
Fra questi possiamo richiamare:
-
-
-
-
-
La crescita demografica. L’aumento della popolazione si traduce in una
maggiore pressione umana sui territori e sulle risorse idriche. La popolazione
umana richiede infatti acqua per bere, lavarsi, coltivare e produrre cibo. Anche i
fenomeni di migrazione e di urbanizzazione hanno contribuito a determinare una
maggiore concentrazione e pressione sulle risorse idriche.
L’evoluzione tecnologica. La notevole crescita degli strumenti di tipo
ingegneristico e meccanico ha permesso sempre più di intervenire in maniera
massiccia sui corsi d’acqua e sui laghi producendo lavori idraulici (dighe,
canalizzazioni, prelievi in profondità, centrali idroelettriche) che in passato non
erano nemmeno ipotizzabili, alterando così gli equilibri idrici di molti territori e
paesi.
L’aumento dello sfruttamento. Lo sviluppo dell’industria agroalimentare con la
spinta ad una agricoltura intensiva e all’irrigazione artificiale di nuovi terreni ha
comportato un prelievo crescente dell’acqua e una sua sottrazione ad altri usi,
nonché uno sfruttamento eccessivo del suolo e un suo impoverimento. Anche l’uso
industriale, sebbene in misura minore, contribuisce alla crescita del consumo e
della penuria d’acqua.
Modificazioni ecologiche. Negli ultimi decenni l’impatto più generale
dell’evoluzione delle società umane in particolare dei paesi industrializzati ha
contribuito a forti mutamenti ambientali e climatici che hanno prodotto fenomeni di
riscaldamento globale, di desertificazione, di inaridimento dei suoli, di
prosciugamento delle zone umide, di progressiva scomparsa di fiumi e di laghi.
L’inquinamento delle acque. Nel complesso è aumentato anche il livello di
inquinamento e contaminazione delle acque a causa di scarichi urbani, industriali,
di allevamenti non adeguatamente trattati, o a causa dell’uso indiscriminato di
aggressivi chimici in agricoltura. A questi si possono aggiungere anche le forme di
inquinamento e contaminazioni in situazioni di guerra. Nell’insieme tutte queste
forme di inquinamento hanno contribuito a diminuire la disponibilità complessiva di
acqua pulita.
32
Questo calcolo proposto da Norman Myers e Jennifer Kent si riferisce ad un allevamento intensivo in
ambiente confinato del bestiame (feedlot). Per un approfondimento del rapporto tra diverse forme di
consumo alimentare e conseguenze sociali ed ecologiche rimando agli autori citati (Myers, Kent, 2004,
pp. 57-70).
79
-
-
La dispersione delle acque. Gli stessi sistemi di canalizzazione e le reti di
distribuzione dell’acqua sono spesso inadeguate da un punto di vista tecnologico e
di manutenzione così da produrre una percentuale di acqua sprecata che nei paesi
più ricchi è spesso sopra il 30/40%.
La mercificazione dell’acqua. Più nello specifico le norme di accesso e le regole
di utilizzo e di distribuzione delle acque hanno contribuito a rendere più complessa
e diseguale la disponibilità di acqua a seconda delle classi sociali e dei territori.
Entrando nello specifico, tra le aree più interessate dalla crisi idrica ci sono il
Vicino e Medio Oriente. Nove dei quattordici paesi di quest'area si confrontano con
una scarsità strutturale di risorse idriche. Paesi come Algeria, Arabia Saudita, Egitto,
Emirati Arabi, Giordania, Israele, Libia, Marocco, Siria, Tunisia e Yemen, dispongono di
una quantità annuale di acqua attorno a 1.000 m3, considerata la quantità minima per
la sopravvivenza. In alcuni di questi paesi si fa fronte alla crisi attuale ricorrendo
anche alle fonti di acqua, ovvero alle falde acquifere non rinnovabili. In questo modo
però i tamponi sul breve periodo rischiano di contribuire a rendere cronico il problema
in questi paesi.
Sul medio termine tuttavia il continente asiatico con giganti quali Cina, India,
Thailandia, Pakistan, Iran potrebbe essere quello più colpito da problemi di
“stress idrico”33 e quindi di alimentazione, a causa dello sviluppo
demografico squilibrato.
Già oggi il continente asiatico ospita quasi il 60% della popolazione mondiale.
L’eccesso di sfruttamento delle falde sotterranee si sta già delineando e le
conseguenze di una carenza idrica strutturale rischiano di essere catastrofiche.
H2O: GUERRE, CONFLITTI, COOPERAZIONE
Il dibattito attorno ai conflitti sull’acqua si è diviso in questi anni tra coloro che
mettevano avanti scenari piuttosto pessimisti e coloro che sottolineavano che
storicamente l’acqua ha costituito assai più spesso uno strumento di accordo e
cooperazione tra popoli e paesi (quest’ultimo elemento è certamente importante e lo
riprenderemo più avanti).
Mentre alcuni autori - tra gli altri Joyce Starr (1990), Marq de Villiers (1999,
2004), Diane Raines Ward (2004), Vandana Shiva (2003, 2005), Fread Pearce
(2006) - parlano esplicitamente di “guerre per l’acqua” o di conflitti violenti (Peter
Gleick, 1998, 2005, 2007), altri autori, fra cui Aaron T. Wolf, Sandra Postel, Shira
B. Yoffe, Mark Giordano, Pat Tamas34 sostengono che in realtà l’unica vera guerra
per l’acqua che si ricordi storicamente è quella tra le città stato di Lagash e Umma in
Mesopotamia circa 4.500 anni fa. Aaron Wolf parla delle guerre per l’acqua come un
“mito”, mentre un’altra studiosa, Julie Trottier, ha addirittura presentato quello delle
“water wars” come un “concetto egemonico” di cui ha analizzato l’ascesa e il declino a
partire dalla metà degli anni ’80 fino ai giorni nostri (Trottier, 2003).
Alle tesi degli studiosi delle guerre per l’acqua hanno indirettamente dato credito
anche le dichiarazioni di personaggi di alto livello. Prima Ismail Serageldin, vicepresidente della Banca Mondiale, che il 10 agosto del 1995, dichiarò che
33
Il termine “water stress” (stress idrico) e i primi relativi indici sono stati proposti da Malin Falkenmark
(1989). Si parla di “water stress” quando la quantità d’acqua annua pro capite scende al di sotto dei
1.700 m3 annui, di “chronic water scarcity” o carenza idrica quando scende al di sotto 1.000 m3
d’acqua annui, e si parla infine di “absolute scarcity” o carenza assoluta quando scende al di sotto dei
500 m3 d’acqua annui per persona.
34
Si vedano Wolf (1998), Postel, Wolf (2001), Wolf, Yoffe, Giordano (2003), Tamas (2003), Trottier
(2003).
80
«Se le guerre di questo secolo sono state combattute per il petrolio, le guerre
del prossimo secolo saranno combattute per l’acqua».35
Sulla stessa linea l’allora Segretario Generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan,
il 15 marzo del 2001 in un discorso a New Delhi, disse:
«se non facciamo attenzione, le guerre del futuro saranno per l’acqua e non
per il petrolio».36
Entrambe le affermazioni ebbero prevedibilmente una grande eco e stimolarono
ulteriormente le discussioni sulle imminenti “guerre per l’acqua”.
Come è possibile dunque questo divario di letture tra studiosi, tra coloro che
parlano di guerre o conflitti per l’acqua e coloro che sostengono che non ci sono vere
guerre per l’acqua?
La risposta dipende da alcuni snodi specifici. In primo luogo si tratta di capire in
che senso le guerre o gli eventi violenti sarebbero collegati all’acqua. Diversi
conflitti contemporanei hanno tra le cause o concause il problema del controllo e della
condivisione dei rifornimenti idrici. Tuttavia è chiaro che raramente l’acqua
rappresenta l’unica causa del conflitto. Da questo punto di vista si può anche dire
che nessuna “guerra” su grande scala è stata combattuta unicamente o
principalmente “per l’acqua”. Il più delle volte la gestione o il controllo delle risorse
idriche rappresenta un aspetto di una conflittualità più ampia che riguarda più soggetti
e più questioni. Questo tuttavia in fondo è vero per la maggior parte delle risorse
naturali. Sono relativamente pochi i casi in cui una guerra viene combattuta
“unicamente” per il controllo di una risorsa. Perfino per quanto riguarda il
petrolio è difficile trovare una guerra che sia stata fatta esclusivamente per il petrolio,
comprese le guerre dell’Iraq. Le guerre, soprattutto quelle tra grandi soggetti, come le
nazioni, sono eventi di tale ampiezza e complessità che in genere coinvolgono diversi
elementi e motivazioni. È certamente vero - per stare ad un caso contestato - che
Israele non ha mai condotto una guerra unicamente allo scopo di controllare l’acqua.
Ciò non toglie che –come vedremo fra poco - il controllo delle fonti idriche è stato ed è
un elemento tenuto in grande considerazione nei propri obiettivi militari e nelle proprie
strategie politiche dalle dirigenze israeliane.
Ma il punto fondamentale è che quando ci si interroga sull’esistenza attuale o futura
di guerre per l’acqua la risposta dipende fondamentalmente dalla definizione
che vogliamo dare al concetto di “guerra”. Se per guerra intendiamo uno scontro
militare su larga scala avente per soggetti due o più nazioni che oppongono i propri
eserciti allo scopo di conquistare un territorio strategico o sottomettere l’altra nazione,
allora questo tipo di guerra è quasi completamente scomparso. La maggioranza dei
conflitti dalla fine degli anni ’80 ad oggi ha preso altre forme. Degli oltre cento conflitti
succedutisi dopo il 1989 solamente sette casi hanno riguardato guerre tra Stati.
Negli ultimi decenni i cambiamenti geopolitici, strategici, militari sono stati tali che
gli studiosi di settore hanno profondamente rimesso in discussione la nozione di
guerra e hanno proposto per sottolineare la discontinuità termini quali “nuove
guerre”, “guerre postmoderne”, “guerre postnazionali”, “guerre senza
35
Citato in New York Times, 10 agosto, 1995.
«if we are not careful, future wars are going to be about water and not about oil», Kofi Annan,
“Question and aswer session after statement (SG/SM/7742) at the Federation of Indian Chambers of
Commerce and Industry”, New Delhi, 15 march, 2001, http://www.un.org/News/ossg/sgcu0101.htm
36
81
limite”.37 Attualmente si tratta sempre meno di guerre tradizionali tra Stati e
sempre di più di guerre interne o transfrontaliere che oppongono diversi
interessi politici, economici, materiali, identitari, che fondamentalmente
ignorano o relativizzano i confini nazionali e che ovviamente non prevedono alcuna
dichiarazione formale di guerra. Sono cambiati anche gli attori in campo che non sono
più solamente i tradizionali eserciti, ma anche militari privati, milizie irregolari, gruppi
di guerriglieri, combattenti improvvisati, terroristi. Sono cambiati gli obiettivi
strategici, non si tratta più di occupare militarmente un territorio quanto di difendere
ed imporre i propri interessi economici e politici anche fuori dal proprio territorio. Le
modalità di combattimento poi non ricalcano quasi mai gli scontri frontali tra eserciti
ma coinvolgono sempre più pezzi di popolazione e sviluppano modalità di violenza più
estemporanee e più disseminate. Insomma il rapporto tra elementi civili e militari
nonché le contrapposizioni tra pace e guerra ne escono radicalmente indebolite.
Dunque è scorretto valutare la presenza di nuove guerre per l’acqua sulla base delle
categorie politico-militari appartenenti a epoche storiche in gran parte già sorpassate.
È chiaro dunque che ciò che riusciamo a vedere e ad evidenziare dipende in
gran parte dalle nostre griglie di analisi.
A questo si aggiunga che alcuni studiosi, in particolare Philippe Le Billon, hanno
sostenuto che bisogna tener conto della relazione tra la natura/geografia di una
risorsa e i tipi di conflitti cui può dar luogo. In altre parole ogni risorsa “chiama”
tipologie di conflitti differenti (colpi di stato, movimenti secessionisti, ribellioni e
rivolte, conduzione di guerre locali) a seconda che sia localizzata o diffusa, vicina o
lontana dai centri di potere, che sia più o meno saccheggiabile o commercializzabile
(Le Billon, 2001).
Ciò detto personalmente ritengo che la categoria di guerra non andrebbe usata
indiscriminatamente o in senso troppo metaforico. Se vogliamo indicare l’insieme delle
tensioni - a volte violente, a volte no - che stanno emergendo attorno all’acqua
ritengo sia più corretto parlare di “conflitti per l’acqua” e precisare poi di volta
in volta di che tipo di conflitti si tratta.
Ci possono essere conflitti tra Stati, come conflitti intestini, come anche conflitti
transfrontalieri. I conflitti possono essere di tipo giuridico sul titolo di proprietà o su
diritti d’accesso e d’uso. Possono essere di tipo economico relativi allo sfruttamento e
alla privatizzazione o al guadagno relativo all’utilizzo delle risorse idriche per
l’agricoltura, per l’industria, per l’allevamento, per l’acqua potabile. Possono essere di
tipo sociale e riguardare forme di equità nei consumi o la soddisfazione dei bisogni di
base della popolazione. Possono essere violenti o non violenti; possono registrare il
coinvolgimento di militari o di guerriglie armate, come esprimersi in forme di protesta
sociale e popolare più o meno radicali. Anche le vittime di questi conflitti possono
essere di diversi tipi. Ci possono essere morti e feriti per scontri armati, per forme di
repressione, per terrorismo o per boicottaggio (il caso della strage di 487 indigeni per
la diga sul fiume Chixoy in Guatemala); ci possono essere migrazioni forzate o vere e
proprie deportazioni (il caso delle dighe indiane e cinesi), oppure ci possono essere
vittime di disastri o rifugiati ambientali. Insomma il quadro dei conflitti per l’acqua è
vasto e complesso e non è il caso di ridurlo ad un unico paradigma o ad un unico tipo.
L’uso del termine “conflitto” permette anche di lasciare spazio ad una
valutazione positiva della dinamica che si può instaurare. Con una battuta con
le guerre c’è chi vince e chi perde. Con i conflitti tutti possono rinunciare a qualcosa
per soddisfare diritti ed esigenze di tutti. Il conflitto in sé è semplicemente espressione
di una molteplicità di punti di vista, di bisogni o di concezioni. Da questo punto di vista
37
Tra gli altri Mary Kaldor (Kaldor, Vashee, 1997; Kaldor, 1999, 2004, Kaldor, Albrecht, Schméder,
1998), Qiao Liang, Wang Xiangsui, (Liang, Xiangsui, 2001), Mark Duffield (Duffield, 2002, 2004), Carlo
Galli (Galli, 2002), Marco Deriu (Deriu, 2005).
82
i conflitti mantengono in sé non solo la possibilità di una soluzione o di un accordo tra
le parti ma anche la possibilità di un apprendimento e di una maturazione politica,
ambientale, culturale delle parti coinvolte, dai governi, alle istituzioni, all’opinione
pubblica, ai singoli cittadini. I conflitti in sé possono anche servire a restituire
maggiore riflessività, maggiore cautela e oculatezza. I conflitti sono positivi anche in
quanto segnano la capacità di reazione, di mobilitazione per i propri diritti, per le
proprie aspirazioni o per la giustizia sociale.
Si potrebbe anche dire che è fondamentale portare alla luce i conflitti proprio
per scongiurare le guerre. L’alternativa alle guerre per l’acqua non è una
condizione irenica e pacificatoria, ma piuttosto la capacità di vivere e attraversare i
conflitti assieme ad altri soggetti, la disponibilità a trasformare una difficoltà in
un’occasione di cooperazione. Nel periodo che va dall’805 d.C. agli anni ’80 del
novecento sono stati stipulati oltre 3.600 trattati diplomatici per definire controversie
relative all’acqua, mentre negli ultimi cinquant’anni a fronte di 507 eventi conflittuali e
di 37 casi di violenza relativi alla gestione delle acque si sono avuti 1.228 azioni di
cooperazione e la stipula di 200 trattati tra paesi. Molti autori – da Sandra Postel ad
Aaron Wolf e Shira B. Yoffe – sostengono l’insegnamento che ne possiamo trarre è che
l’acqua è fonte piuttosto di forme di cooperazione e condivisione che di conflitti e di
guerre.
GLI SCENARI ATTUALI
Abbiamo detto poco fa che le tipologie di conflitto possono essere molto differenti.
Nella ricognizione delle situazioni attuali evidenzieremo diversi conflitti sulla base della
tipologia spaziale. Distingueremo dunque tra conflitti intestini o transfrontalieri,
urbani, conflitti territoriali, conflitti internazionali, e infine conflitti legati al terrorismo.
Conflitti intestini o transfrontalieri
Molti conflitti relativi all’acqua si sviluppano su base locale e dunque si presentano
come conflitti intestini, regionali ma anche transfrontalieri. Si possono sviluppare
conflitti urbani, tra centro e periferia, tra città e campagna, tra comunità a monte e
comunità a valle o tra governo e comunità locali, soprattutto relativamente alla
realizzazione di grandi opere come dighe, deviazioni o invasi.
Conflitti civili e territoriali sono cresciuti negli ultimi decenni in molti paesi e sono
divenuti esperienze ricorrenti in diverse zone della Thailandia, per esempio sul fiume
Chao Prhaya. Sempre in In Thailandia la costruzione della diga Pak Mun ha
determinato una drammatica riduzione delle risorse ittiche del Mekong che ha messo
in difficoltà oltre 25.000 persone che dipendevano da questo patrimonio naturale. La
protesta delle popolazioni locali continua dal 1994, anno di completamento della diga.
In India nel Punjab per i pozzi e per le acque dell’Indo. In quest’ultimo paese il
fiume Cauvery è al centro di un conflitto per l’utilizzo dell’acqua a fini di irrigazione
tra gli stati indiani del Karnataka e del Tamil Nadu che ha causato diverse vittime.
Quest’ultimo Stato che si trova a valle lamenta un eccessivo prelievo da parte dello
Stato a monte, il Karnataka. Nel 1983 l’associazione degli agricoltori del Tamil Nadu
ha presentato una petizione per ricevere una quota maggiore di acqua dal fiume. Nel
1991 la questione è stata portata dal presidente indiano di fronte alla Corte suprema il
cui verdetto non è stato accettato dal Karnataka. Ne sono seguiti violenti tumulti che
hanno costretto ad un trasferimento oltre 100.000 persone. Gli scontri sono riscoppiati
aspramente nel 2002.
In Cina si sono registrati molti conflitti attorno al Fiume Giallo (Huang ze) e al
Fiume Azzurro (Yangtze). Per esempio nel luglio del 2000 si sono verificati duri scontri
nella zona dello Shatung, vicino alla foce del Fiume Giallo, tra migliaia di contadini e
le forze dell’ordine a causa di un piano governativo volto a trasferire alle aree urbane
83
una parte delle riserve idriche locali impegnate per l’agricoltura (Anzera, Marniga,
2003, p. 36). Quel territorio era già penalizzato da tempo dallo sfruttamento del
Fiume Giallo in zone più a monte che aveva portato ad un sensibile abbassamento del
livello del fiume soprattutto nell’ultimo tratto prima dello sbocco in mare aperto. In
questo caso ad esempio si sovrappongono forme di contrapposizione tra città e
campagna e tra comunità a monte e a valle.
Negli Stati Uniti si sono registrate delle dispute legate ad alcuni fiumi come il
Columbia, il McCloud, l’Elwha, lo Snake e il Trinity in gran parte prosciugati dalle dighe
e dai prelievi idrici. Tali fiumi erano fonte di sostentamento per alcune tribù indiane
che assieme alle associazioni ambientaliste si sono mosse per protestare e chiedere la
restituzione dell’acqua. Nel caso del Trinity la lotta si è conclusa positivamente. Nel
2004 infatti il Bureau of Reclamation ha deciso che almeno il 47% del flusso del fiume
andava restituito ai pesci. Anche le dighe sul fiume Elwha saranno abbattute in
seguito ad una decisione del Congresso americano.
Conflitti simili si sono verificati in Colombia attorno alle acque del fiume Sinù,
imbrigliato dalla costruzione della diga “Urrà I”. L’opera idraulica ha ridotto la portata
del fiume e ha fatto crollare la pesca. Le comunità locali Embera-Katio e Zenù che
portano avanti un movimento di protesta contro le dighe sono state sottoposte a
violenze, repressioni e sparizioni.
Anche in Spagna si sono registrate tensioni a livello regionale, per esempio tra
l’autonomia di Aragona e quella di Catalogna attorno all’utilizzo delle acque del fiume
Ebro.
Sempre a livello locale, urbano o regionale, si possono sviluppare conflitti legati
alla gestione dell’acqua e ai tentativi di privatizzare questo bene (vd dopo).
Conflitti internazionali
A livello internazionale i conflitti derivano principalmente dal tentativo di appropriarsi
delle fonte idriche, di controllarle o di sfruttarle in maniera squilibrata e unilaterale in
una condizione di mancanza di leggi e trattati internazionali. In genere i conflitti
vengono innescati da interventi unilaterali quali la costruzione di dighe, di canali, la
deviazione di fiumi o atti di overpumping. Il paese danneggiato può protestare o
reagire con minacce o rappresaglie.
I conflitti posso nascere attorno a grandi fiumi o a laghi. Del resto si calcola che il
32% dei confini tra Stati sia segnato dall’acqua.
Nei Balcani uno dei fattori che contribuisce ad alimentare le tensioni tra i diversi
stati riguarda la rete idrografica di alcuni fiumi (Drava, Sava, Drina, Danubio) che
hanno carattere frontaliero o transfrontaliero, ponendo così il problema della gestione
comune delle acque. Esistono inoltre problemi relativi alla definizione delle acque
territoriali e dello sfruttamento delle risorse marine, dalla pesca ai giacimenti minerari,
dalle riserve petrolifere alle rotte commerciali.
In particolare il Danubio,38 considerato il più importante fiume europeo, è
storicamente al centro di diversi conflitti. Ai primi del ‘900 la Slovacchia tentò di
deviare le acque del fiume per creare un nuovo alveo tutto all’interno del proprio
territorio. Il caso è stato portato dall’Ungheria davanti alla Corte di Giustizia dell’Aia.
Come ha notato Mark De Villiers, il caso diventò la prima controversia internazionale
sui diritti per l’acqua mai affrontata in un tribunale (De Villiers, 2004, p. 216).
Un secondo conflitto emerge nel 1919 quando dopo la conferenza di pace di Parigi
la neonata Cecoslovacchia mira esplicitamente ad annettere le regioni ungheresi
sull’altra sponda del fiume per entrare in possesso di entrambe le rive suscitando in
questo modo l’ostilità dell’Ungheria.
38
Sul Danubio si veda Sironneau (1997), De Villiers (2004), Rusca, Simoncelli (2004).
84
Nel 1977 nel quadro del regime di cooperazione tra stati del blocco sovietico
Cecoslovacchia e Ungheria siglano insieme il “Joint Agreed Plan” dando avvio al
progetto Gabcikovo-Nagymaros per la gestione e lo sfruttamento delle acque del
fiume che prevedeva la realizzazione di un sistema di sbarramenti e due centrali
idroelettriche. Il piano avrebbe permesso la deviazione del Danubio in un nuovo
canale di 17 km consentendo la navigazione per le merci e la realizzazione degli
impianti per la generazione di energia elettrica.
Tale clima di cooperazione si guasta velocemente dopo l’89 con la scomparsa del
blocco comunista. Venuto meno il cappello comune i due paesi rivalutano le questioni
in campo. Viene promosso un nuovo studio di impatto ambientale che mostra come la
diga di Nagymaros possa nuocere all’ecosistema del fiume e diminuire le scorte
d’acqua potabile. Le interpretazioni dello studio da parte dei due paesi sono tuttavia
differenti. La Cecoslovacchia vorrebbe una semplice revisione tecnica del progetto
mentre l’Ungheria decide di sospendere i lavori sia a Nagymaros (Ungheria) che quelli
di sua competenza anche a Gabcikovo (Slovacchia) e preme per l’accantonamento
definitivo dell’intero progetto. Nonostante questo, Praga decide di proseguire con la
“Variante C” ovvero con la prosecuzione unilaterale della costruzione della diga e la
deviazione del corso del fiume in territorio cecoslovacco. A questo punto la tensione
tra i due paesi cresce rapidamente. Nel novembre del 1991 Cecoslovacchia da l’avvio
ai lavori, mentre nel febbraio del 1992 l’Ungheria minaccia la rottura unilaterale del
vecchio trattato del 1977. La Comunità Europea temendo un altro conflitto europeo
propone un arbitrato e la costituzione di una commissione trilaterale di esperti per
risolvere la controversia, ma la mediazione di fronte alla volontà della Cecoslovacchia
di continuare i lavori non è facile. Gli Ungheresi per tutta risposta dichiarano nullo il
trattato del 1977. In ottobre inizia un nuovo round di trattative con la mediazione
europea. Alla fine del 1992 si arriva alla firma congiunta del “Protocollo di Londra” che
prevede la sospensione della “Variante C”, l’impegno a mantenere almeno il 95%
dell’acqua nel suo alveo originale e la non attivazione della centrale di Gabcikovo,
nonché la decisione di portare il caso dinnanzi alla Corte Internazionale di Giustizia
dell’Aia. È la prima volta che questa Corte si trova ad affrontare un caso ambientale di
portata internazionale e non a caso sul tema dell’acqua. La sentenza della Corte arrivò
solamente il 25 settembre 199739. Alla Slovacchia (subentrata dopo la divisione del
1993) la Corte impose l’arresto del progetto con la motivazione che appropriarsi di un
fiume e mettere in pericolo un ambiente naturale unico al mondo era un’azione
illegale, mentre per quanto riguarda l’Ungheria la Corte sottolineò che essa non
poteva abrogare unilateralmente il trattato del 1977 per cui si doveva ritenere ancora
impegnata a portare a conclusione il progetto congiuntamente con la Slovacchia. In
concreto i due paesi avrebbero dovuto trovare una soluzione – soprattutto sul piano
relativo alla massa d’acqua da deviare - che tenesse conto dei reali vincoli ambientali.
In Asia il governo indiano ha avviato fin dagli anni ’40 la costruzione di 14 grandi
dighe e sbarramenti sul fiume Gange che hanno decisamente ridotto i flussi idrici a
valle, in paesi come il Bangladesh. In particolare la grande diga di Farakka, ultimata
nel 1974, ha provocato forti tensioni tra India e Bangladesh. Nel 1996 l’India
aveva firmato un trattato trentennale con il Bangladesh in cui si impegnava a lasciare
al vicino di casa metà dell’acqua della diga di Farakka. In realtà questo accordo non è
stato rispettato. Inoltre l’india ha continuato a costruire nuove dighe e sbarramenti
aumentando ulteriormente lo squilibrio idrico a sfavore del Bangladesh. Nel 2004 il
governo bengalese ha accusato l’opera realizzata dall’India di aver causato il
prosciugamento di oltre ottanta fiumi. Si tratta di una disputa piuttosto insidiosa che
39
Il
giudizio
è
consultabile
in
cij.org/docket/files/92/7375.pdf#view=FitH&pagemode=none&search=%22Affaire
Gabcikovo-Nagymaros%22
http://www.icjrelative au projet
85
potrebbe trasformarsi in un conflitto più serio. Una disputa analoga tra i due paesi sta
sorgendo attorno alle acque del fiume Barak su cui incombe un piano indiano di
costruzione di molte dighe. Nel 2005 migliaia di bengalesi hanno manifestato per
protestare contro la realizzazione della diga di Tipaimukh.
In America Latina possiamo osservare diversi conflitti legati all’acqua. In
particolare si può segnalare il conflitto che oppose Cile e Bolivia per il Rio Lauca un
fiume che scorre per i primi 75 chilometri in Cile e nei rimanenti 150 in Bolivia fino a
sboccare nel Lago di Coipasa, un bacino poco profondo.40 Fino al 1962 il fiume non era
usato per nient’altro che per irrigazione in una agricoltura di sussistenza di piccola
scala vicino ad alcuni piccoli villaggi in Bolivia. A partire dal 1939, tuttavia, i governi
del Cile annunciano la propria intenzione di deviare l’acqua del fiume collegandolo
tramite una serie di dighe e dei canali ad altri corsi d’acqua al fine di assicurare
l’irrigazione nella valle di Azapa. Lo scopo del progetto è quello di accrescere le riserve
alimentari delle popolazioni nel Dipartimento cileno di Arica. A questo schema iniziale
si aggiungerà successivamente il progetto di un impianto idroelettrico per supportare
le miniere e le industrie dell’area.
Tale progetto anche in fase di studio suscita fin da subito le proteste della Bolivia
che temendo una drastica riduzione del flusso nel proprio territorio si richiama in una
nota ufficiale alla Dichiarazione di Montevideo del 1933, secondo cui lo Stato riparo
superiore può usare l’acqua di un fiume internazionale se non modifica in alcuna
forma le condizioni idrologiche e il regime naturale di un fiume.
Le due posizioni sono già chiare fin dall’inizio. La Bolivia teme un’alterazione del
regime del Lauca nel proprio territorio e la riduzione e la salinizzazione del Lago di
Coipasa con relative conseguenze negative sulla gente che vive nell’area. Il Cile ritiene
invece che il proprio progetto preleverà solamente il 25% delle acque del fiume e
dunque non altererà in modo sostanziale il suo bacino. Inoltre ritiene fondamentale il
miglioramento dei rifornimenti alimentari per 100.000 persone nel territorio cileno.
Il progetto messo da parte per qualche anno torna all’ordine del giorno nel
dicembre 1947, quando il Congresso Cileno vota i fondi per procedere all’attuazione
dello schema suscitando ancora una volta le proteste della Bolivia. Viene approntata
una prima Commissione Mista di tecnici che non oppone ostacoli alla realizzazione
dell’opera, i cui lavori vengono effettivamente iniziati. Nel 1953 il nuovo governo
rivoluzionario della Bolivia rimette in moto la protesta contro il progetto cileno. Nel
1958 la Bolivia avanza una pressante richiesta per valutare gli ultimi progetti tecnici e
per insediare una seconda Commissione congiunta. L’anno successivo il Cile addiviene
alle due richieste. Anche la seconda commissione approva il progetto e rigetta le
obiezioni boliviane.
Nel 1961, di fronte alla notizia della prova di una prima deviazione, la Bolivia inoltra
una nota dai toni più aggressivi e in seguito minaccia di portare la questione davanti
ad un’organizzazione internazionale. Nei mesi successivi il ministro degli esteri
Boliviano José Fellman Velarde lascia intendere che la Bolivia considera la questione
del Lauca connessa con la propria richiesta di una via di sbocco al mare. Nel 1962 la
tensione cresce ulteriormente. La Bolivia fa sapere che se il progetto verrà inaugurato
la Bolivia lo considererà “un atto di aggressione”. Ma non viene raggiunto nessun
accordo e nell’aprile la deviazione delle acque del Lauca ha inizio. La Bolivia rompe le
relazioni diplomatiche col Cile e a La Paz scoppiano violente dimostrazioni anticilene
durante le quali diverse persone rimangono uccise negli scontri con la polizia. Il Cile
invia le proprie forze dell’ordine al confine tra i due Stati per proteggere le dighe
appena costruite dalla possibile minaccia dell’ira popolare dei boliviani. La disputa
viene portata sui tavoli dell’OAS, l’Organizzazione degli Stati Americani che pur non
40
Per un inquadramento si veda Glassner (1970), Rusca, Simoncelli (2004).
86
addivenendo ad una soluzione tenta di riportare il confronto in un quadro più
ragionevole.
Il conflitto, nota Martin Ira Glassner, viene affrontato in maniera diversa dai due
paesi: come una questione tecnica e giuridica dal Cile, e come una questione politica
dalla Bolivia che ritiene tale disputa uno strumento fondamentale per trattare la più
ampia questione di un proprio possibile sbocco sul mare (Glassner, 1970, p. 198).
Tale disputa non viene comunque realmente risolta ma rimane latente negli anni
successivi attraverso la discussione sull’attribuzione delle quote d’acqua tra i due
paesi. La costruzione indiscriminata di ulteriori dighe ha comunque ulteriormente
ridotto la portata del Lauca in territorio boliviano danneggiando le popolazioni locali.
Il conflitto tra i due paesi si è riaperto nuovamente nel 2000, quando alla disputa
sul Lauca si è aggiunta la contesa per le acque del piccolo fiume Silala a riprova del
fatto che la gestione delle risorse idriche è una faccenda importante nelle relazioni tra
i due paesi.
Passando al continente africano, l’Okavango, importante fiume dell’Africa
meridionale che scorre per oltre 1.500 km fra tre differenti paesi (Angola, Namibia e
Botswana) è stato motivo di differenti conflitti sia regionali che internazionali.41 I primi
scontri in questa regione sono scoppiati negli anni ’80 quando il governo del Botswana
ha reso pubblica la sua intenzione di promuovere il Southern Okawango Integrated
Water Development Project, un piano che metteva in conto la costruzione di tre dighe
nella parte più meridionale del fiume allo scopo di sviluppare l’agricoltura e la
produzione alimentare nella regione del delta. Le popolazioni locali però si sono
immediatamente sollevate con il concorso anche di importanti Ong e associazioni
ambientaliste internazionali per impedire la realizzazione del progetto. Il governo del
Botswana ha deciso quindi di incaricare una commissione di controllo esterno per
svolgere una valutazione indipendente. La scelta è caduta sulla World Conservation
Union (IUCN) che ha effettivamente realizzato un rapporto che dava ragione dei timori
della popolazione. Secondo tale Istituto, il progetto avrebbe avuto delle conseguenze
molto negative sull’ambiente, sul turismo e sull’economia locale. In seguito a queste
rilevazioni il governo del Botswana ha quindi messo da parte il progetto contestato.
Successivamente negli anni ‘90 emergono invece alcune tensioni internazionali. Nel
1994 Botswana, Namibia e Angola, addivengono alla stipula a Windhoek di un accordo
e alla creazione sotto il principio guida "three countries, one river" di una Okavango
River Basin Water Commission (OKACOM)42 finalizzata a stabilire i criteri per la
distribuzione e la gestione del patrimonio idrico del fiume.
Nonostante questo passo avanti l’Okavango diventa oggetto di una disputa tra
Botswana e Namibia che riguarda modi diversi di considerare il patrimonio
idrico del fiume. Mentre la Namibia pensa a sfruttare il fiume attraverso prelievi e
deviazioni soprattutto per rifornire la capitale Windhoek, diversamente il Botswana,
oramai consapevole dell’importanza della risorsa turistica offerta dal delta del fiume, si
oppone ad un eccessivo prelievo dell’acqua a monte che può determinare un
impoverimento dell’ecosistema del delta, considerato straordinario dal punto di vista
ecologico e paesaggistico.
Il conflitto scoppia nel 1996, allorché il Dipartimento per le Questioni Idriche della
Namibia chiede con forza al governo di affrontare la drammatica situazione idrica che
affligge il paese ed in particolare la capitale Windhoek. Il governo risponde con un
progetto che prevede la realizzazione di un acquedotto lungo 250 km finalizzato a
prelevare l’acqua dal fiume e portarla fino al territorio della capitale. Il Botswana che
si trova a valle reagisce immediatamente e forte dell’appoggio delle associazioni
41
Per un inquadramento delle questioni legate all’Okavango si vedano Hitchcock (2001), Rusca,
Simoncelli
(2004),
Wormuth,
Buffle
(2002),
Green
Cross,
http://www.greencrossitalia.it/ita/acqua/wfp/okavango_wfp_001.htm.
42
http://www.okacom.org/English/pages/home.php
87
ambientaliste si dichiara contrario al progetto della Namibia che minaccia di ridurre il
flusso d’acqua nel delta causando gravi problemi alla popolazione locale e al delicato
ecosistema del delta, fondamentale attrazione turistica del paese. La posizione
ufficiale del Botswana non gli impedisce comunque di sviluppare a sua volta una serie
di condutture per prelevare a sua volta l’acqua dal bacino del fiume.
Dopo un lungo braccio di ferro la Namibia accetta di svolgere un “Environmental
Impact Assessment” che però ipotizza un impatto limitato anche nel basso corso del
delta Okavango, pari ad un 11% annuo. La tensione dura fino all’anno successivo
quando naturali piogge torrentizie rigenerano almeno per il momento il patrocinio
idrico della Namibia convincendola a rimandare l’attuazione del suo progetto. Nel
frattempo un importante schieramento di Ong ed Istituzioni internazionali tra cui
l’International River Network e Green Cross International si sono attivate in difesa del
bacino dell’Okavango. Negli ultimi anni il lavoro della OKACOM in collaborazione con
importanti istituzioni internazionali e con la mediazione di esperti nella risoluzione di
conflitti idrici ha permesso un allentamento della tensione. La commissione ha
condotto in collaborazione con la “Global Environment Facility” (GEF) una valutazione
transfrontaliera delle dimensioni idrologiche e ha lanciato un vero e proprio “Piano
Integrato di Gestione” (Integrated Management Plan – IMP) tra i tre paesi che
condividono il bacino del fiume - Angola, Namibia e Botswana – stabilendo così le
coordinate per una cornice di stabile cooperazione
Un altro fiume attorno a cui si muovono conflitti è i l Senegal, un fiume di 1.800 km
che attraversa Guinea, Mali, Mauritania e Senegal ed è per importanza il secondo
fiume dell’Africa occidentale.43 Per gestire le sue acque e assicurare un accordo tra gli
stati ripari nel 1972 è stata creata l’“Organization for the Development of the Senegal
River” (OMVS). Nell’ottica di uno sviluppo della regione nel bacino del fiume sono
state costruite negli anni le dighe di Diama in Senegal (a valle) e la diga di Manantali
nel Mali (a monte). Queste dighe hanno svolto la funzione di controllare il flusso del
fiume, di impedire l’intrusione dell’acqua marina e di immagazzinare acqua per
l’agricoltura, ma d’altra parte hanno anche causato seri problemi alle popolazioni
locali. In particolare la migrazione forzata delle popolazioni che vivevano nelle aree
dove sono state costruite le dighe; un inquinamento delle acque dovuto alla diffusione
dell’agricoltura agroindustriale; la diminuzione della popolazione ittica del fiume;
l’aumento della salinità dei terreni e il loro degrado; l’alterazione delle caratteristiche
idrodinamiche dei flussi d’acqua in particolare nel delta del fiume; la proliferazione di
alcune malattie legate all’acqua tra cui la malaria, la schistosomiasi, la diarrea. La
gestione delle acque del fiume ha suscitato tensioni tra Mauritania e Senegal
che prelevano l’acqua dal fiume per supportare le proprie attività agricole. In
particolare nel 1989 la decisione del governo senegalese di promuovere il “Fossil
Valley Rehabilitation Project” finalizzato a deviare una parte del fiume per sviluppare
l’agricoltura nell’entroterra ha scatenato le proteste popolari in Mauritania che hanno
portato anche all’uccisione di un contadino senegalese per mano di un pastore
nomade mauritano. Anche il governo mauritano ha levato la protesta contro il Senegal
reo di attentare alla propria sicurezza idrica e alimentare. Il conflitto tra i due paesi
ha causato sollevazioni, violenze e scontri armati nelle capitali e nei confini di
entrambi i paesi. A Dakar sono stati uccisi 100/150 commercianti mauritani
mentre centinaia di senegalesi sono stati uccisi sul territorio mauritano. In
totale si stima la morte di circa quattrocento persone negli scontri per
l’acqua. La tensione è rientrata dopo qualche mese in seguito alla decisione del
43
Per un approfondimento sui conflitti legati a questo fiume si vedano Kneib (2002), Olly, Stucki,
Fraboulet-Jussila (2006), Salem-Murdock, Niasse (1996), World Water Assessment Programme (2003),
pp. 447-461, Rusca, Simoncelli (2004).
88
governo senegalese di rinunciare al contestato progetto e di cercare un accordo con la
Mauritania.
Il conflitto è tuttavia riscoppiato dieci anni dopo, nel 1989, quando il governo
senegalese ha ripresentato nuovamente il “Fossil Valley Rehabilitation Project”
suscitando immediate reazione dall’altra parte. Il governo della Mauritania ha imposto
ai cittadini senegalesi di lasciare il paese e nel giro di poco tempo oltre 70.000
agricoltori senegalesi sono stati espulsi da Nouakchott, capitale della Mauritania. Allo
stesso modo 10.000 mauritani sono stati costretti a fuggire dal Senegal e a ripiegare
nel proprio paese. In seguito i due governi hanno cominciato lo schieramento delle
proprie truppe lungo il confine dando avvio anche ad alcuni episodi di violenze e di
scontri. Per scongiurare la guerra i due paesi hanno tentato la via diplomatica
riuscendo a diminuire le tensioni ma non a trovare un reale accordo.
La regione maggiormente al centro di conflitti per l’acqua rimane comunque il
Medio Oriente. Per esempio il conflitto tra Israele, palestinesi e il resto dei
paesi Arabi della regione (Siria, Giordania, Libano) ha fin dall'inizio, tra le sue
questioni di fondo, quella del controllo delle fonti idriche in una regione povera di
acque.44 Nelle guerre condotte contro gli stati della regione, Israele ha cercato e
ottenuto il controllo totale della valle del Giordano, dalle sue sorgenti fino al Mar
Morto, e della falda acquifera montana della Giudea e della Samaria. L'occupazione del
Golan si spiega fra l'altro con il fatto che un terzo dell'acqua utilizzata da Israele
proviene da quell’altipiano. Per quanto riguarda il fiume Giordano, per esempio,
sebbene soltanto il 3% del suo bacino rientri nel territorio israeliano, il fiume fornisce
circa il 60% delle risorse idriche utilizzate da Israele. Per quanto riguarda la
Cisgiordania, si può sottolineare che Israele consuma circa l’82% dell’acqua della
Cisgiordania mentre i palestinesi ne usano neanche il 20%. L’accesso dei Palestinesi
all’acqua – anche quella dei pozzi - è controllato e limitato dagli Israeliani. Il problema
della spartizione dell'acqua è dunque uno dei fulcri fondamentali al centro del conflitto
della regione, delle negoziazioni multilaterali arabo-israeliane e di un possibile
processo di pace tra Israele e palestinesi. L’intera storia del conflitto israelopalestinese è segnata da progetti e trattati che hanno al centro la questione dell’acqua
dai piani dell’Impero Ottomano ai primi piani dell’Agenzia ebraica, fino ai più recenti
accordi di pace. La storia geopolitica di quella regione si sviluppa attorno al controllo
delle sue acque.
Tra il 1965 e il 1966 Israele attacca con la propria aviazione le opere idrauliche
realizzate sulle alture del Golan da parte della Siria che voleva deviare le acque dei
fiumi Dan e Baniyas, entrambi affluenti del Giordano. Israele aveva puntato sul
progetto del “National Water Carrier”, un sistema idrico nazionale, che prevedeva lo
sfruttamento di una buona parte della portata del Giordano. Per reazione la Lega
araba cominciò a costruire alcuni canali con il quale deviare l’Hasbani e il Wazzani,
due tributari del Giordano. Israele rispose nell’aprile del 1967 con un bombardamento
della centrale idroelettrica siro-giordana di Maqarin tra lo Yarmuk e il Giordano.
La guerra dei Sei giorni scoppia il 5 giugno del 1967 e stabilisce il controllo
Israeliano sulle alture del Golan e sull’intera Cisgiordania. Un terzo dell’acqua
consumata da Israele proviene dalle alture del Golan, mentre il fiume Giordano
provvede al 60% delle sue necessità idriche. Nel complesso si stima che Israele usi
l’80% delle acque della Cisgiordania mentre lascia ai palestinesi soltanto il 20%
rimanente. Ancora oggi l’accesso all’acqua è fortemente limitato e controllato per i
palestinesi, mentre gli israeliani utilizzano le risorse idriche in maniera non sostenibile.
44
Sui conflitti in Palestina e Medio Oriente si vedano Sironneau (1997), Anzera, Marniga (2003), Greco
(2004), Rusca, Simoncelli (2004), Marcenò (2005).
89
Rimanendo sempre in Medio Oriente, un altro conflitto storico è quello che oppone la
Turchia, la Siria e l’Iraq45 per lo sfruttamento delle acque dell’Eufrate. La
Turchia intende sfruttare la sua posizione per affermare la sua autorità sul fiume
rispetto ai paesi a valle. Il suo GAP (Grande progetto Anatolico) prevede la
realizzazione di ben 22 dighe sull’Eufrate che diminuirebbero drasticamente il livello
delle acqua del fiume disponibili per l’Iraq. La più grande tra questa, la diga di Ataturk
è stata completata nel 1991 ed è alta la bellezza di 454 metri. Le opere fin ora
realizzate hanno già ridotto l’Eufrate nel territorio iracheno a un corso d’acqua
moribondo. Problemi analoghi si erano registrati in passato tra Siria e Iraq. Nel
momento in cui la Siria comincia il riempimento della nuova grande diga di Tabqa,
questa causa la diminuzione di un quarto della portata idrica dell’Eufrate in Iraq. Per
tutta risposta Saddam Hussein schiera le sue truppe alla frontiera e minaccia
esplicitamente la diga. In un primo momento la Siria rifiuta di negoziare i diritti
sull’acqua e a sua volta rafforza i confini. A quel punto diventa provvidenziale
l’intervento dell’Arabia Saudita e dell’Unione Sovietica che si offrono come mediatori.
IN PROSPETTIVA
Come affrontare oggi il rapporto tra acqua e conflitti? Le possibilità sono tre:
 migliorare la capacità di gestione dei conflitti una volta sviluppati;
 prevenire i conflitti prima che esplodano monitorando alcuni possibili indicatori
di crisi;
 affrontare alla radice i problemi che portano ad esacerbare le questioni
dell’acqua nel mondo contemporaneo.
Ovviamente le tre possibilità non sono reciprocamente esclusive, anzi è inevitabile
lavorare contemporaneamente su tutti e tre i livelli.
GESTIONE DEI CONFLITTI
Sul primo aspetto si tratta di sviluppare strumenti e modalità per gestire i conflitti
per l’acqua in maniera non distruttiva e possibilmente non violenta. A questo
proposito val la pena ricordare che il Programma Idrologico dell’Unesco ha sviluppato
un progetto chiamato “International Potential Conflict to Co-operatin Potential”
(PCCP)46 che mira a analizzare gli strumenti legali, tecnici e diplomatici e la loro
capacità di prevenire e risolvere i conflitti. Ripercorre la storia dei conflitti per l’acqua
e ne trae lezioni per il futuro. Il progetto lavora anche sul piano educativo e culturale
a tutti i livelli - con governi, agenzie, educatori tecnici di istituzioni internazionali - per
formare i diversi soggetti alla negoziazione, alla gestione dei conflitti e alla
implementazione d processi cooperativi.47
PREVENZIONE
Per quanto riguarda la questione della prevenzione la domanda che dobbiamo porci
è: quali sono i paesi o i bacini che rischiano nel futuro di registrare le maggiori
tensioni? Per rispondere occorre evidentemente individuare gli elementi critici.
Peter Gleick (1993) suggerisce quattro indicatori per evidenziare le regioni più a
rischio di conflitti internazionali per l’acqua:
- Rapporto tra domanda e offerta d’acqua;
- Disponibilità d’acqua per persona;
45
Si vedano in proposito Anzera, Marniga (2003), De Villers (2004) Rusca, Simoncelli (2004), Romeo
(2005).
46
Vd. http://www.unesco.org/water/wwap/pccp/index.shtml
47
Per un approfondimento delle tematiche relative alla risoluzione di dispute internazionali si veda: il
volume dell’International Bureau Of The Permanent Court Of Arbitration (2003).
90
-
Percentuale della offerta idrica originata al di fuori dei confini nazionali;
Percentuale della dipendenza da idroelettricità rispetto al totale dell’offerta
elettrica.
Come si può notare, Gleick si concentra sulla nazione come prima unità di analisi.
Da un altro punto di vista Aaron T. Wolf, Shira B. Yoffe e Mark Giordano del “Basin at
Risk Project” hanno discusso alcuni indicatori significativi che dovrebbero permettere
di monitorare il possibile sviluppo di conflitti dentro o tra paesi nel prossimo futuro. A
loro avviso per la nascita di possibili conflitti la capacità istituzionale all’interno di
un’area di bacino è altrettanto importante se non più importante delle dimensioni
strettamente fisiche. La loro ipotesi è che la gravità del conflitto possa crescere nella
misura in cui i possibili cambiamenti dentro un bacino superino la capacità
istituzionale di assorbire questo mutamento (Wolf, Yoffe, Giordano, 2003).
Dunque per prevedere la nascita di possibili conflitti ritengono che si debba fare
attenzione a due aspetti:
- l’“internazionalizzazione” di un bacino ovvero possibili mutamenti sul piano
istituzionale, per esempio il passaggio da una gestione di un bacino centralizzata
sotto un unico paese o autorità ad una gestione suddivisa tra più nazioni o entità
politiche;
- lo sviluppo unilaterale di progetti di vasta scala (dighe, o progetti di deviazione) in
assenza di un accordo o di una commissione sovranazionale
In termini concreti, dunque, gli indicatori da tenere sotto controllo potrebbero essere
essenzialmente due:
- L’esistenza di gare di appalto per progetti di sviluppo futuri che riguardano lo
sfruttamento di risorse idriche.
- La presenza di movimenti nazionalisti o separatisti attivi.
Sulla base di tali indicatori, questi autori suggeriscono che nel prossimo decennio, i
bacini maggiormente a rischio siano i seguenti: Gange-Brahmaputra, Han, Incomati,
Kunene, Kura-Araks, Lago Ciad, La Plata, Limpopo, Mekong, Ob (Ertis), Okavango,
Orange, Senegal, Tumen, Zambezi. Gli indicatori suggeriti da questo gruppo di
studiosi sono certamente interessanti, in particolare rispetto all’individuazione di un
Bacini idrici a rischio di conflittualità
Potenziali interessi conflittuali e/o mancanza di capacità istituzionale
Dispute recenti: negoziazioni in corso
Altri bacini internazionali
Fonte: Transboundary Freshwater Dispute Database, 2003
91
nesso importante quale quello tra mutamenti sul piano politico-istituzionale e le
ambizioni di sviluppo e di sfruttamento unilaterale di risorse naturali. D’altra parte
questi criteri non esauriscono le dimensioni problematiche e conflittuali che stanno
emergendo nell’attuale quadro globale.
Per esempio non si deve scordare che gran parte dell’acqua viene utilizzata per
l’agricoltura. Dunque si può presumere che i paesi che più dipendono per l’irrigazione
da riserve idriche in declino o in via d’esaurimento saranno esposti più di altri a
tensioni interne nella forma di carestie, proteste, migrazioni città/campagna o verso
l’estero. Tra questi si possono citare Bangladesh, Cina, Egitto, India, Iran, Irak,
Pakistan e Uzbekistan.
Occorre comunque continuare gli studi in direzione di una complessità di analisi che
tenga conto di più ampi elementi ecologici, politici, sociali, culturali ed economici. In
particolare alcune questioni contribuiranno a definire le condizioni politiche della
gestione dell’acqua nel prossimo futuro:
- La crescita demografica ed in particolare la distribuzione geografica della
popolazione in alcune aree del pianeta, in alcuni paesi o regioni come in alcune grandi
aree metropolitane.
- I mutamenti climatici e la velocità di alterazione degli ecosistemi con i relativi
impatti ecologici, sociali ed economici. In particolare il riscaldamento globale e
l’avanzata della desertificazione potrebbero causare una maggiore pressione sulle
comunità umane, aumentare i fenomeni delle migrazioni ambientali e stimolare
conflitti per le risorse naturali.
- Il rapporto tra l’ineguale distribuzione fisica delle risorse e le diverse forme di
sfruttamento delle risorse naturali in relazione a modelli culturali ed economici
differenti.
- La capacità di assicurare una distribuzione equa delle risorse idriche non soltanto
in relazione ai singoli cittadini ma anche in relazione a gruppi e comunità. Spesso
infatti le disuguaglianze relative tra comunità (regionali, etniche, religiose) sono
potenzialmente più esplosive di quelle tra individui.
AFFRONTARE I PROBLEMI ALLA RADICE
A fronte di queste problematiche le risposte devono cercare di andare alle radici dei
problemi.
In primo luogo è necessario migliorare l’impiego e la produttività delle risorse
idriche, sia a livello di agricoltura, che di uso domestico e di reti urbane. Bisogna
rinnovare le tecnologie e i sistemi di distribuzione e di utilizzo per evitare inutili
sprechi e dispersioni.
In secondo luogo occorre favorire la raccolta dell’acqua piovana e la conservazione e
il riuso dell’acqua per utilizzi differenti. Le stesse acque di rifiuto possono essere
trattate e riutilizzate ad esempio per l’irrigazione.
Inoltre bisogna curare la conservazione della qualità dell’acqua contrastando ogni
forma di inquinamento e contaminazione.
In più a livello culturale e politico si tratta di comprendere che a fronte di un sistema
che si basa su una crescita continua non si tratta di inseguire e sostenere la crescente
domanda di risorse naturali adeguando l’offerta, quanto riconoscere che occorre
invertire questo trend e puntare piuttosto ad un contenimento della domanda; occorre
cioè mettere in discussione il paradigma ideologico di fondo dello sviluppo illimitato e
puntare a un modello sociale differente che esplori modelli di benessere e di
produzione da un punto di vista qualitativo piuttosto che quantitativo
92
CULTURE DELL’ACQUA E PRIVATIZZAZIONE
Negli ultimi decenni l’attenzione verso alcune risorse globali, l’acqua fra queste, ha
acquisito un’importanza crescente nel panorama delle questioni internazionali e in
prospettiva è probabile che tali beni possano mutare interessi, equilibri ed alleanze sul
piano delle relazioni internazionali. Tuttavia le analisi prevalenti nella letteratura
internazionale e nei media sottolineano principalmente se non unicamente le
dimensioni strategiche. Le analisi più comuni si concentrano sulle rivalità politiche e
sulla spartizione quantitativa, tralasciando altre possibili letture del problema che
abbiamo di fronte. In realtà il modello della scarsità implicito in queste letture non è
affatto scontato. Come vedremo la stessa scarsità fisica non è un fatto
“naturale”. Come ha notato Vandana Shiva, «Scarsità e abbondanza non sono dati di
natura, bensì prodotti delle culture dell’acqua» (Shiva, 2003, p. 125).
Dunque i conflitti per l’acqua di oggi non rivelano il semplice passaggio da una lotta
ideologica ad una lotta sulle materie prime e sui beni naturali come molti
commentatori hanno sostenuto.
Al contrario dietro il grande problema dell’acqua dobbiamo leggere in filigrana
una profonda crisi paradigmatica e l’emergere di un confronto – finora rimasto
in gran parte adombrato – tra modelli culturali e sociali differenti.
Molti dei conflitti rispecchiano di fondo anche contrasti culturali e sociali
sui diversi modi di concepire un bene quale l’acqua e il rapporto di una comunità con
esso. L’acqua può essere trattata a seconda dei contesti come merce, come risorsa,
come elemento vitale, come principio sacro, come bene comune.
In generale le ricadute socio-politiche di tali problemi non sono da poco. Se
prendiamo per esempio il caso dell’India vediamo che il paese è passato da una
condizione di abbondanza d'acqua ad una di quasi crisi idrica. Nel 1951 l’India
registrava una disponibilità media d’acqua di 3.450 m3, alla fine degli anni ‘90 la
disponibilità era scesa a 1.250 m3, e la previsione per il 2050 è di 760 m3.
Attualmente circa 65.000 villaggi in India mancano di acqua. Ciononostante in
questo paese si vendono annualmente 90 miliardi di litri d'acqua
imbottigliata con un fatturato pari al 40% di quello del petrolio. D’altra parte è
evidente che se qualcuno riesce - a livello globale o locale - a controllare un bene così
prezioso raggiunge un grande potere sulla popolazione. Per questo motivo da una
parte bisogna contrastare le multinazionali dell’acqua e dall’altro si deve lottare
affinché la gestione dell'acqua sia mantenuta assolutamente a livello dei cittadini e
delle comunità locali tramite organismi appropriati gestiti e controllati
democraticamente.
Sempre a livello locale, urbano o regionale, si possono sviluppare conflitti legati alla
gestione dell’acqua e ai tentativi di privatizzare questo bene.
Il caso più noto è quello di Cochabamba, in Bolivia. Nella città sudamericana la
privatizzazione dell’azienda idrica municipale sostenuta dalla Banca Mondiale sotto il
ricatto della concessione di un prestito di 25 milioni di dollari, ha fatto scattare tra il
1999 e il 2000 una rivolta popolare. Assegnataria dell’appalto è l’impresa Aguas
del Tunari, dietro alla quale ci sono multinazionali quali la statunitense Bechtel
Corporation, l’italiana Edison/TDE e la spagnola Abengoa, che ottengono il
monopolio assoluto nella gestione e distribuzione dell’acqua per un periodo di 40 anni.
Le sorgenti e i pozzi sono sottoposti a permesso di utilizzo, mentre il prezzo dell’acqua
aumenta del 300%. Contro la privatizzazione i sindacati e le organizzazioni di
agricoltori si organizzano nella Coordinadora de Defensa del Agua y de la Vida e
indicono scioperi, manifestazioni e marce che hanno coinvolto tutto il paese e bloccato
le principali arterie di comunicazione. Un maldestro tentativo del governo di Hugo
Panzer Suarez di soffocare le manifestazioni ha portato ad arresti, all’uccisione di
cinque persone e al ferimento di diverse centinaia. Per 90 giorni viene dichiarato lo
93
stato d’assedio. Ma l’azione non ferma la protesta e in aprile il governo è costretto a
far marcia indietro a rescindere il contratto con la Bechtel e a consegnare l’azienda
idrica del paese in mano alla Coordinadora e alla sua gente. In seguito le
multinazionali presentano una domanda di risarcimento di 25 milioni di dollari per il
mancato lucro presso il tribunale della Banca Mondiale, ma la campagna di pressione
internazionale costringe infine a ritirare la domanda.
Il paradigma della mercificazione è giunto ad un capolinea.
Forse allora occorre aprire gli occhi e la mente e guardare il panorama dei conflitti
per l’acqua che abbiamo di fronte non come un problema di misurazioni e di
contabilità, quanto come la soglia per un salto paradigmatico.
«D’altra parte - ha scritto Giuseppe Romeo - il vero rischio di un processo
progressivo di desertificazione e indisponibilità d’acqua pone i paesi a minor
opportunità sulla soglia di un’irreversibile, o quanto meno costosa in termini
sociali, ridefinizione della produttività biologica che implica responsabilità umane
e richiede nuovi modi di intervento sul territorio» (Romeo, 2005, p. 22).
È certamente questo cambiamento ma anche qualcosa di più. Nell’ultimo specchio
d’acqua dobbiamo tornare a rivedere noi stessi e il nostro rapporto con la natura per
inventare qualcosa di nuovo.
Da questo punto di vista è anzitutto alla nostra mentalità, alle nostre categorie di
pensiero, alle nostre idee e alle nostre abitudini di comportamento incorporate nei
gesti quotidiani che occorre metter mano.
Nel passaggio dalla fonte al rubinetto di casa o addirittura alla protesi sempre a
disposizione della bottiglietta di plastica si sono compiuti dei passaggi culturali e
simbolici di cui non siamo solitamente consapevoli. Anche se apparentemente la
bottiglietta di plastica abolisce ogni altra mediazione e ci porta ad un rapporto
ravvicinato con questo elemento, in realtà essa simboleggia, come ha colto Alessandro
Bosi, un percorso di crescente privatizzazione: «nel rapporto con l’acqua viviamo
un’esperienza di vita sempre più privata» (Bosi, 2006, p. 49).
Questo genere di osservazione mi sembrano
importanti per comprendere che il percorso di
cambiamento che dobbiamo fare è culturale tanto
quanto politico, sociale tanto quanto economico.
Non ci può essere nessuna sostenibilità ecologica
che non sia fondata su una misura culturale né ci
può essere equità politica che non sia sostenuta
da una pratica sociale. Un regime di pace con
l’acqua
e
attraverso
l’acqua
non
sarà
semplicemente un traguardo neutrale risultato di
un progetto tecnico o ingegneristico ma il risultato
di un percorso di rinnovamento simbolico
profondo.
Dobbiamo come suggerisce Davide Zolletto
riprendere la confidenza con l’acqua. Educare al
rapporto con l’acqua anche attraverso il gioco e le
storie. Occorre reimmaginare l’acqua.
Gli
Italiani
sono
i
primi
consumatori al mondo di acque
minerali: 194 litri procapite.
Il nostro paese è tra i primi
produttori di acqua in bottiglia al
mondo con oltre 12,2 miliardi di litri
imbottigliati (2006).
Operano
circa
180
società
di
imbottigliamento e 300 marchi privati.
Il marchio più venduto è Levissima del
gruppo Nestlé.
Ogni anno esportiamo quasi un
miliardo di litri d’acqua minerale.
Il 65% di quest’acqua è imbottigliata
nella plastica che produce ogni anno
320-350 mila tonnellate di rifiuti in
Pet. A cui si deve aggiungere l’impatto
del trasporto stradale.
94
Box: Dighe: grandi opere, grandi conflitti
Sono 49.697 le grandi dighe sopra i 15 metri e 670 sopra i 100 metri costruite dal 1946 ad
oggi. Almeno il 60% dei 227 grandi fiumi del mondo è stato imbrigliato da dighe. La maggior
parte di queste dighe sono pensate per l’irrigazione dei campi. Altre 1.500 sono attualmente in
costruzione. I paesi costruttori degli impianti di maggiori dimensioni sono in ordine Cina, Iran,
Turchia, Giappone, India e Spagna. La Cina da sola registra ben 25.800 dighe (il 45% del
totale), .
Queste dighe contribuiscono a generare il 20% dell’elettricità globale, a procurare acqua
potabile a garantire acqua per irrigazione per ampliare i sistemi agricoli. D’altra parte queste
grandi dighe sono state un flagello per le popolazioni locali che hanno visto alterare i propri
ecosistemi, impoverire le proprie fonti di approvvigionamento e in molti casi si sono realizzate
vere e proprie deportazioni forzate. Una grande diga – secondo uno studio condotto in India
dall’Indian Institute of Public Administration - richiedere in media lo spostamento di oltre
44.000 persone. Si stima che siano quasi 80 milioni le persone costrette a migrare a causa di
questi grandi impianti, di cui 35 milioni nella sola India. Si può dunque pensare alle dighe
come interventi che aumentano le opportunità per le comunità urbane o “centrali” attraverso il
sacrificio delle popolazioni considerate “marginali” o sacrificabili.
La questione delle grandi dighe, come è stato notato, pone enormi questioni di democrazia.
Lo Stato ha diritto di decidere dove devono vivere o spostarsi centinaia di migliaia di nativi?
Chi può vantare diritti sulla terra, sui fiumi, sulle foreste? Chi decide qual è il prezzo da pagare
per il progresso? O meglio ancora chi deve decidere in quale direzione va perseguito il
benessere di intere popolazioni e territori?
Un segnale in controtendenza viene dalla distruzione negli ultimi anni di oltre 650 dighe in
tutto il mondo. Tuttavia, come ha notato Arundhaty Roy, «l’industria della costruzione di dighe
nel Primo Mondo è in crisi e non funziona più. Così viene esportata nel Terzo Mondo con il
nome Aiuti per lo Sviluppo, insieme agli altri loro rifiuti quali armi vecchie, portaerei obsolete e
pesticidi messi al bando» (Roy, 2001, p. 23). Fra le principali dighe all’origine di conflitti,
vittime e rifugiati ambientali possiamo ricordare le seguenti:
Sadar Sarovar, Bargi, Masan sul fiume Narmada (India)
Sul fiume Narmada e i suoi 41 affluenti il Narmada Development Project prevede la
costruzione di 3.200 dighe di cui 30 grandi, 135 medie, le rimanenti piccole. Con la
costruzione delle due dighe principali sono stati sommersi 91.000 ettari di terre, 249 villaggi e
l’antica città di Harsud. Gli sfollati sono stati oltre 360.000 e in totale si pensa che il progetto
riguarderebbe circa 1 milione di sfollati.
I lavori sul Narmada furono iniziati da Nehru nel 1961 e ancora non sono terminati. Le
prime dispute cominciarono già nel 1969. Leader della protesta diventa Medha Patkar, che a
partire dalla metà degli anni ’80 guida il Narmada Bachao Andolan (NBA, Movimento per la
salvezza del narmada, www.narmada.org). Nel 1990 2.500 persone compiono una grande
marcia contro le dighe sul Narmada. L’azione ha trovato eco anche nel sostegno della scrittrice
Arundhaty Roy. La diga più grande su cui a partire dal 1989 si è concentrata la lotta è quella di
Sardar Sarovar di circa 100 metri. La protesta internazionale ha portato nel 1993 la Banca
Mondiale a ritirarsi dal progetto.
Chixoy sul Fiume Rio Chixoy (Guatemala)
Il progetto prevede 4 dighe. Ne è stata realizzata una sola. Nel 1982 si è avuto il riempimento
del bacino, nel 1983 l’inizio attività della centrale idroelettrica. La costruzione della diga e della
centrale idroelettrica di Chixoy ha significato una campagna di repressione e terrore senza
precedenti. Finanziato dalla Inter-American Development Bank e dalla Banca Mondiale e
realizzato da un consorzio controllato dall’italiana Impresilo questo progetto portato avanti da
una serie di giunte militari ha portato al trasferimento forzato di oltre 3.400 indigeni, in gran
parte maya. A partire dai primi anni ’80 le 17 comunità indigene interessate danno inizio ad
una lunga lotta. I regimi militari hanno condotto una politica di terrore contro le popolazioni,
con l’uccisione di leader locali, e con massacri culminati nel settembre del 1982 con l’uccisione
per mano militare di 487 indigeni della comunità di Rio Negro in Baja Verapaz (che è stata
letteralmente dimezzata). In tutti questi anni le comunità indigene hanno continuato a
protestare e a richiedere un risarcimento. Con la fine della Guerra civile in Guatemala (1994)
sono state condotte diverse indagini. Un comitato sostenuto dalle Nazioni Unite ha appurato
che le vittime di questa politica dei governi militari guatemaltechi aveva causato la morte di
oltre 200.000 indigeni maya. Nel settembre 2004 infine il sito è stato rioccupato dagli indigeni
per ottenere un risarcimento.
PRIVATIZZAZIONE
E DEMOCRAZIA
95
Corso di Sociologia della comunicazione politica - a.a. 2014/2015
Verso una democrazia ecologica?
La discussione pubblica e la partecipazione politica
di fronte alla crisi ambientale
Docente: Marco Deriu
LA CRISI ALIMENTARE GLOBALE E LA DEMOCRAZIA DEL CIBO
Le guerre del cibo
Negli ultimi anni si sono registrate sempre più spesso delle proteste e delle rivolte
per questioni alimentari.
L'aumento del costo di riso, latticini, carne, zucchero e cereali è stato alla base di
una forte ondata di proteste verificatasi tra il 2007 e il 2008, in paesi come Haiti,
Messico, Nicaragua, Guatemala, Thailandia, Indonesia, Filippine, India,
Bangladesh, Egitto, Yemen, Pakistan, Uzbekistan, Costa d'Avorio, Etiopia e
gran parte dell'Africa subsahariana.
In alcuni paesi come Haiti i prezzi dei prodotti alimentari sono saliti mediamente del
40 per cento in meno di un anno. Il riso è raddoppiato di prezzo.
In Bangladesh tra il 2007 e il 2008 il prezzo del riso è raddoppiato a fronte di uno
stipendio medio mensile di soli 25 dollari.
Nello stesso periodo in Egitto i prezzi dei prodotti alimentari sono aumentati del 40 per
cento.
Ma anche la scintilla delle diverse delle rivolte nel Maghreb e in altre zone del 2011,
è venuta da una rivolta contro il peggioramento delle condizioni economiche, una
crescita dei costi dei beni primari, in particolare alimentari, a fronte di un reddito
piuttosto basso (7.100 euro lordi all’anno è il reddito medio in Tunisia, 4.665 euro
lordi è il reddito medio in Egitto).
Quello che è successo in questi ultimi anni in paesi - mi riferisco alle rivolte in
Algeria, Tunisia, Egitto, Yemen, Bahrein, Siria, Libia, Marocco, Arabia Saudita,
Oman, Iraq, Sudan, Mauritania, Uganda - ci racconta ancora una volta della
centralità delle risorse e del legame tra beni fondamentali nel nord e nel sud del
mondo. Quasi tutti i paesi che ho appena citato sono grandi importatori di frumento –
Egitto (1°), Algeria (4°), Iraq (7°), Marocco (8°), Yemen (13°), Arabia Saudita (15°),
Tunisia (17°). I regimi hanno fatto affidamento sui sussidi per comprare frumento,
farina e pane in modo da ottenere un consenso e un controllo della popolazione, ma
questa politica sul lungo periodo si è scontrata con vari problemi.
Il primo è che ha contribuito ad affossare l’agricoltura locale perché il basso
costo dei cerali a livello mondiale e la distribuzione a basso costo della farina rendeva
diseconomica per il produttori locali la produzione diretta di cereali. Gran parte della
farina e dei cereali distribuiti vengono dalle eccedenze americane sotto forma di Aiuti.
Così l’Egitto che negli anni ’60 era quasi autosufficiente nella produzione di grano oggi
è il primo importatore mondiale.
96
Di fondo quello che occorre notare è che c’è stato un aumento fortissimo dei
costi dei cereali e del pane e di altri beni alimentari tra il 2007 e il 2011.
Questo aumento è dovuto a diversi fattori che si sono intrecciati:
- la crescita della popolazione mondiale e della domanda di questi beni. In
particolare occorre tener conto del mutamento dei rapporti tra la popolazione
urbana e quella rurale, nonché della trasformazione delle abitudini alimentari;
-il cambiamento climatico che produce un aumento della temperatura globale
ma anche una estrema variabilità del clima stagionale con la produzione di fenomeni
estremi;
- fenomeni locali come picchi di siccità o l'esaurimento degli acquiferi; per
esempio nel 2012 una terribile siccità ha colpito Usa, Russia e Kazakhstan, riducendo
del 3% il raccolto globale dei cereali.
-la diminuzione di suoli fertili sia per il fenomeno dell'erosione e della
desertificazione che per l'espandersi dell'urbanizzazione e della cementificazione unito
all'impossibilità in molte aree di estendere ulteriormente l'estensione delle terre
coltivate;
- la crescita dei costi di investimento dovuti alla diffusione dell'agricoltura
industriale e al fenomeno dei "brevetti" dei semi.
- fenomeni economici come l’aumento del prezzo del petrolio. In effetti la
meccanizzazione dell’agricoltura (l’uso di macchinari agricoli a motore), l’uso di
pesticidi, erbicidi e fertilizzanti (derivati dal petrolio) e il costo della distribuzione dei
cereali verso i mercati ha determinato una situazione in cui un qualsiasi aumento dei
costi del petrolio fa scattare un aumento dei beni alimentari di base.
Si creano dunque dei circoli viziosi, con degli anelli di feed back negativo. Come ha
scritto Michael Klare,
«il prezzo del petrolio fa salire quello dei generi alimentari; a sua volta il
rincaro del cibo provoca disordini politici nei paesi produttori di petrolio, che di
conseguenza spingono ancora più in alto i prezzi del greggio e quindi quelli dei
generi alimentari».48
- Il tentativo di alcuni governi di diminuire la dipendenza dal petrolio e le emissioni
di Co2 che contribuiscono al riscaldamento globale indirizzandosi verso le
coltivazioni di biocarburante piuttosto che di cibo. Questo a sua volta,
diminuendo le disponibilità, ha contribuito ad alzare i prezzi dei beni alimentari.
- Infine un ulteriore elemento da tenere in considerazione è stata la speculazione
finanziaria alimentare. Negli ultimi anni con la liberalizzazione del mercato le
banche, le finanziarie e i fondi di investimento, quindi gli investitori internazionali
hanno fatto grandi speculazioni sui beni alimentari attraverso la compravendita di titoli
(futures). Si stima che oramai oltre un 70% degli scambi in questo mercato sia di tipo
speculativo, ovvero fatto da persone che sono di fatto totalmente estranee alla
produzione agricola.
Questo aumento dei costi dei beni alimentari primari come i cereali provoca a sua
volta alcuni effetti a catena.
In primo luogo accade che i paesi esportatori comincino a limitare le esportazioni
per tenere più bassi i prezzi dei beni alimentari al proprio interno e questo ha prodotto
una diminuzione della disponibilità di cibo e un problema di improvvisa scarsità nei
paesi importatori con un più basso reddito.
Di fatto i rincari dei generi alimentari hanno spinto sull’orlo della denutrizione
oltre 75 milioni di persone.
48
Michael Klare “Il circolo vizioso”, Internazionale n. 891, 1 aprile 2011, p. 39.
97
L'aumento dei costi, la diminuzione delle esportazioni, la scarsità di cibo, l'aumento
della fame, il sorgere delle proteste fa si che alcune nazioni cerchino di tutelarsi
appropriandosi di terre in altri paesi, dando luogo così al fenomeno noto come land
grabbing. Questo naturalmente può creare nuovi conflitti e nuovi problemi di giustizia
ambientale e sociale.
Insomma c'è un evidente correlazione tra questioni ecologiche, questioni
energetiche, questioni economiche e questioni politiche.
Secondo uno studio accurato di tre ricercatori49 è possibile notare che quando il
Food Price Index50 della Fao raggiunge o supera l'indice di 210 è probabile lo scoppio
di rivolte per il cibo.
Non è un scaso che un attento commentatore di questioni politiche e di conflitti
Nafeez Mosaddeq Ahmed ha sottolineato che nel prossimo futuro le rivolte per il cibo
potrebbero diventare la normalità della nostra vita.51
Insomma è chiaro che oggi non possiamo più permetterci il lusso di affrontare un
problema in maniera isolata non tenendo conto del contesto più ampio.
Oggi siamo chiamati a leggere ed interpretare le interdipendenze tra
fenomeni diversi e complessi quali le dinamiche del commercio internazionale, la
disponibilità e il costo economico e sociale delle risorse, l’organizzazione del sistema
agroalimentare globale, il consumo energetico, il problema delle emissioni di Co2, il
riscaldamento climatico, l’erosione della biodiversità, i conflitti ambientali e le lotte per
i beni comuni. Tutto questo chiama in causa il nostro stile di vita, le nostre abitudini
quotidiane, il nostro rapporto con altri paesi e culture.
49
Marco Lagi, Karla Z. Bertrand, Yaneer Bar-Yam, "The Food Crises and Political Instability in North Africa
and
the
Middel
Est",
New
England
Complex
Systems
Institute,
http://necsi.edu/research/social/food_crises.pdf
50
L’indice FAO è una media dei prezzi globali di cereali, olii, carne, latticini e zucchero,
51
Nafeez Mosaddeq Ahmed, "Why food riots are likely to become the new normal", The Guardian, march
6, 2013, http://www.theguardian.com/environment/blog/2013/mar/06/food-riots-new-normal
98
Tutto questo ci ricorda comunque la centralità del problema del cibo nei decenni a
venire. Nei paesi occidentali gli effetti di questi cambiamenti generalmente si vedono
in ritardo perché in una prima fase quello che viene intaccato sono le scorte, gli stock
di riserva, ovvero il surplus della produzione per esempio cerealitica. Negli ultimi due
decenni negli Usa come in Europa sono via via state erosi i margini di sicurezza in
questo campo.
Come ha scritto Lester R. Brown:
«Il mondo sta passando da un'epoca caratterizzata da una grande abbondanza
di cibo a una di scarsità. Nel corso degli ultimi dieci anni, le riserve globali di
cereali sono diminuite di un terzo. A livello mondiale i prezzi degli alimenti sono
più che raddoppiati, stimolando una corsa planetaria ai terreni agricoli e
ridisegnando la geopolitica del cibo. In questo nuovo periodo storico, il cibo è
importante come il petrolio e il terreno agricolo è prezioso come l'oro».52
Un mondo affamato?
In altre zone del mondo il problema si presenta in maniera molto più drammatica.
Attualmente si calcola che circa 799 milioni di persone al mondo (il 18% della
popolazione mondiale) soffrano la fame.
Cina a parte, la percentuale di persone in condizioni di insicurezza alimentare sulla
popolazione è aumentata in diverse zone del mondo, dal Sud America dove
nell’ultimo decennio è cresciuta del 19% all’Asia dove è cresciuta del 9%. Nella sola
Africa il problema della fame investe fino al 35% della popolazione.
I nostri automatismi culturali, in questi casi, ci portano subito a pensare che la
questione della fame riguardi un problema di sotto-produzione di cibo nel mondo o
almeno in una parte del mondo. In realtà non è esattamente così.
Ora se si prende uno degli rapporti sullo Sviluppo Umano delle Nazioni Unite di
pochi anni fa ci si imbatte in una frase di questo genere:
«Se tutto il cibo prodotto» nel mondo fosse distribuito egualmente, ogni
persona sarebbe in grado di consumare 2.760 calorie al giorno (la fame è definita
come consumo inferiore a 1960 calorie al giorno)».53
Questo ragionamento apparentemente semplice è in realtà molto sviante. Non ha
nessun senso pensare di risolvere le contraddizioni dovute alla fame sul piano
puramente quantitativo, utilizzando per esempio le eccedenze dei paesi ricchi per
farne dono ai più poveri. In questo modo non si risolvono i problemi di fondo e anzi si
crea dipendenza economica, politica e omogeneizzazione culturale. Il problema della
fame non è un problema semplicemente quantitativo. Ci si deve chiedere come si
sfama, quale parte hanno i diversi soggetti coinvolti, quale cibo viene utilizzato,
prodotto in che modo e dove.
Dunque certamente affermare sicurezza alimentare significa garantire l’accesso ad
un cibo sano da parte della popolazione in modo stabile e permanente a prezzi
abbordabili. Ma la sicurezza alimentare presenta anche altre dimensioni. Una
dimensione culturale: di sopravvivenza delle forme di organizzazione, produzione e
relazione sociale e di disponibilità di cibo culturalmente appropriato. Una dimensione
52
Lester R. Brown, 9 miliardi di posti a tavola. La nuova geopolitica della scarsità di cibo, Edizioni
Ambiente, Milano, 2012.
53
Undp 14, Le azioni politiche contro la povertà, Rosemberg & Sellier Torino, p. 112.
99
economica: di tutela del reddito della popolazione in modo che possa acquistare il cibo
o i beni di cui ha bisogno e che sono presenti sul mercato locale. Una dimensione
ecologica: di protezione e uso sostenibile delle risorse naturali nel tempo. Una
dimensione politica: di controllo sovrano sulle forme di produzione, distribuzione,
conservazione, e commercio del cibo.
Cibo e cultura: L’alimentazione come tratto culturale fondamentale
La globalizzazione del cibo, l’avvento dell’agricoltura industriale su larga scala coincide
con la mercificazione del cibo. L’agricoltura viene trattata come un processo
industriale e i beni alimentari sono trattati come merci qualsiasi, facendo astrazione
dai significati sociali e culturali dell’alimentazione.
Un po’ per pigrizia, un po’ per riduzionismo scientifico, in Occidente tendiamo a
confondere il cibo con gli apporti nutrizionali. In questo senso a parità di apporti
nutrizionali, in base ai ragionamenti delle istituzioni internazionali qualsiasi cosa
commestibile è equivalente e interscambiabile.
Eppure gli esseri umani non vivono di semplicemente di alimenti ma di cibo,
ovvero di prodotti culturali e sociali. Quello che mangiamo definisce chi siamo, da
dove veniamo, definisce la nostra visione del mondo, la nostra sensibilità spirituale o
politica, le nostre forme di relazione sociale e di organizzazione economica.
A seconda di quello che mangiamo possiamo progettare la nostra indipendenza
oppure dobbiamo prendere atto della servitù verso altri paesi. Per dirla con un
esempio estremo: un Gandhi che in India si fosse cibato di Hamburger, patatine con
Kechup e Coca cola, non sarebbe stato Gandhi da molti punti di vista e certamente
non avrebbe potuto fare quello che ha fatto. C’è un rapporto tra territorio, culture
dell’alimentazione, pratiche di tutela dell’ambiente, conoscenze e competenze nella
produzione, costruzioni di legami sociali, definizione degli stili di vita, tutti saperi di cui
sono sempre state e sono tuttora custodi le principalmente le donne. Il cibo dunque è
un elemento di un più ampio sistema economico, sociale, culturale, ambientale. Lo
stravolgimento improvviso delle abitudini alimentari di un territorio può dunque avere
conseguenze nefaste.
Da questo punto di vista la mercificazione assoluta del cibo porta ad un processo di
deculturazione dell’alimentazione, ad un omologazione merceologica ad una
uniformazione del consumo e del gusto alimentare che distruggendo i sistemi
agroalimentari locali genera sradicamento economico, sociale e culturale che a sua
volta genera povertà ed emarginazione. In questo senso la fame non è un problema di
cibo, ma di sradicamento, di spossessamento. La gente nel sud del mondo ha
fame perché non ha più il controllo sull’intero processo di produzione,
distribuzione, scambio e socializzazione del cibo, perché il sistema di produzione
agroalimentare non è più corrispondente ai bisogni locali e non perché si produce da
un punto di vista quantitativo poco cibo.
A partire dal celebre studio Poverty and Famines del premio nobel Amartya Sen,54
la maggior parte degli studi e le ricerche concordano sul fatto che la fame e la
malnutrizione non derivano da un deficit produttivo complessivo. Le persone possono
morire di fame anche in paesi in cui vi è una grande disponibilità di alimenti.
L’aumento della produzione globale di cibo di per sé non risolve il problema della fame
e anzi in alcuni condizioni può pure aggravarlo. Le situazioni estreme delle carestia o
del disastro dovuto ad agenti atmosferici possono verificarsi, ma normalmente le
54
Amartya Sen, Poverty and Famines: An Essay on Entitlement and Deprivation, Oxford University Press,
Oxford, 1981. Vedi ora anche Lo sviluppo è libertà, Arnaldo Mondadori, Milano, 2000, in particolare il
capitolo VII "Carestia e altre crisi".
100
popolazioni hanno strumenti per far fronte ai periodi di magra. Tuttavia il più delle
volte, le crisi alimentari sono soprattutto un problema di controllo e utilizzo delle
risorse, di distribuzione dei beni, di mancanza di soldi e di difficile accesso al mercato,
insomma di politiche errate o volutamente criminali. Come ha notato Amartya Sen, ciò
che è fondamentale non è la quantità dei generi alimentari presenti in un determinato
paese, ma piuttosto la capacità economica e la libertà sostanziale di individui e
famiglie di procurarsi il cibo sufficiente o producendolo o acquistandolo sul mercato.
Dunque ci possono essere grandi carestie nonostante una notevole disponibilità
alimentare generale di un paese. Per esempio, nel 1974 l'anno in cui il Bagladesh fu
colpito dalla carestia, ricorda Sen, fu in realtà l'anno in cui ci fu la massima quantità di
cibo disponibile di quegli anni. Il problema in quel caso era la perdita dei salari dei
braccianti in conseguenza delle inondazioni dell'estate. Allo stesso modo, in Etiopia
nella provincia del Wollo, nel 1973, i contadini ridotti in miseria dal crollo della
produzione a causa della carestia, non potevano comprarsi da mangiare nonostante
nel capoluogo della provincia Dessié le derrate erano disponibili a prezzi normali. Anzi,
come avviene spesso in questi casi, i generi alimentari prodotti nel Wollo venivano
esportati verso altre zone dell'Etiopia dove la popolazione aveva il denaro per
acquistarli. In India si registrano anche cinquanta milioni di tonnellate di cerali stoccati
nei Silos, mentre le scorte di riso sono passate da tredici a ventidue milioni di
tonnellate e quelle di grano da 872 a 2.411. Eppure la gente non ha i soldi per
comprarli.
Un caso di questo tipo, è ben documentato e raccontato nel film “L’incubo di
Darwin” di Hubert Super, dove si presenta la situazione del Lago vittoria in Tanzania
con una fluente esportazione di pesce persico verso l’Europa e il Giappone mentre nel
paese ufficialmente impazza la carestia e la gente muore di fame.
Viceversa anche una notevole diminuzione della disponibilità alimentare può non
avere nessuna conseguenza nella misura in cui rimane intatto il potere di acquisto
della popolazione locale che può procurarsi cibo altrove55. Allo stesso modo, poiché ci
possono essere forti differenze da zona a zona e da classe sociale e classe sociale ci
sono paesi che in termini nazionali hanno un livello di reddito e di cibo pro capite
elevato ma un’alta percentuale di popolazione sottonutrita (Messico, Brasile, Sud
Africa), e viceversa (Cuba, Cina, Sri Lanka).
Per fare un altro esempio, qui nel nord del mondo fatichiamo a capire che non si
risolve il problema della fame o delle carestie con l’invio di aiuti alimentari. Il flusso di
alimenti gratuiti o basso costo in questi paesi, soprattutto se ampio e prolungato
mette in difficoltà i produttori locali e distrugge il mercato locale. Data l’introduzione di
beni gratuiti o a basso costo – in genere le nostre eccedenze alimentari - gli agricoltori
locali sono costretti ad abbassare i prezzi dei prodotti del mercato locale, o ad
abbandonare i campi oppure a deviare la produzione verso altri prodotti ad esempio
quelli che risultano interessanti non per il mercato locale ma per quello internazionale.
Dunque il problema è complesso e gli aiuti alimentari aiutano i produttori dei paesi
ricchi e non i poveri del sud del mondo. Si può anche dire che in fondo ci sono due
modi di concepire l’aiuto alle popolazioni in difficoltà alimentare. Come dice Vandana
Shiva:
«Gli aiuti possono essere un sostegno per l’agricoltura sostenibile e la
sicurezza alimentare, oppure un sussidio per riversare del cibo inappropriato,
prodotto in maniera non sostenibile, sulle vittime della povertà e dei disastri
naturali».56
55
In Botswana la produzione alimentare è calata del 33,5% dal 1979 al 1995, a Singapore negli stessi
anni è calata del 58%, senza che questo causasse la fame, perché i redditi complessivi della popolazione
sono cresciuti.
56
Vandana Shiva, Le nuove guerre della globalizzazione. Sementi, acqua e forme di vita, Utet, Torino,
2005, p. 49.
101
Cibo e sovranità: La fame come problema politico
Bisogna ricordare che le condizioni della fame sono sempre in relazione con la
situazione politica. Questo è evidente per esempio se si nota la relazione tra guerre e
carestie. In molti casi le emergenze sono state innescate dalla guerra, da conflitti civili
o da effetti di lungo periodo di conflitti passati. Le crisi politiche sono la causa
principale delle carestie. Nelle guerre, che siano guerre civili o bombardamenti
dall’alto a farne le spese è infatti la popolazione ed in particolare i contadini che non
possono più lavorare la terra o andare a vendere i loro prodotti.
Ci sono poi un mix di fattori che riguardano l’organizzazione del sistema
agroalimentare globale che concorrono a creare il problema della fame nel sud del
mondo. Questi fattori sono essenzialmente:
 Le esportazioni agroalimentari sovvenzionate da parte di Usa ed Europa
verso il sud del mondo che alterano la competizione dei prodotti a
svantaggio dei prodotti non sovvenzionati del sud del mondo. Come si è visto
all’incontro del WTO a Cancun si è manifestato uno scontro che ha avuto anche
risvolti drammatici tra Europa ed Stati Uniti da una parte e la maggior parte dei
paesi del sud del mondo - Brasile, Argentina, Sud Africa, India, Cina, Egitto, Cuba,
Cile, Colombia, Costa Rica, El Salvador, Guatemala, Tailandia ecc. – dall’altra.
Questi paesi (il cosiddetto G21) che - come ha fatto notare il ministro brasiliano al
commercio Luiz Fernando Furlan rappresentano il 51% dell’umanità, il 63% dei
contadini al mondo e il 60% dei mercati agricoli mondiali – chiedono una riduzione
significativa dei sussidi, in particolare quelli per l’esportazione garantiti dai paesi
ricchi alle proprie aziende agricole. I paesi ricchi spendono più di un miliardo di
dollari al giorno nei diversi sussidi al settore agricolo.
 Il secondo elemento del problema riguarda la destrutturazione dei modelli di
agricoltura basata su fattori interni e la transizione obbligata ad
un’agricoltura orientata all’esportazione imposta ai paesi del sud del mondo
da parte delle Istituzioni internazionali che diminuisce le possibilità di provvedere al
fabbisogno interno. Il modello export-oriented mentre arricchisce le multinazionali,
porta ad affamare la gente. Il Kenya, tanto per fare un esempio, tra il 1990 e il
2000 ha raddoppiato l’esportazione agricola e contemporaneamente quadruplicato
le importazioni. La metà della disponibilità agroalimentare interna è andata
perduta.
 La trasformazione dei sistemi agricoli tradizionali basati sulla
diversificazione, sulla multifunzionalità e sulla sostenibilità in sistemi
fortemente standardizzati e ad alto investimento di capitali. Nei fatti i costi
di coltivazione aumentano in maniera più rapida dei tassi di rendimento e dei
prezzi dei prodotti finali.
 Il quarto elemento del sistema internazionale riguarda la liberalizzazione dei
mercati, l’espropriazione del potere di controllo e di restrizione dei singoli
paesi e la fragilità dei prezzi dei prodotti agricoli su cui si basano le
produzioni del sud del mondo e che determina un debole potere di acquisto di
questi paesi nei mercati internazionali. Il ricavato delle esportazioni di prodotti
alimentari generalmente non produce abbastanza per comprare i beni di cui si ha
bisogno sul mercato globale, dunque la gente si impoverisce rapidamente e va
incontro alla fame.
Molti paesi del sud del mondo sono stati messi in crisi contemporaneamente
dall’afflusso di aiuti umanitari gratuiti o a basso costo e dalle politiche delle istituzioni
internazionali che attraverso i piani di aggiustamento strutturale modificano gli
equilibri socio-economici di un paese. Lo stesso potere delle grandi aziende agricole,
ha imposto la produzione di colture (spesso monocolture) commerciali rivolte
all’estero e allo scambio, piuttosto che mirare all'autosufficienza alimentare. Molti
102
contadini sono stati incentivati ad abbandonare le loro produzioni tradizionali per
coltivare le colture commerciali destinate alle esportazione. In molti paesi la fame è
aumentata e si è cronicizzata man mano che si adeguavano ai dettami ideologici dello
sviluppo economico imposto dalle istituzioni internazionali e dal mercato. Come ha
notato Michel Chossudovsky
«le carestie nell'epoca della globalizzazione sono causate dall'uomo. Esse non
sono la conseguenza della scarsità di prodotti alimentari, ma della struttura
dell'offerta eccessiva globale che distrugge la sicurezza alimentare e l'agricoltura
alimentare nazionale. Rigidamente regolamentata e controllata dall'agroindustria
internazionale, questa offerta eccessiva è infine la causa della stagnazione nella
produzione e nei consumi alimentari di base, e dell'impoverimento degli
agricoltori in tutto il mondo»57.
Per spiegare questi fenomeni ed offrire una certa lettura della realtà negli ultimi
anni, sulla scia del movimento internazionale contadino La Via Campesina, si è
introdotto nel dibattito il concetto di Sovranità alimentare. Con questo concetto
s’intende sottolineare che il problema del cibo non è solamente una questione di
autosufficienza alimentare, ma riguarda anche la possibilità di decidere politicamente
quale forma di produzione, quale politica agricola e alimentare promuovere in
relazione ai bisogni della popolazione, alla propria cultura, alle caratteristiche di un
territorio, alle necessità di tutela dell’ambiente e di conservazione del proprio
patrimonio, e alle scelte strategiche che ne conseguono. La sovranità dunque parte
dalla consapevolezza che non esiste un modello economico unico, che oggi sono
possibili molte scelte politiche, economiche differenti. Che nel campo agroalimentare i
modelli di produzione e di consumo e le strategie economiche possono essere
molteplici e diverse, che non è obbligatorio sottostare al modello di produzione e di
consumo dominante sul mercato globale. Che lo stile americano, quello che è stato
definito la “mcdonaldizzazione” del mondo58 , con i suoi corollari di un agricoltura
industriale intensiva e di un alimentazione standardizzata e di bassa qualità, non è
una via inevitabile e che anzi è possibile lottare per riaffermare dei principio di libertà,
civiltà e autodeterminazione da parte dei diversi paesi, dei territori, con l’aiuto della
popolazione, della società civile, dei coltivatori, dei consumatori. In termini pratici
gran parte del movimento contadino mondiale chiede che la dimensione cruciale
dell’alimentazione non sia oggetto di accordi commerciali e di liberalizzazione in sede
WTO. Il concetto di sovranità richiama dunque il diritto da parte dei paesi di fissare
norme di qualità, di proteggere il proprio territorio, di privilegiare il mercato locale
riaffermando il diritto all’alimentazione, di regolare importazioni ed esportazioni a
seconda delle proprie necessità. Questa lotta ha vari corollari come l’opposizione ai
semi e agli alimenti transgenici, l’opposizione ai brevetti di proprietà intellettuale sui
semi e sulle risorse viventi.
Cibo e biodiversità: Globalizzazione e uniformazione del gusto
La liberalizzazione indiscriminata del mercato e la globalizzazione dell’agricoltura sta
creando enormi difficoltà agli agricoltori nel nord e nel sud del mondo e sta mettendo
in crisi anche una parte della produzione alimentare. La globalizzazione del cibo spinge
verso la concentrazione delle risorse nella produzione e commercializzazione di pochi
prodotti standard. Questo significa togliere terra e mercato alla coltivazione di varietà
57
Michel Chossudovsky, La globalizzazione della povertà, Edizioni Gruppo Abele, Torino,1998, p. 112.
Cfr. George Ritzer, Il mondo alla McDonald’s, Il Mulino, Bologna, 1997. Ritzer definisce
“mcDondaldizzazione «il processo col quale i principi della ristorazione fasf food vanno imponendosi
sempre più in un numero crescente di settori della società americana e del resto del mondo» (p. 13).
58
103
diverse di prodotti e allo stesso tempo determinare una restrizione e un uniformazione
dei prodotti alimentari derivati. Alle grandi multinazionali conviene avvicinare e
uniformare i gusti in tutto il mondo piuttosto che creare prodotti diversi per ogni
mercato che costerebbe di più. Le multinazionali cercano di produrre alimenti che
modificano il gusto locale.
In Italia abbiamo centinaia di qualità diverse di pane, di formaggi, di salumi, di vini,
delle tradizioni legate ai singoli territori. Ma anche altrove, anche nel sud del mondo,
anche tra le popolazioni che definiamo povere, spesso la varietà di coltivazioni e di
prodotti alimentari è altissima. Un’incredibile varietà di semi, di riso, di frutta, di pane.
Gli agricoltori indiani per esempio hanno sviluppato 200.000 varietà di riso, con le
innovazioni e gli incroci.59
Ora la globalizzazione – tramite l’influenza del WTO e di poche multinazionali –
spinge i coltivatori a produrre solo alcune varietà e a distruggere la grande varietà di
coltivazioni per uso locale per far spazio a quelle orientate all’esportazione. Tutto
questo rappresenta anche una secca perdita in termini di patrimonio di biodiversità.
La realizzazione di monoculture intensive, con uso di fertilizzanti e additivi chimici o
addirittura di semi manipolati, al posto dei sistemi tradizionali, determina inoltre un
peggioramento della condizione della terra e delle acque contribuendo anche in questo
modo ad aumentare i problemi della povertà. La biodiversità è garanzia non solo della
produzione ma della riproduzione della natura e delle sue risorse.
Inoltre in generale i prodotti massificati offerti dal mercato globale sono
decisamente meno appetibili in termini di sanità e qualità. Questo naturalmente ha
conseguenze nel sud come nel nord del mondo, poiché i consumatori generalmente
hanno poche e fragili garanzie sul piano della sicurezza della composizione finale e del
processo di produzione dei prodotti alimentari di cui possono disporre. Da questo
punto di vista la partita riguarda la chiarezza delle etichette ma anche un controllo
efficace che investa l’intero processo di produzione.
Cibo e sostenibilità: stili di vita, abitudini alimentari e tutela dell’ambiente
Come è stato notato - mi riferisco all’esposizione proposta da Luca Colombo nel suo
libro sulla Fame - oggi esistono due cicli di produzione uno lungo e uno corto:
«Il circuito lungo è caratterizzato dalle grandi distanze geografiche che
percorrono gli alimenti, dalla distanza culturale e cognitiva che separa chi
produce da chi consuma e chi consuma da quello di cui si nutre (il consumatore
non ha contatto percettivo con il processo di ottenimento dell’alimento, così come
l’agricoltore ignora il destino della sua produzione), dalle elevata intermediazione
che vede molti attori economici aggiungere e sfruttare frammenti di valore
aggiunto, dall’articolato processo di trasformazione industriale o zootecnica. Nel
circuito corto, invece, il produttore è in contatto diretto o ravvicinato con il
consumatore (fino a coincidervi), garantendo un travaso non solo materiale, ma
anche culturale e percettivo degli alimenti, di cui si può arrivare a conoscere sia
la composizione che il processo di ottenimento».60
Di questi due circuiti, uno, quello più lungo è caratterizzato da poche merci
standard di grande consumo e rimane sotto il controllo di multinazionali, grandi
distributori e localmente di un élite fondiaria che possiede la terra e controlla i
59
Vandana Shiva, Vacche sacre e mucche pazze. Il furto delle riserve alimentari globali, DeriveApprodi,
Roma, 2000, p. 19.
60
Luca Colombo, Fame. Produzione di Cibo e Sovranità Alimentare, Jaca Book, Milano, 2002, pp. 12-13.
104
lavoratori. Il secondo circuito, invece, quello breve, è caratterizzato da un grande
numero di varietà agricole e alimentari.
Il circuito lungo, industriale, globale, è apparentemente più competitivo sul piano
dei prezzi, perché non vengono contabilizzati molti costi ambientali (dumping
ambientale) e perché spesso sono produzioni fortemente sovvenzionate dai paesi
ricchi. Questo circuito è funzionale per sfamare soprattutto i mercati urbani e produce
molta ricchezza per un ristretto numero di persone. Il secondo risulta più ecologico e
più sostenibile sul piano locale, più valorizzante della biodiversità e delle diverse
culture alimentari territoriali, e più corrispondente ai bisogni della popolazione e anche
dei piccoli coltivatori, ma ha certamente meno potenzialità dal punto di vista della
produzione di profitto. È ovvio che in un mondo interdipendente come quello attuale
non si può comprimere l’intero commercio alimentare nel circuito più breve.
Ci sono certi beni comuni o di qualità che necessariamente devono seguire il
circuito più lungo per arrivare al consumatore, che altrimenti potrebbe esserne
completamente privato. E tuttavia lottare per la sostenibilità dei sistemi
agroalimentari significa – almeno per quanto riguarda i beni fondamentali privilegiare il più possibile la produzione locale ed accorciare il più possibile le
distanze tra luogo di produzione e consumatori. Soltanto la riduzione di questa
distanza permette infatti di diminuire il consumo di energia e di gomme per il
trasporto, di imballaggi, di stoccaggi, di manipolazioni chimiche e biotecnologiche per
aumentare la durata nel tempo ecc. E solo in questo modo si evitano le irrazionalità e
gli sprechi dell’attuale sistema agroalimentare. Oggi dunque è importante ripartire da
una valorizzazione del territorio sia in termini di specificità che in termini di bisogni e
di indirizzi.
Del resto la globalizzazione in questo campo è un processo meno realizzato di quel
che si crede. Secondo la FAO della produzione agricola che riguarda le colture di
interesse commerciale solamente un 10% riguarda gli scambi internazionali. I mercati
interni, o i mercati riguardanti determinate aree, continuano ad avere un importanza
preponderante.
Un altro problema è che oltre un quarto di tutta la produzione cerealicola mondiale
viene utilizzata per l’alimentazione animale nei paesi ricchi. Una parte significativa del
terreno arabile nei paesi del sud del mondo è utilizzato per la coltivazione di cerali ad
uso zootecnico, cosicché negli stessi paesi in cui ci sono persone che soffrono la fame,
ci può essere un surplus alimentare che però viene utilizzato per allevare il nostro
bestiame. L’Europa per esempio importa grandi quantità di alimenti per il bestiame da
molti paesi del sud del mondo (Brasile, Thailandia, Argentina, Cina, Indonesia,
Malesia, Filippine). Un consumo eccessivo di carne può dunque avere conseguenze
serie nel sud del mondo sia in termini ecologici che sociali.
Cibo e democrazia: i padroni del cibo e la democrazia alimentare
Negli ultimi anni si è assistito ad una concentrazione enorme dell’industria
agroalimentare e agrochimica. Solo per fare qualche esempio:
- 6 società controllano l’85/90% del mercato del frumento del mais e della
soia (Cargill, Continental, Louis dreyfus, Bunge & Born, André, Toepfer);
- 6 società controllano l’85-90% del mercato del caffè (Trothfos, Acli acquisita
da Cargill, J. Aron, Volkart, Socomex, ED&F Man)
- 4 società controllano il 60-65% dello zucchero (Sucden, Phibro, Tate& Lyle,
ED&F Man)
- 3 società controllano l’85% del tè (Unilever, Associated British Foods, LyonsTetley)
105
- 3 società controllano l’80% del cacao (Gill&Duffus, Berisford, Sucden)
- 3 società controllano l’80% delle banane (United Brtands, Castel&Cook, Del
Monte).
- 10 industrie agrochimiche mondiali – società come la Syngenta (Svizzera) la
Bayer (Germania), la Monsanto (USA), la BASF (Germania), la Dow Agrosc. (USA),
la DuPont (USA) - controllano oltre l’80% dei 27,7 miliardi di dollari (2002)
del mercato agrochimico.
- 10 multinazionali - DuPont (USA), Monsanto (USA), Novartis (Svizzera), Groupe
Limagrain (Francia), Advanta (GB e Olanda), Guipo Pulsar/Semins/ELM (Messico),
Sakata (Giappone), KWS HG (Germania), TAKI (Giappone) controllano oggi il
32% del mercato mondiale dei semi e il 100% dei semi modificati o
transgenici.
Queste poche e grandi multinazionali sono sempre più in grado di dominare ogni
anello della catena di produzione agroalimentare, sostenendo i prezzi dei loro prodotti,
mantenendo bassi i prezzi dei prodotti agricoli che acquistano, e sostanzialmente
distruggendo ogni forma di produzione e mercato locale alternativo. Ora mentre
stanno accumulando un potere di mercato, questi soggetti acquisiscono anche un
potere “politico”, di influenza sulle scelte dei governi e delle istituzioni internazionali
sempre più forte. Una tale concentrazione nel campo della produzione alimentare è
una prospettiva oltremodo inquietante. Chi controlla il cibo e le fondamenta della vita
detiene un grandissimo potere. Come nota causticamente Vandana Shiva
«La nozione dei “diritti” è stata totalmente stravolta dalla globalizzazione e dal
libero commercio. Il diritto all’autoproduzione, a consumare in base alle priorità
culturali e a criteri di sicurezza, è stato reso illegale dalle nuove regole del
commercio. Al contrario, il diritto delle multinazionali a imporre ai cittadini del
mondo cibi nocivi e culturalmente inappropriati è stato generalizzato»61.
I problemi di queste trasformazioni del mercato del cibo riguardano dunque da vicino
il tema della democrazia, della sovranità, della libertà. Che cosa significa democrazia
se poche grandi multinazionali arrivano a controllare da sole gran parte del mercato
mondiale dei semi, dei prodotti agricoli e del cibo? Che cosa significa democrazia se
non abbiamo nemmeno la libertà di scegliere che cosa mangiamo?
Oggi è in corso una lotta per l’organizzazione del sistema agroalimentare
globale.
Da una parte c'è una pressione per un'uniformazione globale della produzione e del
gusto sul modello McDonald’s. Dall’altra parte c’è un impegno per riaffermare la
sicurezza e la sovranità alimentare. Una sicurezza alimentare che deve essere
ricostruita a livello locale nel quadro di un accordo tra produttori a livello
internazionale e di una capacità dei governi e delle comunità locali di decidere che
cosa produrre e che cosa mangiare. Si tratta di una lotta per affermare un idea di
produzione e di commercio basato sulla qualità, sulla valorizzazione delle specificità
territoriali, sulle garanzie verso i consumatori, sulla sostenibilità ecologica e sociale. In
questa lotta per una democrazia alimentare si profila un’alleanza inedita tra
coltivatori, consumatori e ambientalisti, popolazioni locali, cittadini responsabili e
scienziati impegnati. In tutto questo, come è evidente per esempio nel caso dell’India
e dell’esperienza straordinaria di Vandana Shiva, stanno avendo un ruolo
fondamentale i movimenti delle donne. Ora, questa lotta può coinvolgere anche quei
produttori che hanno fatto della valorizzazione della qualità e delle specificità locali il
61
Vandana Shiva, Vacche sacre e mucche pazze. Il furto delle riserve alimentari globali, DeriveApprodi,
Roma, 2000, p. 30.
106
loro tratto distintivo. Anche dal punto di vista dei produttori non si tratta affatto di una
lotta rivolta al passato. Il mercato dei consumatori consapevoli che chiedono dei
prodotti di qualità – tipici, biologici, regionali, diversificati - si sta ampliando
notevolmente. Nel futuro dell’agroalimentare si profila dunque la possibilità di
ritrovare un legame col territorio andando incontro allo stesso tempo alla richiesta di
equità dei coltivatori, di sostenibilità ecologica, di garanzia per i consumatori. «La
democrazia alimentare è un imperativo»62 sostiene Vandana Shiva, in un
momento in cui una manciata di multinazionali controllano l’offerta alimentare globale
e impongono la logica della massimizzazione del profitto, dello sfruttamento e del
potere al resto della popolazione mondiale.
Da questo punto di vista democratizzare il sistema alimentare significa decentrare e
diversificare piuttosto che centralizzare e uniformare. Lottare per la democrazia
alimentare significa anche lottare per il riconoscimento di spazi per il confronto e la
discussione delle politiche agricole, delle politiche del cibo, del commercio
internazionale che non siano quelli classici del WTO e delle sue regole.
Guerre del cibo?
Vista dal sud del mondo la globalizzazione assume molto l’aspetto di una economia
di guerra continua, con molti aspetti violenti o addirittura terroristici: guerre
commerciali, imposizioni di trattati coercitivi, imposizioni di nuove tecnologie, di nuove
regole di produzione, obbligo di produrre per l’esportazione, obbligo di acquisto di
prodotti esteri, brevetti di proprietà intellettuale su beni di prima necessità ecc.
La questione dei brevetti63 in particolare ha assunto negli ultimi anni una
particolare importanza. Per esempio i semi che gli agricoltori hanno sempre utilizzato
e scambiato stanno diventando una merce brevettata e non potranno essere
accantonati e riprodotti, in questo modo fanno diventare i coltivatori completamente
dipendenti dalle industrie fornitrici di semi.
«Le leggi in materia di proprietà intellettuale – ha scritto la Shiva –
trattano i contadini che conservano le sementi ricavate dai propri raccolti alla
stregua di ladri e criminali. La globalizzazione sta plasmando un mondo in cui api,
biodiversità e agricoltori vengono definiti delle minacce, incoraggiando le “azioni
preventive” grazie alle tecnologie aggressive e ai trattati commerciali».64
-
Le armi di questa nuova forma di guerra sono evidenti:
privatizzazione e mercificazione del patrimonio naturale e dei beni comuni;
imposizione di tecnologie e di forme di produzione aggressive e costose;
imposizione di trattati commerciali;
riorientamento dal consumo locale alle richieste del mercato globale.
introduzione di brevetti di proprietà intellettuale;
liberalizzazione dei mercati e spinta all’importazione di beni stranieri.
importazione di eccedenze europee e americane sotto forma di aiuti alimentari.
militarizzazione del controllo e del commercio delle risorse e privatizzazione della
violenza.
62
Ivi p. 124.
Su questi temi si veda Vandana Shiva, Biopirateria. Il saccheggio della natura e dei saperi indigeni,
Cuen, Napoli, 1999, e della stessa autrice Campi di battaglia. Biodiversità e agricoltura industriale,
Edizioni Ambiente, Roma, 2001, Il mondo sotto brevetto, Feltrinelli, Milano, 2002.
64
Vandana Shiva, Le nuove guerre della globalizzazione. Sementi, acqua e forme di vita, Utet, Torino,
2005, p. 4.
63
107
Nei fatti
è in atto il tentativo di trasformare sistemi di produzione
sostenibili, diversificati, basati sulle capacità di autorganizzazione e
riproduzione della natura in sistemi altamente uniformi, omogenei, altamente
costosi, con un forte impatto ambientale e sociale, e centralmente controllati.
In questo modo si sottraggono ai più poveri i mezzi per la loro sopravvivenza: cibo,
acqua, ambiente. Per dare un’idea le importazioni agricole dell’India sono salite dai 50
miliardi nel 1995 ad oltre 200 nel 2000, con un incremento del 400%. La tendenza
non è dunque la maggior autonomia ma la maggiore dipendenza. L’incremento del
commercio globale non porta a migliorare la situazione di queste popolazioni ma a
peggiorarle.
Non c’è dubbio che al centro dei conflitti presenti e futuri la questione della
sovranità alimentare avrà una rilevanza fondamentale.
Conflitti di paradigmi
Abbiamo già detto che per molti aspetti oggi è in corso una lotta per
l’organizzazione del sistema agroalimentare globale. Tra gli altri, in particolare
due studiosi Tim Lang e Michale Heasman, hanno tentato di raccontare quello che
definiscono un conflitto di paradigmi.65
Secondo questi autori l’umanità è giunta ad una congiuntura critica rispetto alle
relazioni con i rifornimenti di cibo e le politiche alimentari. Le attuali “guerre del
cibo” sono lotte su come concepire il futuro del cibo e la configurazione dei mercati,
del gusto e delle menti. I cinque elementi chiave in questo confronto riguardano:
- la salute: ovvero le relazioni tra la dieta, le malattie, la nutrizione e la salute
pubblica;
- il business: ovvero il modo in cui il cibo è prodotto e gestito, dagli imput
all’agricoltura fino al consumo;
- la cultura del consumo: come, perché e dove la gente consuma il cibo e i
tentativi di controllo dei consumatori;
- l’ambiente: l’uso e il mal uso della terra, del mare e delle altre risorse naturali
quando si produce cibo; e
- la governance alimentare: ovvero come l’economia del cibo è regolata e come le
scelte di politica alimentare sono realizzate e implementate.
L’industria alimentare è un qualcosa di relativamente giovane, che si è andata
definendo attraverso numerosi aspetti. Ma oggi si registrano numerose nuove sfide: la
crescita della popolazione, l’introduzione di nuove tecnologie, in particolare le
biotecnologie, il nuovo potere di controllo delle corporations, la sfiducia della gente
verso le politiche alimentare delle istituzioni e del mercato, nuovi problemi di salute
associati con una dieta alimentare non equilibrata anche nei paesi più ricchi.
Nei fatti, secondo Lang e Heasman, oggi si confrontano tre diversi paradigmi.
Uno il “paradigma Produttivista”, coincide in sostanza con il modello attualmente
dominante nelle società occidentali e nel mercato globale che si è andato costruendo
attraverso l’industrializzazione del cibo. Si tratta di un modello che ha enfatizzato la
dimensione della quantità piuttosto che quella della qualità, promovendo monocolture
su vasta scala, l’introduzione di pesticidi e altri elementi chimici, e uno sfruttamento
intensivo della terra. Concretamente ha realizzato una crescita della produzione e
della quantità di cibo e calorie disponibili, come mai in precedenza - oggi circa 25.000
prodotti alimentari sono stivati negli scaffali dei supermercati e degli ipermercati –
nonché una spettacolare crescita dei profitti dell’industria alimentare. Allo stesso
65
Tim Lang, Michael Heasman, Food Wars. The global Battle for Mouths, Minds and Markets, Eathscan,
London, 2004, pp. 16-17.
108
tempo l’ottimismo della cultura di mercato dominante non ha attualmente grandi
ragioni d’essere poiché non ha saputo garantire una reale sicurezza e sostenibilità
alimentare. Infatti traghettando le società umane da una cultura agricolo-rurale a una
cultura del cibo urbana e di ipermercato, ha impiantato forme di produzione, di
distribuzione e di consumo globali che mostrano oggi molti elementi negativi. In
particolare:
- hanno peggiorato la qualità di molti alimenti – con una perdita di componenti
bioattivi come vitamine e minerali;
- hanno diffuso forme di alimentazione squilibrata e malsana introducendo problemi
di obesità, di malattie cardiovascolari o una diffusione del diabete;
- hanno mostrato l’impatto di nuove malattie legate alla produzione industriale del
cibo dall’agricoltura all’allevamento, come si è visto con l’epidemia della “mucca
pazza”.
- distruggendo forme locali più sostenibili di produzione e regimi alimentari e
obbligando a sottomettersi alle dinamiche del mercato globale hanno reso più
difficile l’accesso al cibo per una grande quantità di persone nel mondo;
- producendo un sistema di mercato basato sul potere delle grandi corporations
oligopoliste hanno finito col ridurre le possibilità di reale scelta per i consumatori e
le minacciare la libertà stessa dei cittadini.
- infine – non tenendo conto del funzionamento degli ecosistemi e delle loro
necessità di riproduzione – e promovendo una agricoltura basata sulle
monocolture, sulla meccanizzazione e sullo sfruttamento intensivo, sull’uso di
prodotti chimici, su circuiti larghi e una grande dipendenza dai trasporti e dal
consumo di risorse energetiche fossili, hanno determinato una seria minaccia agli
ecosistemi – suolo, foreste, mari - e alla sostenibilità ambientale.
In altre parole elementi come la salute, l’ambiente, la giustizia sociale e la democrazia
sono stati emarginati nel paradigma dominante. Soprattutto in termini di rapporti
nord-sud questo tipo di sistema ha significato un impoverimento delle possibilità di
autodeterminazione delle popolazioni del sud del mondo e una minaccia alla salute
dell’ambiente e delle persone.
Attualmente due nuovi paradigmi sono emersi a sfidare questo vecchio modo di
affrontare le politiche alimentari. Il primo viene definito da Lang e Heasman il
“paradigma delle Scienze integrate della vita” e il secondo il “paradigma ecologico
integrato”
Il “paradigma delle Scienze integrate della vita” si basa fondamentalmente
sulla rivoluzione apertasi con l’introduzione delle nuove tecnologie biologiche alla
produzione del cibo. In questo paradigma il cibo «è concepito quasi come una droga,
una soluzione a condizioni di malattia, parte di una manipolazione pianificata,
controllata e sistematica delle determinanti della salute e della malattia» (Lang,
Heasman, 2004, p. 22). Non si tratta solo dell’introduzione degli OGM, ma
l’applicazione dell’intero spettro delle biotecnologie, ovvero l’uso e la manipolazione
dei materiali viventi, nella manifattura e nella produzione dei prodotti alimentari.
Prevede una trasformazione della produzione agricola e industriale ma anche dei
rapporti tra cibo ed esseri umani. Gli OGM sono stati introdotti nel sistema globale del
cibo in una misura già determinante e le cui implicazioni sul lungo periodo e sull’intera
catena alimentare ci sono in gran parte ignote. Le coltivazioni con OGM sono crescite
dallo zero dei primi anni ’90 a oltre 50 milioni di ettari dieci anni dopo (2001), di cui il
68% nei soli Stati Uniti.
Comprende inoltre l’evoluzione di quella che viene definita “Nutrigenomics”,
genomica nutrizionale, ovvero lo studio dell’interazione tra il nutrimento e delle diete
particolari e la struttura genetica delle persone e si propone in prospettiva di fornire
degli approcci individualizzati, personalizzati all’alimentazione per curare la dieta, la
salute e ridurre il rischio di malattie.
109
Questo paradigma rappresenta un potenziamento ed un estensione del vecchio
paradigma produzionista di cui promette di risolvere i difetti e limiti in termini di
performance ma di cui non mette in discussione l’organizzazione strutturale basata su
monocolture agricole, su produzioni in larga scala e su una concentrazione di
multinazionali dell’agrobusiness che operano sul mercato globale. Ovviamente questo
indirizzo vanta dalla sua grandi investimenti economici e scientifici.
Un terzo paradigma contende il futuro ai due precedenti. Si tratta del “paradigma
ecologicamente integrato” che si fonda comunque su una scienza biologica ma con
un approccio più ecologico e meno ingegneristico. In sostanza riconosce una
dipendenza sistemica tra politiche alimentari, organizzazioni sociali e tutela
dell’ambiente, cercando di conservare e promuovere contemporaneamente la
biodiversità, le culture locali e le forme di autodeterminazione. Si basa su un idea di
autosufficienza alimentare, di coltivazioni e commerci su scala più ridotta e su l’uso di
sistemi che combinano tecnologie moderne e saperi e conoscenze tradizionali in modo
tale che comunità e ambiente si sostengano reciprocamente. Questi approcci
promuovono una agricoltura ecologica basata su cicli e rotazioni delle coltivazioni,
sulla conoscenza dei meccanismi di controllo e di prevenzione naturali contro gli insetti
e le malattie, la valorizzazione dei prodotti locali, e in generale forme di gestione più
olistica ed equilibrata dei territori e dei consumi.
Nei prossimi anni assisteremo ad un crescente confronto tra questi tre paradigmi
per ridefinire le politiche alimentari e le forme di produzioni del cibo.
110
Corso di Sociologia della comunicazione politica - a.a. 2014/2015
Verso una democrazia ecologica?
La discussione pubblica e la partecipazione politica
di fronte alla crisi ambientale
Docente: Marco Deriu
IL PICCO DEL PETROLIO E LA CRISI ENERGETICA
In un articolo dal titolo emblematico Le guerre per l'energia del XXI secolo, l'analista
Michael T. Klare, professore di studi sulla sicurezza e la pace mondiali presso
l’Hampshire College, uno dei maggiori esperti mondiali di guerre per le risorse, ha
scritto:
«L’Iraq, la Siria, la Nigeria, il Sud del Sudan, l’Ucraina, l’Est e il Sud del Mar della
Cina: ovunque si guardi, il mondo è in fiamme, con nuovi conflitti o vecchi
conflitti in via di intensificazione. A prima vista, questi sconvolgimenti sembrano
essere eventi indipendenti, guidati da proprie circostanze, uniche e peculiari. Ma
se guardiamo più da vicino notiamo come essi condividano alcune caratteristiche
fondamentali - in particolare, un infuso stregato di antagonismi etnici, religiosi e
nazionali, portato al punto di ebollizione dall’ossessione dell’Energia.
In ciascuno di questi conflitti, la lotta è guidata in gran parte dall’irrompere di
antagonismi di lunga data tra clan vicini (spesso liberamente mischiati tra di
loro), sette e popoli veri e propri. In Iraq e in Siria, si tratta di uno scontro tra
sunniti, sciiti, curdi, turcomanni e altri; in Nigeria tra musulmani, cristiani e
gruppi tribali variamente assortiti; nel Sud del Sudan tra i Dinka e i Nuer; in
Ucraina, tra lealisti ucraini e russofoni allineati con Mosca; nel Mar della Cina
orientale e meridionale, tra cinesi, giapponesi, vietnamiti, filippini e altri. Sarebbe
facile attribuire tutto ciò a odi secolari, come suggerito da molti analisti; ma
mentre tali ostilità aiutano senz’altro a indirizzare questi conflitti, essi sono
altresì alimentati da un impulso più moderno: il desiderio di controllare le risorse
petrolifere e di gas naturale di pregio. Non bisogna ingannarsi su di ciò, queste
sono guerre del XXI secolo per l'Energia».66
Oggi la questione energetica è al centro delle molteplici crisi che stiamo affrontando e
rappresenta una chiave fondamentale per interpretare la situazione economica, quella
ecologica e quella geopolitica.
Se pensiamo per esempio alle guerre condotte dagli Usa e dal fronte occidentale si
evidenzia sempre più chiaramente una connessione tra crisi energetica e nuovo
militarismo. È evidente per esempio che il petrolio iracheno costituisce una risorsa
strategica nell’attuale situazione mondiale. L’Iraq è il secondo paese al mondo per
riserve di petrolio. Tra i primi dieci grandi giacimenti mondiali due sono iracheni:
Rumaila (20 miliardi di riserve) e Kirkuk (16 mld di riserve). Non è certo un caso,
66
Michael T. Klare, Our 21st Century Energy Wars, TomDispatch.com, 9 July 2014,
http://www.countercurrents.org/klare090714.htm; trad.it.: Le guerre per l'energia del XXI secolo, Come
Don Chisciotte,http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=13648
111
come ha sottolineato Michele Paolini, (2003b, p. 149) che l’invasione dell’Iraq, la notte
del 19 marzo 2003 sia cominciata da una parte con il raid aereo su Baghdad, dall’altra
con l’invasione della zona meridionale del paese da parte delle truppe di terra e con
l’assunzione del pieno controllo dell’area di Rumaila, dove si trova il più importante
giacimento petrolifero iracheno.
Anche la questione dei Gas al centro del conflitto tra Russia e Ucraina
minaccia la sicurezza nel contesto Europeo.
Le tensioni legate alla questione energetica sono strettamente legate al fatto che il
nostro sistema economico e sociale, potremmo dire il nostro modello di benessere,
dalla produzione ai consumi, per un verso si fonda su un alto consumo di energia, ed
in più è dipendente dalle fonti fossili e non rinnovabili di energia, ed in particolare dal
petrolio.
Il World Energy Outlook dell'IEA (l'Agenzia Internazionale dell'Energia) segnala
molte fonti di preoccupazioni e il rischio che il sistema energetico mondiale deluda le
aspettative che in esso sono state riposte.
Come si legge nel rapporto:
«Nel nostro scenario centrale, la domanda mondiale di energia è attesa
aumentare del 37% al 2040, ma il trend di crescita della popolazione e
dell’economia mondiale è caratterizzato da una minore intensità energetica rispetto al
passato. L’incremento della domanda mondiale di energia rallenta sensibilmente nel
nostro scenario centrale, da una crescita media annua superiore al 2% negli ultimi
due decenni all’1% dopo il 2025; ciò è il risultato delle dinamiche dei prezzi, delle
politiche intraprese e della transizione strutturale dell’economia mondiale verso una
maggiore importanza dei servizi e dell’industria a minore intensità di consumo
energetico. La distribuzione geografica della domanda mondiale di energia
cambia ancora più radicalmente: mentre in gran parte dell’Europa, Giappone,
Corea e Nord America i consumi mostrano una sostanziale stabilità, la crescita si
concentra nel resto dell’Asia (60% del totale), in Africa, in Medio Oriente e in
America Latina. Un momento importante viene raggiunto all’inizio del decennio
2030 quando la Cina diventa il primo consumatore petrolifero mondiale
superando gli Stati Uniti, dove la domanda di petrolio diminuisce riportandosi su
livelli che non si verificavano da decenni. Ma, a partire da quel momento, i principali
motori della crescita della domanda mondiale di energia saranno India, Sudest
asiatico, Medio Oriente e Africa sub-sahariana» (OECD/IEA, 2014)
In particolare la domanda di gas naturale aumenta di oltre il 50% soprattutto
per la domanda che proviene dalla Cina e dal Medio Oriente. Ma attorno al 2030 il gas
diventerà la fonte principale nel mix energetico anche nell'area OCSE (i 34 paesi
aderenti all'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico).
La domanda di petrolio continua a muoversi lungo un trend di crescita,
passando da 90 milioni di barili al giorno (mb/g), nel 2013 a 104 mb/g nel
2040.
La popolazione mondiale consuma più di 32 miliardi di barili di petrolio
ogni anno, che è stato calcolato corrisponde ad un mare pari a oltre 4 Km2 di
superficie con una profondità di 3 metri.
Si noti inoltre che:
«Al 2040, il mix energetico mondiale si suddivide in quattro categorie di quasi egual
peso: petrolio, gas, carbone e fonti a basso contenuto di carbonio. Durante l’orizzonte
di previsione, la disponibilità fisica delle risorse non rappresenta un vincolo ma
ciascuna di queste quattro fonti su cui poggia il sistema energetico globale si trova ad
112
affrontare un diverso insieme di sfide. Le scelte politiche e gli sviluppi di mercato che
riducono la quota delle fonti fossili sulla domanda primaria di energia appena al di
sotto del 75% al 2040, non bastano per arrestare l’aumento delle emissioni di anidride
carbonica (CO2) legate all’energia, che crescono di un quinto. A causa di queste
dinamiche, il mondo continua a muoversi lungo una traiettoria coerente con
un incremento della temperatura media mondiale di lungo termine di 3.6oC. Il
Panel Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici stima che per contenere l’aumento
della temperatura entro i 2oC – obiettivo concordato a livello internazionale se si
vogliono evitare più ampie e gravi implicazioni legate al cambiamento climatico – le
emissioni mondiali di CO2 dal 2014 in poi devono mantenersi al di sotto del livello
soglia di 1.000 gigatonnellate. Nel nostro scenario centrale, questo intero ammontare
viene emesso nel periodo compreso fino al 2040. Dal momento che le emissioni non
crolleranno a zero velocemente una volta raggiunta questa soglia, risulta evidente che
il perseguimento dell’obiettivo dei 2oC richiede un’azione urgente e tale da indirizzare
il sistema energetico lungo un percorso più sicuro» (OECD/IEA, 2014)
Le tecnologie energetiche rinnovabili sono in crescita e sono sostenute da 120
miliardi di dollari di sussidi su scala globale. Nonostante questo i sussidi alle fonti
fossili, dichiara il rapporto, hanno raggiunto i 550 miliardi di dollari nel 2014,
più di quattro volte quelli elargiti a favore delle energie rinnovabili, il che
rappresenta un ostacolo enorme agli investimenti in efficienza ed in fonti rinnovabili.
Ci sono comunque una serie di questioni su cui c'è un forte dibattito. In particolare
riguardo alla disponibilità e alla durata delle riserve petrolifere e le questioni
riguardanti i costi di estrazione.
A partire dall'analisi di 1.600 giacimenti che hanno superato il picco di produzione,
la IEA stima il loro tasso medio di declino al 6% all'anno. Ciò significa che se
l'industria smettesse oggi di investire sulla ricerca e la messa in produzione di nuove
risorse, le estrazioni petrolifere mondiali precipiterebbero di circa la metà da qui al
2020.
Lo sviluppo di petroli non convenzionali – sabbie bituminose, petrolio di scisto, ecc.
- così come di liquidi del gas naturale (NGL) secondo la IEA dovrebbe permettere
nell'immediato di colmare il divario crescente fra la domanda e l'offerta di petrolio
greggio convenzionale. Tuttavia i petroli non convenzionali e i NGL sono più difficili e
costosi da produrre.
Inoltre la stessa IEA sottolinea che i pozzi petroliferi di scisto (o del substrato
roccioso) hanno un declino ben più precoce e pronunciato di quello del petrolio
convenzionale. Secondo l'agenzia ci sarà un picco della produzione di petrolio di scisto
degli Stati Uniti, nel 2025. Ma l'amministrazione Obama ha previsto questo picco nel
2020 e la segreteria generale dell'OPEC nel 2017.
L'industria petrolifera corre dunque il rischio di ritrovarsi presa in mezzo fra i costi di
produzione sempre maggiori ed una domanda che non potrà soddisfare.
La situazione mondiale è caratterizzata dal fatto che i paesi che possiedono le
maggiori riserve di petrolio e quelli che ne consumano di più non coincidono
o coincidono solo in piccola aprte.
I paesi che possiedono le maggiori riserve sono essenzialmente quelli del
Medioriente con l’Arabia Saudita che da sola possiede il 25% delle riserve mondiali
e dell’Asia (Mar Caspio, Mar Cinese meridionale). Tra i maggiori paesi produttori
troviamo oltre all’Arabia Saudita, Venezuela, Iran, Iraq, Kuwait, Emirati Arabi
Uniti, Russia, Libia, Kazakistan, Nigeria, Canada, Stati Uniti e Qatar.
Ogni area inoltre presenta migliori o peggiori caratteristiche in termini di accessibilità
e di costi di trasporto.
113
Tra i paesi che richiedono e consumano più petrolio ci sono ovviamente i paesi più
ricchi e industrializzati. Solamente Stati Uniti e Canada consumano da soli il 22,7
milioni di barili di greggio al giorno, l’Unione Europea 14,6 milioni contro i 5,3 dei
paesi del Medio Oriente, i 4,7 dell’America Latina, e i 2,6 dell’intero continente
Africano o dell’India. La Cina da sola ne consuma 7 milioni al giorno.
All’interno di questo dato si può segnalare che è soprattutto il settore dei trasporti
che determina questo dato, poiché esso assorbe da solo oltre il 60% del consumo
mondiale di petrolio. Per esempio gli Stati Uniti registrano meno del 5% della
popolazione mondiale ma i cittadini americani consumano il 43% del carburante
mondiale. Nonostante questo le vendite dei suv, che dal punto di vista del consumo,
sono un vero spreco, sono passate dal 2% del totale del parco auto nel 1985 al 25%
nel 2001. In Europa occidentale sono state vendute solamente nel 2004 oltre 14.5
milioni di automobili ovvero un auto ogni due persone.
Oltre a questo c’è il fatto che mentre l’estendersi del modello di sviluppo
occidentale, la crescita della popolazione, l’aumento della produzione e dell’uso di
automobili, determina un aumento della richiesta di energia, dall’altra parte la
disponibilità delle riserve mondiali di petrolio secondo molti osservatori va
diminuendo.
Il geofisico Marion King Hubbert fu il primo a teorizzare nel 1956 il problema del
picco di produzione del petrolio (detto picco di Hubbert).
Con Picco del petrolio (Peak Oil) si intende la stima del punto di produzione
massima in un area (un singolo giacimento, una regione, un paese o il mondo intero),
oltre il quale la produzione può soltanto diminuire.
Hubbert teorizzò che la produzione Usa avrebbe piccato attorno ai primi anni ’70 cosa
che in effetti avvenne.
Superato il picco la fonte inizia a scarseggiare e dunque a crescere rapidamente di
prezzo.
114
Secondo Colin Campbell un geologo esploratore che ha lavorato tutta la vita con
grandi compagnie petrolifere il piccolo delle scoperte di petrolio nel mondo è stato
raggiunto nel 1960 e a partire dal 1981 il mondo ha iniziato a utilizzare più risorse di
quelle che venivano scoperte nel frattempo. Alla fine degli anni ’90 Campbell stimò il
raggiungimento del picco di produzione attorno al 2006.
Rispetto alla data esatta in cui identificare il picco le stime proposte da vari studiosi e
fonti divergono. Per alcuni il picco del petrolio è già alle nostre spalle, ed è stato
raggiunto attorno al 2009. Altre stime lo collocano entro il 2020, mentre le stime più
ottimistiche arrivano fino al 2030. Tutto dipende naturalmente anche dall’andamento
del consumo. Stiamo parlando comunque di una forbice di 10-20 anni, che è un
periodo piuttosto breve per modificare la nostra struttura economica, tecnologica e
sociale.
Si tenga conto che anche una volta superata questa data gli effetti non saranno
immediatamente visibili. Più probabilmente gli effetti inizieranno ad essere
chiaramente visibili negli anni successivi, con la diminuzione dell’offerta, e
tendenzialmente la crescita (pur in un regime di ampia volatilità) dei costi del petrolio
e dei suoi derivati. Probabilmente dopo 10-15 anni la situazione e gli effetti saranno
oramai chiare ed evidenti a tutti.
Come ricorderete il petrolio ha raggiunto un massimo storico nel luglio 2008 con
pesanti conseguenze sociali, politiche ed economiche. Per un verso – a causa
dell’aumento dei costi di trasporto - ha contribuito, insieme ai problemi del
cambiamento climatico, a far accrescere ulteriormente il prezzo di alcuni beni
alimentari di base, quali riso, cereali e dunque farine e pane, innescando una serie di
rivolte per il cibo in alcuni paesi del sud del mondo (Haiti, Egitto, Tunisia, Sierra
Leone, Camerun, Burkina Faso).
In effetti la meccanizzazione dell’agricoltura (l’uso di macchinari agricoli a motore),
l’uso di pesticidi, erbicidi e fertilizzanti (derivati dal petrolio) e il costo della
distribuzione dei cereali verso i mercati ha determinato una situazione in cui un
qualsiasi aumento dei costi del petrolio fa scattare un aumento dei beni alimentari di
base. Come ha scritto Michael Klare,
«il prezzo del petrolio fa salire quello dei generi alimentari; a sua volta il rincaro
del cibo provoca disordini politici nei paesi produttori di petrolio, che di
conseguenza spingono ancora più in alto i prezzi del greggio e quindi quelli dei
generi alimentari» (Michael Klare “Il circolo vizioso”, Internazionale n. 891, 1
aprile 2011, p. 39).
Per un altro verso l’aumento del petrolio ha contribuito alla crisi economica e a far
esplodere la crisi finanziaria che ha portato alla bancarotta del 2008 negli Stati Uniti e
in Europa.
Gli effetti della scarsità influiranno sui trasporti e sul commercio internazionale che
diventerà sempre più costoso e difficoltoso innescando un sempre più evidente
fenomeno di de-globalizzazione.
Si tenga conto che attorno al picco del petrolio si concentra l’attenzione anche delle
forze militari. Sia l’esercito tedesco67 che quello statunitense hanno sviluppato scenari
relativi alle prospettive legate alla scarsità di petrolio. Nei prossimi decenni le dispute
e le guerre per il controllo sia dei luoghi di estrazione del petrolio, che delle vie di
distribuzione, sono verosimilmente destinate ad aumentare. Oltre a questo si tenga
conto che le guerre per il petrolio hanno un effetto rialzista sulle quotazioni petrolifere
di cui si approfittano i maggiori possessori di capitali.
67
http://www.spiegel.de/international/germany/0,1518,715138,00.html
115
Il tema della scarsità chiama in causa dunque i paesi con le economie più potenti,
che sembrano poco disposti a mettere in discussione i propri modelli di benessere. Per
questo la questione della scarsità delle risorse energetiche viene trattata soprattutto
come un problema strategico di accaparramento delle risorse.
In effetti, come si è capito dopo lo shock petrolifero del 1973, senza un flusso
ininterrotto di rifornimenti in petrolio e gas (e in altri prodotti collaterali) l’intera
economia delle democrazie occidentali crollerebbe e con esse i governi democratici
che dirigono questi paesi.
Nell’epoca della guerra fredda e del sogno dello sviluppo illimitato, la posta
mondiale in gioco era la competizione e il confronto con il modello comunista a cui
corrispondeva la dottrina del “contenimento”. Oggi nell’era della supremazia Usa e
dei nuovi sfidanti asiatici di fronte ai limiti dello sviluppo e alla scarsità di risorse, il
modello di sicurezza non è più il contenimento ma il controllo strategico anche
militare delle fonti energetiche. Dunque le istituzioni statali appoggiano le
compagni private nel radicarsi in questi importanti territori. Costruiscono o
contribuiscono a costruire le infrastrutture di collegamento come oleodotti o gasdotti o
canali commerciali e finanziari. A volte preparano l’insediamento con azioni militari
(vd. Afghanistan e Iraq) in altri casi garantiscono comunque le tutele politico militari
presso il potere locale. In alcuni casi le potenze preparano il contesto con molto
anticipo, predisponendo contatti strategici, accordi militari, basi o piani di intervento
verso eventuali altri soggetti in maniera preventiva.
È il caso per esempio degli accordi commerciali e delle esercitazioni militari condotte
in questi anni dagli Usa nelle repubbliche della regione del Mar Caspio –
Kazakistan, Kirghizistan, Uzbekistan, Azerbijan –che rappresentano una vasta
riserva di petrolio e gas naturale.68
Le novità degli ultimi due anni è legata però al nuovo sprint produttivo
realizzato dagli Stati Uniti e al calo del petrolio sui mercati mondiali.
Tra la fine dell'estate e l'inizio dell'autunno 2014 il prezzo del barile del petrolio è
sceso sotto i 90 dollari.
Le ragioni del calo dei prezzi petroliferi sono differenti:
- l'aumento della produzione del petrolio. Dovuto soprattutto all'aumento della
produzione degli Stati Uniti che hanno investito in estrazione dalle sabbie bituminose
in North Dakota e Texas. Attualmente la produzione americana a è quasi al livello
dell'Arabia Saudita.
Inoltre aumenta la produzione del petrolio anche in Russia e in Libia.
- lo stesso consumo di petrolio è aumentato ma meno di quello che ci si aspettava.
- infine le scelte tattiche di produttori come l'Arabia Saudita che continua a tenere
alta la produzione e basso il costo per mettere in difficoltà le produzioni statunitensi
più care o anche la produzione Iraniana. In effetti tra il gennaio 2015 e il febbraio
2015 sono fallite diverse aziende e sono state chiuse diverse strutture di trivellazione
sia negli USA che in Canada.
68
Per i particolari di queste iniziative vd. Klare, 2001.
116
Ma la novità degli ultimi anni è certamente l’atteggiamento spregiudicato della Cina
in un momento storico in cui alcuni osservatori e analisti hanno definito il XXI secolo il
“secolo cinese”. Oggi la Cina ha 1.300 milioni di abitanti e, grazie alla sua ricetta
che unisce autoritarismo politico, mancanza di libertà civile, laissez-faire
imprenditoriale, manodopera a basso costo e con scarsi diritti, nel 2005 è diventata la
quinta potenza industriale mondiale lanciando in prospettiva la sfida agli Stati Uniti
trasformando quello che era un paese sostanzialmente povero in una potenza
capitalista con una impressionante fame di materie prime e risorse. Nello stesso anno
il paese è divenuto il maggior consumatore mondiale di prodotti industriali e agricoli
del mondo. Mentre già nel 2003, grazie alla sua immagine di grande mercato in
espansione, era diventato il primo paese per la capacità di attrarre investimenti
stranieri superando gli stessi Stati Uniti. La Cina rimane comunque un paese con
grandi disuguaglianze economiche interne e grandi sacche di povertà.
In termini internazionali la Cina in questi anni ha messo in campo una grande
strategia economica e politica in tutto il mondo ed in particolare in Africa. L’impegno
cinese in Africa data fin dagli anni sessanta ma è diventato più tangibile a partire dalla
fine degli anni novanta quando circa 800 grandi imprese cinese hanno impiantato
attività significative in Africa con una serie di progetti - oltre un migliaio – che hanno
riguardato strade, ferrovie, porti, ospedali, dighe, oleodotti, reti elettriche, edilizia
pubblica e civile. Poi dai primi anni del 2000 sono stati preparati una serie di Summit
di grande impatto comunicativo realizzati con capi di stato, primi ministri e funzionari
africani in particolare nel 2003 in Etiopia e soprattutto nel 2006 quando in occasione
del “Forum per la cooperazione tra Cina e Africa (Focac) sono stati ricevuti a Pechino
dal Presidente cinese Hu Jintao 48 capi di stato e di governo africani (4-5 novembre
2006).
Gli investimenti maggiori della Cina sono stati rivolti al Sudan che oggi fornisce il
5% del fabbisogno di petrolio cinese, in Angola che con la vendita di 456 mila barili di
117
greggio al giorno copre da sola ben il 15% del fabbisogno di petrolio cinese e quindi in
Nigeria. L’Angola è diventata il principale fornitore di greggio della Cina.
Le diverse compagnie petrolifere cinesi stanno aumentando la presenza anche in
altri paesi dell’Africa. La Cnpc è impegnata in Ciad e in Etiopia, la Cnooc in Nigeria la
Sino pec in Liberia.
In Sudan la China National Petroleum Company (Cnpc), una delle principali
compagnie di stato cinesi si è assicurata fina dal 1997 la quota di maggioranza (40%)
di un consorzio la Greater Nile Petroleum Operatine Company (Gnpoc) che controlla
diversi blocchi di produzione di petrolio insieme alla proprietà dell’oleodotto di 1.540
chilometri che dal sud del paese porta il greggio fino a Port Sudan sul Mar Rosso per
commercializzarlo all’estero. È stata proprio la costruzione di questo oleodotto
finanziata in gran parte da società cinesi e conclusasi nel 1999 a trasformare il Sudan
in un reale attore nel commercio del petrolio. Nei fatti il 65% della produzione
Sudanese di greggio finisce alla Cina.
In questo contesto politici e militari delle potenze mondiali sottolineano sempre più
spesso che la sicurezza nazionale dipende dalla “stabilità” nelle regioni chiave. In
genere per stabilità si intende governi amici o che è possibile controllare o indirizzare.
Le conseguenze ecologiche e sociali legate al mercato del petrolio sono spesso
molto pesanti. Sul piano ambientale i danni derivano non solo dal consumo, per
esempio della benzina e quindi delle emissioni di CO2 e dall’effetto serra, ma anche
dall’estrazione e dallo sfruttamento, nonché dalla distribuzione. Le stesse attività di
estrazione intatti determinano una distruzione dell’ambiente circostante, esplorazioni
sismiche con dinamite, deforestazione, la contaminazione del terreno, delle acque
superficiali, estinzione delle sorgenti d’acqua, danni alla flora e alla fauna che spesso
fugge spaventata. Anche il trasporto del petrolio che richiede la costruzione di
oleodotti determina un forte impatto ambientale.
Sul piano sociale poi i danni sono ancora più immediati e visibili. Lo sfruttamento
petrolifero, quando avviene in territori abitati, può determinare tutta una serie di
violenze alla popolazione locale. Le popolazioni locali possono essere deportate e
represse, le comunità spesso sono distrutte nella loro organizzazione sociale,
ecologica ed economica. Spesso ne nascono dei conflitti violenti tra governi,
multinazionali e popolazioni indigene. È il caso per esempio degli Ogoni in Nigeria.
La Nigeria è il maggior produttore di petrolio dell’Africa e il sesto esportatore
mondiale, nonché quinto fornitore di petrolio degli Stati Uniti e membro dell’Opec.
È nota la violenza che il regime Nigeriano sponsorizzato dalla multinazionale Shell
scatenò contro la resistenza degli Ogoni, una popolazione abitante nel Delta del Niger.
Il 10 novembre 1995 il poeta Ken Saro Wiwa e di altri otto attivisti della comunità
degli Ogoni - Baribor Bera, Saturday Doobee, Nordu Eawo, Daniek Gbokoo, Barinem
Klobel, John Kpuinen, Paul Levura e Felix Nuate- furono impiccati dopo un processo
sommario condotto da un tribunale militare per fiaccare la resistenza. Il fatto suscitò
un’ampia risonanza in tutta la comunità internazionale.
Qualche anno prima, nel 1992, di fronte all’assemblea delle Nazioni Unite a
Ginevra, Ken Saro-Wiwa, aveva dichiarato:
«L’attività di estrazione di petrolio ha condotto gli Ogoni alla rovina: le terre, i
ruscelli e le insenature sono totalmente e continuamente inquinati; l’atmosfera è
avvelenata dai vapori di idrocarburi, metano, monossido di carbonio, biossido di
carbonio e fuliggine emessi dal gas che viene bruciato 24 ore al giorno da 33
anni nelle vicinanze delle abitazioni. Pioggia acida e resti petroliferi hanno
devastato la terra degli Ogoni. L’alta pressione dei condotti petroliferi attraversa
dannosamente le terre coltivabili degli Ogoni».
118
La protesta seguita alla spietata esecuzione portò all’applicazione di sanzioni
internazionali contro la Nigeria e alla sua sospensione dal Commonwealth oltre a
numerose denunce. La stessa Shell fu condannata per le sue corresponsabilità con il
regime e le sue attività di violazione dei diritti umani. Ma non dobbiamo dimenticare
che a fianco della Shell operavano e operano anche altre imprese che condividono con
la corporation americana responsabilità politiche e morali. Tra questi occorre citare
l’Eni che opera nel paese dal 1962 e che ha fatto affari con regimi di ogni genere.
Ancora oggi comunque, pur essendo cambiato il governo, le attività di estrazione e
produzione del petrolio in Nigeria continuano a essere condotte in un clima di minaccia
e violenza contro la popolazione civile e di negazione dei loro diritti. La stessa task
force costituita dal governo per assicurare ordine nella regione si è resa responsabile
di minacce, violenze e uccisioni.
Con l’aumento del prezzo del petrolio le entrate del governo nigeriano sono più che
duplicate negli ultimi anni. Nonostante questo gli abitanti del Delta non beneficiano
affatto di questo commercio e anzi rimangono prive di quello stesso petrolio.
Attualmente molti di loro sono costretti a vivere in situazione di degrado e povertà.
Negli ultimi anni la popolazione locale ha cominciato a promuovere prima atti di
vandalismo contro gli oleodotti e poi delle strategie di “bunkeraggio illegale” per
manomettere e sottrarre taniche di benzina e rivenderla al mercato nero.69
Più recentemente sono saliti alla ribalta anche movimenti politici indigeni armati e
organizzati: prima nel 2004 il Niger Delta people’s volounteer front (Ndpvf)
gruppo di etnia ijaw guidato da Mujahid Dokubo Asari, e poi in seguito al suo arresto
la maggior parte dei ribelli sono confluiti nel Movimento per l’emancipazione del
Delta del Niger (Mend) di Jomo Gbomo sempre di etnia ijaw. Questi gruppi che si
cimentano in attentati a stabilimenti petroliferi e in sequestri di tecnici e personale
delle multinazionali petrolifere insediate nel Delta hanno un’agenda più politica e
richiedono la liberazione del leader Asari, i risarcimenti per i danni ambientali e
maggiori diritti sul petrolio estratto nelle loro terre. In generale cercano di contrastare
lo sfruttamento straniero delle risorse del paese allontanando le compagnie petrolifere
dal Delta e di ottenere qualcosa di meglio per il loro popolo. «Non siamo né comunisti
né rivoluzionari – ha dichiarato Jomo Gbomo ad un giornalista – Siamo solo uomini
estremamente amareggiati».
Il caso della Nigeria è – se vogliamo – paradigmatico, ma conflitti tra governi,
multinazionali e comunità indigene si registrano in diversi paesi.
Per esempio in Bolivia diverse multinazionali quali la spagnola Maxus Repsol, la
brasiliana Petrobras, la nordamericana Chaco-Amoco, le mista Transredes (che
associa fra l’altro Shell e Enron) sono in uno stato di conflitto permanente con le
comunità indigene guaranti, weenhayek, tapiete, chiquitano e varie comunità di
contadini.
In Equador si registrano tensioni tra il Governo, le multinazionali Agip (italiana), il
consorzio CGT/ChevronTexaco e le comunità indigene Kichwa di Sayaku nella
provincia di Pastaia.
In Colombia gli interessi petroliferi dell’Occidental Petroleum nell’ambito di un
consorzio che include tra l’altro la Royal Dutch/Shell e la Ecopetrol si scontrano con i
diritti e la resistenza pacifica delle comunità U’wa che minacciano anche il suicidio di
massa se comincerà lo sfruttamento dei giacimenti. Molti locali sono stati stuprati e
assassinati dalle forze paramilitari in connivenza con le multinazionali del Petrolio. Il
69
Si veda in proposito il reportage di John Ghazvinian, “La guerra del delta”, Internazionale, n. 681, 23
febbraio 2007, pp. 32-38.
119
conflitto va avanti da 5 o 6 anni. Nel 2001 però la mobilitazione internazionale porta al
ritiro della Oxi.
In Russia ci sono conflitti tra il governo, la multinazionale Royal Dutch/Shell
(olandese e inglese), l’Exxon, British Petroleum, l’azienda Sakhalin e le minoranze
siberiane Ch’ante, Manze, Nenze, e le popolazioni autoctone delle isole Sachalin e
Kamchatka (indigeni Nivci, Nanai, Orochi, Ulchi, oltre 100.000 persone che vivono di
artigianato e allevamento delle renne) per l’estrazione di petrolio e gas e il passaggio
di oleodotti.
In Angola, l’esercito governativo si è reso responsabile di numerosi crimini – stupri,
arresti arbitrari, fucilazioni, torture – contro la popolazione della Cabinda. I Cabindi si
trovano in mezzo alla morsa dell’esercito e del movimento di liberazione UNITA.
Il petrolio poi è al centro del conflitto anche del Sudan, dove le compagnie
multinazionali quali la canadese Talisman Energy, l’austriaca ONV, la cinese National
Petroleum Corporation, la svedese Ludig, la francese Total-Elf e la Gulf Oil del Qatar si
appoggiano anche a piccoli eserciti privati per condurre vere e proprie operazioni
militari nei territori strategici.
Quali sono dunque le prospettive per sciogliere questo legame tra risorse energetiche
e conflitti?
Generalmente il dibattito pubblico attorno alla questione del consumo di petrolio e del
rapporto con le guerre contemporanee si risolve nel deprecare l’insistenza sul modello
energetico petrolifero e sulla richiesta di trovare un sucessore all’oro nero come fonte
energetica primaria. Si tratterebbe insomma di decidersi a sostituire gradualmente il
petrolio con fonti energetiche differenziate e possibilmente rinnovabili. Il problema
purtroppo non si pone in questi termini così semplici.
Innanzitutto, come ha sottolineato Renzo Stefanelli «la posizione dominante del
petrolio è stata costruita, nel ventesimo secolo, come una delle strutture dominanti.
La geopolitica del petrolio è una proiezione di questa costruzione» (Stefanelli, 2003,
pp. 7-8). In altre parole la posizione egemone del petrolio rispetto alle altre fonti di
energia si spiega anche – ovviamente non solo – in rapporto alla possibilità di
costruzione di sistemi economici molto forti e strutturati. Questo in parte dipende
dall’ampiezza del plusvalore che il mercato del petrolio permette di generare. Ma non
è solo questo. Alcuni economisti hanno sottolineato per esempio che contrariamente a
quanto avviene in altri settori, nel campo petrolifero non agiscono norme
antimonopolio e questo ha permesso quelle forme di integrazione verticale delle
società petrolifere che stabiliscono una gestione unica dal momento dell’estrazione
passando per la lavorazione e fino alla distribuzione nella stazione di benzina. E non si
tratta nemmeno di imperi solamente produttivi e commerciali ma anche finanziari che
intessono rapporti tra economia, politica e società. C’è dunque un rapporto tra lo
sviluppo di grandi oligopoli economici e lo sviluppo di una monocultura
petrolifera. Attualmente la maggior parte dei capitali sono distribuiti tra quattro
compagnie statunitensi (ExxonMobil, ChevronTexaco, Schlumberger, Phillips Petr.),
una inglese (BP), una olandese/inglese (Royal Duthc/Shell), una francese
(TotalFinaElf), una italiana Eni, una Brasiliana (Petrobras) e una Russa (Yukus).
Dall’altra parte abbiamo invece l’OPEC, l’Organizzazione dei paesi esportatori di
Petrolio fondata nel settembre del 1960 e con sede in Austria (Vienna). Ne fanno parte
Arabia Saudita, Iran, Iraq, Kuwait, Venezuela, Qatar, Indonesia, Libia,
Emirati Arabi Uniti, Algeria, Nigeria. L’Opec è nata come organizzazione al fine di
far fronte al potere dei paesi acquirenti e delle grandi compagnie multinazionali.
Gestisce gli interessi dei paesi esportatori che ne fanno parte attraverso una politica di
contingentazione delle produzioni assegnando ogni anno delle quote di produzione ad
ogni paese membro. In questo modo possono influire sul prezzo mondiale del petrolio
120
tenendolo abbastanza alto per poterne avere un certo ricavo ma non così alto da
mettere in difficoltà l’economia mondiale, o da far diminuire la domanda o da
riorientarla verso altri paesi produttori a cui l’estrazione del petrolio costa
generalmente di più (Norvegia, Messico, Usa ecc...). L’apogeo del potere dell’Opec
venne raggiunto con la crisi del 1973. All’interno del cartello ci sono paesi che
vorrebbero tenere i prezzi più alti (Iran, Venezuela e in passato anche Algeria e Libia)
e altri che invece producendone di più si accontentano di prezzi minori (Arabia
Saudita, Kuwait, Emirati Arabi Uniti).
Ci sono inoltre enormi speculazioni sulle borse petrolifere. Le più importanti piazze
sono il New York Mercantile Exchange (NYMEX), l’International Petroleum Exchange di
Londra (IPE), e il Singapore International Monetary Exchange (SIMEX) in Asia. Si
comprano e si vendono i cosiddetti “Barili di carta” (Paper barrel). In altre parole ci
sono broker che comprano dei titoli e li rivendono senza mai trattare realmente di
barili reali.
La questione della crisi energetica dunque non riguarda semplicemente un’opzione
tecnico-scientifica in direzione di altre fonti primarie ma anche la possibilità di
contrastare lo strapotere degli oligopoli petroliferi delle multinazionali (le sette sorelle)
e dei paesi esportatori sia in termini economici (ampliando e diversificando il
mercato), sia in termini scientifici (investendo sulla ricerca verso fonti rinnovabili), sia
in termini sociali (forme di consumo critico e sociale), sia in termini politici
(ridiscussione delle concezioni di benessere e delle forme di vita). D’altra parte
cambiamenti di questo genere non saranno il frutto di qualche politico illuminato. Non
sono perché nei fatti in diversi paesi – in particolare negli Stati Uniti – c’è un’oggettiva
contiguità ed in alcuni casi anche una sovrapposizione tra le élites politiche e quelle
petrolifere, non solo perché le lobby del petrolio finanziano in maniera più o meno
trasparente un insieme di referenti politici, ma anche perché nessun politico, per
quanto illuminato, potrà innescare o portare avanti da solo una politica che minaccia
di mettere in discussione a tanti livelli molti degli assetti socio-economici del proprio
paese e della comunità dei paesi venditori e compratori. È chiaro per esempio che una
diminuzione del mercato del petrolio metterebbe in ginocchio non solo i paesi del
Medio Oriente o gli Stati Uniti, ma anche paesi come il Messico e il Venezuela.
Inoltre si deve tener conto che anche altre risorse possono essere causa di conflitti.
Qualcuno dice che il gas per esempio, potrebbe diventare nel XXI° secolo quello che il
petrolio è stato negli ultimi decenni del XX°, ovvero una fonte di lucro, ma anche un
arma politica e una causa di crescenti conflitti.
Il gas è meno inquinante sia del carbone che del petrolio e da questo punto di vista
risponde anche ai limiti imposti dal protocollo di Kyoto. Inoltre è più abbondante del
petrolio. Le riserve di gas sono stimate utili per i prossimi 70 anni contro i 40 del
petrolio. Da ultimo le centrali a gas sono meno costose per esempio di quelle nucleari.
La crescita del consumo di gas in prospettiva viene stimata del 2,3% fino al 2030
contro l’1,6% del petrolio, l’1,5% del carbone lo 0,4% del nucleare. Ma per questo
sarebbero necessari nuovi investimenti. Così molte multinazionali (Shell, Exxon, BP,
Total, Chevron ed Eni) del petrolio si stanno riorientando in quella direzione.
Tuttavia, si profilano nuovi conflitti attorno a questa risorsa in connessione con la
proprietà del sottosuolo, sulle riserve, e soprattutto sulla distribuzione tramite i
gasdotti e sulla relativa condivisione dei profitti (diritti di transito). Ne abbiamo avuto
un assaggio nello scontro nel giugno del 2005 tra Russia e Ucraina sulle forniture di
Gas70. Zone calde da questo punto di vista potrebbero essere la Siberia, il Mare di
70
L’8 giugno 2005 l’azienda Russa Gazprom annuncia di voler alzare i prezzi di fornitura del
gas all’Ucraina ai livelli europei. L’azienda Ucraina minaccia in risposta di diminuire il flusso di
esportazione di gas Russo verso l’Europa. Quest’ultima infatti importa 74 miliardi di metri cubi
di gas russo che copre circa il 19% dei suoi consumi. Il 1 gennaio Gazprom taglia
121
Barens nell’artico (cui guardano Stati Uniti, Canada, Norvegia e Russia), la
Groenlandia (cui guardano Danimarca e Canada).
Insomma non è solo la fonte energetica il problema. Non basta abbandonare il petrolio
per risolvere la questione dei conflitti per le risorse energetiche.
In generale per affrontare questo problema occorre anche la crescita della
partecipazione organizzata di cittadini che in qualche modo si sentono responsabili
dell’indirizzo che andrà ad assumere il proprio futuro e che rilancino un dibattito
politico sulle grandi scelte energetiche in relazione anche ad una ridiscussione del mito
della crescita. In altre parole è necessario che il movimento di Seattle, di Porto Alegre,
di Londra, così come il movimento pacifista facciano la scelta coraggiosa di portare
avanti alcune grandi opzioni che rimettano in discussione sul serio il nodo energia,
sviluppo, controllo delle risorse, guerre. Tre sembrano le questioni, strettamente
collegate e inscindibili:
1. diminuzione degli sprechi. Alcuni specialisti delle questioni energetiche hanno
sottolineato che l’attuale sistema di produzione, distribuzione e consumo
dell’energia disperde gran parte dell’energia che produce. È necessario dunque
innanzitutto ripensare il sistema energetico non solo dal punto di vista tecnico ma
dal punto di vista organizzativo e concettuale in modo da moltiplicare le fonti di
produzione e autoproduzione, da ridurre la distanza tra luogo di produzione e luogo
di utilizzo, da limitare il più possibile gli sprechi. Un’economia dell’era postfossile – ha scritto Wolfgang Sachs (2002, p. 217) dovrà essere “leggera” in
termini di uso di risorse. Si tratterà quindi da una parte – dal punto di vista della
progettazione del prodotto – di progettare una produzione col minimo consumo di
risorse (e con materiali biodegradabili o riciclabili) e dal punto di vista del consumo
di estenderne il più possibile la resistenza e la durata. D’altra parte è importante
ridisegnare i cicli produttivi per puntare verso un sistema a circuito chiuso dove
i materiali scartati da un processo sono riutilizzati in altre produzioni o per altri usi.
Come nota Sachs si tratta di pensare ad un sistema produttivo di aziende
concepito in forma di reti ecologiche che mirano ad una produzione zero di rifiuti.
In questo modo si ridurrebbe non solo l’inquinamento e lo spreco ma anche il
prezzo complessivo da pagare.
2. riorientamento dall’uso di risorse fossili all’energia rinnovabile. Come
abbiamo detto la produzione di petrolio e di altre risorse fossili, è destinata in
tempi abbastanza rapidi (le previsioni attuali variano tra il 2010 e il 2020) a
decadere inevitabilmente. Quando la domanda inizierà a superare la disponibilità si
produrranno verosimilmente le condizioni per una maggiore conflittualità
internazionale. Si sarà spinti – per necessità - ad investire in risorse alternative e
in altre tecnologie; ma prima che queste siano messe a punto e che il sistema
energetico e produttivo si riorienti passerà evidentemente del tempo (le previsioni
non proprio ottimistiche dell’Agenzia Internazionale per l’Energia, stimano la
predominanza del petrolio per almeno altri tre decenni). Da questo punto di vista
prima si sceglierà di investire nella ricerca e nella produzione di energia da fonti
rinnovabili – per esempio l’idrogeno e il solare, ma anche le biomasse, la
geotermia, l’energia eolica e quella idroelettrica - e più si contribuirà a
prevenire nuove guerre nei prossimi anni. Naturalmente più crescerà la richiesta di
questo tipo di energia alternativa da parte dei cittadini e più il sistema politico,
quello economico e quello scientifico saranno spinti a investire in quella direzione.
Allo stato attuale nel nostro paese e, in generale, in Europa e negli Usa non
sembra essere maturata una cultura pubblica che spinga in questa direzione.
Alcune nazioni, d’altra parte, in particolare l’Islanda, hanno già scelto di investire
l’approvvigionamento all’Ucraina e quadruplica il prezzo del gas. Dopo una trattativa segreta
alla fine si arriva ad un accordo, pare favorevole ai russi.
122
molte risorse nella produzione di idrogeno tramite elettrolisi e punta a diventare un
paese d’avanguardia in questo settore.
3. rimessa in discussione dell'obiettivo della crescita e reinvenzione di un
benessere sostenibile. Il problema tuttavia non è riducibile semplicemente alla
sostituzione di fonti energetiche primarie per assicurare i medesimi usi finali. Il
problema dell’inquinamento e dell’impatto ambientale e sociale, ci deve portare a
rimettere in discussione anche gli usi finali. Per esempio noi possiamo anche
mettere sul mercato le auto all’idrogeno in modo da non dipendere dal petrolio e
da ridurre le emissioni inquinanti (sempre che l’evoluzione tecnologica riesca a
risolvere i problemi strutturali connessi ai primi prototipi di auto ad idrogeno), ma
questo non elimina né il problema dell’impatto dell’industria produttiva di
automobili, ne il problema della congestione del traffico nelle nostre città. Un
progetto di mobilità sostenibile non è legato solo alla sostituzione delle fonti
energetiche primarie ma anche ad una generale riduzione dei consumi, da
quelle domestici a quelli legati alla mobilità. Da questo punto di vista si tratta
rimettere in discussione il mito della crescita per la crescita e inventare forme di
benessere sociale, economico e politico che non siano dipendenti dalla crescita
costante ovvero dal progetto dello sviluppo illimitato. Dobbiamo non puntare a far
produrre di più la terra ma a godere di più di quello che possiamo avere sia dal
punto di vista naturale che sociale. Si tratta per esempio di diminuire il nesso tra
godimento di un bene e suo possesso, ovvero di moltiplicare gli usi sociali collettivi,
o basati sullo scambio, passare da una vendita di beni ad un’offerta di servizi. Più
in generale sarà importante ridefinire culturalmente il benessere in senso di tempo
e significati relazionali, sociali ed esistenziali più che in termini di reddito
individuale e di “cose” possedute. In conclusione, la ridiscussione sui modelli di
benessere e sull’orientamento delle nostre società dovrebbe portare non soltanto
a modificare l’offerta di energia ma anche – aspetto altrettanto importante
– la domanda iniziale attraverso la riduzione dei consumi.
123
Corso di Sociologia della comunicazione politica - a.a. 2014/2015
Verso una democrazia ecologica?
La discussione pubblica e la partecipazione politica
di fronte alla crisi ambientale
Docente: Marco Deriu
DINIEGO, RESISTENZA, TRASFORMAZIONE: EMERGENZE
AMBIENTALI E LA COMUNICAZIONE DEL CAMBIAMENTO
Oggi ci troviamo al centro di una serie di crisi convergenti.
Il cambiamento climatico e il riscaldamento globale.
Il sovrasfruttamento crescente, l’esaurimento delle risorse e l’aumento dei
conflitti attorno alle materie prime (acqua, cibo, petrolio, minerali, legno).
Il degrado degli ecosistemi, l’inquinamento dell’aria, dell’acqua, la
deforestazione, la desertificazione.
L’aumento massiccio della popolazione e l’urbanizzazione con un impatto
crescente nell’ecosistema planetario
Una perdita significativa della biodiversità (sesta estinzione delle specie).
L'aumento della disuguaglianza e i nuovi conflitti ambientali.
Ora vorrei proporvi due questioni attorno a cui ragionare:
1) se il momento è grave perché si continua a comportarsi come se nulla fosse?
2) dal punto di vista di chi si occupa di informazione, comunicazione, divulgazione
scientifica, qual è il modo migliore per accrescere la sensibilità su questi temi?
Partiamo dalla prima di queste questioni.
1) PAURA, RISCHI E OPPORTUNITÀ DI CAMBIAMENTO
Nonostante la gravità di queste sfide abbiamo l’impressione che tutto continui nello
stesso modo. Se il nostro futuro è minacciato da dove viene la resistenza al
cambiamento? Perché non interveniamo?
Nel provare a rispondere prendo spunto da alcune delle riflessioni che ha condotto
Jared Diamond nella sua opera Collasso 71 ma allargo contemporaneamente il campo
in diverse direzioni.
a) Non stiamo prevedendo in maniera sufficiente il sopraggiungere del
problema, perché non disponiamo delle conoscenze scientifiche adeguate per
identificare i rischi o le conseguenze di un semplice comportamento.
71
Jared Diamond, in Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere (Einaudi, Torino, 2005)
ipotizza avanza diverse ipotesi per cui un gruppo possa anche non riuscire ad affrontare o risolvere simili
problemi ecologici. In primo luogo, la società in questione può non prevedere il sopraggiungere del
problema; in secondo luogo tale società può non riconoscere la stessa presenza di una situazione critica;
in terzo luogo, può essere che questa società riconosca effettivamente l’esistenza di un problema, ma non
trovi il coraggio o l’autorità per affrontarlo o risolverlo;da ultimo, può essere che la società cerchi
effettivamente di affrontare e risolvere il problema, ma che la soluzione rimanga al di là delle attuali
possibilità.
124
b) vediamo il problema ma non è chiara la presenza di una situazione critica,
o perché gli effetti esteriori non sono immediatamente manifesti o perché tali
effetti si nascondono dentro ampie fluttuazioni temporali, o semplicemente perché
il peggioramento è progressivo e non brusco, dunque senza strumenti e forme di
registrazione diventa difficile riconoscere la portata del cambiamento del paesaggio
attorno a sé.
c) le conoscenze scientifiche ci sono ma c’è un problema di disinformazione.
Si può riconoscere il ruolo problematico giocato dai mass media (Tv e Giornali) che
spesso riproducono il punto di vista dei detentori del capitale, delle grandi industrie
e corporation, o dei partiti tradizionali e ritardano la presa di coscienza della
situazione.
d) le conoscenze scientifiche ci sono, l'informazione è sufficiente ma c’è un
problema di cinismo e di interessi contrapposti, ovvero agisce una sorta di
egoismo generazionale, etnico e sociale.. è in atto un conflitto, uno scontro tra
interessi contrapposti tra le elites globali che ottengono profitti e benefici
nell’immediato, scaricando i costi lontano nel tempo e nello spazio e le popolazioni
locali. Questo conflitto d’altra parte può attraversare anche noi stessi. Le nostre
scelte come consumatori spesso contrastano con le rivendicazioni che portiamo
avanti come cittadini.
e) Nonostante le conoscenze scientifiche, e la crescita della consapevolezza, e
nonostante sia immaginabile un percorso seppur faticoso di cambiamento
c’è un problema di mancanza di autorità pubbliche e di leadership
credibili. Si tratti di governi, di partiti, di sindacati, di chiese, non c’è una presa di
parola pubblica forte, non c'è un'autorità morale sufficiente, capace di rendere
credibili alcune lotte politiche. Si può vedere anche un limite rappresentato dagli
orizzonti temporali insiti nelle forme della democrazia rappresentativa diffusa nella
maggior parte dei paesi occidentali. Le ricerche in proposito hanno sottolineato che
gli orizzonti temporali dei politici sono in media attorno a 3-4 mesi, al massimo il
periodo di un’elezione. Troppo brevi comunque per preoccuparsi di cambiamenti
epocali.
f) C’è un problema di diniego che deriva dall'eccesso di confidenza nella
propria civiltà ovvero nelle tecnologie e nelle capacità tecniche. Ovvero
l’opinione pubblica ha una sorta di rimozione connessa con l’angoscia che gli deriva
dalla gravità della situazione e la necessità di un cambiamento radicale. La stessa
ideologia del progresso ci rende increduli di fronte alla prospettiva di una possibile
crisi della nostra civiltà. Ci fa credere che il nostro livello di sviluppo e di benessere
non possa che procedere e migliorare indefinitivamente.
g) C'è consapevolezza, informazione, senso delle proporzioni e senso di
responsabilità, ma c'è un'oggettiva difficoltà dovuta alla scarsa resilienza,
ovvero la dipendenza dal sistema tecno-economico in cui viviamo. In altre
parole siamo coscienti della situazione in cui ci troviamo ma non sappiamo come
sciogliere una forma di dipendenza da un sistema tecno-industriale e da un sistema
di consumi che riteniamo negativo e mortifero ma al quale ci siamo di fatti abituati
e che ci fornisce una parvenza di sicurezza e appagamento.
h) Anche se ci proviamo la soluzione potrebbe rimanere al di là delle attuali
possibilità tecniche, economiche, sociali e politiche.
Un problema di diniego/angoscia
C’è un problema su cui probabilmente non siamo abituati a pensare e che
condividiamo con sistemi politici molto diversi dal nostro. Si può ricordare per esempio
la storia di quel Nazista al quale al processo di Norimberga fu chiesto: «Sapevi che
125
cosa succedeva nei campi di sterminio?». Al che egli rispose: «No, non lo sapevo, ma
avrei potuto saperlo».72 In quel tempo verbale - un condizionale, per giunta al passato
- che indica una consapevolezza potenziale ma che tale rimane, sta, come si può
comprendere, anche il nostro problema attuale.
A questo proposito risulta particolarmente interessante il lavoro di Stanley Cohen
intitolato Stati di negazione.73 Cohen che ha conosciuto da vicino l’Apartheid in Sud
Africa e l’oppressione israeliana ai danni dei Palestinesi, approfondisce in questo
lavoro il concetto di “diniego”, indicandolo come quello stato limite tra sapere e non
sapere che permette ai cittadini che appartengono ad un regime oppressivo di non
vedere e di non sentirsi responsabili degli atti commessi sotto il loro sguardo. Cohen ci
racconta il funzionamento di questi atteggiamenti di diniego di fronte ad una realtà
dolorosa e umiliante e perciò difficile da riconoscere e affrontare: «Il diniego può non
essere questione né di dire la verità, né di mentire intenzionalmente. L’affermazione
non è del tutto deliberata e lo status di “conoscenza” della verità non è del tutto
chiaro. Sembrano esistere stati mentali, o, addirittura, intere culture, in cui noi
sappiamo e allo stesso tempo non sappiamo. [….] I gruppi dominanti sembrano
misteriosamente capaci di escludere o ignorare l’ingiustizia e la sofferenza che li
circonda».74 Questo genere di diniego non è una specialità dei soli regimi dittatoriali o
autoritari sopra richiamati. Al contrario dovremmo provare a pensare che questo
genere di comportamento è piuttosto diffuso anche tra i cittadini delle democrazie
occidentali, e del nostro stesso paese: «In società più democratiche, la gente non
esclude i risultati per coercizione, ma per abitudine culturale».75
Da questo punto di vista dovremmo farci una sola, semplice domanda: che spazio
ha nella nostra coscienza la sofferenza altrui, la sofferenza che provochiamo con il
nostro sistema di vita, con il nostro dominio economico, con le nostre azioni politicomilitari, con la nostra lotta al terrorismo?
La dimensione più inquietante del sistema politico e sociale in cui viviamo è legata
al fatto che nella nostra testa non c’è spazio per ospitare il dolore che provochiamo nel
mondo. Non vogliamo vedere l’orrore con cui siamo imparentati ogni giorno. Anche
per noi vale quello che disse un teologo protestante, W.A. Visser’t Hooft, all’indomani
dell’Olocausto: «è possibile vivere in una luce crepuscolare tra il sapere e il non
sapere».
Provare a riconoscere che non si tratta di semplice manipolazione ma anche in
parte di un’adesione volontaria ad una “narrazione ufficiale” significa osservare le
forme di rimozione della sofferenza dell’altro, della morte, del dolore presenti fra di
noi, nei nostri concittadini e certamente – almeno in parte – anche in noi stessi.
Tutti noi sappiamo nel nostro inconscio che non possiamo vivere in uno stato di
consapevolezza continua delle responsabilità che abbiamo, dunque piuttosto che
rimanere in un conflitto con noi stessi a affrontare un senso di colpa e di impotenza è
più semplice in qualche modo identificarsi con la visione “ufficiale” e con il
comportamento della potenza dominante. Come intuì Bruno Bettelheim riflettendo sul
diniego dei tedeschi di fronte alla spiacevole realtà dei campi di concentramento, la
“legge” che si può desumere in questi casi è che l’intensità della negazione è la
contropartita esatta del grado e della profondità dell’angoscia prodotti dalla negazione
72
La storia è riportata da Gregory Bateson nello scritto “Paradigmatic Conservatism” contenuto
nel volume di Carol Wilder-Mott & John H. Weakland, Rigor & Imagination. Essays from the
legacy of Gregory Bateson, Prager, New York, 1981, p. 355.
73
Stanley Cohen, Stati di negazione. La rimozione del dolore nella società contemporanea,
Carocci, Roma, 2002.
74
Ivi, pp. 27-28.
75
Ivi, p. 28.
126
stessa.76 L’assunzione e l’interiorizzazione del punto di vista dominante per un verso
regala un senso di maggiore tranquillità ed integrazione interiore, ma d’altra parte
comporta una perdita fortissima sul piano dell’autonomia e a livello più inconscio
dell’autostima.
Il termine “diniego” o “denegazione” in origine era stato introdotto da Sigmunt
Freud e fu ripreso da diversi psicoanalisti secondo differenti punti di vista. Melanie
Klein per esempio sosteneva che l’origine del meccanismo di diniego riguardava
anzitutto un tentativo di difendersi dall’angoscia più profonda e opprimente, quella
costituita dai propri persecutori interiorizzati. Secondo Klein dunque, la denegazione
originaria è quella verso la propria realtà psichica. Solo in seguito a questo l’individuo
può procedere a denegare quantità più o meno rilevanti della realtà esterna. A me
sembra che tra i due livelli ci sia una relazione e un’influenza reciproca e costante. Si
negano realtà esterne per non affrontare le emozioni e le esperienze interiori che esse
ci provocano, e si negano le emozioni e i vissuti interiori per non affrontare le realtà
esterne.
Questa riluttanza si può articolare in diversi livelli:
- si può negare che un certo genere di problemi (cambiamento climatico,
esaurimento delle risorse, estinzione delle specie, rischi nucleari ecc…) siano
presenti.
- si può negare che – seppure esistano - siano causati dal comportamento umano,
ovvero che si tratti di fenomeni naturali.
- si può riconoscere qualche fondamento alle notizie ma negare che quello che sta
succedendo sia veramente così grave: si tratterebbe solo di qualche eccesso, di
qualche comportamento eticamente sbagliato, ma nulla che non possa essere
modificato e riportato sulla giusta via;
- si può negare che queste problemi siano causati dal proprio paese, dalla propria
società:
- si può negare che questi problemi siano causati dai propri stili di vita, dai propri
comportamenti e proiettarne la responsabilità solo su alcune specifiche categorie
(le multinazionali, i ricchi, i capitalisti, ecc.);
- si possono accettare certe notizie ma sostenere che tutto quello che sta
succedendo è fondamentalmente inevitabile, un sottoprodotto del progresso e
della crescita, e come tale dev’essere accettato.;
- infine si può credere alle notizie ma reprimere il più possibile la conoscenza e la
consapevolezza di quei fatti e delle scelte o dei comportamenti che porterebbero
a mettere in discussioni le proprie abitudini e a camminare in una direzione
diversa.
Bertrand Méheust ha scritto un libro La politique de l’oximore,77 in cui mette in
rapporto la questione ecologica con la proliferazione attuale delle formule di ossimori:
sviluppo sostenibile, crescita negativa, flexicurità, moralizzazione del capitalismo,
finanza etica ecc… La sua tesi di fondo è questa: «Un universo mentale cerca sempre
di perseverare nel suo essere e non rinuncia mai autonomamente a se stesso, se delle
forze esteriori considerabili non lo costringono» (Méheust, 2009 p. 27). Dunque
probabilmente c'è un problema di resistenza al cambiamento ma anche di dipendenza
materiale e immateriale. Proviamo dunque ad interpretare questo problema della
dipendenza, nelle varie forme che può assumere nella nostra situazione.
76
Bruno Bettelheim, Il cuore vigile. Autonomia individuale e società di massa, Adelphi, Milano, 1998, p.
334.
77
Bertrand Méheust, La politique de l’oximore, La découverte, Paris, 2009.
127
Un problema di dipendenza
Il salto di coscienza difficile a questo punto è quello di riconoscere che tutti noi siamo
parte di questo modo di pensare patologico: individualista, dualista, finalista,
economicista, arrogante, potenzialmente autodistruttivo. Se non capiamo questo, il
rischio – potremmo dire il destino – sarà quello per cui ogni volta che crediamo di fare
qualcosa di nuovo, di alternativo, di riparativo per curare quel sintomo, in realtà
riproduciamo sotto altra forma (anzi spesso in forma più sottile ed insidiosa) le
premesse sbagliate che hanno condotto alla crisi. Gran parte dei nostri interventi e
delle nostre soluzioni, delle nostre risposte di emergenza entrano a far parte del
problema e lo rinforzano in un modo che non riusciamo a riconoscere. Come ha notato
Gregory Bateson:
«Il paradigma è questo: curare il sintomo in modo da rendere il mondo
confortevole per la patologia. In realtà è ancora peggio di così, perché
scrutiamo anche il futuro e cerchiamo di scorgere sintomi e disagi che verranno.
Prevediamo gli intasamenti sulle autostrade e mediante appalti statali invitiamo
le imprese ad allargare le strade perché possano contenere automobili che ancora
non esistono. In questo modo milioni di dollari vengono impegnati in ipotesi di
futuri aumenti di patologia.
Dunque il medico che si concentra sui sintomi rischia di proteggere o
incoraggiare la patologia di cui i sintomi fanno parte» (Bateson 1997, p. 441).
L’effetto più perverso di questo sistema è stato di suscitare una forma di
adattamento alla patologia. L’inquinamento, i mutamenti climatici, la crescita e la
colpevolizzazione degli esclusi, le guerre per le risorse stanno diventando un
paesaggio consueto a cui ci abituiamo passivamente senza modificare i nostri
comportamenti e gli assetti di fondo della nostra società.
Già nel 1971, nel saggio “Il pianeta malato” Guy Debord, scriveva a questo
proposito:
«Una società sempre più malata, ma sempre più potente, ha concretamente
ricreato dappertutto il mondo come ambiente e scenario della sua malattia, come
pianeta malato» (Debord, 2007, pp. 53-54).
Una parte dei discorsi pseudo-ambientalisti che oggi sentiamo pronunciare da
politici e tecnocrati non fa altro che trasformare il mondo intero in un ospedale
globale in cui si interviene emergenza dopo emergenza, per tentare di rattoppare i
disastri prodotti dalle performance economiche dello sviluppo.
Come rispondere allora ai problemi ecologici e sociali che abbiamo di
fronte?
Si tratta in primo luogo di attribuire ai fenomeni di crisi che abbiamo sotto gli occhi
un significato sistemico. Il problema non è il sintomo che riusciamo a
riconoscere facilmente, il problema piuttosto è il disequilibrio che ne è causa.
In questo senso è la “normalità” che precede queste “crisi” che bisogna
interrogare.
Da un certo punto di vista si tratta di lavorare per un intervento correttivo ad un
livello più ampio. Naturalmente questa correzione è molto più difficile perché:
a) non solo richiede di esaminare “zone di pertinenza” più vaste; e anzi
b) richiede il cambiamento di mentalità e comportamenti appresi che in
quanto profondamente interiorizzati non riconosciamo come “negativi”; e
anzi
128
c) tali attitudini fanno parte del nostro “adattamento”, dunque ci appaiono
abitudini “naturali” se non fattori “indispensabili” di sopravvivenza.
Insomma si tratta proprio di procedere a mettere in dubbio ciò che è ovvio e che è
indispensabile (non solo ci appare come tale, ma in un dato contesto è effettivamente
tale).
Si comprende dunque l’estrema difficoltà, il “pasticcio” dentro a cui ci siamo infilati.
Un altro modo per esprimere questa situazione è che nella situazione attuale per
avere una reale prospettiva è assolutamente indispensabile un profondo
cambiamento, ma d’altra parte sul breve periodo tale cambiamento non può che
presentarsi come estremamente doloroso se non come una vera e propria piaga. Per
tornare a Bateson:
«l’inverso della “formazione delle abitudini” cioè la distruzione di
informazioni programmate rigidamente, e una forma di apprendimento che
probabilmente è sempre difficile e dolorosa e che, quando non riesce, può essere
patogenica» (Bateson 1997, p. 228)
Queste riflessioni di Gregory Bateson ci incoraggiano a guardare le cose da un altro
punto di vista, a rovesciare le nostre certezze più consolidate. Ma poi cambiare non
è facile, agire non è scontato, e per muoversi bisogna mostrare molta saggezza.
Forse conviene procedere ulteriormente nella comprensione “formale” dei paradossi
sociali in cui siamo coinvolti
Adattamento, assuefazione e dipendenza
A questo proposito, penso valga la pena richiamare la storia della farfalla Breadand-butter-fly di Lewis Carrol che piaceva molto anche a Gregory Bateson:
«“Eccola lì che sta zampettando vicino ai tuoi piedi,” disse la Zanzara (alice tirò
indietro i piedi, un po’ allarmata) “la Farfalla-Pane-e-Burro. Le sue ali sono fettine
sottilissime di pane spalmate col burro, il corpo è un pezzo di crosta, e la testa è
una zolletta di zucchero”.
“E di cosa si nutre?”
“Di tè leggere con panna”.
Venne in mente ad Alice una difficoltà imprevista. “E se non lo trova?” Chiese.
Allora muore, naturalmente”.
Ma è una cosa che le deve capitare assai spesso” osservò Alice, pensierosa.
“Le capita sempre” rispose la Zanzara.
Dopo di che, Alice restò zitta per un paio di minuti, soprappensiero…».
«Se ci domandiamo di che cosa sia morta la Bread-and-butter-fly – commenta
Gregory Bateson -, siamo costretti a rispondere che è morta di un doppio vincolo.
Non dei particolari traumi dovuti a una scelta sciolta nel tè leggero e neppure
d’inedia, bensì dell’impossibilità di un adattamento contraddittorio.
Probabilmente i dinosauri si trovarono imprigionati in qualche vincolo cieco
evolutivo di natura simile. E c’è una grande probabilità che noi stessi ci
estinguiamo per l’impossibilità di adattarci alla pace e a una tecnologia povera»
(Bateson, 1997, p. 333)
Quello che Bateson cerca di suggerirci dunque è che adattamento e
assuefazione sono fenomeni molto collegati tra loro. In un certo senso l’uno è la
129
conseguenza dell’altro. Un prolungato adattamento tanto più si estende e si radica si
trasforma in qualche misura in un’assuefazione. Ora fino ad un certo punto
l’adattamento rappresenta la risposta migliore a condizioni date e ad un certo tipo di
ambiente. Quando tuttavia si verificano mutamenti ambientali o quando le nostre
abitudini prendono a erodere le fondamenta ambientali su cui abbiamo edificato le
nostre sicurezze ci troviamo all’improvviso in un bell’impiccio. La nostra capacità
tecnica di sfruttare al massimo le risorse naturali e sociali, di costruire un sistema di
produzione, di consumo e di benessere sempre più strutturato finisce col modificare le
più generali condizioni ambientali e a minacciare le nostre stesse condizioni di
sopravvivenza. In sintesi: un’adattamento eccessivo si tradice in un’assuefazione e
quest’ultima stabilisce delle condizioni di “rigidità” che la trasforma all’improvviso
in un ostacolo al cambiamento richiesto dalle mutate condizioni ambientali.
«È indubbio – ha scritto Nicholas Georgescu-Roegen – che l’attuale
processo di crescita deve giungere a un termine, anzi, rovesciarsi. Ma chiunque
creda di poter stilare un programma per la salvezza ecologica della specie umana
non comprende la natura dell’evoluzione, e nemmeno della storia: essa consiste
in una lotta permanente sotto forme sempre diverse, non in un processo fisicochimico prevedibile e controllabile, come far bollire un uovo o lanciare un razzo
sulla Luna» (Georgescu-Roegen, 1998, p. 74).
Come ha ben argomentato il bioeconomista rumeno, al contrario di tutte le altre
specie viventi che utilizzano solo strumenti endosomatici78 (zampe, artigli, ali
ecc…), la specie umana ha trasceso i suoi limiti corporei evolvendosi attraverso
un’ampia gamma di strumenti esosomatici (prodotti dall’uomo stesso al di fuori
del proprio corpo), dal coltello ai satelliti, dalle macchine agli aerei, dal telefono ai
computer. Pian piano l’essere umano si è assuefatto a questa congerie di strumenti,
tanto che essi sono diventati una specie di prolungamento biologico di se stesso, o se
vogliamo il suo nuovo ambiente di vita. E questa evoluzione esosomatica - nota
Georgescu-Roegen – è un fenomeno in gran parte irreversibile, simile a quello del
pesce volante, assuefattosi all’atmosfera e trasformatosi in uccello. Non è affatto
semplice liberarsi a questo punto da questa dipendenza. L’intera organizzazione
sociale riposa su questi strumenti, molto più di quanto non siamo disposti a
riconoscere. Nei fatti esiste a questo proposito una legge di ereditarietà affine a quella
esistente in campo biologico, ovvero ogni generazione eredita la struttura esosomatica
di quella precedente (Georgescu-Roegen, 2003, p. 75). Data questa condizione il
problema che dobbiamo affrontare non è solo biologico e tanto meno solamente
economico, ma precisamente “bioeconomico”. In questo senso possiamo solamente
intuire che abbiamo di fronte un problema assai complesso e di difficile risoluzione. La
situazione in cui ci troviamo è una tipica situazione di retroazione di cui troviamo una
descrizione molto acuta di Edgar Morin:
«L’uomo è diventato l’asservitore globale della biosfera, ma con ciò stesso si è
trovato asservito. È diventato l’iperparassita del mondo vivente e, minacciando di
disintegrare l’eco-organizzazione nella quale vive, minaccia così anche la sua
sopravvivenza, proprio perché parassita. Possiamo spingerci ben più in là. Non
soltanto lo sviluppo della nostra indipendenza antropo-sociale ci rende dipendenti
dagli eco-sistemi in forme sempre più profonde, ma – sempre maggiormente –
diventiamo sempre più dipendenti dal nostro strumento di indipendenza:
l’organizzazione tecnologica che si è costituita nelle macchine artificiali, per opera
78
La distinzione tra organi esosomatici e organi endosomatici ripresa da Georgescu-Roegen è
originariamente di Alfred J. Lotka.
130
e a vantaggio di queste, e che ormai retroagisce sui macchinatori e sui
macchinisti» (Edgar Morin, 2004, p. 85).
In altre parole noi siamo chiamati a mettere in discussione molte delle
certezze sulle quali noi tutti siamo cresciuti, siamo stati educati, sulle quali
abbiamo costruito un nostro adattamento ecologico e sociale, per quanto perverso.
Tutti siamo plasmati ad un livello più o meno cosciente dall’immaginario economico
moderno. Come hanno notato Miguel Benasayag e Gerard Schmit:
«Nell’economicismo il mondo divenuto merce, che è un prodotto degli uomini
produce a sua volta un tipo d’uomo e di vita inseparabili dagli oggetti economici.
Come non esiste l’individuo, che è una costruzione immaginaria che tenta di
sostituirsi alla persona, non esiste nemmeno un essere umano astratto che
contempli dall’esterno, dall’alto della sua purezza, lo sviluppo del mondo merce»
(Benasayag, Schmit, 2004, pp. 124-125).
Da questo punto di vista è fondamentale capire che qualsiasi tentativo di
descrizione e comprensione, implica anche una riflessione sull’osservatore e sulle
premesse culturali e cognitive dalle quali questi prende le mosse.
Quello che ci sentiamo di suggerire, dunque, è che l’accesso ad una realtà
alternativa, ad un epoca di “doposviluppo”, di "post-crescita" o a una società
di “decrescita”, comunque la vogliamo chiamare, sarà molto più simile ad un
processo di disapprendimento e di disintossicazione che alla realizzazione di
un progetto razionale. Ci si deve disabituare a una forma di vita diversa in termini
materiali, mentali e psicologici.
La società della crescita, infatti, si presenta oggi attraverso diverse dimensioni di
adattamento/dipendenza:
-
Una dimensione di adattamento/dipendenza politica. Il benessere dello
sviluppo non è un dato oggettivo ma piuttosto “posizionale”, si misura in rapporto
a quelli che stanno meglio o peggio. Il consenso politico nelle società fondate sulla
crescita è legato alla promessa di un miglioramento del proprio status
socioeconomico. Il successo dello sviluppo si basa sull’idea che prima o poi tutti
raggiungeranno il tenore di vita di quelli che stanno meglio. Da questo punto di
vista la decrescita non è un obiettivo politico attraente. A meno che non si riesca a
far emergere la dimensione di liberazione implicita in questa proposta.
-
Una dimensione di adattamento/dipendenza materiale dal punto di vista
tecnologico, economico, organizzativo. È evidente che l’intera organizzazione
materiale attorno a noi risponde alle logiche di una società di crescita. Il
cambiamento delle abitudini si deve confrontare con le resistenze e con i limiti
concreti posti dall’organizzazione tecnico materiale. Ma anche con il fatto che
dipendiamo da un ampio spettro di risorse minerali sottoposte oramai ad un
regime di scarsità.
-
Una dimensione di adattamento/dipendenza simbolico-antropologica.
Senza l’idea di progresso, sviluppo e crescita si genera in noi un’angoscia del
vuoto. Nella maggioranza delle persone in Occidente c’è una forma di difesa
rispetto all’idea di sviluppo nonostante le sue contraddizioni e i suoi risultati,
dovuta alla paura di abbandonare un riferimento ideale per quale si è tanto
impegnato, si è tanto lottato, si è tanto sacrificato. Abbandonare il mito dello
sviluppo significa confrontarsi con il senso di vuoto, di spaesamento, di mancanza
di prospettiva.
131
-
Una dimensione di adattamento/dipendenza psicologica e sociale. Il
consumo è anche un bisogno emotivo, relazionale, identitario; gli oggetti che
compriamo sono appendici dell’io dell’uomo moderno. Ci rinforzano nel nostro
senso di identità. Noi ci costruiamo una certa immagine di noi stessi, anche sulla
base di ciò che compriamo: vestiamo, indossiamo, mangiamo, usiamo ecc.
Dobbiamo riconoscere che questo è un tratto assolutamente comune a tutti noi.
Solamente che alcuni lo fanno in riferimento a vestiti o alle auto, altri lo fanno in
riferimento a libri, a cd, piuttosto che a quadri.
Vedete come ci sono differenti livelli di dipendenza/adattamento ognuno dei quali
difficile da affrontare e superare.
Qui si trova il rompicapo – il “doppio vincolo”, direbbe Bateson - dentro al
quale siamo tutti presi: la dipendenza è l’altra faccia dell’adattamento. Non
possiamo sciogliere questa dipendenza se non affrontando il problema
dell’adattamento. Un adattamento che per molti versi è stato comprensibile e
ragionevole, ma che oggi è diventato sempre più nevrotico e patogeno ed assume
sempre di più il carattere di un’assuefazione tossica.
«In chiusura, è d’obbligo raccomandare la prudenza. Avendo capito che la
crescita è difficile da realizzare proprio là dove più serve, non dobbiamo essere
indotti a credere che il desviluppo sia una questione semplice. Se il problema
dell’accumulazione è stato il più grande rompicapo dei pianificatori, la
deaccumulazione potrebbe rivelarsi un rompicapo persino maggiore»
(Georgescu-Roegen, 2003, p. 126).
O per dirla nuovamente con le parole di Ivan Illich,
«La disassuefazione dallo sviluppo sarà dolorosa. Lo sarà per la generazione di
passaggio, e soprattutto per i più intossicati tra i suoi membri. Possa il ricordo di
tali sofferenze preservare dai nostri errori le generazioni future» (Illich, 1993, p.
109)
La questione su cui oggi è fondamentale riflettere è come sciogliere una
dipendenza, un’assuefazione a qualcosa che per altri versi è frutto di un adattamento
necessario. Io credo che dovremo lavorare a lungo per riformulare il nostro problema,
per trovare una forma intelligente al nostro rompicapo. Una forma che ci aiuti ad
andare più lontano nella comprensione di quello che siamo, di quello che desideriamo,
di quello che ancora possiamo fare per cambiare.
L’orizzonte che abbiamo davanti a noi non può più essere quello di una performance
economica ottenuta al prezzo di tutto il resto, ma la ricerca di un equilibrio
flessibile capace di rispondere con più leggerezza e tempestività all’epoca di
cambiamenti nella quale ci stiamo sempre più addentrando.
In generale credo che qualsiasi atteggiamento che affronta un lato della questione
tralasciando l’altro non possa che portarci in un vicolo cieco. Si illude sia chi continua
a parlare della necessità dello sviluppo (magari con l’aiuto di quello specchietto per
allodole che si chiama sviluppo sostenibile) dimenticando che per l’idea di uno
sviluppo illimitato è in quanto tale antiecologica e sia chi pensa si tratti semplicemente
di smettere di produrre o consumare (di de-crescere in senso letterale) dimenticando
che il nostro adattamento sociale in tutte le sue forme si basa sulla crescita continua.
Gregory Bateson riteneva che «per liberarsi da una dipendenza sembra
cruciale riconoscere di essere in trappola» (Bateson G., Bateson M.C. 1989, p.
132
194). In altre parole si tratta di comprendere la dimensione “tragica” della storia in cui
siamo presi e questo implica anche una maturazione psicologica, morale e politica
degli stessi attori sociali. D’altra parte lo stesso Bateson ci ha insegnato che le
situazioni di doppio vincolo mentre sono quasi sempre fonte di dolore, possono essere
anche fonte di creatività, di umorismo, di cambiamento. Ma occorre non accontentarsi
dei tranquillanti e delle facili ricette e continuare a cercare con la giusta disposizione in
una felice ed irriducibile inquietudine.
Da questo punto di vista il dibattito sulla “decrescita” promosso in particolare da
Serge Latouche79 oggi rappresenta una novità incoraggiante anche se si tratta di una
discussione ancora agli inizi e probabilmente ancora piena di ambivalenze e
contraddizioni.
«Parlare di “decrescita” – afferma Latouche - significa dunque lanciare una sfida,
azzardare una provocazione: all’interno del nostro immaginario dominato dalla
religione della crescita e dell’economia, asserire la necessità della decrescita
risulta letteralmente blasfemo e chi sostiene simili posizioni è quantomeno
considerato iconoclasta».80
Per Latouche la decrescita non è un modello e nemmeno un paradigma. Non è, in
altre parole, un termine “simmetrico” ma con il segno rovesciato rispetto a quello di
crescita. In termini più rigorosi, si dovrebbe parlare di “a-crescita” come si parla di “ateismo”. In altre parole l’aspirazione sarebbe quella di sottrarsi alla religione della
crescita e dello sviluppo, ad una società che basa il suo benessere sull’aumento
continuo della produzione e dei consumi (dalle merci alle tecnologie, dai gadget alle
armi). Dunque la decrescita non è un’alternativa ma piuttosto come ama dire
Latouche una “matrice” di alternative, ovvero una proposta per aprire il campo ad
altre rappresentazioni del benessere sociale sganciate dalla logica dello sviluppo o in
termini più ampi da una logica accrescitiva nei più svariati campi.
Non è questa l’occasione per approfondire questo tema. Mi limito piuttosto a
concludere questo intervento con una suggestione. Sulla base delle nostre riflessioni si
può osservare che l’idea di decrescita potrebbe essere intesa come un primo tentativo
di pensare – come direbbe Jean-Pierre Dupuy –«la continuazione dell’esperienza
umana come il risultato di una negazione di un’autodistruzione».81
Suggerisco dunque che l’idea di decrescita possa essere intesa non come una
semplice regressione lineare ma come una operazione di riduzione selettiva di
complessità. Non si tratta di presupporre semplicemente un ritorno indiscriminato ad
una fase più semplice di organizzazione sociale – una specie di ritorno al passato - ma
si tratta invece di ricercare una superiore e più fine capacità di discrimine tra ciò che è
più importante e significativo e ciò a cui possiamo invece rinunciare. In altre parole si
tratta di un processo culturale di “disapprendimento”, che contempla una perdita
ma che se viene affrontato (e non solo subito) consapevolmente per tempo permette
anche una maturazione sociale ed ecologica. Un processo dunque che mescola
insieme forme di conservazione, di dismissione e di innovazione in tutti i
campi: ambientale, culturale, politico, economico, tecnologico e altro ancora.
È probabilmente un mondo strano, curioso e imprevedibile quello che si profila
davanti a noi. Una società dove diverse forme di produzione, autoproduzione,
riciclo, rigenerazione, scambio, condivisione, vivranno intrecciate l’una con
79
Si vedano Serge Latouche, Sopravvivere allo sviluppo, Bollati Boringhieri, Torino, 2005; Serge
Latouche, La scommessa della decrescita, Feltrinelli, Milano, 2007; Serge Latouche, Breve trattato sulla
decrescita serena, Bollati Boringhieri, 2008.
80
Serge Latouche, La scommessa della decrescita, Feltrinelli, Milano, 2007, p. 8.
81
Jean-Pierre Dupuy, Pour un catastrophisme éclairé. Quand l’impossible est certain, Éditions du Seuil,
Paris, 2002.
133
l’altra, e occorrerà abbastanza flessibilità nella nostra mente per saper tenere
insieme creativamente tutto questo per dargli una forma conviviale, di buon
vivere.
2) COME COMUNICARE NELL'EMERGENZA?
Arriviamo alla seconda questione. Dal punto di vista dell'informazione e della
comuniciazione, qual è il modo migliore per accrescere la sensibilità su questi temi?
C'è un modo di comunicare più efficace che ci aiuti a interiorizzare un senso di
urgenza e gravità di fronte alle sfide che abbiamo davanti, senza però farci paralizzare
dalla paura o dal senso di impotenza, magari sottolineando anche le opportunità
emergenti da un possibile cambiamento?
Motivare il cambiamento: minaccia o desiderio?
Un primo interrogativo riguarda il ruolo di alcune emozioni negative: paura,
angoscia, vergogna ecc. Possono aiutarci a migliorare le cose o sono solo un ostacolo?
Da una parte ci sono autori come Gunther Anders che rivendicano la necessità e
l'importanza di questi sentimenti proprio per contrastare l'illusione delle "magnifiche
sorti e progressive".
«Probabilmente nessuna delle generazioni precedenti il XVIII secolo, precedenti
cioè la marcia trionfale delle teorie progressiste, sarebbe stata tanto impreparata
come lo siamo noi oggi ad affrontare il nostro compito odierno: quello di provare
angoscia. Perché per il credente nel progresso la storia è a priori senza fine,
perché vi vede una lieta predestinazione di continuo miglioramento, un processo
che avanza imperturbabile e inarrestabile» (Anders, 2003a, p. 287).
D'altra parte, se questi sentimenti sono importanti per provare preoccupazione e
assumere una visione problematica e critica verso i nostri modelli di comportamento e
le nostre azioni, dall'altra probabilmente queste emozioni non sono sufficienti - da sole
- ad attivare modelli di comportamento differenti e ad indirizzarsi verso percorsi di
cambiamento che richiedono forme di attivazione e mobilitazione più positive e
rinforzanti.
Da questo punto di vista, come hanno notato Miguel Benasayag e Gérard Schmit
«È proprio questo il problema: oggi gli adulti hanno interiorizzato il fallimento
degli ideali connessi alla visione messianica del futuro e condividono la
convinzione opposta, e ormai dominante, di un futuro pieno di minacce. Così,
nella pratica quotidiana dell’educazione, si passa dall’invito al desiderio a una
variante più o meno dura di quello che potremmo chiamare apprendimento sotto
minaccia» (Benasayag, Schmit, 2004, p. 43).
«Così, oggi sappiamo benissimo che la perdita di ideali e la tristezza hanno
portato la nostra società ad abbandonare un tipo di educazione fondato sul
desiderio. L’educazione dei nostri figli non è più un invito a desiderare il mondo:
si educa in funzione di una minaccia, si insegna a temere il mondo, a uscire
indenni dai pericoli incombenti» (Benasayag, Schmit, 2004, p. 57).
Da Freud in poi gli psicoanalisti ci hanno ricordato che ogni tentativo di educare o
salvare qualcuno mettendo avanti la minaccia ha effetti limitati e in qualche caso
controproducenti. C’è un godimento della negatività, un godimento del rischio, un
134
godimento del giocare col limite e con la fine. Ogni tentativo di mettere avanti
solamente la minaccia in quanto tale rischia paradossalmente di accelerare i
comportamenti “ecologicamente” autodistruttivi.
Dal punto di vista delle alternative noi abbiamo in primo luogo una sfida nella
dimensione dell’immaginario, che è quella di evocare un cambiamento che pur in
parte consapevole dei rischi che stiamo correndo fa leva sul desiderio, sulla fiducia. Un
desiderio e una fiducia che si nutrono in primo luogo di relazioni, ovvero di un’altra
socialità.
«…le idee, intese come ipotesi teoriche e pratiche, devono accompagnare
gradualmente le esperienze alternative e permettere che il comportamento si
modifichi. Non in nome di una prescrizione disciplinare, ma in virtù dello sviluppo
di pratiche più desiderabili, potenti e ricche. Perché il legame appaia ai giovani
più desiderabile della lotta per il dominio, dobbiamo impegnarci fino in fondo a
pensare, guarire ed educare. Ma, innanzitutto, il nostro impegno sarà volto a
trasformare noi stessi» (Benasayag, Schmit, 2004, p. 99).
Da questo punto di vista il tema della decrescita non deve giocarsi in una versione
negativa – a contrario – della società della crescita, ma nella costruzione di una
pratica sociale più ricca e appassionata. Non si tratta di redigere programmi ma di
guardare in mezzo a noi. Quello che può nascere tra di noi, a partire da chi siamo e da
quanto siamo disponibili a metterci in gioco.
Dobbiamo anche imparare ad usare un linguaggio che rifletta la nostra visione del
mondo e che evochi quanto di positivo possiamo dare e scambiare tra di noi.
L’idea è che solo di fronte all’esperienza del limite, sia possibile fare un salto di
creatività e aprire l’orizzonte a possibilità che prima non erano immaginabili.
Noi non conosciamo a priori cosa sarà una società sostenibile al di fuori
dell'orizzonte della crescita. Non sappiamo qual è il benessere e il meglio per gli altri.
Dovremmo piuttosto metterci nell’atteggiamento in cui si possa far spazio
all’espressione di questi bisogni e desideri attraverso la costruzione di legami più forti.
Quello che sappiamo è che occorre rivoluzionare le nostre abitudini, e intuiamo che
è inevitabile ripensare le stesse premesse del nostro modo consueto di pensare. Ma il
fatto è che oggi sembriamo tutti dibatterci tra una forma di intrattenimento e
distrazione di fondo e una percezione angosciata e pessimistica del futuro. A
partire lavoro sui Limiti dello sviluppo sembra proprio che ogni sforzo coscienzioso di
guardare oltre il velo e ogni considerazione “realistica” sul futuro finisca con
consegnarci ad un più che probabile appuntamento con la catastrofe.
Dobbiamo dunque contrastare la nostra cecità verso la catastrofe, prendendo
questa possibilità terribilmente sul serio ma allo stesso tempo dobbiamo impedire che
questo realismo cali come una cappa sulla nostra vita e ci impedisca di continuare a
desiderare.
Credo che le riflessioni più interessanti a questo proposito siano state offerte da
Jean-Pierre Dupuy che nel suo libro Piccola metafisica degli tsunami (Dupuy, 2006) ha
ripreso una riflessione di Gunther Anders attorno ad una storia antica, il racconto
mitico di Noè e del diluvio universale. Poiché Noé era ormai stanco di fare il profeta di
sventura e di continuare ad annunciare senza tregua una catastrofe che non arrivava
e che nessuno prendeva sul serio, un giorno, «si vestì di un vecchio sacco e si sparse
della cenere sul capo. Questo gesto era consentito solo a chi piangeva il proprio figlio
diletto o la sposa. Vestivo dell’abito della verità, attore del dolore, ritornò in città,
deciso a volgere a proprio vantaggio la curiosità, la cattiveria e la superstizione degli
abitanti. Ben presto ebbe radunato interno a sé una piccola folla curiosa e le domande
cominciarono ad affiorare. Gli venne chiesto se qualcuno era morto e chi era il morto.
Noè rispose che erano morti in molti e, con gran divertimento di quanti lo ascoltavano,
135
che quei morti erano loro. Quando gli fu chiesto quando si era verificata la catastrofe,
egli rispose: domani. Approfittando quindi dell’attenzione e dello sgomento, Noè si
erse in tutta la sua altezza e prese a parlare: dopodomani il diluvio sarà stato, tutto
quello che è non sarà mai esistito. Quando il diluvio avrà trascinato via tutto ciò che
c’è, tutto ciò che sarà stato, sarà troppo tardi per ricordarsene, perché non ci sarà più
nessuno. Allora, non ci saranno più differenze tra i morti e coloro che li piangono. Se
sono venuto davanti a voi, è per invertire i tempi, è per piangere oggi i morti di
domani. Dopodomani sarà troppo tardi. Dopo di che se ne tornò a casa, si sbarazzò
del suo abito, della cenere che gli ricopriva il capo e andò nel suo laboratorio. A sera,
un carpentiere bussò alla sua porta e gli disse: lascia che ti aiuti a costruire l’arca,
perché quello che hai detto diventi falso. Più tardi, un copritetto si aggiunse ai due
dicendo: piove sulle montagne, lasciate che vi aiuti, perché quello che hai detto
diventi falso» (cit. in Dupuy, 2006, p. 7-8).
Jean-Pierre Dupuy, ci invita a leggere questo racconto di Anders pensando al fatto
che la nostra possibilità di pensare il cambiamento debba rimettere in gioco la stessa
nozione di tempo, passando da una concezione lineare e progressiva ad una circolare
che riallaccia futuro e presente, futuro e passato.
Il futuro infatti è prodotto dagli atti che abbiamo compiuto nel passato o che
compiamo nel presente, mentre il modo in cui agiamo è determinato dalla nostra
anticipazione del futuro e dalla reazione che abbiamo di fronte a questa anticipazione.
Si tratterebbe dunque di accettare questo paradosso: occorre pensare che il nostro
futuro sia segnato e che la catastrofe avrà certamente luogo poiché soltanto
nell’accettazione di questa condizione troveremo le energie per mobilitarci e il
coraggio di fare delle scelte che portino a rovesciare questo destino.
Su questa base secondo Jean Pierre Dupuy un certo «catastrofismo illuminato»
consisterebbe nel pensare «la continuazione dell’esperienza umana come il risultato
della negazione di un’autodistruzione – un’autodistruzione che sarebbe come iscritta
nel proprio avvenire irrigiditosi in destino» (Dupuy, 2002, p. 216).
Le considerazioni di Dupuy sono molto affascinanti, ma a mio avviso non sono
pienamente soddisfacenti. Oltre a sfuggire la catastrofe dobbiamo anche costruire una
vita degna di questo nome ed è alquanto dubbio che si possa creare una società
conviviale semplicemente profetizzando il rischio incombente di un futuro di sventure.
Da Freud in poi gli psicoanalisti ci hanno ricordato che ogni tentativo di educare o
salvare qualcuno mettendo avanti la minaccia ha effetti limitati e in qualche caso
controproducenti. Ogni tentativo di mettere avanti la minaccia in quanto tale, senza
alcun supporto per reggere o controbilanciare l’angoscia che ne deriva, rischia
paradossalmente di accelerare i comportamenti difensivi ed “ecologicamente”
autodistruttivi. C’è tra l’altro anche un godimento della negatività, un godimento del
rischio, un godimento del giocare col limite e con la fine.
Dobbiamo confrontarci anche con una resistenza a pensare un avvenire migliore
che non è frutto di un semplice realismo ma piuttosto di un difetto di immaginazione e
di una perdita di fiducia nelle nostre possibilità ben oltre le nostre effettive
potenzialità.
Quindi dal punto di vista della costruzione di alternative noi abbiamo in primo luogo
una sfida nella dimensione dell’immaginario, che è quella di evocare un cambiamento
che - pur consapevole dei rischi che stiamo correndo - faccia leva sul desiderio, sulla
fiducia. Un desiderio e una fiducia che si nutrono in primo luogo di relazioni, ovvero di
pratiche sociali ed esistenziali più forti, più appassionate e perfino più “ricche” di
quelle suggerite dall’immaginario materialista ed economicista, cristallizzato
nell’ossessione della crescita. Pratiche che possono trasformare noi stessi, le nostre
relazioni e la realtà attorno a noi.
136
Se vogliamo uscire dalla crisi dobbiamo allora imparare ad usare un linguaggio ed
un immaginario che rifletta la nostra visione del mondo e che evochi quanto di
positivo possiamo dare e scambiare tra di noi già qui, oggi.
Quindi alla fin fine dobbiamo sfidare doppiamente il senso comune e “giocare” non
con uno ma bensì con due paradossi contemporaneamente:
- Dobbiamo “rammentare la catastrofe” che ci attende, affinché questa non avvenga
nella realtà.
- Ma, contemporaneamente, dobbiamo continuare a “immaginare un dolce avvenire”
che nessuno crede più possibile, affinché questo divenga realizzabile.
Occorre ricordare a questo proposito le parole di Hannah Arendt secondo cui gli
esseri umani, anche se devono morire, non sono nati per morire ma per incominciare.
Grazie a questa condizione di natalità inerente all’agire possiamo cominciare a
riconoscere che «il nuovo si verifica sempre contro la tendenza prevalente delle leggi
statistiche e della loro probabilità, che a tutti gli effetti pratici, quotidiani, corrisponde
alla certezza; il nuovo quindi appare sempre alla stregua di un miracolo. Il fatto che
l’uomo sia capace d’azione significa che da lui ci si può attendere l’inatteso, che è in
grado di compiere ciò che è infinitamente improbabile» (Arendt, 1993, p. 129).
In un libro pubblicato diversi anni fa Vandana Shiva scriveva che la principale
minaccia alla diversità deriva dall’abitudine a pensare in termini di «monocolture della
mente». Queste ultime cancellerebbero la percezione della diversità e insieme la
diversità stessa. Questa eliminazione della diversità farebbe scomparire le alternative
creando così la sindrome della “mancanza di alternative”.
Insomma dobbiamo tornare a coltivare la diversità, la fantasia, la ricerca anzitutto
nelle nostre categorie di pensiero, nelle nostre menti, nelle nostre pratiche sociali e
soprattutto nelle nostre vite.
Non è di un futuro lontano o semplicemente utopico quello di cui vorremmo parlare,
ma piuttosto l’immagine di un avvenire che può nascere dal presente che è ancora
gravido di vita e di possibilità. Per fare strada a questo avvenire occorre dunque
provare a riguardare il presente con occhi nuovi. Smettere quindi di crederci il centro
dell’universo e di considerare scontate le persone e le cose attorno a noi. Tornare a
guardare quel prodigio che è la nostra vita, la vita delle persone a noi care, la vita
intera su questo pianeta in tutte le sue diverse e misteriose forme.
Occorre uno sforzo di fantasia, uno sforzo che componga assieme intelligenza e
passione, ragione e sentimento, rigore e poesia, e che - guardando attraverso e oltre
il reale - ci permetta di intravvedere sentieri e possibilità che pur essendo ancora
sfumati o senza contorni possono prendere forma sotto i nostri piedi.
Certo non è in nostro potere determinare il futuro, ma possiamo senz’altro
intercedere, rendendo visibile, col nostro desiderio, l’invisibile che può ancora
realizzarsi.
137
Corso di Sociologia della comunicazione politica - a.a. 2014/2015
Verso una democrazia ecologica?
La discussione pubblica e la partecipazione politica
di fronte alla crisi ambientale
Docente: Marco Deriu
CRISI ECOLOGICA, SCIENZA POSTNORMALE E DEMOCRAZIA
Dunque qual è la condizione della democrazia di fronte alle emergenze ambientali e
al cambiamento climatico?
Abbiamo visto come le condizioni in cui opera la scienza oggi per cui ci si trova di
fronte a fatti incerti, valori in discussione, interessi elevati e decisioni urgenti
suggeriscono una forma di scienza che è stata chiamata “post-normale”.
Oggi vorrei parlarvi anche delle sfide radicali che oggi le emergenze ambientali
pongono alla democrazie tradizionalmente intese.
Il meno che si possa dire, da questo punto di vista è che siamo di fronte a
questioni che sono state fin ora completamente a margine della tradizione e della
riflessione democratica. Come ha affermato lo studioso canadese Richard Swift
«La dimensione ambientale è qualcosa di relativamente nuovo da affrontare
per i pensatori democratici. La teoria democratica classica ha semplicemente
presunto una natura generosa dove c’erano beni a uso senza fine per il piacere
dell’uomo. Andavano semplicemente trasformati in proprietà privata o erano
“apporti” spontanee della natura. Ma nel mondo di oggi, con gli ecosistemi che
collassano, le risorse che si riducono e la dispersione generale di sostanze
tossiche, la situazione è molto diversa» (Swift, 2004, p. 105).
Qui c’è del resto un problema importante da mettere a fuoco. Le decisioni compiute
da ciascuna generazione non sono equivalenti nella loro capacità di influenzare il
futuro e le condizioni delle generazioni successive. Infatti lo sviluppo di tecnologie e
macchine sempre più potenti, l’espansione della tecnostruttura industriale, l’aumento
della popolazione e infine l’aumento dei consumi e del metabolismo sociale ha
modificato radicalmente la situazione creando problemi molteplici di degrado
ambientale, di esaurimento delle risorse e soprattutto di cambiamento climatico.
Tuttavia, le generazioni che hanno causato questi problemi e quelle che dovranno
affrontarli non sono di fatto le stesse.
Come ha notato Ulrich Beck
«i pericoli ambientali presuppongono e causano proprio questo: la produzione
del rischio e l’esposizione al rischio vengono separate in termini spaziali e in
termini temporali. Il potenziale catastrofico creato da una popolazione colpisce
gli “altri”: le persone delle società straniere e le generazioni future. Pertanto,
chi prende la decisione di creare pericoli per altri non può più essere additato
come responsabile di ciò. Ne deriva – a livello mondiale – un’irresponsabilità
organizzata» (Beck, 2011, pp. 31-32).
138
In effetti le conseguenze dei cambiamenti climatici che le generazioni presenti e
future dovranno affrontare sono in buona misura gli effetti di un processo che si
sviluppa in particolare a partire dagli anni ’50 del secolo scorso e che nel frattempo si
è ampliato e moltiplicato. Cosi le scelte – o le mancate scelte – che le generazioni
presenti assumeranno determineranno cambiamenti determinanti per quelle future.
Di fatto le conseguenze e le ricadute sulle generazioni future delle scelte compiute
dalla generazione attuale saranno molto probabilmente molto più ampie e più
profonde di quanto non siano mai state in passato (Pontara, 1995, p. 6, Holden, 2002,
pp. 80-81).
Detto in altre parole le scelte di oggi delimitano in maniera significativa le libertà di
coloro che domani si troveranno a prendere decisioni. Cosicché una libertà
irresponsabile oggi può significare una drastica riduzione dello spettro di possibilità
entro cui decidere domani.
Per la prima volta le generazioni attuali si trovano nella condizione di poter
modificare radicalmente le condizioni di vita delle generazioni a venire.
La questione del cambiamento climatico dunque rappresenta una pietra
miliare anche nella storia politica dell’umanità.
In altre parole le maggioranze dei consumatori divengono (per usare
un’espressione che è stata coniata da Tim Flannery) dei “mangiatori di futuro”
(future eaters).
Vorrei che pensaste per un momento a quello che disse una volta Yehudi
Menuhin, un violinista ebreo statunitense:
«Non posso fare a meno di pensare che noi siamo i più sciagurati antenati che
le generazioni a venire possano avere» (I can’t help feeling that we are the most
wretched ancestors that any future generation could have).
Qui c’è qualcosa, che riguarda la responsabilità intergenerazionale che la teoria
politico/democratica non ha saputo pensare. Si pone infatti un problema di potere e di
arroganza che riguarda non solo il rapporto degli esseri umani sui non umani, o dei
paesi più ricchi verso le popolazioni meno industrializzate o più a contatto con gli
ecosistemi, ma anche verso l’umanità a venire.
In effetti il problema non è solo che la tradizione democratica non si è occupata o
ha a rimosso la consapevolezza dei limiti ecologici. Il fatto è che la storia dei regimi
democratici, la costruzione del consenso democratico si intreccia con la storia della
crescita e del mercato, dell’accesso e della promozione del consumo e oggi diventa
sempre più chiaro ai nostri occhi che i problemi ambientali si scontrano con la nostra
economia del benessere fondato su alto prelievo di risorse, un alto afflusso di energia
(e in particolare di energia fondata sui combustibili fossili), una forte produttività, un
diffuso consumismo e infine una grande produzione di rifiuti.
Come ha scritto il politologo Robert Cox,
"Sembrerebbe che un cambiamento radicale nei modelli di consumo diventerà
essenziale per il mantenimento della biosfera. Quando per la preparazione del
Vertice della Terra di Rio de Janeiro nel giugno 1992, l’allora presidente degli
Stati Uniti George Bush ha detto «Il nostro stile di vita non è negoziabile», egli
stava implicitamente riconoscendo che un cambiamento di stile di vita può essere
necessario per la sopravvivenza della biosfera e allo stesso tempo stava
riconoscendo che la sopravvivenza politica nelle moderne democrazie liberali
rende altamente rischioso per i politici promuovere un tale cambiamento. [...] La
sopravvivenza della biosfera è incompatibile con la democrazia liberale? La
139
politica democratica
consumismo?"82.
continuerà
a
fare
pressione
per
massimizzare
il
Una democrazia che voglia rispondere alle sfide ecologiche deve per forza porre dei
limiti alla crescita e rendersi responsabile di fronte al futuro, ovvero non limitarsi ad
una decisione a breve scadenza.
Come dice Welzer una rinascita del pensiero politico «deve mettersi alla prova in
una critica di ogni limitazione delle condizioni di sopravvivenza degli altri»83.
Per dare luogo a una politica capace di futuro deve mutare la nostra percezione
del qui e ora. Si può parlare a questo proposito di tre assi fondamentali lungo cui va
inscritta la nostra libertà e ripensata la politica, stabilendo le opportune connessioni
sulla base:
- delle relazioni che ci vincolano oggi in un rapporto equo, di giustizia con i nostri
contemporanei, non solo i più prossimi ma anche coloro che abitano altri luoghi.
- delle relazioni che ci vincolano al riconoscimento e alla responsabilità verso le
altre generazioni passate e future.
- delle relazioni che ci vincolano all’ambiente naturale e alle altre specie viventi
Riconoscere queste relazioni significa non ragionare semplicemente in termini di
dipendenze o vincoli da riconoscere o di diritti da accordare, ma anche in termini di
doveri di cura e di responsabilità. È importante sottolineare che allo stesso modo in
cui occorre parlare di libertà in relazione, dobbiamo parlare anche di responsabilità in
relazione.
Un’idea
di
responsabilità
desunta
da
un
riconoscimento
di
un’interdipendenza conduce a pensare non a una responsabilità sulla natura ma a una
responsabilità nella natura. Non è quindi una responsabilità calata dall’alto o
dall’esterno – idea questa che rischierebbe di dar corda alla hybris del controllo - ma
una responsabilità che nasce dal riconoscersi parte di una più grande unità. Una
libertà che riconosce che non tutto è assoggettabile al volere e al potere della tecno
scienza e che quindi è esercitabile secondo un “principio di precauzione”. Dunque:
dipendenza, libertà e responsabilità insieme e contemporaneamente, come aspetti
diversi ma intrecciati della nostra “naturale” condizione umana.
RESPONSABILITÀ
INTER-REGIONALE:
DEMOCRATIZZABILE?
VERSO
UN
BENESSERE
Una seconda questione riguarda una responsabilità inter-regionale nel presente,
ovvero l’interrogativo sulla possibilità di democratizzazione del nostro modello
benessere. Il modello di sviluppo occidentale, la ricchezza dei paesi più
industrializzati, è dipesa storicamente e ancora dipende dallo sfruttamento costante di
beni, risorse e materie prime da tutto il mondo. Come abbiamo visto non si tratta solo
del petrolio ma di un vasto insieme di beni che contribuiscono a comporre il paesaggio
di commodities, oggetti e strumenti di cui siamo circondati.
Per intenderci stiamo parlando di risorse ambientali basilari per i processi vitali e
produttivi come l’acqua, l’aria, il suolo fertile, le foreste; risorse energetiche quali il
petrolio, il carbone, il gas naturale; risorse minerarie sia minerali metallici sia minerali
82
Robert Cox, “Democracy in hard times: economic globalization and the limits to liberal
democracy”, in A. Mc Grew (ed.), The transformation of Democracy?, Cambridge and Milton
Keynes Polity Press, 1997, pp. 67-68.
83
Welzer, op. cit, p. 248.
140
non metallici; risorse vegetali quali il legno, caucciù, cotone, le risorse alimentari, ma
anche l’universo delle droghe; risorse animali per alimentazione (caccia, pesca,
allevamento) per vestiti e suppellettili (pellicce, scarpe, cinture), per farmacopea ed
uso scientifico, per compagnia.
Nel mondo esiste una disuguaglianza di consumo molto netta in generale tra i paesi
più industrializzati e gli altri. I paesi più ricchi rivendicano per sé l’85% delle risorse
forestali, il 75% delle riserve minerarie e il 70% delle risorse energetiche. Detto in
altri termini i paesi industrializzati (Ocse) utilizzano una biocapacità 84 più che doppia
rispetto a quella disponibile sul loro territorio.
Questo significa che nei fatti i paesi più industrializzati sfruttano il patrimonio
naturale in maniera eccessiva. Da un punto di vista pratico essi attingono a beni e a
risorse naturali che provengono da aree anche molto lontane dai loro territori e in
misura sproporzionata rispetto allo spazio ambientale con cui ciascun essere umano
deve poter vivere. Secondo un termine entrato ormai in uso, la loro “impronta
ecologica”, relativa al consumo di terra e risorse, è molto superiore ai loro stessi
territori e alla loro popolazione.
Ora a partire dagli anni ’70 l’impronta ecologica ha superato la superficie del
pianeta biologicamente produttiva. Ogni anno noi consumiamo più risorse di quanto il
mondo riesca a produrne. I primi ad essere colpiti da questa devastazione ecologica
saranno le popolazioni che dipendono in maniera più diretta dagli ecosistemi locali e
che fanno meno conto sullo sfruttamento e sull’approvvigionamento globale. La crisi
ecologica dunque si tradurrà a livello locale in un aumento dei conflitti sociali. Non a
caso negli ultimi decenni si sono registrate numerose guerre per le risorse in molti
paesi dell’Africa, dell’America Latina, dell’Asia. Queste guerre manifestano un conflitto
tra beni comuni e appropriazione privata, tra uso locale sostenibile e sfruttamento
globale. Dunque, come ha notato Wolfgang Sachs, la questione essenziale da
sottolineare è che senza un disarmo ecologico, senza una contrazione nei consumi nei
paesi più ricchi non ci sarà nessuna giustizia, nessuna democrazia globale:
«La finitezza della biosfera proibisce di prendere lo standard di vita del Nord
come misura per il benessere in generale. Il modello di benessere dei paesi ricchi
non è capace di giustizia, non può essere democratizzato in tutto il globo se non
al prezzo di rendere il globo inospitale» (Sachs, 2002, p. 30).
Dunque se il modello di sviluppo dei paesi industrializzati di fatto è strutturalmente
iniquo occorre ripensare la questione delle libertà democratiche sullo sfondo del
legame “pesante” che esiste tra il modello di benessere basato sulla crescita, la crisi
ecologica e la violenza politica internazionale.
LA RESPONSABILITÀ INTERSPECIFICA: L’ESSERE UMANO E LE ALTRE SPECIE
VIVENTI
Infine rimane un ultimo aspetto, il tema della responsabilità inter-specifica, ovvero
la messa in discussione dell’antropocentrismo e dello specismo implicito nella
nostra ideologia politica. L’uomo moderno continua a ritenersi in cima ad una
ipotetica scala degli esseri. Ma questa convinzione è basata in parte sull’ideologia ed
in parte su un ignoranza. Noi sappiamo ancora poco della complessità e della varietà
degli ecosistemi e dei suoi organismi. I biologi non sono nemmeno d’accordo sul
numero delle specie viventi sul pianeta. La maggior parte degli studiosi stima che sulla
terra ci siano circa 10-14 milioni di specie viventi. L’essere umano ne ha
84
Per biocapacità si intende la capacità della natura di produrre aria ed acqua pulita, alimenti, materiali e
contemporaneamente di assorbire gli scarti dei processi produttivi e di consumo.
141
classificate per ora circa un milione e cinquecento mila. La nostra conoscenza della
natura vivente è ancora oggi molto parziale. Moltissimo rimane ancora da scoprire e
da conoscere. Ma molto minaccia di venir distrutto prima che ne comprendiamo la
natura ed il ruolo. Ad ogni modo quello che sappiamo, oltre alla conoscenza diretta di
un certo numero di specie animali, è l’importanza che il mantenimento della
biodiversità ha per la conservazione della vita, dell’evoluzione e della sopravvivenza
stessa dell’essere umano. Le possibilità dell’evoluzione della vita dipendono dal
mantenimento della diversità biologica complessiva, a livello di specie, di ecosistema e
planetaria. Questa biodiversità è il risultato di quattro miliardi di anni di
evoluzione e allo stesso tempo la riduzione di biodiversità altera le possibilità di
evoluzione della vita sul pianeta per il futuro.
Da qualche anno alcuni scienziati e studiosi hanno iniziato a documentare e a
metterci in guardia sul fenomeno della perdita di biodiversità, sulla scomparsa
impressionante di specie animali. Ora lo studio sugli ecosistemi nel mondo nel terzo
millennio patrocinato dall’Onu ha rivelato un dato sconcertante. Dalla analisi delle
specie fossili, risulta che nel passato della storia del vivente ci sia stata una perdita di
una specie di mammiferi ogni mille anni. Attualmente questa scomparsa avviene ad
una velocità mille volte superiore. La situazione è tale che gli scienziati oggi sono
convinti che ci troviamo di fronte ad una vera e propria nuova estinzione,
precisamente la sesta estinzione di massa di esseri viventi sul nostro pianeta.
Questa riduzione estrema della biodiversità rappresenta una violenza enorme
contro la vita e la dignità delle altre specie vegetali e animali, nonché una minaccia
per la salute globale del pianeta e, da ultimo, dello stesso genere umano.
In verità
molte specie animali ci hanno preceduto nell’evoluzione della vita e molte altre
verosimilmente sopravviveranno alla nostra scomparsa. La centralità della specie
umana nella storia del vivente è una pura pretesa ideologica.
Non c’è bisogno di notare che le società democratiche contribuiscono in
misura determinante a questi processi di distruzione attraverso la distruzione
dei grandi spazi naturali sia terrestri che acquatici, attraverso uno sfruttamento e una
commercializzazione senza limiti di esseri animali, attraverso l’emissione di agenti
tossici e inquinanti e il contributo a processi di cambiamento climatico.
Certo si potrebbe dire che uno dei motivi di questa responsabilità è dovuto ad un
difetto di democrazia. La gente non avrebbe abbastanza informazioni o potere per
decidere su questi temi. Ma una simile giustificazione va poco lontano. A parte il fatto
che molte decisioni deleterie dal punto di vista ecologico sono prese quotidianamente
da consessi democratici a tutti i livelli - cittadini, regionali, nazionali – resta poi da
stabilire come mai per il resto, tante azioni che hanno avuto un impatto devastante
sul pianeta, tanto da mettere a rischio la stessa la vita di interi ecosistemi e la nostra
stessa vita, non sono state oggetto di un attento processo di discussione e
deliberazione.
Uno dei motivi, probabilmente è la nostra ristretta visione di che cosa riguarda la
politica e che cosa deve abbracciare la nostra idea di democrazia. In effetti, come
notava già anni fa Ulrich Beck (Beck, 2000, pp. 258-259), gran parte delle
trasformazioni sociali promosse dall’agire tecnico ed economico all’interno
dell’“immaginario religioso del progresso” sono rimaste al di fuori del nostro
immaginario politico e democratico. Molte scelte scientifiche, tecnologiche,
economiche, finanziarie che hanno orientato la nostra crescita e il nostro sviluppo
sono state spesso semplicemente assunte dalla politica a posteriori come dati di
fatto “esterni” alla politica, come fatti “impolitici”.
Qui appare all’improvviso un enorme angolo buio nella nostra concezione
democratica della politica. E d’altra parte la situazione di crisi ecologica nel quale oggi
siamo precipitati è innanzitutto un segno del fallimento di un modo tradizionale di
pensare la politica e la democrazia.
142
LA RESPONSABILITÀ INTERGENERAZIONALE: LE COORDINATE TEMPORALI
DELLA POLITICA
Un terzo aspetto riguarda il tema della responsabilità inter-generazionale e quindi
degli orizzonti temporali della politica democratica. Da questo punto di vista il
nostro sistema politico-economico sta conducendo una guerra non dichiarata alle
generazioni future. Di fatto la politica tradizionale ci ha insegnato a svendere il
futuro per pagare il presente. Sono soltanto pochi decenni che abbiamo iniziato a
consumare in maniera così massiccia beni di ogni genere, eppure a questi ritmi
rischiamo di bruciare in poco tempo il patrimonio naturale creatosi e evolutosi in
milioni di anni: risorse fossili, energetiche, minerali, biotiche. Nei paesi più
industrializzati stiamo vivendo in una bolla di euforia grazie alla disattenzione verso
l’impatto ecologico delle nostre azioni sul medio e lungo periodo. Dietro la crisi
economica aleggia una più profonda crisi ecologica che deve ancora manifestarsi il
tutta la sua ampiezza.
A questo proposito occorre domandarsi: quali sono le coordinate temporali
della politica democratica? Qual è l’arco di tempo dentro al quale si muovono gli
attori del processo democratico, la cornice temporale rispetto alla quale vengono
valutati le possibili decisioni e azioni e le relative conseguenze? Nella maggior parte
dei casi i politici hanno come termine temporale fondamentale la scadenza del proprio
mandato o le successive scadenze elettorali. Ma in termini di routine generalmente
l’orizzonte di riferimento dei politici non supera i 3-4 mesi. Ora in che rapporto questi
orizzonti si misurano con fenomeni ambientali quali il cambiamento climatico, lo
scioglimento dei ghiacciai, l’estinzione di specie vegetali ed animali e la conseguente
perdita di biodiversità? Tutti questi processi presuppongono uno sguardo di più ampio
respiro, delle coordinate temporali molto più ampie.
Del resto mentre parliamo di sostenibilità il nostro presunto interesse per le
generazioni futuro è tutto da dimostrare. Se c’è una tradizione culturale e politica che
ha fatto tabula rasa del senso di radicamento verticale, della continuità tra
generazioni, del sapere e dell’autorità che viene dalla tradizione e del senso di
responsabilità che ci lega a chi viene dopo di noi è proprio quella a cui apparteniamo.
La cultura illuministica, liberale, democratica che non ha mai smesso di
autorappresentarsi come un taglio netto nei confronti del passato, come affermazione
della libertà individuale contro i legacci della tradizione e i vincoli delle relazioni sociali.
Non è un caso che nel sistema democratico liberale la responsabilità ma anche la
legittimità delle scelte è tutta schiacciata sul tempo presente, quasi istantaneo
della decisione democratica e della volontà della maggioranza.
La stessa acritica assolutizzazione del principio maggioritario mostra da questo
punto di vista i suoi limiti, che sono anzitutto temporali. Le decisioni che prende una
maggioranza politica in maniera pienamente legittima possono alterare o
compromettere le condizioni di vita per le generazioni successive.
Concepire una “democrazia intergenerazionale” significa sapere che è
democratico un sistema che non depriva delle condizioni di vita e quindi delle stesse
possibilità di scelta e di libertà politica le generazioni a venire.85
Questo ci piaccia o meno significa incorporare il tema del limite ecologico e
sociale nelle proprie istituzioni, nelle procedure, nelle leggi fondamentali. Di
fatto si tratta di affermare una libertà responsabile e non un libertà assoluta.
85
Come sintetizza Hans Jonas, la responsabilità dell’arte del governo consiste nel far sì che la politica
futura continui ad essere possibile (Jonas, 1993, p. 147).
143
In termini sostanziali una politica sostenibile è quella capace di inventare e
definire istituti giuridici e legislativi che - stabilendo un orizzonte temporale di
riferimento più ampio - pongono un limite alla sovranità e alla libertà di coloro che
oggi possono prendere delle decisioni a garanzia delle possibilità di scelta, ovvero
delle libertà politiche, per le generazioni a venire.
Anche qui è attraverso il tipo di relazioni che costruiamo che definiamo chi siamo.
La politica è fra esseri umani, è nell’infra, ci dice Hannah Arendt. La condizione
umana è quella della pluralità: gli esseri umani e non il singolo uomo abita la
terra. Per essere liberi, secondo Hannah Arendt dobbiamo rinunciare dunque ad
un’idea di sovranità assoluta. Libertà e sovranità non coincidono. Tutto questo è vero
ma questo non basta a chiarire la nostra condizione. Questo infra oggi deve essere
ampliato fino a considerare popoli lontani nello spazio e generazioni lontane nel
tempo; fino ad includere anche forme viventi non umane.
Da questo punto di vista, come è stato notato, il problema è che non c’è una
dimensione naturale, istintuale, un sentimento spontaneo di benevolenza che ci lega
ad altre persone che non conosciamo e alle quali non siamo legate da una relazione
diretta. Non è nemmeno questione di affermare astrattamente un principio di equità
intergenerazionale. La benevolenza qui può scaturire solo come frutto di un
orientamento culturale e spirituale profondo, relativo alla percezione di sé e della
propria esistenza. Si tratta di pensare la propria stessa vita come qualcosa di
inscindibilmente legato ad passato e aL futuro, di pensare la nostra stessa
esistenza come un anello fra chi è venuto prima e chi verrà dopo.
Jean Pierre Dupuy cita a questo proposito il detto amerindiano: «La Terra ci è
data in prestito dai nostri figli». Una simile percezione della terra è il frutto di una
percezione differente del sé e della vita.
«Ora – commenta Dupuy –, il detto non si limita a invertire il tempo, lo rende
circolare. Siamo noi, infatti, che facciamo i nostri bambini, biologicamente e
soprattutto moralmente. Il detto ci invita dunque a proiettarci nel futuro e a
vedere il nostro presente con le esigenze di uno sguardo che saremo stati noi
stessi a generare. Attraverso questo sdoppiamento, che ha la forma della
coscienza, possiamo forse stabilire la reciprocità tra il presente e il futuro. Può
darsi che il futuro non abbia bisogno di noi, ma noi , noi abbiamo bisogno del
futuro, perché che dà senso a tutto quello che facciamo» (Dupuy, 2006, p. 15).
In questa prospettiva, come sintetizza Hans Jonas, la responsabilità dell’arte del
governo da questo punto di vista consiste nel far sì che la politica futura continui
ad essere possibile (Jonas, 1993, p. 147). In termini sostanziali una politica
sostenibile (ispirata all’idea di decrescita) è quella capace di inventare e definire
istituti giuridici e legislativi che pongono un limite alla sovranità e alla libertà di
coloro che oggi possono prendere delle decisioni a garanzia delle possibilità di
scelta, ovvero delle libertà politiche, per le generazioni a venire.
In conclusione, come ha scritto Harald Welzer
«una comprensione pratica della necessità di difendersi dalle conseguenze
peggiori del global warming non richiede soltanto una cultura globale della
riduzione radicale del consumo di risorse, ma anche una cultura della
partecipazione del tutto nuova, che oggi appare ancora impensabile, ma deve
essere pensata urgentemente, se deve accadere qualcosa di differente»86.
86
Welzer, op. cit, p. 268.
144
SCIENZA POSTNORMALE E DEMOCRAZIA
Fino ad oggi abbiamo affrontato diverse problematiche ambientali emergenti: Il
picco del petrolio e la crisi energetica, all’estinzione degli animali e la perdita di
biodiversità, dalla crisi idrica e i conflitti per l’acqua alla crisi alimentare globale, dal
cambiamento climatico ai rifugiati ambientali. Altri problemi potrebbero essere
richiamati, dalle diverse forme di inquinamento, al problema dei rifiuti, alla questione
demografica.
Molti di questi problemi oggi ci mettono di fronte a sfide inedite su molteplici
dimensioni che coinvolgono contemporaneamente l’economia, la tecnologia, la
conoscenza scientifica, l’informazione, la responsabilità sociale, i processi democratici
e le politiche pubbliche, il mutamento culturale e la revisione dei paradigmi
epistemologici.
Pian piano cercheremo di affrontare molti di questi aspetti e delle loro interazioni. Il
primo aspetto da cui vorrei partire riguarda il rapporto tra il riconoscimento e la
consapevolezza relativa a queste emergenze ambientali e la revisione delle pratiche
scientifiche e dei processi decisionali. Molti di queste emergenze ambientali
possiedono alcuni elementi in comune che li rendono particolari sia la scienza che per
la politica.
Da un punto di vista della portata essi manifestano effetti di carattere molto esteso
o addirittura planetario.
Sul piano degli conseguenze, possono avere effetti molto profondi e causare
profonde modificazioni e gravi danni ambientali e umani in termini di salute o di
vittime.
In termini temporali presentano impatti a lungo termine e una profonda
durevolezza, mentre le condizioni di emergenza delineano una forte urgenza nella
determinazione di opzioni di intervento e correzione.
Si tratta in generale di fenomeni complessi, solo parzialmente noti e compresi, che
coinvolgono numerose variabili, producono effetti non-lineari, processi a catena e
meccanismi di retroazione; sono dunque fortemente aleatori e difficilmente prevedibili
con precisione.
La scienza può fornire al massimo delle stime o – tramite l’impiego di modelli
matematici e statistici - dei possibili scenari con relative variazioni di stato.
La politica si trova dunque ad assumere la responsabilità di decisioni sulla base
di condizioni di grandi rischi, forte urgenza, a fronte di una conoscenza solamente
relativa e di certezze limitate. Infine data l’ampiezza e la profondità di questi fenomeni
anche la natura dei provvedimenti da assumere per far fronte ai rischi si presenta
molto radicale ed impegnativa, fino a rimettere in discussione alcune forme ed
abitudini consolidate nella nostra società.
Su questo piano due autori contemporanei Silvio Funtowicz e Jerry Ravetz87 ci
hanno fornito a partire dalla fine degli anni ’90, una serie di riflessioni cruciali per
mettere a fuoco il problema.
Questi due autori hanno sottolineato come le questioni ambientali oggi presentano
nuove sfide per la scienza. Se la scienza normale si confrontava in passato con bassi
livelli di incertezza e interessi limitati oggi questa si trova a confrontarsi con nuovi
87
FUNTOWICZ Silvio, RAVETZ Jerry, 1997, “Environmental problems, post-normal science, and extended
peer communities” in Etudes et Recherches sur les Systèmes Agraires et le Développement, vol. 30, pp.
169-175; FUNTOWICZ Silvio, RAVETZ Jerry, 2008, “Post-Normal Science” in Cutler J. Cleveland (eds.),
Encyclopedia of Earth, Environmental Information Coalition, National Council for Science and the
Environment, Washington D.C.; RAVETZ Jerry R., 1999, “What is Post-Normal Science” in Futures, vol.
31, pp. 647-653; RAVETZ Jerry R., 2004, “The post-normal science of precaution” in Futures, vol. 36, pp.
347-357.
145
obiettivi, con nuove complessità e incertezze a fronte di decisioni e implicazioni
tecnologiche che producono effetti su scala globale.
Il nuovo contesto impone di riconoscere che la scienza e le applicazioni scientifiche
non sono prive di valori né eticamente neutre. Inoltre è chiaro che scelte e le decisioni
pubbliche non possono discendere automaticamente e meccanicamente dalle
conoscenze scientifiche in quanto tali. Di fatto ci si trova ad assumere “decisioni
politiche forti” con “dati scientifici deboli”.
Di fronte a questo nuovo quadro Funtowicz e Ravetz hanno introdotto il concetto di
“Scienza Post-Normale” (Post-Normal Science) per indicare dunque un nuovo
modello di scienza da affiancare a quella più normale e tradizionale nelle condizioni in
cui «i fatti sono incerti, i valori in discussione, gli interessi elevati e le decisioni
urgenti»88. In altre parole la situazione è fuori dal comune sia da un punto di vista
scientifico che politico.
Uno schema proposto dai nostri autori può essere d’aiuto per comprendere le
novità. Si tratta di un diagramma bi-assiale. Sull’asse delle ascisse troviamo il livello
di incertezza del sistema, mentre sull’asse delle ordinate troviamo il livello degli
interessi o della posta in gioco.
Quando entrambi questi aspetti sono minimi la ricerca scientifica tradizionale che
procede con un approccio “puzzle-solving” (secondo la logica di Thomas Khun) è
ancora adeguata.
Ma «nella scienza post-normale, quando sono coinvolte le questioni ambientali, la
posta in gioco può diventare la sopravvivenza di una civiltà o di un ecosistema, e
anche delle forme di vita presenti sul pianeta, e le incertezze dei sistemi sono
corrispondentemente gravi»89.
Funtowicz e Ravetz propongono dunque un “nuovo metodo” basato sul
riconoscimento dell’incertezza, della complessità e della qualità. Si tratta in fondo di
riconoscere anche una forma di “complessità morale” che attiene alla natura delle
nuove decisioni. Nel tentativo di rispondere e porre rimedio alle patologie del nostro
sistema industriale il processo di definizione della qualità dei risultati della ricerca
dell’impresa scientifica, non più essere lasciato a comunità isolate di specialisti, ma
deve essere rinnovato e arricchito:
88
FUNTOWICZ Silvio, RAVETZ Jerry, 1997, “Environmental problems, post-normal science, and extended
peer communities” in Etudes et Recherches sur les Systèmes Agraires et le Développement, vol. 30, p.
170.
89
Ivi, p. 171
146
«Il dialogo sulla qualità, insieme a quello sulla politica, deve essere esteso a
tutti coloro che hanno interesse in una questione e che si sono impegnati in un
vero e proprio dibattito; noi chiamiamo questi "la comunità estesa dei pari"»90.
In questo caso la comunità di esperti scientifica deve integrarsi con la la presenza di
una un’expertise complementare, non solamente come necessario riconoscimento
dovuto alle pressioni politiche esterne, ma come modalità che permette una maggior
garanzia sul piano della qualità del processo di investigazione e indicazione scientifica.
Infatti coloro che vivono nei contesti locali possono non solo indicare quali sono i dati
più importanti e rilevanti, ed aiutare ad implementare le azioni politiche, ma possono
integrare le analisi generali degli esperti con saperi artigianali, informazioni specifiche
legate ad eventi concreti, evidenze aneddotiche, indagini informali, inchieste prodotte
con un giornalismo investigativo, informazioni non divulgate ufficialmente o con saperi
di storie e memorie sedimentate nel tempo. Anche le reti di internet possono dare un
forte contributo ad ampliare le informazioni e le conoscenze necessarie ad
implementare il processo qualitativamente.
Questa integrazione ri-orienta in termini generali il processo scientifico. La
“spiegazione scientifica” viene integrata in una più ricca “comprensione sociale”, le
“predizioni scientifiche” vengono sostituite con delle “previsioni politiche” e l’ideale
valutativo della “verità scientifica” viene modificato con la ricerca della “migliore
qualità” possibile del processo decisionale.
Con questo cambiamento vengono ovviamente riconosciute la compresenza di
legittime visioni differenti del problema, dunque una pluralità di prospettive, che
devono dialogare fra loro in un atteggiamento di mutuo rispetto, ascolto e
apprendimento.
In un certo modo questo suggerisce l’assunzione di valutazioni multi-criterio nei
processi deliberativi. D’altra parte questa forma di “democratizzazione della
conoscenza” rappresenta un link importante verso la definizione di “procedure
democratiche di decisione”.
90
Ivi, p. 170.
147
Corso di Sociologia della comunicazione politica - a.a. 2014/2015
Verso una democrazia ecologica?
La discussione pubblica e la partecipazione politica
di fronte alla crisi ambientale
Docente: Marco Deriu
LA DEMOCRAZIA PARTECIPATIVA E DELIBERATIVA
Qualche anno fa, in una intervista, lo studioso Cornelius Castoriadis definiva la
società democratica come «un’unica enorme istituzione pedagogica in cui ha
luogo l’inarrestabile autoistruzione dei suoi cittadini» e notava tuttavia che le
nella realtà politica contemporanea si è creata una situazione completamente opposta
in cui la maggior parte degli spazi espressivi contribuiscono a diseducare i cittadini.91
Quali sono questi spazi espressivi?
Da una parte abbiamo le istituzioni rappresentative tradizionali come i consigli
comunali, provinciali, regionali o il parlamento; abbiamo i partiti politici e i sindacati.
Da un'altra parte abbiamo i mass media e new media: giornali, televisioni e con un
impatto sempre più importante anche Internet.
Mentre tutti siamo probabilmente d’accordo nell’osservare che per una ragione o
per l’altra le forme tradizionali di espressione e partecipazione basate sulla
rappresentanza hanno perso in fiducia e capacità di coinvolgimento il giudizio sulle
nuove forme di espressione è necessariamente articolato. I giornali sembrano essere
in crisi mentre la televisione è un media ancora molto forte e condizionante, infine il
web si sta lentamente costruendo il suo spazio e la sua credibilità.
Attorno a questi media si discute anche di nuove forme di partecipazione ed
espressione. Si pensi a quanto si insiste sulle virtù partecipative e democratiche di
internet.
Nel frattempo tuttavia si sono sperimentate in diversi paesi del mondo nuovi
spazi di partecipazione e nuove modalità di espressione attraverso forme di
democrazia partecipativa, diretta o deliberativa.
91
Le délabrement de l’Occident, intervista a C«ornelius Castoriadis di Oliver Mongin, Joel Roman e Ramin
Jahanbe«gloo, cit. in Bauman, 2002, p. 161.
148
Anche per capire se e quanto questi mezzi possano portare realmente un
contributo alla qualità dei nostri sistemi democratici occorre soffermarci almeno un
momento su diverse idee di democrazia e sui differenti approcci alla partecipazione
democratica (vd. Tabella).
Tra le caratteristiche delle nostre tradizionali concezioni politiche c’è poi l’abitudine
ad appoggiarsi su opposizioni immaginarie che contribuiscono a determinare non solo
le nostre rappresentazioni ma
anche l’organizzazione materiale
Visioni della democrazia
stessa delle nostre istituzioni
Democrazia come competizione
politiche.
 pluralità di gruppi in competizione tra loro, selezionati
Una di queste opposizioni è
attraverso elezioni
costituita
dal
dualismo
tra
 uguaglianza politica
 contro la tirannia della maggioranza
rappresentanza e partecipazione
diretta. Negli ultimi anni si è
Rappresentazione e filtro
 elite rappresentative selezionate attraverso elezioni
insistito moltissimo sulla crisi della
 filtraggio e raffinamento contro passioni e fazioni
rappresentanza e della democrazia
 forme deliberative in consessi rappresentativi
rappresentativa. Per sottolineare
Democrazia diretta
questa crisi è sufficiente ricordare
 espressione e decisione diretta ed autonoma dei cittadini
il declino sempre più evidente della
 potere di approvare, respingere norme, potere di iniziativa
partecipazione
elettorale
nelle
 contro la delega, come completamento della democrazia
rappresentativa
democrazie storiche. In Europa il
primato
negativo
spetta
alla
Democrazia partecipativa
 partecipazione popolare e coinvolgimento di classi/soggetti
Svizzera con solo un 43% dei
più emarginati contro elitismo e poteri forti
votanti
(1999)
e
alla
Gran
 costruzione arene partecipative e processi fortemente
Bretagna con un 59% (2001). Ma
regolati e organizzati
 relazione ravvicinata tra organi di governo e cittadini
anche altri paesi hanno avuto
(corresponsabilizzazione e copilotaggio)
percentuali di votanti piuttosto
basse: Finlandia (65%), Irlanda
Democrazia deliberativa
 focalizzazione sulla qualità dell’informazione e della
(66%), Portogallo (62%), Ungheria
conoscenza
(56% nel 1998). Anche gli Stati
 confronto tra posizioni, punti di vista e interessi e possibile
modificazione posizioni attraverso la discussione
Uniti presentano una percentuale
 critica dei sondaggi tradizionali e della democrazia istantanea
di votanti molto bassa pari al 51%
o plebiscitaria
(2000).
Confronto creativo
Nella riflessione politologica la
 emersione e ascolto posizioni e passioni, mediazione e
discussione
tra
fautori
della
gestione costruttiva del conflitto
democrazia
rappresentativa
e
 costruzione di percorsi di contrattazione, mediazione,
invenzione creativa e produttiva
fautori della democrazia diretta si è
 critica del decisionismo e della partecipazione ingenua e
configurata da sempre come uno
anche del proceduralismo burocratico
scontro tra sordi. Entrambi gli
schieramenti davano per scontato
che per quanto si potessero far convivere elementi dell’una e dell’altra nello stesso
regime (per esempio elezioni e referendum) tuttavia da un punto di vista generale si
riteneva che esse rappresentassero due principi irriducibili. In questo modo i due
partiti si sono ciclicamente affrontati lanciandosi vicendevolmente accuse di
“conservatorismo” per un verso e di “demagogia” per l’altro.
Ancora recentemente uno studioso come Robert Dahl richiamava la “banalissima
aritmetica” per sostenere le conseguenze inesorabili della combinazione tra tempo e
numero di abitanti. Supponendo che ciascun cittadino abbia 10 minuti per intervenire
e parlare in un assemblea, e moltiplicando per il numero di cittadini, intendeva
dimostrare che «in una “polis” ideale di diecimila cittadini a pieno titolo, il tempo
necessario andrebbe ben oltre ogni limite tollerabile. Dieci minuti a testa ci porterebbe
a più di duecento giornate lavorative di otto ore». Dahl ne deduceva senza altre
mediazioni che il numero massimo di partecipanti per forme di democrazia
149
assembleari fosse probabilmente assai meno di un centinaio (Dahl, 2001, pp. 113115). Nonostante la ferrea logica aritmetica di Dahl, in molte città che conducono
esperienze di democrazia partecipativa si conducono riunioni anche con migliaia di
persone. Dahl dimentica che non è fondamentale che nella discussione intervengano
tutte le persone convenute, affinché ci sia partecipazione, quanto che intervengano
possibilmente tutte le opinioni. E da questo punto di vista – dati determinati limiti di
tempo per ciascuna persona - dopo un certo numero di interventi è probabile che tutte
le ragioni siano già state messe sul tavolo. Oltretutto nessuno vieta che gruppi di
cittadini stabiliscano in anticipo come e con che argomenti intervenire in un’assemblea
pubblica. E tutto questo non esclude affatto che si inventino e siano presenti nuove
forme di rappresentanza o di mandato, anzi.
In definitiva ciò che molti autori hanno sempre dato per scontato è che le rispettive
idee di rappresentanza o di partecipazione diretta fossero definite e immutabili. Non è
che “rappresentanza” e “partecipazione” siano due categorie di per sé mutuamente
respingenti. Semmai quella specifiche idee di rappresentanza come un mandato che
scioglie il rappresentante da ogni vincolo una volta eletto e di partecipazione come un
attivismo permanente e totale si ponevano, in quella forma, su estremi ideali opposti.
È eloquente da questo punto di vista la definizione di “democrazia diretta” che ha
fornito Giovanni Sartori, come di una democrazia senza rappresentanti, che è tale in
quanto elimina i rappresentanti e ogni forma di intermediatori (Sartori, 1993, pp. 78 e
83).
In fondo questa discussione rimaneva rinchiusa in quello che come abbiamo visto
Gregory Bateson chiamava “apprendimento primario”. La soluzione al dilemma
richiedeva invece una forma di “deuteroapprendimento” o di “apprendimento
secondario”, in cui la soluzione non passa semplicemente per la scelta entro le
alternative date, ma piuttosto attraverso la modificazione correttiva dell’insieme delle
alternative dentro alle quali si effettua la scelta rivedendo così in termini nuovi la
segmentazione o suddivisione della realtà (Bateson, 2000, pp. 338 e ss.).
In realtà quello che si è visto a Porto Alegre e in altre esperienze partecipative
porta a due acquisizioni fondamentali:
1. rappresentanza e partecipazione non sono affatto necessariamente in
opposizione l’una con l’altra, e anzi si danno forme di interazione stretta e
anche di continuità tra le due forme.
2. tale interazione-continuità si estrinseca in una pratica che integra in sé
entrambe le forme determinando un ripensamento profondo delle tradizionali
idee di partecipazione e rappresentanza.
Concretamente nelle discussioni pubbliche i rappresentanti possono presentare le loro
proposte e cercare di convincere le persone ad appoggiare nei loro piani, mentre i
cittadini possono a loro volta essere istruiti dai rappresentanti sui termini della
questione e quindi partecipare in maniera più consapevole alla costruzione di una
progettualità politica. I rappresentanti traggono forza e autorevolezza nella loro
progettualità politica se riescono ad ottenere l’appoggio e anzi il contributo dei
cittadini nei loro intenti, mentre la gente riconosce la necessità di un confronto
ravvicinato con i loro rappresentanti per valutare e integrare ogni elemento tecnico,
economico amministrativo e di esperienza in modo da rendere concretamente
realizzabili le loro aspirazioni ideali.
A questo proposito ci si può scontrare facilmente con la tradizionale cultura politica
degli amministratori.
Quante volte abbiamo sentito dire dai politici e dagli amministratori con i quali si
parlava di “democrazia partecipativa” o di “bilanci partecipativi” che se era la gente
che sceglieva come andavano spesi i soldi pubblici allora i rappresentanti eletti non
servivano più a nulla. Quante volte abbiamo sentito levare gli scudi ed esprimere la
150
preoccupazione per il fatto che i rappresentanti sono votati da tutti e rappresentano
tutti i cittadini, mentre alle assemblee parteciperebbero solo piccole percentuali di
persone interessate solo a portare avanti i loro micro-interessi?
Tali preoccupazioni possono essere superate solo se da un punto di vista cognitivo
si esce dall’opposizione rappresentanza/partecipazione diretta e si comincia a pensare
nei termini di un processo di interazione continua tra cittadini e rappresentanti. A
questo proposito Tarso Genro parla di co-gestione, ed effettivamente il termine è
esatto per quanto riguarda la scelta tra alternative possibili nell’allocazione delle
risorse date. Tuttavia nella misura in cui il processo partecipativo mira a decidere
anche priorità tematiche ovvero a scegliere la priorità tra contesti alternativi
(istruzione piuttosto che urbanizzazione o salute…) e addirittura mira - attraverso la
decisione partecipata – a ridefinire quelle che sono le cornici di intervento possibili per
l’evoluzione della città (come si abita un territorio, come ci si muove in questo
territorio, quali forme di relazione si cercherà di stabilire tra persone, soggetti,
istituzioni, quali nuovi soggetti pubblici o privati possono essere introdotti e fatti
giocare nella realtà sociale, quali forme di ricerca si possono incentivare in relazione a
ecc…) si potrebbe più correttamente parlare di co-pilotaggio. Quest’ultima categoria
contiene in sé non solo l’idea di una condivisione dell’amministrazione e delle scelte
possibili tra le alternative esistenti, ma anche la possibilità di scegliere tra schemi più
ampi di determinazioni e con questo di stabilire un orizzonte di senso, una direzione,
verso cui ci si intende muovere.
Le dimensioni della partecipazione e l’imprevedibilità dell’agire politico
Contrariamente a quanto si è soliti pensare, l’idea partecipativa non contiene in sé
semplicemente l’idea di un estensione orizzontale del coinvolgimento dei cittadini.
È bene sottolineare l’esistenza di almeno tre dimensioni collegate alla
partecipazione e ai processi partecipativi.
- verticalità della partecipazione
- orizzontalità della partecipazione
- profondità della partecipazione
La prima dimensione, quella della verticalità, riguarda l’idea di una partecipazione
che investe via via i diversi livelli di organizzazione politica ed amministrativa, dai
quartieri e circoscrizioni, alle città, alle province, alle regioni, agli stati, alle
organizzazioni sopranazionali. È evidente che se la partecipazione investe solamente
uno di questi livelli – per esempio quello cittadino – ma non si estende per nulla agli
altri livelli che si rivelano al contrario impermeabili a qualsiasi forma di decentramento
e di codeterminazione nelle scelte fondamentali, la nostra esperienza concreta di
coinvolgimento politico risulterà alla lunga certamente frustrante. In primo luogo
perché ci sono problemi che vanno affrontati a determinati livelli e non ad altri, in
secondo luogo perché a qualsiasi livello la determinazione delle scelte politiche
dipende in gran parte dai quadri e dalle condizioni di riferimento fissate ad un livello
più ampio dell’attività politica. Da questo punto di vista è importante notare che c’è
una dimensione cruciale della politica che riguarda non soltanto l’attivazione di diversi
processi partecipativi a diversi livelli ma anche la costruzione di azioni coordinate a
differenti livelli territoriali e istituzionali. Si tratta dunque di coordinare processi
partecipativi su differenti piani in modo da ottenere il massimo di efficacia in ciascun
segmento.
La seconda dimensione quella dell’orizzontalità riguarda il grado di estensione della
partecipazione a ciascun livello di attività politica (locale, regionale, nazionale ecc…).
La credibilità dei processi partecipativi si fonda in gran parte anche nella capacità di
coinvolgere realmente una parte significativa della popolazione smuovendola spesso
dalla tradizionale apatia e – soprattutto per alcune fasce sociali - dalla possibile
151
tendenza a delegare la gestione dei propri interessi direttamente al potere politico e a
rapporti clientelari.
Il terzo livello quello della profondità del processo partecipativo è il più difficile da
comprendere ma è in realtà estremamente importante. Esso riguarda la
determinazione delle cornici dentro alle quali si andranno ad effettuare le scelte.
Ragionare su questo livello è cruciale quando se si vuole pensare che la politica non
si gioca solamente sulla determinazione di investimenti in opere e servizi, ma quando
si inizia a discutere di questioni quali modelli di produzione, forme del consumo, forme
e spazi dell’educazione, modelli di sostenibilità ecc. Di più, cogliere questa idea è
fondamentale per capire quale può e deve essere la linea evolutiva possibile delle
forme di coinvolgimento e partecipazione dei cittadini nelle scelte collettive, e qual è la
dimensione dentro alla quale si deve condurre la negoziazione sociale.
Si può fare un esempio concreto per capire. Ipotizziamo un Comune che per molti
anni ha gestito allegramente la questione dei rifiuti e che si ritrova ad un certo punto
di fronte ad una grave emergenza rifiuti. Le proprie discariche sono ormai colme, il
proprio inceneritore è vecchio e non offre molte garanzie e ci si trova di fronte alla
condizione di dover “esportare” i propri rifiuti verso altre città più attrezzate che però
impongono un alto costo
e che comunque stabiliscono dei limiti al possibile
smaltimento. L’Amministrazione comunale si trova in mano una questione urgente e
delicatissima che rischia di alienargli il consenso dei propri cittadini. Decide quindi di
mettere in piedi un processo partecipativo per coinvolgere gli stessi cittadini nella
risoluzione del problema. La possibilità di scelta relativa a quel momento e a quel
processo partecipativo è fin dal principio limitata. Il grado di democrazia partecipativa
e procedurale nella deliberazione può essere massimo ma egualmente la reale
possibilità di scelta concessa effettivamente ai cittadini sarà piuttosto ridotta.
Diverso è se ai cittadini viene offerta (o viceversa se i cittadini richiedono) la
possibilità di partecipare ad un processo il cui scopo è quello di decidere - prima di
arrivare ad una situazione di emergenza - come impostare la questione de rifiuti in
generale. In questo caso il confronto politico può ampliarsi fino a investire il tema
della raccolta differenziata, del compostaggio, dei piani di riciclo, delle tecnologie e dei
sistemi più ecologici di smaltimento ecc. Si potrebbe inoltre decidere di affrontare la
questione più alla radice chiamando in causa diversi soggetti - cittadini, imprese e
aziende produttrici, catene di distribuzione – per studiare misure che possano incidere
sulla produzione di rifiuti a monte riorientando la produzione, la distribuzione e il
consumo verso una diminuzione degli sprechi, degli scarti o dei materiali più difficili da
riciclare o da smaltire.
Da un punto di vista teorico si può retrocedere ampliando via via le questioni e
dunque lo spettro delle possibilità di intervento che si vuole assumere attraverso
processi più ampi di negoziazione sociale. Da un punto di vista pratico ovviamente il
processo presenterà naturalmente dei limiti. Anche perché i livelli più generali di
discussione spesso trascendono il livello meramente locale di decisione e richiedono di
fare i conti con contesti più ampi. Inoltre, prescindendo dalla dimensione territoriale,
si può pensare che ogni livello più ampio di decisione comporterà verosimilmente
anche una resistenza maggiore da parte dei soggetti sociali, economici e politici
coinvolti dal possibile cambiamento e dunque una maggior difficoltà ad essere oggetto
di processi decisioni democratici e partecipativi.
Ad ogni modo, quello che è importante capire, è che lo spettro di decisioni possibili,
ovvero l’agenda di possibilità, presente in un dato momento può essere modificato
solo per una parte, per il resto esso dipende da un lungo processo precedente di
scelte tra alternative e cornici di alternative.92
92
Arrivo a questo tipo di formulazione grazie ad uno studio condotto molti anni fa sull’azione politica a
partire tra l’altro dall’intepretazione di M.K. Gandhi e di S. Weil del testo religioso indiano Bhagavad Gita.
152
Ogni nostra decisione dipende da decisioni prese precedentemente da noi stessi o
da altri. In questo senso il momento della deliberazione non coincide assolutamente
con quello della scelta reale. Come ha notato Simone Weil «Non è che non si abbia
scelta, bensì che, se ci si colloca in un dato momento, non si ha più scelta. Non si può
più fare diversamente; è vano sognare di fare diversamente; ma è bene elevarsi al di
sopra di ciò che si fa. Così si sceglie, per un momento successivo, qualcosa di meglio
[….] In un momento dato non si è liberi di fare qualsiasi cosa. È necessario accettare
anche questa necessità interna. Accettare quel che si è, in un momento dato, come un
fatto, anche la vergogna» (Weil, 1982, p. 274).
In ogni esperienza partecipativa c’è una dimensione vincolante e costringente che è
direttamente proporzionale al livello di chiusura dei possibili che il processo
deliberativo permette. Viceversa il processo deliberativo diviene più democratico e
sovrano mano a mano che si estende il livello di apertura delle cornici possibili di
decisioni.
Un certo automatismo culturale ci può portare a credere che partecipare significhi
esercitare un diritto di scelta tra più alternative e che partecipare ad un processo
deliberativo significhi dunque più democrazia. Questo pregiudizio non tiene conto della
grande possibilità di manipolazione e di omologazione che può essere veicolata non
tramite l’esclusione, ma al contrario tramite l’inclusione. Ci sono forme di
coinvolgimento dei cittadini in cui la partecipazione delle persone è un aggiunta, un
gadget ulteriore che si associa per promuovere nel mercato politico un prodotto che è
già
sostanzialmente
predefinito
e
determinato.
Queste
esperienze
di
“compartecipazione” a conti fatti sono forme di complicità più che di libertà
espressiva. In concreto dunque si potrebbe distinguere vari livelli di partecipazione
non sulla base della cessione di minore o maggior potere (il concetto di potere è
qualcosa che andrebbe discusso criticamente e non assunto ingenuamente), quanto seguendo la teoria dei diversi livelli logici di apprendimento batesoniani – sulla base
delle diverse cornici di scelta, ovvero dei diversi livelli logici implicati nella possibilità
di scegliere.
Si potrebbe parlare dunque di: “partecipazione 1” quando si è coinvolti in un
processo decisionale che riguarda due o più alternative predefinite; “partecipazione 2”
quando la scelta può avvenire tra diversi insiemi di alternative; “partecipazione 3”
quando il processo di interazione lascia aperta la possibilità di inventare o creare
nuove soluzioni che modifichino le stesse condizioni iniziali di partenza, ovvero che in
qualche modo che amplino la domanda.
In termini più semplici - se volete – si potrebbe ricatalogare tutti quei processi
partecipativi in cui le possibilità di scelta sono in qualche modo predefinite dal
principio con il termine di “partecipazione orientata” e riservare il termine di
“partecipazione aperta” a quei processi partecipativi che permettono di intervenire
sugli stessi presupposti iniziali e che riservano uno spazio all’invenzione creativa.
Questi ultimi sono processi che mettono in discussione le strutture e i paradigmi di
fondo.
Ad ogni modo, qualsiasi siano i termini che vogliamo usare per fare un po’ di
distinzioni, affinché vi sia una reale partecipazione “politica” è fondamentale che il
risultato o gli orientamenti emergenti dal processo partecipativo e deliberativo non
siano già completamente predisposti e prevedibili ma che siano almeno in parte il
risultato di un’invenzione collettiva, ovvero di un’interazione creativa tra i soggetti
partecipanti. In altre parole, ogni sincero processo partecipativo deve custodire in sé
una parte di ignoto e di imprevedibile che è anche quella che permette un reale
cambiamento e una reale innovazione.
153
Tutto questo discorso non intende stabilire a priori che cosa è democratico e
partecipativo e cosa no, ma a riflettere sul fatto che il compito di una cittadinanza non
ingenua ma consapevole della complessità in gioco sia quello di ragionare con
intelligenza sui margini di opportunità e incisività della propria partecipazione al
processo decisionale rispetto alla determinazione del bene della collettività. In certe
condizioni, se il processo è troppo “orientato” e il margine di libertà troppo risicato, si
può rinunciare a partecipare e lottare per affermare un significato di partecipazione
più consistente. Nulla
vieta d’altra parte che date certe condizioni - si
possa
accettare
di
partecipare
partendo
anche
dai
contesti
deliberativi più semplici
e a fronte di cornici
predefinite
piuttosto
costringenti. Tuttavia in
questo caso, si dovrebbe
predisporre un “patto
partecipativo”
tra
cittadini e governanti
che includa anche una
“clausola di apertura”
che
predisponga
gli
impegni e le misure
necessarie
all’allargamento
delle
possibilità
di
partecipazione e di scelta riconosciute ai cittadini perlomeno per il futuro. Il compito di
una cittadinanza consapevole è infatti quella di ampliare continuamente le cornici della
partecipazione per arrivare a porsi dentro l’orizzonte ottimale dentro a cui orientare la
scelta.
LE ESPERIENZE DEI BILANCI PARTECIPATIVI
Sperimentato dall’Amministrazione Municipale a partire dal 1989, il Bilancio
Partecipativo (Orçamento Partecipativo OP) di Porto Alegre – Brasile è un processo
partecipativo attraverso il quale i cittadini decidono sul 100% delle spese di
investimento in opere e servizi della Municipalità, che rappresenta tra il 15% e il 25%
delle spese comunali. Il processo si fonda su:
- una base geografica, attraverso la formazione di 16 regioni create nel 1989
attraverso un accordo tra l’amministrazione e il movimento comunitario
- una base tematica, attraverso le cosiddette Plenarie Tematiche in cui le
assemblee vengono organizzate non per regione ma per tema.
Nel definire le spese di investimento si incrociano le preferenze espresse attraverso
il processo partecipativo con criteri oggettivi e tecnici quali il numero di abitanti e la
carenza di servizi rilevata. A Porto Alegre si contano 16 assemblee plenarie regionali e
6 assemblee tematiche, a cui partecipano circa 45.000 persone. Nelle Assemblee
pubbliche del Bilancio Partecipativo i rappresentanti delle istituzioni sono obbligati a
partecipare, per dialogare con i cittadini ma non hanno diritto di voto.
Il bilancio partecipativo di Porto Alegre è stato selezionato dal Programma di
Gestione Urbana dell’ONU come una delle 22 migliori pratiche di gestione pubblica
154
nella sezione per l’America Latina, mentre è stato indicato dal comitato tecnico
dell’ONU - Habitat II (seconda Conferenza Mondiale dell’Onu sugli insediamenti
Urbani, Istanbul, 1996) – come una delle 42 migliori pratiche di gestione urbana del
mondo. Anche l’UNDP e la Banca Mondiale hanno mostrato negli ultimi anni un grande
interesse per l’esperienza di Porto Alegre.
Non si tratta di una modalità spontaneistica, ma al contrario di un processo
complesso e minuziosamente organizzato. Per dare un’idea della complessità si può
vedere qui di seguito il normale calendario dei lavori:
• MARZO/APRILE
Riunioni Preparatorie
Riunioni
di
organizzazione
e
preparazione nelle regioni, microregioni, ambiti tematici.
Ordine
del giorno: Rendiconto anno
precedente;
Presentazione
del
Piano
degli
Investimenti;
Presentazione del Regolamento
Interno;
Presentazione
del
Bilancio
Partecipativo
Statale;
Discussione
Priorità Tematiche;
Criteri per le squadre di candidati
consiglieri
• APRILE/MAGGIO
Plenarie Regionali e Tematiche
(turno unico)
Ordine del giorno: Votazioni delle
Priorità Tematiche; Elezioni dei
Consiglieri Popolari; Definizione
del numero dei Delegati Popolari;
Rendicontazione scritta.
• MAGGIO /GIUGNO/LUGLIO
Assemblee
regionali
e
tematiche
Ordine del giorno: Elezione dei
delegati/e; Gerarchizazzione delle
Opere e dei Servizi; Decisione
sulle domande pervenute via
Internet (Forum dei delegati);
Prima della gerarchizzazione delle
richieste sopralluogo dei Delegati
nelle
zone
richieste,
per
conoscenza.
La struttura del bilancio partecipativo
Tratto da G. Allegretti, L’insegnamento di Porto
Alegre, Alinea, Firenze, 2003.
• PRIMA QUINDICINA DI LUGLIO
Assemblea Municipale
Ordine del giorno: Entrata in carica dei nuovi Consiglieri; Consegna della Lista
gerarchicamente ordinata di Opere e Servizi; Discussione su tecniche di portata
generale
• LUGLIO/AGOSTO/SETTEMBRE
155
Analisi delle Richieste e Costruzione della Matrice
Giunta (e strutture teniche): Analisi tecnico/finanziaria delle domande; Costruzione
della matrice di Bilancio
• AGOSTO/SETTEMBRE
Votazione della Matrice
Discussione e votazione della Matrice di Bilancio e inizio della distribuyzione dei
fondi nelel Regioni e negli Ambiti Tematici
• OTTOBRE/NOVEMBRE
Definizione del Piano degli Investimenti e servizi; Presentazione e votazione
della proposta di PI nei Forum dei Delegati Regionali e Tematici; Progetto Pilota di
Consulta sul Piano degli Investimenti approvato
• NOVEMBRE/DICEMBRE
Discussione nei Forum regionali e tematici delle alterazioni al RI (Regolamento
Interno), Criteri Generali e tecnici; Presentazine del PI e delle votazioni dei Forum
regionali e tematici nel COP e valutazione delle risorse disponibili
• DICEMBRE/GENNAIO
Discussione e votazione de Regolamento Interno, Criteri generali e tecnici
• FEBBRAIO
Sospensione dei lavori
Esperienze di bilanci partecipativi o di forme di democrazia partecipativa avanzatae
si sono riprodotte in diverse parti del mondo:
Dove è stato sperimentato?
In Brasile La pratica del bilancio partecipativa si è ormai estesa in oltre 100 città
brasiliane tra cui Belo Horizonte, Belèm, Santo Andrè, Barra Mansa, Icapuí, San
Paolo, Río Bonito e in numerosi città nel mondo.
In AMERICA LATINA esperienze significative si sono registrate in Argentina
(Buenos Aires, Córdoba), Uruguay (Montevideo), Costarica (San José), Honduras
(Puerto Cortés), Bolivia (Cochabamba), Equador (Quito, Area Metropolitana Ciudad
de Alfaro), Perù (Villa El Salvador, Area metropolitana di Lima), Colombia (Pasto).
Per l'AFRICA si segnalano in particolare Camerun (Douala, Yaoundé, Bafoussam)
e Senegal (Gorée, Dakar).
In ASIA le esperienze più significative riguardano alcuni stati dell’India (Rajastan,
Andhra Pradesh e Bangalore, Kerala),
In EUROPA si sono distinte Francia (Saint-Denis, Morsang sur Orge, Bobigny,
Petit-Bourg), Spagna (Sant Feliu de Llobregat, Rubi), Germania (Blumenberg,
Mönchweiler, Emsdetten, Rheinstetten, Passau, Arnberg, Hamm, Hilden, Monheim,
Castrop Rauxel, Vlotho), Gran Bretagna (Manchester), Finlandia (Hameenlinna).
In Italia le esperienze storiche e più significative sono state condotte a
Grottammare (dal 2002), a Pieve Emanuele (2003-2007), nel Municipio XI di Roma
(dal 2003). Esperienze significative di bilancio partecipativo sono state condotte a
Paderno Dugnano, Locate Di Triulzi, Vimodrone, Bollate, Senago, Canegrate, Colorno,
Modena, Novellara, Reggio Emilia, Arezzo, Calcinaia, Acquapendente. Tra le
esperienze attuali si segnalano per interesse quella di Modena (dal 2005) e quella di
Capannori (dal 2011).
156
Corso di Sociologia della comunicazione politica - a.a. 2014/2015
Verso una democrazia ecologica?
La discussione pubblica e la partecipazione politica
di fronte alla crisi ambientale
Docente: Marco Deriu
LA DEMOCRAZIA DELIBERATIVA
In una società democratica ciascuno desidererebbe che la propria opinione contasse
veramente. Che non solo potesse essere espressa liberamente e chiaramente, ma
anche che fosse in qualche misura ascoltata e contribuisse ai processi di costruzione
delle policy. Tuttavia quanto la nostra opinione è realmente la nostra opinione?
Ovvero quanto si basa davvero sui nostri valori e sulla reale conoscenza delle
questioni che ci interessano in modo tale da essere da noi stessi rielaborate, e quanto
invece è il frutto di varie forme di pressione, di propaganda, manipolazione, o
semplicemente di sentito dire?
1. Farsi un’opinione…
Il punto di partenza delle riflessioni sulla “democrazia deliberativa”93 è legato al
fatto nelle forme tradizionali di espressione democratica - voto, referendum, sondaggi
- quello che viene registrato non è in assoluto quello che la gente pensa, ma
semplicemente l’idea che le persone hanno in quel preciso momento, spesso prima di
prendere realmente in esame una questione in modo da sviluppare un proprio punto
di vista consapevole.
93
Il dibattito della democrazia deliberativa si avvia a partire dagli anni ’80, in particolare con il saggio di
JOSEPH BESSETTE, Deliberative Democracy: The Majority Principle in Republican Government, in R. GOLDWIN,
W. SHAMBRA (eds.), How Democratic is the Constitution?, America Enterprise Institute, Washington Dc,
1980, pag. 102-116. Tra gli studi più importanti possiamo citare JAMES BOHMAN, Public Deliberation:
Pluralism, Complexity and Democracy, The Mit Press, Cambridge, 1996; JOHN S. DRYZEK, Deliberative
Democracy and Beyond Liberals, Critics, Contestations, Oxford University Press, Oxford and New York,
2000; JON ELSTER (ed.), Deliberative Democracy, Cambridge University Press, Cambridge, 1998; JAMES S.
FISHKIN, Deliberation. New Direction for Democratic Reform, Yale University Press, New Haven and
London, 1991; JAMES S. FISHKIN, When the People Speak. Deliberative Democracy & Public Consultation,
Oxford University Press, Oxford and New York, 2011; ROBERT E. GOODIN, Innovating Democracy.
Democratic Theory and Practice After the Deliberative Turn, Oxford University Press, Oxford and New
York, 2012; JOHN PARKINSON and JANE MANSBRIDGE (eds.), Deliberative Systems, Cambridge University
Press, Cambridge, 2013. In italiano si possono leggere LUIGI BOBBIO (a cura di), A più voci.
Amministrazioni pubbliche, imprese, associazioni e cittadini nei processi decisionali inclusivi, Edizioni
Scientifiche Italiane, Napoli, 2004; GIANCARLO BOSETTI, SEBASTIANO MAFFETTONE (a cura di), Democrazia
deliberativa: cos’è, Luiss University Press, Roma, 2004; JAMES S FISHKIN, La nostra voce. Opinione
pubblica & Democrazia, una proposta, Marsilio, Venezia, 2003; ANTONIO FLORIDIA, La democrazia
deliberativa: teorie, processi e sistemi, Carocci Editore, Roma, 2012; GUIDO PARIETTI, La democrazia
deliberativa. Una ricostruzione critica, manifestolibri, Roma, 2013; IOLANDA ROMANO, Cosa Fare, come fare.
Decidere insieme per praticare davvero la democrazia, chiarelettere, Milano, 2012; MARIANELLA SCLAVI,
LAWRENCE E. SUSSKIND, Confronto creativo. Dal diritto di parola al diritto di essere ascoltati, et al., Milano,
2011; YVES SINTOMER, Il potere al popolo. Giurie cittadine, Sorteggio e Democrazia Partecipativa, Dedalo,
Bari, 2009.
157
Richiamare l’idea di sovranità popolare in queste condizioni risulta quindi piuttosto
riduttivo o semplificatorio. La raccolta delle opinioni o dei voti rischia di registrare da
questo punto di vista lo stato di più o meno ampia ignoranza diffusa nell’opinione
pubblica rispetto a questo o a quel problema.
Come ha scritto Guido Parietti,
«la democrazia deliberativa principia dalla consapevolezza che volontà e
opinioni politiche non esistano in modo significativo prima di essere state
elaborate e messe alla prova nel discorso pubblico»94.
In altri termini il carattere democratico emergerebbe non da una fotografia statica
ma da una dimensione di interazione dinamica che va rafforzata e potenziata;
attraverso l’accesso a un’informazione approfondita, attraverso l’ascolto dell'opinione
di altri cittadini o di differenti portatori di interessi, attraverso il confronto con esperti,
e in generale attraverso il confronto tra più punti di vista si può ottenere in tempi
piuttosto rapidi un processo di rafforzamento delle competenze e di trasformazione
delle proprie stesse idee.
Da questo punto di vista è bene chiarire che il concetto di democrazia deliberativa si
presta nella lingua italiana a qualche possibile fraintendimento. Mentre in italiano la
deliberazione è il momento finale, successivo alla discussione e alla valutazione della
questione rispetto alla quale si assume una decisione, viceversa in inglese
“deliberation” si riferisce al processo attraverso il quale si va ad esaminare una
questione, una problematica, un progetto e se ne analizzano tutti i punti di vista, si
soppesano i possibili risvolti positivi e negativi e le possibili risposte, azioni o vie
d’uscita, si offrono ragioni e argomenti in un senso o in un altro.
2. …e magari cambiare idea
L’idea di fondo dunque è che ciò che qualifica davvero il processo democratico non
sia semplicemente la conta dei voti o delle teste, ma più in profondità il processo di
discussione e di confronto “faccia a faccia”. In democrazia noi dovremmo essere
sempre pronti a cambiare idea qualora gli argomenti portati da altri soggetti o da altri
cittadini si dimostrassero più solidi e lungimiranti dei nostri.
Ciò a cui i teorici della democrazia deliberativa mirano è dunque trovare gli spazi e
le condizioni adeguate per potenziare la facoltà di confronto tra più persone e la
facoltà di giudizio dopo una riflessione ponderata.
Come ha scritto uno dei più noti teorici di questo approccio, James S. Fishkin:
«alla domanda che percorre la storia della sperimentazione democratica:
“Quando il popolo può esprimere al meglio la propria voce in suo nome?”, si può
rispondere semplicemente: il pubblico può parlare al meglio in suo nome quando
riesce in qualche modo a riunirsi per ascoltare le argomentazioni a favore o
contro una determinata questione e in seguito, dopo aver discusso faccia a
faccia, giunge a una decisione collettiva».95
Idealmente l’opinione politica non dovrebbe essere ostaggio dei preconcetti o
congelata in identità inscalfibili; ogni cittadino dovrebbe essere disponibile a prendere
in esame anche altri punti di vista o aspetti non riconosciuti in precedenza, o
semplicemente dovrebbe essere disponibile a ripensare i propri interessi e desideri alla
94
GUIDO PARIETTI, La democrazia deliberativa. Una ricostruzione critica, manifestolibri, Roma, 2013, pag.
276.
95
JAMES S FISHKIN, La nostra voce. Opinione pubblica & Democrazia, una proposta, Marsilio, Venezia,
2003, pag. 19.
158
luce del vissuto e delle necessità di altre persone, o della comunità più in generale. In
questo senso il processo democratico dovrebbe offrire la possibilità di andare incontro
alle necessità di tutti, trovando una mediazione il più possibile equa e accettabile tra
le diverse posizioni.
Da queste prime considerazioni si capisce come la filosofia politica della democrazia
deliberativa contempli al proprio interno una forte dimensione normativa relativa
all’ideale del buon cittadino e del confronto civile tra cittadini. Inoltre è presente una
evidente dimensione educativa. Le modalità di partecipazione alla vita in comune
dovrebbero costituire una sorta di scuola di politica, in cui si impara ad ascoltare,
esprimersi e discutere. In questi elementi si possono d’altra parte cogliere in filigrana
alcuni rischi o problematicità che approfondiremo in seguito.
3. Una certa idea di democrazia
Partiamo innanzitutto dagli aspetti più interessanti sottesi a questa impostazione.
L’approccio deliberativo prende chiaramente le distanze da una visione della
democrazia troppo individualistica, in cui ognuno ragiona per conto proprio e si muove
sulla base dei propri interessi. In questo c'è anche un rifiuto della democrazia come
mercato politico, in cui i cittadini sono pensati come singoli consumatori isolati che si
ritrovano a scegliere o a negoziare per il prodotto politico migliore. D'altra parte
nell'impianto deliberativo c'è al fondo anche una critica delle scorciatoie maggioritarie
che registrano come volontà del popolo i rapporti di forza e le maggioranze che volta
per volta si impongono.
Nell’idea di democrazia deliberativa i cittadini sono cittadini insieme e la
vita politica e frutto del confronto e dell’interazione e non semplicemente
dell’aggregazione delle opinioni o degli interessi. L'aspetto importante da
cogliere è che - pur partendo dal riconoscimento delle differenze e dei diversi punti di
vista - si vuole alludere a dimensioni che in qualche modo vanno oltre le singole
persone.
C'è in effetti un richiamo a volte implicito e a volte esplicito a una dimensione
intersoggettiva. Jürgen Habermas, per esempio, uno dei padri filosofici di questi
approcci, esplicita chiaramente che
«La teoria del discorso punta sull’intersoggettività di grado superiore
caratterizzante i processi d’intesa che si compiono nelle procedure democratiche
oppure nella rete comunicativa delle sfere pubbliche».96
Per Habermas sia all'interno che all'esterno del complesso parlamentare può
prendere piede una formazione più o meno razionale dell'opinione relativamente ad
alcune materie rilevanti che richiedono una disciplina o un orientamento. In altre
parole c'è una fiducia nella possibilità di produrre discorsivamente degli orientamenti
che possono essere tradotti dalle istituzioni legislative in un "potere
amministrativamente esercitabile".
La dimensione di razionalità della deliberazione è per Habermas fondamentale, in
quanto gli elementi di generalità e inclusione da soli non garantirebbero la qualità del
processo. Il discorso razionale per Habermas sarebbe un «procedimento appropriato
per risolvere i conflitti, perché rappresenta una procedura che assicura l'inclusione di
tutti gli interessati e la pari considerazione di tutti gli interessi toccati» 97. Ciascun
partecipante può portare a casa i migliori risultati solo se convince gli altri partecipanti
96
JÜRGEN HABERMAS, Fatti e norme. Contributi ad una teoria discorsiva del diritto e della democrazia,
Laterza, Roma-Bari, 2013, p 334.
97
JÜRGEN HABERMAS, La condizione intersoggettiva, Laterza, Roma-Bari, 2007, pag. 57.
159
o gli oppositori della validità del suo punto di vista, sulla base degli argomenti migliori
che riesce a produrre.
Si può imputare all'approccio della razionalità comunicativa di Habermas un eccesso
di razionalismo (i criteri di valutazione pertinenti sono qui puramente razionali) e una
svalorizzazione di altre dimensioni importanti per la conoscenza, l'incontro e lo
scambio tra persone. Sui limiti di questa impostazione dirò qualcosa in seguito. Ciò
nonostante non c'è dubbio che la centralità della dimensione intersoggettiva
rappresenta un punto importante in questo approccio alla democrazia.
«Lo spazio, intersoggettivamente condiviso, della situazione discorsiva afferma il filosofo tedesco - si dischiude solo a partire dal momento in cui i
partecipanti entrano personalmente in relazione, prendendo posizione su
reciproche offerte linguistiche oppure assumendosi obblighi illocutivi»98.
Una delle critiche che sono state rivolte agli approcci deliberativi è che
costituirebbero una forma di rimozione dei conflitti sociali e politici che
attraversano la società. Certamente la capacità di riconoscere la pluralità di valori e
punti di vista presenti nella società e di tradurli in una logica di confronto democratico
è una delle sfide, forse la sfida per eccellenza, dei regimi democratici. Va detto
tuttavia a questo proposito che le forme assunte della democrazia rappresentativa,
specialmente nelle sue espressioni più duramente maggioritarie, mostrano una forte
incapacità di far spazio a queste conflittualità, di offrire un terreno di ascolto e di dare
risposta a queste tensioni. Anzi se c'è un tratto diffuso è l'emergenza di forti tensioni
laddove le autorità pubbliche procedono nelle loro scelte facendo riferimento
all'autorità che deterrebbero sulla base dell'investitura elettorale e saltando
completamente il passaggio dell'ascolto e del confronto con i territori, i soggetti e la
popolazione rispetto a scelte che impattano profondamente sulla vita delle persone.
Da questo punto di vista il modo in cui nel nostro paese è stata gestita la questione
dell'Alta Velocità rappresenta un esempio assolutamente paradigmatico.
Negli approcci deliberativi non viene supposta affatto un’unica volontà
generale. Il punto di partenza è al contrario la differenza di punti di vista, anche oltre
quelli che trovano rappresentazione politica nelle forme tradizionali e riconosciute.
Certamente c'è il tentativo implicito in questi processi di ricondurre le diverse parti ad
un confronto faccia a faccia, specialmente in quel tipo di processi che coinvolgono in
qualche misura i diversi stakeholders e che si propongono di affrontare creativamente
i conflitti sociali. Nella discussione, anche conflittuale - suggerisce Habermas - le
diverse parti «imparano a includersi vicendevolmente in un mondo costruito in
comune, in modo tale che poi possano giudicare le azioni controverse alla luce di
valutazioni concordanti e a risolverle consensualmente»99.
Ci possono essere tuttavia situazioni in cui il conflitto di valori e di
prospettive è radicale e forse incomponibile. La distanza tra le posizioni in campo
è il riflesso di orizzonti fra loro alternativi e non semplicemente differenti, e dunque
non è possibile nei fatti una significativa convergenza.
Tuttavia anche in questi casi garantire la qualità di un confronto deliberativo può
assolvere diverse importanti funzioni. Può diminuire i pregiudizi o i processi di
demonizzazione degli avversari; può chiarire meglio le diverse posizioni; può definire
con più precisione i punti di distanza e disaccordo nonché le alternative e i diversi
orientamenti possibili nell'assunzione di indirizzi politici. In questo caso possono
intervenire altre procedure decisionali, come il voto a maggioranza o i referendum
98
JÜRGEN HABERMAS, Fatti e norme. Contributi ad una teoria discorsiva del diritto e della democrazia,
Laterza, Roma-Bari, 2013, p 404.
99
JÜRGEN HABERMAS, La condizione intersoggettiva, Laterza, Roma-Bari, 2007, pag. 57.
160
popolari per sancire una decisione ma sulla base di un percorso che ha garantito
comunque un confronto più ricco, civile e approfondito.
4. Procedure o processi
Una domanda che ritorna spesso nel dibattito politico è se nell'approccio
deliberativo vi sia una concezione sostanziale o puramente procedurale della
democrazia. Tale discussione rischia perfino di essere oziosa nel suo limitarsi a
opporre finalità estrinseche o l'autosufficienza della procedura in se stessa. È vero che
dal punto di vista della filosofia deliberativa il risultato finale non può essere scontato
e lo stesso procedimento non può essere legittimato a partire dal risultato, ovvero dai
contenuti effettivi delle decisioni, tuttavia mi pare riduttivo e semplicistico pensare
all'approccio deliberativo come avulso da assunti normativi e puramente procedurale.
Da una parte infatti quelle che sembrano procedure neutrali e impersonali sono
traduzioni pratiche e approssimative di assunti valoriali di partenza. L'idea che
ciascuno dei partecipanti debba poter accedere a un certo grado di informazioni e
conoscenze; che ciascuno (a seconda dei casi i cittadini direttamente interessati, gli
stakeholders o dei cittadini estratti a sorte) debba poter esprimere il proprio punto di
vista; che nessuno possa impedire ad un altro di prendere parola; che ciascuno possa
essere ascoltato; che si debbano ricercare le migliori condizioni per confrontarsi
liberamente; che si debba fare il possibile per tener conto dei diversi punti di vista;
che ci si debba basare sui buoni argomenti piuttosto che sul denaro o sulla forza; che
vadano evitate forme di coercizione di qualsiasi tipo, e infine che quello che si genera
in questo tipo di confronto sia qualcosa di più e di diverso - in termini cognitivi e
politici - dalla conta dei voti: tutto questo rappresenta evidentemente l'incorporazione
di assunti valoriali fondamentali, non banali né scontati.
D'altra parte le procedure sono dei dispositivi che possono essere criticati, rivisti e
ripensati nella misura in cui non permettono le migliori condizioni possibili per questo
necessario confronto. Più che alle procedure in sé occorrerebbe prestare
attenzione alla qualità dei processi e ai significati impliciti in ciò che accade
nelle relazioni intersoggettive tra le persone coinvolte.
Ci sono per esempio tutta una serie di sensibilità e attenzioni politiche e culturali
relativamente al contesto deliberativo che riguardano orari, tempi, organizzazione,
accesso alle risorse, servizi di supporto, equità nella espressione di genere,
generazioni e appartenenze sociali o culturali che vanno al di là delle procedure e che
possono contribuire a garantire la qualità di un processo democratico e deliberativo.
Ciò non toglie che tutti i partecipanti portino con sé non solo pregiudizi personali
ma anche pregiudizi sociali o addirittura culturali, rispetto ai quali è difficile
intervenire. Per cui anche nelle migliori condizioni, l'attenzione al processo e ai
percorsi di costruzione dell'opinione non possono garantire la migliore soluzione
possibile, ma solamente una possibile intesa, una mediazione o al limite la
chiarificazione delle diverse posizioni.
5. Esperienze e sperimentazioni
La filosofia deliberativa, come si è visto nell'approccio di Habermas, può informare
sia le forme di discussione nelle arene istituzionali e legislative tradizionali, sia la
discussione al di fuori di esse negli spazi pubblici della società civile. Tuttavia nelle
arene tradizionali il dibattito è spesso fortemente condizionato dalle appartenenze
partitiche e ideologiche e raramente si generano le condizioni per un'effettiva
discussione aperta che permetta a ciascuno di esprimere liberamente il proprio punto
di vista, di confrontarsi ed eventualmente di cambiare idea. Diversamente, nelle
assemblee e manifestazioni della società civile, se da una parte si può registrare una
161
maggiore libertà di espressione dovuta anche al fatto di essere sollevati dal dover
prendere decisioni effettive e vincolanti, dall'altra tali discussioni rischiano di rimanere
molto astratte e di esprimere orientamenti che non hanno poi un evidente influenza
sui decisori politici. Non a caso dunque il dibattito attorno agli approcci deliberativi ha
avuto un forte sviluppo anche rispetto alla possibile costruzione di luoghi e contesti di
discussione sperimentali particolarmente adeguati all'ideale del confronto discorsivo.
In quest'ambito gli strumenti elaborati sono diversi e portano nomi differenti:
Deliberative pollings, Consensus conferences, Conférence de citoyens, Citizens’ Juries,
Planunsgzelle ecc. Il principio ispiratore comune è comunque quello di creare degli
spazi pubblici che permettano effettivamente ai cittadini partecipanti - attraverso la
raccolta di informazioni, il confronto con esperti e portatori di interessi e il confronto
dei diversi punti di vista - di diventare quei cittadini informati, consapevoli, riflessivi
che ci aspetteremmo da dei decisori democratici. In generale questi consessi
esprimono più delle raccomandazioni che delle vere e proprie decisioni. Ma anche
quando si arriva al voto, l'aspetto ritenuto fondamentale è che la votazione a
maggioranza è comunque preceduta da un processo deliberativo. In tutti i modi si
tratta di dispositivi messi in atto generalmente da amministrazioni e altri attori
pubblici che dimostrano in qualche misura un interesse ad ascoltare i risultati e le
indicazioni che emergano da simili processi. Vediamo ora alcuni di questi strumenti.
Citizens Juries
Una modalità diffusa è una famiglia di esperienze nelle quali un piccolo gruppo di
cittadini estratti a sorte per un periodo di tempo determinato (in genere da 2 a 5
giorni) approfondisce e discute una specifica questione o controversia. Il termine fa
riferimento alla modalità di funzionamento delle giurie dei processi penali tipici ad
esempio degli Stati Uniti, con la differenza che in questo caso il fine non sono dei
verdetti ma delle possibili soluzioni o orientamenti per le politiche pubbliche.
Il politologo Ned Crosby ha sviluppato l'idea delle Citizens Juries a partire dal
1971 con lo scopo di realizzare un processo che accresca la riflessione e l'empatia dei
cittadini mentre discutono di una questione di ordine pubblico o della candidatura di
specifici candidati. Qualche anno più tardi, nel 1974, Crosby fonda il Jefferson
Center100 che negli anni successivi implementerà oltre una trentina di esperienze di
giurie cittadine in gran parte negli Stati Uniti.
L'idea è che un microcosmo del pubblico possa essere abilitato a trattare questioni
complesse in modo più efficace del pubblico generico solitamente consultato nei
sondaggi demoscopici e che i decisori politici si possano avvantaggiare dal
comprendere quello che la gente può pensare osservando un problema da vicino.
Una Citizens Jury offre l'opportunità a un gruppo di cittadini di conoscere un
problema, di discuterlo insieme in maniera ben informata e di sviluppare assieme delle
soluzioni comuni e praticabili per questioni pubbliche difficili. In genere una giuria
comprende un gruppo di cittadini (di solito tra i 18 e i 24) selezionato in modo
casuale, ma rappresentativo in termini demografici, che si riunisce per alcuni
giorni per esaminare attentamente una questione di rilevanza pubblica. I giurati
sono pagati con una sorta di stipendio per l'utilizzo del loro tempo. Si trovano
ad ascoltare un certo numero di testimoni ed esperti e sono invitati a discutere
assieme sulla questione. L'ultimo giorno delle loro audizioni i membri della Citizens
Jury espongono le loro raccomandazioni ai decisori politici e al pubblico.
La prima Citizens Jury è stata sperimentata nel 1974 e riguardava il
National Health Care Plan. Nei successivi quarant'anni sono state condotte oltre
una trentina di esperienze su temi che riguardavano tornate elettorali ed elezioni a
100
http://jefferson-center.org/
162
vari livelli, impatti dell'agricoltura sulla qualità dell'acqua, trapianto degli organi,
progetti nelle scuole, edilizia popolare, progetti di riforme sanitarie e del welfare,
questioni fiscali, politiche del traffico, piani di distribuzione elettrica o di uso della
terra, piani di gestione dei rifiuti, politiche sul cambiamento climatico, piani educativi
ed economici.
Un esperimento interessante di giurie cittadine per progetti microlocali è stato
condotto a Berlino tra il 2001 e il 2003 in 17 quartieri della capitale con una
formula basata su una quindicina di sessioni di 2-3 ore ciascuna101.
Planungszelle (cellule di pianificazione)
La formula delle Planungszelle (cellule di pianificazione) non è molto
differente.102 È stata elaborata dal sociologo Peter Dienel (1923-2006) della
Bergische Universität di Wuppertal in Germania negli anni '70 mentre era membro
dello staff di pianificazione della Cancelleria di Stato della North-Rhine/Westphalia.
Il processo coinvolge circa 25 cittadini selezionati con criteri sociodemografici a partire da un numero molto più ampio di persone che viene
contattato. Questi lavorano come consulenti pubblici per un periodo limitato di tempo
(in genere 4 giorni) per presentare proposte e soluzioni per un problema o una
questione politica difficile o complessa. La cellula è accompagnata da due facilitatori
del processo che, pagati per il loro servizio, sono responsabili della pianificazione
dell'informazione e della moderazione delle sessioni plenarie.
Ci sono 9 elementi che compongono una Cellula di Pianificazione103. Il primo è il
lavoro di squadra poiché per i 4 giorni del processo i cittadini coinvolti lavorano
continuamente in piccoli gruppi ruotandone la composizione, in modo che prima o
dopo ciascuno si confronti e cooperi con tutti gli altri. In secondo luogo viene
chiaramente definito il ruolo dei partecipanti, che sono chiamati ad agire come
decisori, ma in quanto cittadini come gli altri. Essi devono rimanere obiettivi,
cooperare e cercare di tutelare l'interesse pubblico. La terza caratteristica di questo
metodo è che i partecipanti sono pagati, perché questo rafforza la dedizione e la
serietà con cui possono assumere questo incarico visto che dovranno per qualche
giorno abbandonare le loro normali attività e non tutti possono permetterselo senza
un rimborso. Questo elemento differenzia questo processo da altri simili, rendendolo
più costoso anche se più inclusivo.
In quarto luogo i partecipanti sono supportati per soddisfare le necessità famigliari
e quotidiane - per esempio per la cura dei figli, degli anziani o di parenti ammalati -,
in modo tale che possano concentrarsi sul processo politico per tutta la durata del
lavoro.
La quinta caratteristica della proposta di Dienel è la delimitazione temporale della
incontro a quattro giorni. Tale quadro assicura la neutralità dei partecipanti che non
hanno il tempo in questo modo di sviluppare o organizzare interessi di gruppo. Il
sesto elemento riguarda il metodo di selezione, ovvero il campionamento casuale,
che Dienel ritiene una procedura più ragionevole del voto o dell'autoselezione
volontaria poiché garantisce la partecipazione di persone comuni di diverse posizioni
politiche, sociali ed economiche, che magari non parteciperebbero spontaneamente ed
evita inoltre l'intrusione di interessi privati o organizzati nel processo deliberativo.
101
YVES SINTOMER, Il potere al popolo. Giurie cittadine, Sorteggio e Democrazia Partecipativa, Dedalo,
Bari, 2009
102
Sul tema si può leggere GIOVANNI TONELLA, Die Planungszelle. Processi di coinvolgimento deliberativo e
forme di amministrazione partecipativa, Il poligrafo, Padova, 2012.
103
Per un approfondimento si veda ANTOINE VERGNE, "Portrait of A Pioneer", Journal of Public Deliberation:
Vol. 1: Iss. 1, Article 11, 2005. Available at: http://www.publicdeliberation.net/jpd/vol1/iss1/art11
163
Il settimo aspetto riguarda il fatto che i cittadini non sono selezionati sulla base di
autorità o competenze particolari. Sono i semplici cittadini a partecipare, perché si
intende sottolineare che i cittadini - se messi nelle opportune condizioni - possono
essere competenti per affrontare e risolvere i problemi che li riguardano.
L'ottavo aspetto da considerare è che i partecipanti saranno supportati in due
modi: il confronto con esperti che dopo essere stati ascoltati rimarranno comunque a
disposizione per chiarire eventuali dubbi e l'aiuto dei due facilitatori che si
occuperanno di tutti gli aspetti organizzativi e pratici del processo.
Infine l'ultimo aspetto è che attraverso il processo della cellula di pianificazione i
cittadini rispondono a un problema predeterminato, ovvero non deciso da loro stessi
ma ad essi proposto.
Il processo di pianificazione può coinvolgere anche più cellule allo stesso tempo
(spesso quattro contemporaneamente). In ciascuna cellula i partecipanti si sforzano di
acquisire informazioni, dati e conoscenze sul problema, di discutere assieme le
possibili soluzioni e valutare la proposta più vantaggiosa in termini di conseguenze più
o meno desiderabili. Anche in questo caso i cittadini possono apprendere qualcosa a
proposito dei diversi aspetti tecnici e politici delle diverse opzioni o decisioni. Alla fine
del processo i risultati vengono presentati nella forma di un "rapporto cittadino" che
viene consegnato alle autorità e ai partecipanti.
Anche questa modalità ha alle spalle circa 35 anni di sperimentazione. Dal 1978 ad
oggi sono state condotte oltre trecento cellule di pianificazione. Nel 1980 il metodo è
stato usato per la progettazione del Municipio di Colonia. Nel 1985 per determinare
il futuro dell'erogazione energetica in diverse città tedesche. Nel 1996 ad
Hannover è stato organizzato un set di cellule di pianificazione che ha coinvolto 300
cittadini per rinnovare il sistema di trasporto urbano della città. Nel 2001 in
Baviera un sistema di cellule che ha visto la partecipazione di 435 partecipanti si è
confrontato sul tema della protezione del consumatore. In Spagna questo sistema
è stato utilizzato fra l'altro per progettare la costruzione di stadi e impianti
sportivi (1992), per la pianificazione di una nuova autostrada in una regione dei
territori Baschi (1993-94), per pianificare e potenziare le politiche del turismo a
Onati (1997).
Consensus conferences
Le Consensus conferences hanno origine negli USA nel 1977 quando il National
Institute of Health organizzò una conferenza in cui un campione di 15 medici
interrogò alcuni esperti attorno ai metodi di protezione dal cancro al seno al fine di
costruire un certo consenso sull'argomento e di stendere un rapporto pubblico per la
comunità medica. Questo sistema è stato riutilizzato molte volte in ambito medico.
L'idea e la modalità vennero riprese nel 1987 dal Danish Board of Technology,
un organismo creato dal Parlamento danese per supportare il dibattito sulle nuove
tecnologie e le loro implicazioni. Da allora la metodologia di coinvolgere gruppi di 15
cittadini selezionati con criteri socio-demografici tramite sorteggio, su temi
scottanti quali le centrali nucleari, gli OGM e le biotecnologie alimentari, la
mappatura del genoma umano e la clonazione, sulle forme di protezione ambientale
ecc. si è diffuso enormemente in Danimarca e in altri paesi. Pur avendo in comune
alcuni elementi con gli altri approcci, le Consensus Conferences, che possono essere
organizzate da organismi pubblici o privati, si distinguono poiché vengono
organizzate in due tappe in un arco temporale di diversi mesi. In un primo
momento il gruppo di gestione che comprende conduttori e animatori riunisce il
campione di cittadini in un paio di week end. In questa fase viene distribuito e messo
a disposizione materiale informativo e si comincia ad approfondire il tema, si
selezionano gli esperti che saranno contattati e interpellati e si definiscono le domande
164
che potranno essere loro rivolte. Il momento successivo è quello della conferenza vera
e propria che dura dai tre ai quattro giorni. Nei primi giorni i partecipanti interrogano
gli esperti e discutono con loro dei diversi risvolti della problematica. Nei giorni
successivi i partecipanti lavorano a porte chiuse con l'obiettivo di stendere - in genere
con l'aiuto di un segretario - un vero e proprio rapporto conclusivo di 15-30 pagine.
Nel rapporto, che sarà presentato alla stampa, ai cittadini e quindi inviato ai decisori
pubblici, viene espresso un orientamento complessivo integrato da pareri di eventuali
minoranze. Le Consensus conferences hanno avuto un impatto importante in
Danimarca dove sono divenute un sistema riconosciuto e formalizzato che ha
influenzato anche le decisioni del parlamento in campo medico-sanitario, ambientale o
della ricerca scientifica.
Deliberative Polling
La formula dei Deliberative Polling o Sondaggi deliberativi è stata proposta
dal politologo americano James S. Fishkin104 sulla base della problematizzazione
delle tecniche dei sondaggi d’opinione inventati da George H. Gallup e a partire dalla
riscoperta dei sistemi ad estrazione (anziché a elezione) abitualmente utilizzati
nell’esperienza storica della democrazia ateniese105. Si tratta di selezionare un
campione casuale di popolazione che rispetti tuttavia nella composizione le
dimensioni socio-demografiche della popolazione, a cui somministrare all’inizio un
questionario preliminare come se si trattasse di un normale sondaggio. In una
seconda fase, a partire da questo campione viene definito un gruppo più piccolo
composto da 200 a 400 persone. Questo gruppo viene coinvolto in una riunione
deliberativa della durata di un week end in un luogo prescelto a fronte di un
piccolo rimborso per il loro impegno. Operativamente il gruppo generale viene
suddiviso in gruppi più piccoli di circa 12-15 persone per facilitare la discussione e il
confronto faccia a faccia. A tutti i partecipanti vengono distribuiti in via preliminare
materiali ed opuscoli il più possibile obiettivi o bipartisan, mentre la conduzione dei
gruppi viene affidata a dei moderatori con il compito di garantire la correttezza della
discussione. Alla fine del week end di discussione viene somministrato un
secondo questionario con le medesime domande del primo e si valuta
l’orientamento ottenuto a seguito di una discussione ponderata e approfondita. Nella
totalità dei casi si verifica una modificazione, talvolta radicale, delle posizioni iniziali.
Segno che la qualità della discussione può influenzare profondamente l’orientamento
delle persone.
Questa modalità di confronto è stata integrata successivamente dalla proposta di
estensione - nella forma di un Deliberation Day - avanzata da James S. Fishkin e
Bruce Ackerman106. Si tratterebbe di una festa nazionale in cui i cittadini (selezionati
attraverso campioni casuali e rappresentativi) sarebbero chiamati a dibattere
pubblicamente in modo equilibrato e avendo accesso a una buona informazione, nella
speranza di favorire una opinione pubblica meglio informata e più attenta
politicamente. Sulla base di un rimborso spese giornaliero si chiederebbe ai cittadini di
riunirsi in piccoli gruppi per zona geografica per guardare un dibattito televisivo in cui i
candidati presenterebbero le loro posizioni mettendo a fuoco un paio di questioni a
testa. In seguito i cittadini potrebbero discutere insieme in gruppi alternativamente
104
JAMES S. FISHKIN, Deliberation. New Direction for Democratic Reform, Yale University Press, New Haven
and London, 1991; JAMES S. FISHKIN, When the People Speak. Deliberative Democracy & Public
Consultation, Oxford University Press, Oxford and New York, 2011; JAMES S. FISHKIN, La nostra voce.
Opinione pubblica & Democrazia, una proposta, Marsilio, Venezia, 2003.
105
Fondamentale a questo proposito lo studio di MOGENS HERMAN HANSEN, La democrazia ateniese nel IV
secolo a. c., LED Edizioni Universitarie, Milano, 2003.
106
BRUCE ACKERMAN, JAMES S. FISHKIN, Deliberation Day, Yale University Press, New Haven & London, 2004.
165
piccoli e grandi. L'idea alla base di questa proposta è che anche una sola giornata di
discussione di qualità avrebbe un notevole effetto sulla maturazione dell'opinione
pubblica e influenzerebbe la stessa disposizione dei candidati che si dovrebbero riferire
ad un pubblico più attento.
6. Quale partecipazione? Condizioni, limiti e rischi degli esperimenti
deliberativi
Gli esempi che abbiamo presentato sono solo alcune - sebbene tra le più
rappresentative - delle numerose sperimentazioni che sono state proposte e avanzate
negli ultimi decenni nella logica di rafforzare la qualità deliberativa delle democrazie
contemporanee.
Se certamente queste idee e queste proposte rappresentano nel complesso un
importantissimo contributo al rinnovamento di una democrazia rappresentativa
sempre più in crisi, ciò nonostante queste proposte presentano alcune questioni
critiche o problematiche che vanno certamente discusse e approfondite.
La selezione dei partecipanti
Una prima questione che può essere posta riguarda chi partecipa a questo tipo di
esperienza, ovvero i criteri che determinano la selezione dei partecipanti. In generale
le esperienze deliberative si caratterizzano per preferire i campioni casuali, basati sul
sorteggio o su criteri socio-demografici generali. Le alternative possono essere
rappresentate da quei consessi in cui sono invitati a partecipare i principali
stakeholders oppure quelli che sono aperti ad un'autoselezione.
La formula che prevede il coinvolgimento dei portatori di interesse ha il vantaggio di
coinvolgere un tipo di partecipanti fortemente motivato, dunque più attivo e
informato, e meno esposto al rischio di manipolazione. Inoltre la partecipazione ad un
processo aperto a tutti i soggetti interessati rappresenta già un primo risultato poiché
normalmente gli attori più potenti agiscono la loro influenza attraverso modalità più
sotterranee e meno trasparenti (talvolta anche meno democratiche). Dunque la
partecipazione ad una discussione fondata sulle buone argomentazioni rappresenta un
potenziale fattore di democratizzazione. Il raggiungimento eventuale di forme di
accordo o consenso tra tutti gli stakeholders rappresenta quindi un successo in se
stesso perché permette di superare positivamente il conflitto sociale e può
determinare un forte consenso sociale. Per contro questo tipo di partecipazione ha
anche alcuni svantaggi. Spesso i portatori di interessi sono anche titolari di posizioni
più rigide e estremizzate e non sempre sintonizzate sull'interesse complessivo della
comunità o della cittadinanza. Il raggiungimento di una posizione condivisa può da
questo punto di vista essere più difficile.
I processi deliberativi completamente aperti o fondati su una partecipazione
autoselezionata possono di primo acchito sembrare più inclusivi e democratici. Ma si
scontrano d'altra parte con numerosi problemi e contraddizioni. I processi partecipativi
funzionano bene laddove si crea la possibilità di discutere in piccoli gruppi. Solamente
i piccoli gruppi permettono infatti a ciascuno di potersi esprimere e di poter essere
ascoltato con attenzione, mentre nelle grandi assemblee le risorse retoriche e oratorie
di chi è abituato a parlare in pubblico assumono un ruolo preponderante e rischiano di
ridurre al silenzio chi non è abituato a queste modalità. Inoltre le assemblee
autoselezionate rischiano di riproporre la partecipazione di quella parte di popolazione
che possiede maggiori risorse economiche, di tempo, culturali e politiche a discapito di
altre.
In questo senso nei processi deliberativi diventa importante la rappresentatività
sociodemografica, il pagamento e il supporto più ampio ai partecipanti a questi
166
consessi. L'elemento di forza dei consensi deliberativi fondati sull'estrazione o sul
campione socio-demografico è che in generale possono ospitare una diversità sociale
nettamente superiore alle assemblee organizzate sulla base della partecipazione
volontaria.
Rimane invece il fatto che le esperienze deliberative risultano formative sul piano
della coscientizzazione e della formazione dell'opinione pubblica soltanto per un
piccolo numero di persone rispetto alle possibilità offerte per esempio da alcuni
sistemi di democrazia partecipativa (si pensi per esempio allo strumento dei Bilanci
partecipativi diffuso in Brasile e in molti altri paesi). Alcuni teorici della democrazia
deliberativa hanno proposto come parziale bilanciamento di questo fatto che i processi
deliberativi siano supportati da una forte attenzione alle dimensioni della
comunicazione pubblica, come ad esempio la possibilità di riprendere e trasmettere i
momenti centrali della discussione attraverso la televisione, la radio o internet.
Al di là di questo ritengo comunque che, laddove sia possibile, occorrerebbe
pensare processi democratici di inclusione differenziati o articolati che prevedano
forme di partecipazione o di intervento diverso per i differenti soggetti, e che quindi
integrino in ruoli differenti rappresentanti politici, i cittadini estratti a sorte, i portatori
di interesse e la libera cittadinanza.
Le forme di condivisione e confronto
Come abbiamo visto, il tipo di intersoggettività a cui pensano i teorici deliberativi è
in gran parte basata sulla razionalità discorsiva. Nei modi di concepire il confronto si
presuppone cioè una superiorità della comunicazione razionale su altri tipi di
comunicazione. Tuttavia c’è in questo una forte sottovalutazione della complessità
delle dimensioni espressive e comunicative tra esseri umani. Altri elementi –
emozioni, sentimenti, passioni, espressioni artistiche, visioni – non sono prese in
considerazione o sono tendenzialmente ritenute forme di contaminazione o corruzione
del confronto razionale. Eppure su molte questioni e problemi che riguardano la
qualità della nostra vita quotidiana e il nostro benessere emozioni, sentimenti,
desideri, timori, rischi, paure, aspirazioni, sogni, fanno normalmente parte del nostro
pensare e conversare quotidiano. Non è solo questione di notare pragmaticamente
che non esiste e non può esistere un confronto discorsivo che prescinda
completamente da queste dimensioni, ma anche di ritenere queste dimensioni un
arricchimento e non una degenerazione della facoltà di conoscere. Una società che
escludesse tutte queste dimensioni e che fosse governata solo sulla base della ragione
sarebbe più misera o forse più schizofrenica, non più ragionevole.
L’immagine più complessa del mondo e delle faccende umane integra e tiene
insieme la razionalità e l’emozione, i bisogni e i desideri, i ragionamenti astratti e le
storie, il computo analitico e la visione, la statistica e la creatività, il rischio e la
speranza, l’interesse e il sogno. È chiaro che la logica dell'argomentazione, la
chiarezza e la capacità di valutare una questione in maniera analitica sono aspetti
fondamentali della discussione pubblica dai quali non si può prescindere, tuttavia la
sperimentazione di forme di incontro, ascolto e confronto differenti che prevedano
l'uso di linguaggi diversi (arte, disegni, fotografie, video, uso di plastici ecc…), e di
diverse modalità di interazione e condivisione (attivazioni teatrali, racconti condivisi,
simulazioni, forme di visualizzazione ed elaborazione di visioni) potrebbe arricchire di
molto questi confronti e soprattutto avvicinerebbe al confronto anche persone non
abituate alle animati discussioni pubbliche e al confronto intellettuale.
Esistono a questo proposito tutta una serie di tecniche e strumenti operativi
("European Awareness Scenario Workshop", "Action Planning", "Planning for real,
"Search conference", "Open Space Technology", "Laboratori di quartiere", "Camminate
167
di quartiere", "World Cafe" ecc.) ormai piuttosto sperimentate e strutturate e tante
altre meno note e altrettanto interessanti che andrebbero testate e valutate.
La discussione razionale permette di raggiungere molti risultati, ma non è
sufficiente a vedere le persone, le interazioni tra persone e le esperienze vitali nella
loro complessità. Discutere di come deve essere fatto un quartiere a misura di
bambini o dei portatori di handicap è una cosa, ma un gruppo di persone normodotate
- cittadini, amministratori, architetti e pianificatori urbani - che si sedesse per la prima
volta su delle carrozzelle e cominciasse a provare a girare il quartiere in quel modo
guadagnerebbe una visione delle cose differente in maniera molto più rapida e
profonda che con una elaborata discussione. Allo stesso modo girare un quartiere con
dei bambini piccoli e osservare rischi, pericoli oppure opportunità di movimento, di
esplorazione e di gioco permetterebbe meglio di assumere un punto di vista diverso
sulla realtà. Quello che voglio dire è che le forme di condivisione e confronto che
mettono in gioco il corpo, i sensi e le emozioni in maniera più complessa e integrata
possono arricchire e completare la discussione basata sulla razionalità discorsiva.
Dunque occorrerebbe sviluppare una concezione dell'intersoggettività più ampia e
complessa che implichi in maniera più complessa corpi, razionalità, parole, emozioni,
visioni, aspettative, rischi, desideri ecc.
La costruzione della cornice
C'è una dimensione della partecipazione, che riguarda la sua profondità, che è
difficile da comprendere ma è in realtà estremamente importante. Essa riguarda la
determinazione delle cornici dentro alle quali si andranno ad effettuare le scelte.
Si può fare un esempio concreto per capire. Ipotizziamo un Comune che per molti
anni ha gestito in maniera superficiale e irresponsabile la questione dei rifiuti e che si
ritrova ad un certo punto di fronte ad una grave emergenza. Le proprie discariche
sono ormai colme, il proprio inceneritore è vecchio e non offre molte garanzie e ci si
trova di fronte alla condizione di dover “esportare” i propri rifiuti verso altre città più
attrezzate, che però impongono un alto costo e che comunque stabiliscono dei limiti al
possibile smaltimento. L’Amministrazione comunale si trova in mano una questione
urgente e delicatissima che rischia di alienarle il consenso dei propri cittadini. Decide
quindi di mettere in piedi un processo inclusivo per coinvolgere gli stessi cittadini nella
risoluzione del problema. La possibilità di scelta relativa a quel momento e a quel
processo inclusivo è fin dal principio limitata. La qualità della partecipazione e della
discussione può essere molto elevata, ma egualmente la reale possibilità di scelta
concessa effettivamente ai cittadini sarà piuttosto ridotta.
Diverso è se ai cittadini viene offerta (o viceversa se i cittadini richiedono) la
possibilità di partecipare ad un processo il cui scopo è quello di decidere - prima di
arrivare ad una situazione di emergenza - come impostare la questione dei rifiuti in
generale. In questo caso il confronto politico può ampliarsi fino a investire il tema
della raccolta differenziata, del compostaggio, dei piani di riciclo, delle tecnologie e dei
sistemi più ecologici di smaltimento ecc. Si potrebbe inoltre decidere di affrontare la
questione più alla radice chiamando in causa diversi soggetti - cittadini, imprese e
aziende produttrici, catene di distribuzione – per studiare misure che possano incidere
sulla produzione di rifiuti a monte (per arrivare a ridurli il più possibile), riorientando
la produzione, la distribuzione e il consumo verso una diminuzione degli sprechi, degli
scarti o dei materiali più difficili da riciclare o da smaltire, e dall'altra parte a
immaginare forme di riciclo e reinvestimento materiale energetico a valle nei processi
di smaltimento.
Da un punto di vista teorico si può retrocedere ampliando via via le questioni e
dunque lo spettro delle possibilità di intervento che si vuole assumere attraverso
processi più ampi di confronto e discussione sociale. Da un punto di vista pratico il
168
processo presenterà naturalmente dei limiti. Anche perché i livelli più generali di
discussione spesso trascendono la sfera meramente locale di decisione e richiedono di
fare i conti con contesti più ampi. Inoltre, prescindendo dalla dimensione territoriale,
si può pensare che ogni livello più ampio di decisione comporterà verosimilmente
anche una resistenza maggiore da parte dei soggetti sociali, economici e politici
coinvolti dal possibile cambiamento e dunque una maggior difficoltà ad essere oggetto
di processi decisioni democratici e partecipativi.
Ad ogni modo, quello che è importante capire è che lo spettro di decisioni possibili,
ovvero l’agenda di possibilità, presente in un dato momento può essere modificato
solo per una parte; per il resto esso dipende da un lungo processo precedente di
scelte tra alternative e cornici di alternative.
Ogni nostra decisione dipende da decisioni prese precedentemente da noi stessi o
da altri. In questo senso l'ampiezza e le possibilità di un processo deliberativo sono
sempre limitate e contestuali. In ogni esperienza di partecipazione e deliberazione c’è
una dimensione vincolante e costringente che è direttamente proporzionale al livello di
chiusura dei possibili che il processo consente. Viceversa il processo deliberativo
diviene più democratico e sovrano mano a mano che si estende il livello di apertura
delle cornici possibili di discussione, orientamento e decisione.
Da questo punto di vista il carattere democratico di un processo deliberativo non
può essere limitato all'osservazione di come viene data risposta alla domanda
proposta dagli amministratori o dai committenti del processo. Affinché vi sia una reale
apertura “politica” è fondamentale che il risultato o gli orientamenti emergenti dal
processo partecipativo e deliberativo non siano già completamente predisposti e
prevedibili ma che siano almeno in parte il risultato di un’invenzione collettiva, ovvero
di un’interazione creativa tra i soggetti partecipanti. In altre parole, ogni sincero
processo di coinvolgimento dei cittadini deve custodire in sé una parte di ignoto e di
imprevedibile che è anche quella che permette un reale cambiamento e una reale
innovazione.
Rivoltando la questione potremmo anche dire che il processo deliberativo è tanto
più aperto e creativo tanto più è possibile ridefinire la domanda o la questione di
partenza. In questo caso non si tratterebbe semplicemente di offrire risposte o
soluzioni, ma di arrivare a porre la domanda nella sua forma ottimale o migliore per
permettere di sviluppare i percorsi più efficaci e promettenti.
Influenza e incisività: tra potere, autorità e consenso
Un altro aspetto da tenere in considerazione è quanto queste esperienze
deliberative incidano realmente nella costruzione di processi di policy. Nella quasi
totalità dei casi questi meccanismi di discussione sono puramente consultivi e non
vincolano in alcun modo i decisori politici. È chiaro che assai difficilmente le arene
deliberative nate in maniera estemporanea potrebbero sostituirsi alle decisioni assunte
nelle istituzioni ufficialmente preposte all'assunzione di decisioni vincolanti.
È d'altra parte evidente che se questi processi divengono troppo istituzionalizzati e
se la loro discussione deve procedere verso decisioni normativamente vincolanti,
questo significherebbe attribuire loro un potere molto forte e arriverebbe a cambiare
la loro natura. Questo determinerebbe un aumento dell'irreggimentazione formale e
burocratica di questi consessi e un aumento della pressione politica nei confronti dei
loro partecipanti rendendo la discussione più faticosa e difficile piuttosto che più
flessibile e condivisa.
All'estremo opposto è altresì evidente che se i cittadini che partecipano sentono di
non aver nessun potere di determinare o influenzare le decisioni pubbliche su
quell'argomento possono con molte buone ragioni decidere di perdere tempo per nulla
e di investire le loro energie più fruttuosamente.
169
Personalmente ritengo che questo tipo di processi debbano ricoprire una posizione
intermedia e riconosciuta tra la pura espressione delle opinioni e l'assunzione di
decisioni vincolanti. Ciò a cui dovrebbero mirare questi processi non è il massimo del
potere vincolante ma il massimo dell'autorevolezza e quindi del consenso. Essi
dovrebbero valere come arene di costruzione di indirizzi consensuali nella
determinazione delle politiche pubbliche.
Il riconoscimento più ampio e l'incisività più profonda possibile per questi percorsi si
ottiene attraverso la garanzia di processi che per le loro caratteristiche di discussione
libera, superpartes e per l'assenza di strumentalità, divengono punti di riferimento
riconosciuti e in qualche misura imprescindibili per l'opinione pubblica e per i decisori
politici.
In questo caso i decisori politici non rinuncerebbero alle loro prerogative e alla loro
responsabilità, ma assumerebbero un ruolo differente e diventerebbero i garanti e i
primi interlocutori di un processo di costruzione consensuale delle politiche pubbliche.
In questo nuovo ruolo le loro funzioni diventerebbero quelle di proporre una cornice di
discussione, di condividere dati, informazioni, conoscenze, di assicurare contesti di
discussione liberi da influenze e pressioni politiche, di interloquire e rispondere a
domande e dubbi, di impegnarsi a far propri e a tradurre amministrativamente gli
orientamenti raggiunti attraverso il processo deliberativo.
7. Approcci deliberativi e sistema politico democratico
C'è un'altra domanda che possiamo porci e che può aiutarci a compiere un passaggio
successivo nella nostra analisi: chi e quando può decidere dell'attivazione di una
procedura deliberativa? Nella grande maggioranza dei casi si è trattato di processi
attivati dall'alto da parte di amministrazioni e organismi pubblici che hanno deciso
quindi i temi e i momenti in cui attivare queste speciali procedure deliberative. A volte
è stata la particolare delicatezza di una questione o il carattere di emergenza di un
problema a suggerire l'attivazione di simili processi. Tuttavia finché la possibilità di
porre in essere questi processi rimane nella totale discrezione dei singoli governi o
amministrazioni è evidente che molte questioni particolarmente importanti per i
cittadini non troveranno spazio per un tipo di discussione così aperto. Essendo
procedure a carattere completamente discrezionale è lecito sospettare che i temi che
possono mettere più in contrapposizione o in conflitto gli interessi delle elite politiche
ed economiche e quelli della cittadinanza nel suo complesso non abbiano trovato e
difficilmente possano trovare eco in questo tipo di esperienze. Non è probabilmente un
caso che fino ad oggi, nonostante 30 o 40 anni di sperimentazioni, questi esperimenti
siano rimasti piuttosto isolati in relazione al funzionamento più generale del sistema
politico delle democrazie contemporanee.
Più in generale occorre domandarsi in che misura questo sperimentalismo
deliberativo possa influenzare radicalmente il sistema politico democratico
complessivo. Da questo punto di vista, negli ultimi anni gli studiosi di queste
tematiche hanno iniziato ad avanzare una lettura ed un'analisi degli approcci
deliberativi sulla base di un approccio più sistemico107, mettendo in luce come queste
esperienze non possano essere considerate e giudicate solo come arene isolate, ma
occorra prendere in esame il rapporto con la più ampia sfera politica e istituzionale.
Come ha ben sintetizzato Antonio Floridia, «quando si analizza un determinato
processo partecipativo e/o deliberativo, si deve sempre guardare anche ai contestuali
meccanismi democratici non deliberativi che si svolgono attorno alla stessa policy che
107
Si vedano per esempio JOHN PARKINSON and JANE MANSBRIDGE (eds.), Deliberative Systems, Cambridge
University Press, Cambridge, 2013 e ANTONIO FLORIDIA, La democrazia deliberativa: teorie, processi e
sistemi, Carocci Editore, Roma, 2012.
170
è oggetto di quel processo, e ai possibili meccanismi non democratici (e, a fortiori,
non deliberativi) che possono condizionarlo o che agiscono al suo esterno»108.
Il punto dunque non è solamente la qualità della singola arena deliberativa, ma la
lotta per rendere i processi deliberativi un fattore normale e strutturante della vita
democratica. Un punto importante sarebbe quindi discutere come i processi
deliberativi possano entrare negli statuti comunali, nelle leggi regionali o nelle
costituzioni nazionali come pilastri di un nuovo modo di concepire la democrazia.
In senso più ampio ci si può interrogare sulla qualità deliberativa di un regime, nella
misura in cui la cura e la qualità della discussione diventano un fattore strutturante
del confronto e degli orientamenti nell'opinione pubblica, nelle istituzioni parlamentari
e nelle arene deliberative ad hoc.
Jane Mansbridge et al. hanno proposto di guardare la riflessione sulla democrazia
deliberativa come il susseguirsi di tre fasi: la prima focalizzata nello sviluppo
dell'ideale deliberativo e delle sue implicazioni teoriche e filosofiche; una seconda fase
che ha visto la proliferazione di studi empirici e applicazioni pratiche della teoria; e
concludono prospettano una terza fase in cui la teoria deliberativa si confronti con
l'intero e complessivo processo democratico e quindi sulle relazioni tra le parti e
l'insieme. Intendendo con questo che «la democrazia deliberativa è più di una somma
di momenti deliberativi»109.
C'è da scommettere che questo ulteriore livello di confronto e discussione si riveli
più ostico e difficile per le teorie deliberative e che possa creare una divisione tra gli
approcci più pragmatici e disincantati e quelli più radicali e visionari.
Quel che è evidente fin d'ora è che il progetto deliberativo presenta dei punti di
forza e delle qualità ma anche dei limiti e dei problemi specifici ed intrinseci dai quali è
difficile sfuggire. Difficilmente può essere pensato come una prassi estendibile a
qualsiasi ambito della costruzione di policy sia per ragioni pragmatiche che per ragioni
ideali. In questo senso non potrà sostituire in toto le forme tradizionali di democrazia
anche se rappresenta un contributo fondamentale per un rinnovamento delle prassi
democratiche nelle società contemporanee. Probabilmente occorre ripensare i sistemi
democratici in modo che siano contemplati e integrati tra loro dimensioni
rappresentative, partecipative, deliberative, dirette, a seconda che si debbano stabilire
indirizzi e norme, priorità e progetti, o che si debba discutere di questioni e temi
specifici o che si debba scegliere tra una o più opzioni in alternativa fra loro.
108
ANTONIO FLORIDIA, La democrazia deliberativa: teorie, processi e sistemi, Carocci Editore, Roma, 2012,
pag. 73.
109
JANE MANSBRIDGE, JAMES BOHAMN, SIMONE CHAMBERS, THOMAS CHRISTIANO, ARCHON FUNG, JOHN PARKINSON,
DENNIS F. THOMPSON AND MARK E. WARREN, "A systemic approach to deliberative democracy", in JOHN
PARKINSON and JANE MANSBRIDGE (eds.), Deliberative Systems, Cambridge University Press, Cambridge,
2013, pag. 26.
171
Corso di Sociologia della comunicazione politica - a.a. 2014/2015
Verso una democrazia ecologica?
La discussione pubblica e la partecipazione politica
di fronte alla crisi ambientale
Docente: Marco Deriu
SCENARI DI RIGENERAZIONE DEMOCRATICA
Nelle forme della democrazia liberale sono incorporati una serie di “riduzionismi” che
nella prospettiva della decrescita andrebbero superati o quantomeno temperati.
In primo luogo si parte da un sostanziale antropocentrismo che non solo
inquadra e tratta tutte le altre specie viventi in funzione dell’utilità maggiore o minore
per gli esseri umani, ma impedisce agli stessi cittadini delle democrazie
contemporanee di pensarsi “in contesto”, ovvero di riconoscere la propria dipendenza
e interrelazione costante con l’ambiente ecologico e sociale nel quale si vive.
Un secondo tipo di riduzionismo è rintracciabile nella propensione dei governi a
pensare e a decidere sulla base di un nazionalismo metodologico, ovvero tenendo
conto primariamente, quando non unicamente, degli interessi nazionali. Molte delle
decisioni sono prese attraverso una logica nazionale e sulla base degli interessi
nazionali. È chiaro che né le istanze ecologiche, né quelle sociali o intergenerazionali
possono essere correttamente trattate o affrontate sulla base di un orizzonte
primariamente nazionalistico.
Una terza forma di semplificazione è rappresentato dal maggioritarismo, ovvero
la riduzione del principio di legittimità alla regola delle semplici maggioranze
politiche. È ovvio che per il funzionamento delle istituzioni politiche il principio
maggioritario svolge un ruolo importante. Tuttavia si può rifiutare il criterio
maggioritario come unico fondamento di legittimità. Occorre tener conto per esempio
dei diritti delle minoranze o degli interessi di soggetti non possono partecipare
direttamente. Soprattutto occorre acquisire una maggiore attenzione alla qualità dei
processi che sottendono all’informazione, alla discussione e alla deliberazione politica
e democratica.
Un ultimo tipo di riduzionismo implicito nel funzionamento stesso del sistema
politico è che la dinamica di produzione del consenso sembra spingere a corrispondere
agli interessi di breve periodo (i votanti in un dato momento e gli interessi delle
maggioranze attuali) rispetto a quelli di lungo periodo (gli interessi di più ampio
respiro, gli interessi o i diritti delle generazioni a venire e i criteri di sostenibilità di
lungo periodo). Anche qui allo stato attuale favorire i diritti dei posteri rispetto alle
possibilità dei contemporanei sembra profilarsi come una strategia politica
fallimentare. Ci sono beni e valori che vanno sottratti al possibile egoismo di una
maggioranza di un momento.
Queste attitudini o inclinazioni al riduzionismo non possono probabilmente essere
del tutto eliminate, ma possono certamente essere problematizzate e diventare
oggetto di ripensamento teorico e pratico. Occorre, dunque che alcune possibilità di
azione e regolazione siano prese prescindendo da queste limitazioni.
172
Nella visione tradizionale il valore di un regime democratico si misura sulla capacità
di rispondere e soddisfare le preferenze immediate della maggioranza della
popolazione attuale di un singolo paese, senza vincoli di sorta. Al contrario in una
prospettiva di rigenerazione democratica il valore di un regime democratico
si misura sulla capacità di incorporare nelle forme e nelle prassi istituzionali
il principio del limite e dell’automoderazione, sulla base del criterio generale
che un regime democratico “capace di futuro” debba assicurare anzitutto la
propria rigenerazione. In altre parole secondo un principio di equivalenza dobbiamo
consegnare alle generazioni future le stesse possibilità di godere dell’ambiente
ecologico e sociale di cui abbiamo goduto noi.
Come ha scritto Vandana Shiva:
«Impegnarsi in un progetto di democratizzazione ecologica e sociale significa […]
concepire e progettare delle democrazie che tutelino la vita assicurando a tutti la
possibilità di esprimersi su questioni fondamentali come il cibo, che mangiamo o
che ci viene negato, come l’acqua, che beviamo o che ci viene sottratta perché è
stata inquinata o privatizzata, come l’aria, che respiriamo o che forse ci avvelena.
Le democrazie che tutelano la vita si fondano sul riconoscimento del valore
intrinseco di tutte le specie, di ogni popolo e di ogni cultura, sull’equa ripartizione
delle risorse terrene e sulla comune gestione di tali risorse».
Ripensare la democrazia dal punto di vista della sostenibilità ecologica e della
decrescita significa dunque introdurre cambiamenti radicali nelle forme e nelle prassi
istituzionali che stimolino i cittadini e gli organi di governo a tutti i livelli a rafforzare la
sensibilità verso le cose essenziali e allo stesso tempo sviluppare riflessioni di lungo
respiro, che riguardino tutta la comunità in un’ottica spaziale e temporale più ampia.
Di seguito provo ad elencare quelli che mi sembrano i possibili percorsi e scenari
più promettenti.
Paideia
Un primo percorso mette al centro il tema dell’autoeducazione e della formazione dei
cittadini. Come ha sottolineato Cornelius Castoriadis una società democratica va
concepita come un’unica enorme istituzione pedagogica in cui ha luogo l’inarrestabile
autoistruzione dei suoi cittadini. In altre parole il compito di un regime democratico
non è solo quello di contare le teste dei cittadini ma anche di formare quegli stessi
cittadini all’insegna di un ethos sociale comune. In questa direzione occorre pensare
gli strumenti, gli spazi e le condizioni dell’emersione di un nuovo ethos democratico
ispirato ai principi della decrescita e della sostenibilità. È chiaro, da questo punto di
vista, che questa prospettiva si scontra frontalmente con le tendenze attuali del
sistema dell’istruzione interessato a valorizzare solamente quei saperi tecnicoscientifico-manageriali rivolti alla traduzione immediata della conoscenza in profitto
economico. Ossessionati dall’imperativo della crescita anche la logica e la struttura
educativa viene piegata a logiche contabili e di efficacia strumentale, mentre si
dimentica di coltivare quei saperi e quelle intelligenze critiche fondamentali non solo
per affrontare i problemi e le sfide contemporanee ma anche per nutrire e rigenerare
lo stesso spirito critico che supporta la democrazia.110
In questa prospettiva è fondamentale dunque non solo difendere un’impostazione
critica e una concezione non strettamente utilitaristica della formazione educativa, ma
spingendosi oltre è importante prevedere l’introduzione e incentivazione di percorsi
educativi sui limiti ecologici e sociali e sulla sostenibilità, nelle diverse agenzie
110
Su come la logica del profitto stia modificando radicalmente le forme e i contenuti dell’istruzione si
veda il libro di Martha Nussbaum.
173
educative e formative (scuole, università, formazione lavoro ecc.), sostenendo sia
processi top-down che bottom-up.
In altre parole i programmi educativi pubblici, a partire da ogni ordine e grado,
dovrebbero mettere al primo posto il tema della formazione del “cittadino planetario”.
Un simile cittadino dovrebbe divenire via via sempre più consapevole di vivere in una
rete multipla di interdipendenze ecologiche, sociali ed economiche che richiede
responsabilità, doveri, attenzioni, forme di empatia, di solidarietà e di collaborazione
che trascendono le specifiche appartenenze.
Da questo punto di vista Edgar Morin ha espresso in più occasioni la necessità di
una Democrazia cognitiva, ovvero di una democratizzazione della conoscenza
scientifica che permetta ai cittadini di incorporare almeno gli apporti più fondamentali
delle scienze ed in particolare quelli necessari ad una consapevolezza planetaria.
Questo obiettivo può essere perseguito e messo in opera con maggiore successo se
a fianco delle iniziative istituzionali si moltiplicano anche le iniziative educative ed
(auto)formative dal basso. Associazioni, reti, movimenti già oggi creano occasioni di
formazione e di riflessione critica su questi temi. Tali iniziative andrebbero sostenute,
ampliate e resi più sistematiche. Lo sforzo educativo e auto formativo che proviene dal
basso pur essendo per sua natura più fragile e discontinuo svolge comunque una
funzione di mantenimento e coltivazione della diversità di punti di vista, di categorie
critiche e prospettive di analisi che essendo originali ed eterodosse difficilmente
trovano spazio nei programmi istituzionali.
Si può inoltre ipotizzare la nascita di istituzioni ad hoc, superpartes, rivolte a
raccogliere e diffondere conoscenze su alcuni temi di importanza cruciale per il nostro
futuro, come quelli legati alla sostenibilità ecologica e sociale. Qualcuno ha proposto
per esempio l’istituzione di un’Accademia del futuro cui può essere attribuito il
compito di attuare una forma di monitoraggio, di promuovere la conoscenza
scientifica, di alzare il livello del dibattito pubblico, di informare le autorità pubbliche,
ecc.
Demos
Una rigenerazione della democrazia presuppone anche un ripensamento dell’idea di
Demos. Se l’idea di sovranità nella visione tradizionale era riferita al popolo e se con
questo si intendeva legittimare la volontà dei cittadini (o della loro maggioranza), oggi
occorre integrare questo punto di vista sia in termini temporali che sostanziali.
Quando per esempio Vandana Shiva parla di “Democrazia della terra” essa si rifà
al concetto della filosofia indiana di vasudhaiva kutumbkham, parola che in sanscrito
significa “l’intero mondo è un'unica famiglia” (the whole world is one single
family). Questa “famiglia terrestre” coinvolge tutte le generazioni passate, presenti e
future e le diverse forme viventi, umane e non umane.
L’obiezione più scontata a questo tipo di ragionamenti è che le generazioni future
come gli esseri viventi non umani non possono fare valere realmente il loro punto di
vista. Tuttavia, per quanto questa “impossibilità” meriterebbe una discussione più
approfondita, la questione che si pone è principalmente rivolta a modificare il
criterio di “titolarità dei diritti” democratici più che l’“esercizio” diretto di tali
diritti. In secondo luogo mi pare che per questa strada si introduca
contemporaneamente anche un’idea di “titolarità di doveri”. L’appartenere a una
comune “famiglia terrestre” comporta alle generazioni presenti non solo dei diritti o
delle opportunità ma anche delle responsabilità e dei doveri verso le generazioni
future e verso le altre specie viventi. In questo modo anche se gli animali o le future
generazione non possono prendere parola si afferma un principio di relazionalità e di
tutela di tutti gli esseri viventi che traggono sostentamento dal nostro pianeta nella
comune appartenenza alla “famiglia terrestre”. In qualche modo, non definiamo
174
comunque che tipo di relazione vogliamo impostare con questi soggetti anche in una
dimensione di evidente asimmetria.
Per quanto riguarda il riconoscimento di soggetti non umani è attivo un “Progetto
Grandi Scimmie Antropomorfe” (Great Ape Project), un movimento
internazionale che mira all’estensione dei diritti agli animali a partire dai nostri parenti
più prossimi, i grandi primati antropomorfi (scimpanzé, gorilla, orangutango, bonobo).
Tra i diritti che si chiede vengano riconosciuti ci sono il diritto alla vita, alla protezione
della libertà individuale, e la proibizione della tortura.
Negli ultimi decenni timidi innovazioni sono state assunte in alcuni paesi fra cui: la
Nuova Zelanda, dove nel 1999 sono stati riconosciuti alcuni diritti a cinque specie di
scimmie; la Germania dove nel 2002 un emendamento costituzionale ha introdotto
un riferimento all’obbligo dello Stato a rispettare e proteggere la dignità degli esseri
umani e degli animali; e la Spagna (2008) dove nel 2008 un comitato parlamentare
ha proposto alcune risoluzioni sui diritti delle grandi scimmie.
Un discorso a parte riguarda le nuove Costituzioni dell’Ecuador entrata in vigore
nell’ottobre del 2008 e della Bolivia entrata in vigore nel febbraio 2009.
Nel preambolo della Costituzione ecuadoregna idealmente il popolo richiama la
celebrazione della natura, della “Pacha Mama”, e afferma di voler costruire “una
nuova forma di convivenza cittadina, nella differenza e nell’armonia con la natura, per
raggiungere il ben vivere, il sumak kawsay”. L’intero Capitolo settimo della
costituzione è dedicato ai “Diritti della natura”. Nell’art. 71, si può leggere: “La Natura
o Pacha Mama, dove si riproduce e si realizza la vita, ha diritto che si rispetti
integralmente la sua esistenza e il mantenimento e alla rigenerazione dei suoi cicli
vitali, strutture e funzioni e processi evolutivi. Ogni persona, comunità, popolo o
nazionalità potrà pretendere dall’autorità pubblica l’osservanza dei diritti della natura.
[…] Lo Stato incentiverà le persone fisiche e giuridiche e le collettività a proteggere la
natura e promuoverà il rispetto di tutti gli elementi che formano l’ecosistema”.
Anche nella Costituzione boliviana si richiamano la Pachamama e il principio del ben
vivere o della vita buona. E nel Titolo II, Capitolo Primo, art. 342 si afferma che “è
dovere dello stato e della popolazione conservare, proteggere e sfruttare in maniera
sostenibile le risorse naturali e la biodiversità, nonché mantenere l’equilibrio
naturale”.111
La questione del cambiamento del demos può essere posta anche in termini di
possibili rielaborazioni o esperimenti di Democrazia intergenerazionale. L’idea
di una possibile democrazia intergenerazionale può essere intesa in modi anche
sensibilmente diversi a seconda che si intenda il rapporto tra generazioni compresenti
e contigue già nel presente o un rapporto tra diverse generazioni anche lontane fra
loro nel tempo. In primo luogo l’incorporazione dei diritti o necessità delle generazioni
future richiama il tema della partecipazione anche delle diverse fasce di età di una
popolazione. Kirsten Davies per esempio la definisce “as a method of social
engagement and capacity building, requiring the inclusion of citizens representing all
age groups within a specific community. It aims to assist the reconstruction of
generational and environmental relationships by engaging whole communities, from
children to the elderly, in planning and managing their futures”. In pratica Davies
illustra delle possibili metodologie di coinvolgimento, ascolto ed interazione di membri
della comunità secondo diversi raggruppamenti di età a partire dal riconoscimento e
dalla valorizzazione di diverse sensibilità ed interessi rinvenibili in diverse generazioni
(bambini, adolescenti, giovani, adulti, anziani ecc...). Questo rappresenta una
questione non banale visto che le tradizionali istituzioni democratiche presentano una
serie di regole e di prassi formali ed informali per la partecipazione, per l’elettorato
111
Per un approfondimento sui dei diritti della Natura si vedano fra l’altro il lavoro curato da Alberto
Acosta e Esperanza Martínez e il lavoro di Giuseppe De Marzo, Tim Hayward.
175
attivo e passivo, e più in generale per l’attribuzione di una rilevanza dei propri
interessi e desideri. Chiaramente non si tratta semplicemente di abbassare l’età della
partecipazione ma di rendere evidente e rilevante le possibili differenze nelle
aspettative e nelle proiezioni delle diverse generazioni che compongono una
popolazione. Da questo punto di vista le generazioni più giovani che generalmente
sono le meno coinvolte, considerate ed ascoltate poiché non possono o no riescono ad
accedere alle tribune politiche o mediatiche sono quelle che per “prossimità” possono
su alcuni temi o interessi rappresentare più da vicino il punto di vista delle generazioni
a venire.
D’altra parte si pone il problema della responsabilità tra generazioni lontane nel
tempo. Come nota Barry Holden la popolazione futura può essere concepita come
parte del “popolo” di una democrazia. Certamente più pensiamo a persone rispetto
alle quali ci separano interi secoli o millenni e più è difficile disquisire su quali saranno
i loro desideri o le loro volontà. Tuttavia questo non significa che non possiamo
riconoscere dei doveri nei loro confronti sia positivi (per esempio mantenere un
ambiente sano e un certo equilibrio nelle risorse ecologiche) che negativi (per esempio
non abbandonare in quantità rifiuti tossici, inquinanti o radioattivi che possano creare
seri problemi alla salute delle comunità future).
Da una parte questo comporta che le decisioni richiedano uno sforzo immaginativo
più ampio in termini temporali, quindi ecologici e sociali. I decisori di oggi devono
sentire di far parte di un processo decisionale intergenerazionale, per cui le proprie
decisioni strategiche saranno viste e giudicate dalle generazioni successive.
Diritti sostanziali e procedurali
La trasformazione delle democrazie realmente esistenti in democrazie sostenibili da un
punto di vista economico, sociale ed ecologico, può essere perseguita anche
attraverso l’introduzione di nuovi diritti di tipo procedurale. Questo tipo di diritti
divengono fondamentali soprattutto per impedire o controllare quei tipi di interventi
quali grandi opere o infrastrutture, grandi progetti di sfruttamento di risorse o piani di
sviluppo industriale territoriali (inceneritori, dighe, ponti, centrali nucleari, nuove aree
industriali o produttive, nuove autostrade, porti o aeroporti, ecc.) che hanno al
contempo un grosso impatto ambientale e sociale, modificando le condizioni degli
ecosistemi, le condizioni di vita e le possibilità di lavoro e sostentamento in una
regione. In questi casi, di prassi gli organi di governo o le amministrazioni locali
procedono decidendo e avviando i lavori in nome del “bene superiore” della collettività
che presumono di conoscere meglio delle comunità stesse. Spesso non c’è nessun
obbligo di consultare le comunità locali e la popolazione, o quando questo è previsto si
tratta solo di rituali vuoti e formali senza una reale disponibilità a rivedere i propri
progetti. Da questo punto di vista, si possono introdurre diritti e norme sia di tipo
procedurale che sostanziale. In termini procedurali si può prevedere per legge che in
relazione a qualsiasi intervento con un significativo impatto ambientale, sociale e
urbanistico le autorità siano tenute a presentare pubblicamente in primo luogo alle
comunità interessate il progetto dei lavori, garantendo l’attivazione di assemblee
partecipative dedicate all’approfondimento, al dibattito e alla deliberazione su tali
progetti o sulle alternative possibili. Su questa strada si può arrivare a prevedere un
diritto di ricorso ad autorità indipendenti, da parte di un certo numero di
cittadini, contro attività di soggetti pubblici o privati che si ritengono gravemente
lesive del patrimonio ambientale, monumentale e sociale di un territorio.
In termini sostanziali si possono stabilire dei criteri fondati su un principio di equa
distribuzione di costi, oneri e vantaggi tra territori e comunità per tutelare le risorse,
gli ecosistemi e le condizioni di vita di tutti, evitando le facili divaricazioni tra oneri e
benefici tra un luogo e un altro.
176
Pratiche partecipative e collaborative
Uno dei problemi cruciali delle democrazie storiche è la diminuzione della
partecipazione dei cittadini, sia nelle forme organizzative tradizionali sia, soprattutto,
per quanto riguarda la partecipazione al voto. I cittadini si sentono sempre più
impotenti e sempre più distanti dalle istituzioni politiche. In quasi tutti i paesi di
tradizione democratica la fiducia nei politici e nelle istituzioni è andata declinando in
maniera piuttosto netta negli ultimi decenni. Questa sfiducia spesso si trasforma in
apatia, in passività, in forme di delega senza che tutto questo sia registrato come
elemento screditante della realtà di un regime democratico. Lungi da essere una
condizione che può essere assunta come dato di fatto e normalizzata si tratta
piuttosto di un problema da prendere in considerazione e affrontare seriamente, Come
ha sottolineato Cornelius Castoriadis “il desiderio e la capacità dei cittadini di
partecipare alle attività politiche sono essi stessi problemi e compiti politici.
E in parte derivano dalle istituzioni che li inducono e li prescrivono, creando
cittadini spinti in questa direzione e non verso la garanzia del proprio
godimento”. Dunque la questione dell’estensione e della qualità della partecipazione
va vista come un reale banco di prova di un progetto di rigenerazione democratica.
Ora uno dei primi aspetti che nella prospettiva
U.S. elections costs
della decrescita occorre porsi è quello dei costi della
Total Cost of
partecipazione. Nei moderni sistemi democratici le
Cycle
Election
candidature e quindi l’ingresso nei possibili organi di
governo di un territorio o della nazione sono sempre
2008*
$ 5,285,680,883
più condizionate dalla capacità di investire o
2006
$ 2,852,658,140
raccogliere finanziamenti privati. Gli Stati Uniti sono
2004*
$ 4,147,304,003
un esempio di quale possa essere l’esito di un sistema
2002
$ 2,181,682,066
politico sempre più condizionato dalla capacità di
attrarre finanziamenti privati e di investire in
2000*
$ 3,082,340,937
marketing politico e mediatico. Per esempio nelle
1998
$ 1,618,936,265
elezioni presidenziali del 2008 lo sconfitto McCain ha
*Presidential election cycle
raccolto
383,913,834
dollari
(spendendone
379,006,485) mentre il vincitore Barack Obama ha
Fonte: Center for Responsive Politics
raccolto la cifra record di 778,642,055 milioni di dollari
(spendendone 760,369,688) [34]. Secondo le cifre fornite dal Center for Responsive
Politics, complessivamente le presidenziali del 2008 sono state le più costose della
storia americana. Le spese complessive di candidati, partiti politici e gruppi di interessi
avrebbero quasi raggiunto la cifra di 5,3 miliardi di dollari. Se si mettono a confronto i
costi totali dei cicli elettorali presidenziali, l’evoluzione è impressionante. Si passa da
a 3,082,340,937 nel 2000, a 4,147,304,003 nel 2004, a 5,285,680,883 nel 2008
Solamente dal 2004 al 2008 ci sarebbe stato dunque un incremento del 27%.
L’aumento delle spese elettorali a tutti i livelli della carriera politica, ci dice diverse
cose. In primo luogo come le carriere politiche siano sempre più riservate a persone
che dispongono di mezzi finanziari propri o che dimostrano forti capacità di attrazione
di fondi privati. In questo tipo di competizione al rialzo c’è il forte rischio che venga
favorito chi ha più disponibilità o chi può godere dell’appoggio dei soggetti economici
più forti o anche chi è più spregiudicato nell’accettare contributi dai soggetti più
disparati. Di fatto in una prospettiva di “scambio” molte aziende o soggetti privati “si
comprano” delle vie preferenziali nel rapporto con l’amministrazione, finanziando
generosamente la campagna elettorale di questo o quel candidato.
Per affrontare questi rischi è necessaria una regolamentazione e un controllo molto
rigoroso sulle spese politiche ed elettorali. Occorre stabilire un tetto di spesa per
moderare la corsa al rialzo e per permettere a tutti di partecipare con eguali
possibilità. Inoltre occorrerebbe limitare fortemente la grandezza dei contributi privati
in modo che nessuno possa diventare strategico innescando delle forme implicite di
177
scambio. I candidati sarebbero quindi costretti a puntare sull’allargamento della
propria base di appoggio e non sugli accordi con grandi finanziatori.
Un secondo aspetto cruciale riguarda il tema della partecipazione dei cittadini
al di là del sistema rappresentativo tradizionale.
Come abbiamo visto presentando le esperienze di democrazia partecipativa e
di bilanci partecipativi è possibile andare oltre l’opposizione ideologica tra
rappresentanza e partecipazione diretta e cominciare a pensare nei termini di un
processo di interazione continua e regolata tra cittadini e rappresentanti. A questo
proposito si può parlare di co-gestione, o meglio ancora di co-pilotaggio. Quest’ultima
categoria contiene in sé non solo l’idea di una condivisione dell’amministrazione e
delle scelte possibili tra le alternative esistenti, ma anche la possibilità di scegliere tra
schemi più ampi di determinazioni e con questo di stabilire un orizzonte di senso, una
direzione, verso cui ci si intende muovere.
D’altra parte questo tipo di trasformazione permette anche di mettere l’accento sul
processo deliberativo più che sul semplice conteggio dei voti. Il ripensamento del
rapporto tra rappresentanti e cittadini coinvolti deve mirare alla costruzione di un
processo di discussione, formazione e contrattazione che stabilisca una logica
differente dalla semplice aggregazione di interessi privati. L’individuazione di una
prassi che comporta la raccolta di informazioni, il confronto con diversi esperti, le
simulazioni, la definizione di priorità e la costruzione di proposte condivise può aiutare
a contenere gli interessi puramente individualistici sostenendo l’emergere di visioni più
complesse e avanzate e opponendo alle logiche competitive l’efficacia e il vantaggio
delle logiche collaborative per ottenere il miglior risultato anche per se.
Commons, comunità locali e trusts
Un orizzonte importante per ridefinire un sistema democratico nell’ottica della
decrescita è quello dei commons o beni comuni. Nella prospettiva dei beni comuni si
mette in discussione non solo la concezione dominante del possesso e della proprietà
privata, ma più in generale l’idea di democrazia e il rapporto tra una comunità
democratica e il proprio territorio. L’idea dei commons va anche oltre la tradizionale
opposizione tra proprietà privata e proprietà pubblica. L’esperienza ci dice infatti che
la pubblicizzazione di alcuni beni non garantisce da sola la sostenibilità né il rispetto
verso le generazioni a venire, e al contempo il coinvolgimento di privati non dovrebbe
significare diritti di sfruttamento indiscriminato.
I beni comuni richiamano invece ad un intreccio di rapporti di responsabilità e di
solidarietà tra i singoli cittadini e la collettività, tra generazioni presenti, passate e
future, tra esseri umani ed ecosistemi. Dunque lungi da essere riconducibili ad un
puro problema di amministrazione o gestione, i commons sono costitutivi anche di
legami di riconoscimento, reciprocità, condivisione e corresponsabilità. In altre parole
una comunità riconosce dei beni comuni e si riconosce attraverso dei beni comuni.
La prospettiva di una lotta per l’estensione dei riconoscimento dei commons – dalle
sorgenti, ai fiumi ai laghi, dalle foreste alle coste, dal patrimonio monumentale a
Internet, ecc., conduce di fatto non a una eliminazione del mercato e delle logiche
mercantili ma ad una loro forte delimitazione verso ciò che non attiene ai beni
fondamentali della collettività. Come ha scritto Paolo Cacciari:
“Se partissimo non dall’accumulazione monetaria, ma dalla necessità di
preservare i beni comuni il più a lungo possibile e nelle migliori condizioni, il
dogma sviluppista crollerebbe subito. Posti di fronte al problema della miglior
utilizzazione dei beni comuni, i principi prevalenti e ordinatori della nostra società
subirebbero una rivoluzione copernicana: da un’economia della “distruzione
creativa” (prelievi indiscriminati e consumi illimitati) ad una della sufficienza
(conservazione, riuso, riciclo, restituzione…); da una economia del massimo
178
rendimento ad una del massimo risparmio; da una finanza del debito ad una
della responsabilità; da una società della competizione ad una della reciprocità;
da rapporti sociali atomizzati e individualistici ad altri condivisi, fiduciari e capaci
di rispondere in solido”.
Le forme che il riconoscimento dei commons possono prendere sono differenti:
dall’istituzione giuridica delle comunità locali, alle amministrazioni fiduciarie (trusts),
ai modelli ibridi o al partnernariato pubblico-privato. Ognuna di queste forme
contribuisce ad ampliare la percezione di uno spazio pubblico e collettivo che mentre è
tutelato dalla logica privatistica non è riducibile alla forma statale. Richiamando
un’idea di partecipazione e di responsabilità nella gestione delle risorse, più ampia di
quella a cui siamo abituati si fa strada dunque l’idea di un modello di “democrazia
dei beni comuni” o “Democrazia della terra”. Un modello in cui i soggetti, gli
spazi, i beni, le forme della democrazia ne vengono profondamente modificati e
trasformati.
Costituzioni e invenzione istituzionale
Un progetto di rigenerazione democratica richiede anche una trasformazione
profonda delle regole fondamentali e delle forme istituzionali. Come ha notato Robyn
Eckersley, “One of the aims of green constitutional design should be to facilitate a
robust ‘green public sphere’ by providing fulsome environmental information and
the mechanisms for contestation, participation, and access to environmental justice –
especially from those groups that have hitherto been excluded from, or underrepresented in policy-making and legislative processes. Such mechanisms are not only
ends in themselves but also means to enhance the reflexive learning potential of both
the state and civil society”.
Un interessante esempio ci viene dai casi Boliviano ed Ecuadoregno che abbiamo
già incontrato. È interessante notare come i movimenti contro la privatizzazione
dell’acqua e dei beni comuni, contro il neo imperialismo delle multinazionali estrattive
abbiano nel giro di pochi anni creato le condizioni per promuovere un processo
costituente che ha portato alle nuove Costituzioni dell’Ecuador e della Bolivia
sanzionate da referendum popolari. Il passaggio è interessante perché
rappresenta il tentativo di colmare la divaricazione tra i nuovi movimenti per i beni
comuni, per il buen vivir e per il riconoscimento della pluralità delle componenti
nazionali e le forme istituzionali dello stato democratico. I movimenti dal basso sono
andati oltre le semplici proteste o rivendicazioni locali per promuovere o supportare un
processo di istituzionalizzazione di nuovi valori collettivi e di nuove regole
democratiche.
Io credo che anche in Europa lo scollamento tra politica e società civile deve essere
affrontato attraverso l’invenzione e la sperimentazione di nuove istituzioni
democratiche e attraverso un processo costituzionale che sancisca una modificazione
delle regoli fondative della comunità politica. Come ci ha insegnato Cornelius
Castoriadis, infatti, una società democratica è una società che si auto istituisce,
riconoscendo i propri valori fondanti e dandosi regole e limiti che definiscono le forme
del vivere comune. Ora, come ha argomentato Stein Rokkan, i sistemi politici europei
si sono andati costruendo attorno a quattro fondamentali fratture (cleavages), le
prime due, l’opposizione centro/periferia e l’opposizione stato/chiesa, nate dai
processi di unificazione nazionale e le altre due, l’opposizione campagna/città e quella
tra capitale/salariati, nate in seguito ai processi di industrializzazione [45, 46]. Da
questo punto di vista l’opposizione tra crescita e decrescita, quella posta dal
movimento ecologista tra consumo e sostenibilità, quella posta dal movimento noglobal tra globale e locale, quella posta del movimento femminista tra produzione e
riproduzione rappresentano in nuce nuovi cleavages che tagliano diagonalmente i
179
quattro cleavages storici su cui si sono strutturati i sistemi politici democratici. In altre
parole queste istanze difficilmente verranno semplicemente assunte dalle forze
politiche e incorporate nelle istituzioni esistenti che sono nate come risposta ad altri
questioni o conflitti, ma piuttosto richiedono una riconfigurazione del sistema politico
ed istituzionale.
Le istanze della decrescita, della sostenibilità, della rilocalizzazione, della
riproduzione sono in altre parole portatrici di altre logiche valoriali, spaziali e temporali
che richiedono una rigenerazione delle stesse istituzioni democratiche fondamentali.
Sto parlando non solo di norme costituzionali, di regole procedurali, di processi
partecipativi e deliberativi, di nuovi diritti e doveri di cittadinanza ma anche di nuovi
arene, forum o assemblee istituzionali. Queste nuove istituzioni dovrebbero
incorporare nella loro stessa forma, organizzazione e funzionamento una diversa
logica democratica in relazione a nuove dimensioni spaziali, temporali e valoriali.
Da un punto di vista temporale si può pensare a istituzioni che incorporino
nella propria logica organizzativa e processuale una prospettiva temporale
più ampia. Da questo punto di vista c’è stato chi ha proposto di istituire un senato
– o una camera alta – dedicati alle sfide ecologiche di lungo periodo. Questa
nuova camera alta “ecologica” sarebbe concretamente istituita per analizzare,
discutere e definire le cornici o le direttrici di lungo respiro, o per controllare ed
eventualmente bloccare (potere di veto) decisioni del governo e della camera bassa
che rappresentino un vantaggio per le generazioni attuali ma contemporaneamente
una minaccia o un grave carico sulle spalle delle generazioni future. Tematiche quali le
prospettive e gli investimenti di politica energetica, di conservazione del patrimonio
naturale, di politiche migratorie, di riorientamento delle politiche produttive o
dell’evoluzione degli insediamenti urbani e agricoli, troverebbero nella camera alta una
prima definizione prospettiva, mentre l’iniziativa legislativa e l’azione di governo
rimarrebbero alla camera bassa e alla compagine governativa. La logica organizzativa
che dovrebbe presiedere a questo nuova camera dovrebbe essere coerente con i
propri obiettivi. Alcuni accorgimenti procedurali potrebbero contribuire a questo
compito. Le elezioni non si fonderebbero su partiti o su liste di partito ma su liste a
progetto che si scioglierebbero immediatamente dopo le elezioni. Le liste sarebbero
composte di persone impegnate da tempo sui temi ambientali e sociali. Il mandato
degli eletti potrebbe essere un poco più ampio in termini temporali, tuttavia non
sarebbero concessi successivi mandati in modo tale che gli eletti siano concentrati sul
proprio compito e non sulla possibilità di essere rieletti attraverso meccanismi di
scambio o favoritismi. Dovrebbe essere prevista una procedura di revoca del mandato
in caso di indegnità (interessi privati, corruzione, ripetute assenze ecc). Per favorire
l’attenzione verso le generazioni future si potrebbe rovesciare la logica tradizionale
delle camere alte, solitamente rivolte ai più anziani (da cui la qualifica di “senato”) e
favorire invece una più ampia componente di giovani. In questo modo si può
ipotizzare che le scelte siano assunte da persone che potrebbero essere più
interessate a conservare le migliori condizioni per le generazioni a venire a partire dai
loro figli e dai loro nipoti. Anche le procedure deliberative andrebbero ripensate.
Poiché il funzionamento non sarebbe tarato sulla velocità ma sulla profondità e
consapevolezza nelle decisioni si dovrebbe riservare gran parte del tempo e
del’impegno ad un opera di monitoraggio, raccolta di informazione, audizione di
esperti, predisposizione di scenari alternativi, valutazioni delle possibili conseguenze,
incontri e discussioni con comunità di cittadini tenendo conto delle differenze di
genere, generazioni e appartenenze. In casi particolarmente ambivalenti la camera
alta avrebbe la possibilità di indire una consultazione referendaria che potrebbe
sovraintendere per garantire la migliore informazione e discussione pubblica possibile.
Entrambi gli esempi appena fatti costituiscono espressioni possibili di quelle che
Bourg e Whiteside chiamano istituzioni “meta rappresentative”. Istituzioni cioè
180
che hanno il compito di superare, in una logica di innovazione spaziale o temporale, i
blocchi e gli ostacoli costituiti da interessi ed egoismi diffusi e contrapposti per lasciar
spazio a luoghi e procedure che stimolino un processo deliberativo avvertito e
sostenibile.
181
BIBLIOGRAFIA - BIBLIOGRAPHY
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