Scarica in italiano la libera traduzione di Carla Zanardi - Florio
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DISPUTA APERTA TRA LAMBERTO TASSINARI E STEPHEN GREENBLATT SULLA “AUTHORSHIP” DI WILLIAM SHAKESPEARE. ( Libera traduzione del testo in lingua inglese con cui Saul Gerevini interviene nel dibattito ) Premessa La “lettera aperta” di Gerevini in data 1° Novembre 2014 - che ha suscitato così vivo interesse non solo negli ambienti letterari - chiude un lungo periodo di cinque secoli durante il quale alcune istituzioni del Regno Unito avevano ritenuto utile per il prestigio nazionale enfatizzare la personalità del drammaturgo William Shakespeare. In tale intento si intese rivedere il percorso della sua vita ammantandola di una sorta di culto mitologico, giungendo ad elevare quel ragazzo di Stratford come un “genio” dalle capacità creative trascendenti dalla conoscenza. Era la cosiddetta “teoria del genio” che serve a giustificare la mancanza di notizie certe sulla effettiva frequenza scolastica. Chi fosse realmente costui fu il quesito che divise i letterati, gli studiosi e gli storici della drammaturgia inglese del XVI secolo. Tuttavia con il trascorrere del tempo, i critici del XX secolo si divisero in una disputa che ancora oggi contrappone due schieramenti di studiosi: gli Stratfordians, così chiamati i difensori della ortodossia accademica ufficiale, e gli Anti-Stratfordians, i quali attraverso lo studio pragmatico dei testi e l’avanzare delle ricerche – si posero non pochi dubbi e perplessità sulla ricostruzione postuma della sua biografia. Tra costoro vanno citati i letterati Santi Paladino, Clara Langworth di Chambrun e Francis Amalia Yates, che nei primi decenni del Novecento evidenziavano fondati dubbi e perplessità sulla vita di Shakespeare così come conosciuta ufficialmente. Il clamore di tali inedite novità produsse in quegli anni molto interesse e per contro inevitabili reazioni, che tuttavia scemarono a causa dei gravi eventi intervenuti con l’inizio del conflitto mondiale del 1939. Solo nell’ultimo decennio del ‘900, in Italia gli studiosi Saul Gerevini e Corrado Panzieri si assunsero il compito di riprendere quella iniziativa e promuovere l’adesione di letterati di vari paesi nell’intento di riprendere gli studi e le ricerche dallo stesso punto in cui erano giunti i primi ricercatori. Durante tutti questi anni, via via che le nuove attività di ricerca venivano riprese, non sono mancate indiscrezioni e anticipazioni di novità e ritrovamenti di documenti che permettevano di avere una più chiara contezza di accadimenti e circostanze riguardanti la vita di Shakespeare e i suoi rapporti - presunti o realmente avvenuti - con i personaggi più significativi del mondo e del tempo in cui si realizzò l’affermazione della drammaturgia inglese durante gli anni del regno di Elisabetta. Di fronte a tali novità, la reazione delle istituzioni culturali internazionali - in modo particolare la classe accademica, non solo quella di lingua inglese – hanno assunto un atteggiamento di distaccata supponenza giunta oggi al punto di ignorare qualsiasi occasione di confronto interlocutorio. Tutto ciò riguarda il recente passato fino a giungere ai nostri giorni. Questa situazione di incomunicabilità è pervenuta oggi ad un bivio; da una parte si tenta di richiamare l’attenzione degli Stratfordians sui recenti risultati, mentre costoro ostentano una resistenza di retroguardia a sostegno di un mito romantico ormai difficilmente difendibile anche in presenza di inconfutabili prove documentali. In questa situazione la lettera aperta di Gerevini vuole essere una proposta di confronto per ristabilire una verità storica basata questa volta da validi elementi probatori. Con tale intento il taglio dato da Gerevini al testo della sua lettera aperta mostra un solido fondamento pragmatico basato su atti documentali e reperti archiviari descritti e richiamati da precisi riferimenti di opere letterarie e cronache dei tempi cui gli avvenimenti storici si riferiscono e che chiunque – volendo - abbia la possibilità di consultare personalmente. La sua coraggiosa iniziativa assume così le caratteristiche di una vera e propria sfida posto che, a mio avviso, la controparte avrà non poche difficoltà a confrontarsi su di un tale terreno. E’ infatti di diffuso convincimento che la biografia accreditata ufficialmente del personaggio Shakespeare sia stata negli anni piuttosto edulcorata. Così il primo compito datosi dal gruppo di lavoro promosso da Gerevini-Panzieri, affiancato da validi collaboratori quali Giulia Harding, Massimo Oro Nobili, Vito Costantini ed altri, è stato quello di cercare e ricollocare al giusto posto ogni tessera del mosaico capace di riprodurre fedelmente quell’esaltante momento storico, durante il quale una classe elitaria di pensatori, poeti, letterati, artisti, scienziati e uomini di stato hanno reso possibile che anche l’Inghilterra fosse influenzata dalla cultura rinascimentale italiana . Un ruolo importante in questa evoluzione fu svolto dalla corte della regina Elisabetta I e in seguito da quella di re Giacomo, che ambedue favorirono l’accoglienza nel Paese di spiriti liberi e di riformatori esuli dagli stati europei perseguitati per motivi religiosi. Quanto accadde allora ha permesso oggi di facilitare le ricerche perché le vite dei personaggi principali, che determinarono quegli eventi, si sono dimostrate assai legate le une alle altre, per cui i loro rapporti si intrecciano influenzandosi a vicenda. Dignitari di alto lignaggio, taluni di essi come gli Herbert dei conti di Pembroke - imparentati con la corona – e personaggi di nobili famiglie frequentavano la corte a Chelsea riscuotendo apprezzamento per il loro ruolo di generosi mecenati di poeti, letterati e impresari teatrali. E’ da tenere presente inoltre che proprio a Londra era molto attiva in quel tempo una importante presenza di esuli italiani e i rapporti - non solo commerciali - con il Granducato di Firenze, le Repubbliche di Venezia e di Lucca erano molto sviluppati. Oltre agli Herbert un ruolo determinante hanno avuto i rapporti tra William Cecil, barone di Burghley e John Florio, a cui il Primo Consigliere della Corona conferì importanti incarichi sia diplomatici che di magistero. Il Primo Consigliere affidò infatti a John Florio la preparazione del giovane Henry Wriothesley, conte di Southamton – particolarmente seguito dalla regina Elisabetta per la sua iscrizione al St. John College di Cambridge. All’apprezzamento della corte verso i Florio non era certamente estranea la stima della regina nei confronti del padre Michelangelo, il quale negli anni della fanciullezza di Elisabetta (1550-’53) le fu maestro di latino e di italiano. Queste ed altre circostanze hanno facilitato molto le indagini negli archivi storici dove le cronache inglesi, italiane e svizzere offrono molte preziose informazioni e documenti di pubblici avvenimenti di quel periodo, in cui i rapporti tra la corte di Londra e i vari Stati italiani erano molto intensi. Termino la premessa osservando come solo grazie a quei documenti e a quelle cronache del tempo sia stato possibile ripercorrere la vita dei due Florio, padre e figlio, sul conto dei quali diversamente non sarebbe stato possibile ricostruire la loro biografia. Aggiungo inoltre che da quelle ricerche non è mai emersa alcuna evidenza che attesti una qualsivoglia relazione intercorsa tra quei personaggi maggiormente rappresentativi del momento storico e la persona di Shaksper, ad eccezione ovviamente degli attori e degli impresari delle compagnie teatrali. Libera traduzione dall’inglese. Nella sua “lettera aperta” Saul Gerevini procede da una premessa che detta ordine ad un serio impegno di chiarezza storica: “E’ utile sapere che il nome di William Shaksper è uno dei modi nel quale l’attore di Stratford utilizza per firmare i suoi unici documenti originali resici dalla storia.” …. “ Per evitare confusioni ed equivoci userò il nome di “Shaksper” per indicare l’attore e quello di “Shakespeare” per definire l’autore delle opere perché nella realtà delle cose sono due persone diverse.” E’ una precisazione necessaria perché mentre per il prof. Tassinari sono due personaggi diversi, il prof. Greenblatt ritiene che i due nomi indichino la stessa persona. Sia Tassinari che Greenblatt nelle loro rispettive opere non sono però convincenti sulla vera identità di William Shakespeare perché ciascuno a loro modo hanno evitato di prendere in considerazione una serie di eventi storici e di documenti del tempo che attestano i reali rapporti stabilitisi tra i Florio e Shaksper sin dal 1592 e inoltre “… dovrebbero prendere atto dei nuovi elementi di prova scaturiti dalle recenti ricerche.” Greenblatt nelle sue opere scrive che “ ..William Shakespeare è un genio immenso e questo è vero; ma questa genialità è difficile da individuare nelle carte di Shaksper. Così nel libro di Greenblatt non si comprende come Shaksper potesse essere stato l’autore delle opere hakespeariane in assenza di chiare evidenze di prova.” Quanto al Tassinari egli concorda certamente che sia John Florio il vero autore ma egli non è in grado di dimostrarlo non avendo portato alcuna prova documentale al riguardo. In queste condizioni egli pretende a sua volta di estendere al collega Jacques Darras di produrre le proprie prove se vuole che le sue idee siano prese in considerazione da tutti. L’assurdo è che anche Jacques Darras, non ha mai portato prove su Shaksper perché potesse essere considerato l’autore Shakespeare. Per lo stesso principio Gerevini finisce per coinvolgere anche il prof. Jonathan Bate, anch’egli “stratfordian”, se lui pure si attende che gli aneddoti e le argomentazioni interpretative espresse nel suo “The Genius of Shakespeare” – 1997 siano convincenti. E Gerevini conclude per ognuno: “Insomma tutti costoro che rappresentano i maggiori cultori della materia, così come qualsivoglia studioso, dovrebbero seguire il sano principio per cui, in carenza di prove, dovrebbero astenersi dall’esprimere sentenze sulla identità di chi fosse il personaggio William Shakespeare.” Impostato così il discorso sul piano pragmatico, Gerevini fa seguire tutta una serie di argomenti e accadimenti storici che riguardano la vita e le opere dei personaggi che hanno avuto un ruolo fondamentale nei rapporti reciproci tra Shakespeare, Schaksper, John Florio, Michelangelo Florio, Robert Green, Thomas Nashe, Henry Wriothesley Southampton, Giordano Bruno, Henry Herbert Pembroke, la corte inglese e il mondo rinascimentale della letteratura e della drammaturgia inglese, sui quali si sono scritti nei secoli fiumi di inchiostro e riempite le biblioteche. Egli avverte che tutte le “anedottiche interpretazioni appartengono al passato perché nel frattempo sono stati resi noti sorprendenti e inediti risultati grazie agli studi e alle ricerche recentemente condotte da nuovi studiosi della materia”, che hanno permesso di ricostruire con maggiore fedeltà la realtà storica al di là delle libere interpretazioni. Gerevini dedica gran parte delle quarantadue pagine della sua lettera aperta, ai singoli argomenti sui quali fino ad oggi si sono fronteggiate le opposte interpretazioni delle due parti in conflitto. Per ciascun capitolo di discussione egli fornisce chiarimenti e approfondimenti non senza apportare inediti elementi di conoscenza per confutare supposizioni e teorie ormai talmente sedimentate da secoli da essere considerate dalla generalità degli autori e dei lettori verità dogmatiche. I temi sono molti perché la matrice di quella che ha i caratteri di una mistificazione storica, origina dalla stessa biografia ufficiale del ragazzo di Stratford manifestamente edulcorata al fine di presentarlo come il solo e vero autore delle opere. Non mi dilungo oltre in questa sede ad elencare tutti i punti di criticità indicati dal Gerevini, anche perché ulteriori risultati delle ricerche renderanno sempre meno difendibili le supposizioni dei biografi del passato. Un decisivo contributo di credibilità è pervenuto dagli studi e dalle ricerche recentemente portate a termine dai collaboratori Giulia Harding, Corrado Panzieri, Massimo Nobili e Vito Costantini, che hanno arricchito di nuovi elementi di conoscenza il quadro della realtà storica in cui si realizzò quel fulgido periodo del regno di Elisabetta, durante il quale, grazie all’apporto dei due Florio, la cultura inglese venne profondamente influenzata dalle opere del Rinascimento italiano. Mi limiterò perciò a soffermarmi su di un singolo argomento dei vari capitoli in cui il dibattito tra i tre contendenti si accentra. Mi soffermo perciò sulla interpretazione di una frase sintomatica, ormai divenuta famosa, per aver alimentato a dismisura i leggendari fiumi d’inchiostro dei critici e degli stuiosi. Trattasi di un testo capzioso di Robert Greene, capo scuola dei primi drammaturghi elisabettiani, che nel passato è sempre stato interpretato erroneamente dai biografi e in tal modo accettato. L’argomento è quello che Gerevini pone come conclusione al termine della sua lettera (pag.40) col titolo “La prova definitiva”. L’ho scelta non solo per la sua tipicità di esempio, ma soprattutto perché il caso preso in esame dà il senso di inanità tipico di quelle discussioni in cui l’orientamento della logica viene meno pur di sostenere una posizione pregiudiziale. Codesta prova definitiva consiste nella risposta da dare ad una domanda: ”…. chi è quel Johannes Factotum ( citato nella denunzia di Robert Greene nella sua “Groatworth of Witte”) … Greene si riferisce o non a John Florio alludendo al cuore di tigre ?”. Gran parte del ”fiume d’inchiostro” è da addebitare appunto a questo quesito. Gerevini precisa che “… secondo i critici e gli studiosi Stratfordians, Greene si riferisce a Shakespeare. Infatti in tutti gli studi, nelle biografie, nei testi scolastici e in tutti i saggi di pubblica divulgazione si è da sempre affermato che la denuncia di Greene fosse rivolta a Shakespeare quale autore delle opere. E’ evidente l’intento dei critici e degli studiosi di voler identificare in Shakesper l’autore emergente. Dal punto di vista letterale la questione - cioè la corretta interpretazione del testo di Greene - vada posta semplicemente sul più pragmatico piano dell’analisi logica del testo di Greene. A differenza del Gerevini, che affronta il problema rivolgendosi ai due eminenti cattedratici dediti alla materia, io intendo, con questa libera traduzione, mettere a fuoco i termini della questione sorta dalla provocazione lanciata da Greene con il suo “Groatsworth” per mettere in condizioni il lettore, come pure un qualsiasi studente ginnasiale, di comprendere il motivo se c’è di tanto contendere. Partiamo prima però dai fatti storici che hanno provocato il caso. I fatti occorsi a Londra nel 1592. Nel 1592 a Londra i teatri riprendono gli spettacoli dopo la loro chiusura per l’imperversare della peste del 1590. Tra le prime rappresentazioni nel marzo del ‘92 viene data al teatro “Rose” l’opera l’”Enrico VI”- prima parte. L’opera ebbe un grande successo tanto che ebbe altre quattordici repliche con ingenti incassi. Seguiranno poi altre opere come il “Riccardo III”, la “Commedia degli errori”, “La bisbetica domata” e “Tito Andronico”. Evidentemente il gruppo emergente dei nuovi autori facente capo ai due Florio aveva pronte da tempo un buon numero di opere da presentare e ciascun testo probabilmente era già ripartito fra le varie parti su “in folio”. Significativa la circostanza per cui, già un anno dopo del ritorno a Londra di Michelangelo Florio, il capo scuola Richard Tarlton, attore pupillo di Elisabetta, dedica loro nel 1578 un sonetto di attestazione artistica. Il mondo dello spettacolo avvertiva fin da allora che nella drammaturgia inglese si stava affermando in quei giorni un nuovo modo di fare teatro in coincidenza con l’imporsi nell’ambiente letterario inglese di nuovi autori portatori di culture e influenze straniere. Trascorrono quattordici anni e l’associazione letteraria dei Florio conosce i primi successi. Greene giaceva gravemente ammalato nella sua abitazione ma era evidentemente bene al corrente di quanto si stava delineando nell’ambiente teatrale dove qualcuno si apprestava a superarlo nella sua posizione di preminenza letteraria e di capo scuola. La sua reazione lo portò ad indirizzare ai colleghi autori e drammaturghi un libello di accusa contro i nuovi protagonisti dal titolo “Groatsworth of Witte”. Il documento non era rivolto in modo personale ai singoli colleghi, tuttavia si suppone che i destinatari fossero soprattutto i più autorevoli drammaturghi come gli amici Marlowe, Nashe e Lodge per metterli in guardia contro i nuovi intrusi. Vediamo come esattamente si esprime sul letto di morte il povero Greene. (Greene muore il 3 settembre del 1592) Egli scrive: “ … di conseguenza non vi fidate di loro perché c’è un corvo rapace fattosi bello con le nostre piume, che con il suo cuore di tigre nascosto nella pelle di un attore pensa di essere in grado di produrre un verso sciolto come il migliore di voi ed essendo un assoluto Johannes Factotum è, nella sua presunzione, il miglior Scuotiscena del Paese.” Come prima constatazione occorre rilevare che i soggetti a cui si rivolge Greene nella sua invettiva sono due, da un lato un attore che si presta a sostituire qualcuno occultandolo e dall’altro un corvo rapace dal cuore di tigre che intende rimanere nascosto. Quindi è impreciso e fuorviante affermare che Greene intendesse rivolgersi unicamente ad un singolo soggetto l’attore. E’ evidente che l’invettiva di Green era puntata principalmente al suo diretto competitore. Ed a ulteriore conferma di ciò lo indica con il soprannome di Johnnes Factotum, con cui John Florio era stato identificato dall’ambasciatore francese Michel de Castelnau,conte di Mauvisier nel 1580, che così lo aveva apostrofato per le sue poliedriche competenze professionali dimostrate negli anni della stesura del contratto di matrimonio tra la regina Elisabetta e il principe francese Francois Angiò, duca d’Alençon nel 1583-85. Nella realtà storica i rapporti tra i maggiori esponenti della drammaturgia inglese e il corvo rapace “Johannes Factotum” si stava creando da tempo un clima conflittuale e di manifesta ostilità. E questo è tanto più eloquente se si considera che ciò accadeva quando ancora negli stessi giorni il ragazzo di Stratford - privo di attestazioni scolastiche - si aggirava a Londra in cerca di lavoro tra i posteggi delle carrozze dei teatri a Bankside. Anzi, grazie a quanto oggi siamo in grado di dimostrare, i motivi di attrito di Green e quelli personali di Nash nei confronti di John Florio risalivano addirittura al 1585 al tempo in cui frequentavano il St. John College a Cambridge quando Shaksper ancora macellava i vitelli nell’azienda del padre a Stratford. Già da allora essi avevano individuato in John Florio lo scomodo concorrente, talché nei loro scritti si riferivano a John Florio con le stesse allusioni al “corvo” e al “cuore di tigre”. Erano gli stessi anni in cui Tarleton invece li apprezzava. Appare chiaro quindi che Greene si rivolgesse a Florio come “Johannes Factotum” dal “cuore di tigre” e non certo all’innocuo apprendista Shaksper. D’altra parte, come poteva un ragazzo di campagna, a soli venticinque anni di età, appena giunto a Londra in cerca di lavoro, aver potuto acquisire in uno spazio di temporale di appena un paio di anni o poco più, una posizione di rilievo al pari dei membri principali di Lord Chamberlain’s Men. Appare evidente che il suo ruolo effettivo nell’associazione teatrale dei Florio copriva altre incombenze, non certo quelle di carattere letterario. Nei giorni in cui il povero Green denunciava lo straripante John Florio, i teatri di Londra erano ancora chiusi a causa della peste, (siamo nel settembre del 1592). Essi riapriranno definitivamente solo all’inizio dell’estate del 1594, salvo pochi e brevi intervalli in cui sembrava che la pandemia accennasse a cessare. Questa inattività di quasi due anni determinò una nuova ricomposizione degli organici nelle diverse compagnie teatrali. Fino ad allora la compagnia più accreditata era la Queen’s Men, dal cui declino trassero vantaggio la Strange’s Men e la Admiral’s Men, le quali strinsero un accordo di collaborazione. Il nuovo gruppo eclissò i suoi rivali e ottenne di fare rappresentazioni alla corte di Elisabetta più di ogni altra compagnia. Con la cessazione della pandemia nella primavera del 1594, Edward Alleyn, eminente attore tragico e impresario, ripristinò la compagnia degli Admiral’s Men che esordì al teatro Rose. Gli Strange’s Men, col nuovo nome di Chamberlain’s Men di James Burbage scelse le scene del Theatre. Durante gli anni della associazione Alleyn-Strange negli atti delle compagnie compaiono menzionati diciassette attori, ma tra questi il nome di Shakesper o Shakespeare che sia non risulta, come pure esso non appare in nessun documento riguardante le attività teatrali di altre compagnie. In conclusione non vi sono evidenze documentarie su Shaksper a Londra almeno fio al 1591. Come Shakesper sia giunto a quella posizione nessun letterato, storico o biografo ha mai sino ad oggi fornito una spiegazione credibile e tantomeno documentata. Conclusione Mi sono particolarmente soffermata tra i molti argomenti ad approfondire il significativo caso “Robert Greene’s Groatsworth e Johannes Factotum” tra quelli introdotti da Gerevini nella disputa Tassinari-Greenblatt, per richiamare l’attenzione del lettore su come sia arduo rimuovere certe credenze, sedimentate nel corso di secoli, assurte a verità o a leggende per inerzia mentale o peggio a difesa di interessi da difendere. Non a caso la “lettera aperta” in esame merita la più ampia diffusione presso la pubblica opinione, perché ancora oggi eminenti e dotti rappresentanti delle più prestigiose accademie persistono nel dissertare su ipotesi ormai insostenibili, ignorando o rifiutando di prendere in considerazione ogni nuovo apporto di conoscenza. I nuovi mezzi di divulgazione in editoria e in rete daranno certamente un nuovo impulso nella ricerca della verità di una vicenda che ha i contorni di una artificiosa mistificazione storica. Ho voluto prendere in esame questo caso tra i tanti richiamati dal Gerevini per la sua tipicità indice della difficoltà di sviluppare un obiettivo confronto fra tesi contrapposte non basate da analisi di prove documentali. Concludendo, mi domando se gli autorevoli interlocutori, cui è diretta la lettera aperta, vorranno accettare il contraddittorio proposto da Gerevini. Per il prof. Tassinari si tratterebbe in sostanza di un chiarimento “in famiglia”. Differente appare la posizione dello stratfordiano prof. Greenblatt costretto dalla implicita sfida di Gerevini di far “vedere le carte”. Nel suo caso la risposta che potrà dare ha una terna di opzioni. Una prima alternativa sarebbe quella di replicare su ogni argomento. A mio avviso egli non mancherà immagino di richiamarsi alle argomentazioni e alle tesi, di cui sono colmi gli scaffali delle biblioteche sulla vita e le opere del Bardo. Quindi Saul Gerevini e noi tutti con lui non dovremmo far altro che attendere che Greenblatt “cali le sue carte sul tavolo”. Come seconda opzione potrebbe essere lui a chiedere a Gerevini di “vedere le sue carte”. Eventualità questa che peraltro Gerevini si è già detto disponibile ad accettare. Al prof. Greenblatt resterebbe infine l’ultima alternativa, quella di non raccogliere la sfida. Certo, non sarebbe né corretto né elegante, tuttavia egli potrebbe più semplicemente – est modus in rebuslimitarsi ad esprimere un cortese quanto generico riconoscimento per il lavoro fatto dal collega, lasciando al tempo notoriamente galantuomo e al consueto fiume di inchiostro, il compito di far dimenticare ai lettori l’incresciosa e imbarazzante sottrazione all’impegno. Questa ultima opzione, certamente più semplice e meno impegnativa, comporterebbe tuttavia un prezzo ragguardevole in termini di credibilità e di prestigio, consentendo a Gerevini la possibilità di affermare le sue ragioni e dare inizio ad una clamorosa iniziativa di revisione generale sia sul piano letterario che su quello storico. Non resta che attendere. Milano, Aprile 2015 Carla Zanardi