Zefiro \- Anteprima
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GIACOMO GAILLI Zefiro - Anteprima UUID: 5bc5b7a4-a56f-11e4-80cd-9df0ffa51115 T h i s e b o o k w a s c r e a t e d w i t h B a c kTy p o ( h t t p : // b a c k t y p o . c o m ) by Simplicissimus Book Farm Table of contents 1 - Ragioni 2 - Il Porto di Mare 3 - Soldino 1 - RAGIONI Firenze, 2112. Manco da Firenze da più di dieci anni. Ho viaggiato molto, il mio lavoro da giornalista mi ha permesso di conoscere luoghi e persone che da piccolo vedevo solo attraverso lo schermo di un computer. A quei tempi non ci credevo che il mondo fosse così grande e più vedevo foto e leggevo articoli più sentivo crescere il senso di curiosità. sembravano Per stemperare rischiose quelle ambizioni un che mio insegnante mi spiegò che, secondo lui, la frase latina «carpe diem quam minimum credula postero» (vivi il presente, confidando il meno possibile nel domani) non era da intendersi come un incoraggiamento al rischio ma piuttosto come la raccomandazione di non farsi sfuggire quel che la vita sa offrire, lì intorno a noi, senza mettersi a sperare o temere chissà che. Per questo gli uomini stavano costruendo nuovi mondi nei mari sicuri della rete, per togliersi le curiosità e assaporare i piaceri della vita senza metterla a repentaglio. All’inizio abbracciai quest’interpretazione per le indubbie comodità intrinseche, poi mi imbattei per caso nella foto di un uomo coperto di fango, ferito, con gli occhi azzurri e un gran sorriso sul volto. Hervé Morel era un ingegnere di trentacinque anni, un francese naturalizzato negli Stati Uniti. Correva il 2090 ed erano i giorni della grande crisi energetica. Un’ondata di nuove tecnologie stava invadendo le metropoli e a farne le spese in termini di servizio furono alcuni piccoli centri che rimasero senza elettricità. In uno ci abitava Hervé. Lui non era d’accordo con Orazio: Hervé temeva il futuro, viveva di speranze e tutto quel che fece fu volto a creare un domani ben preciso. Si chiuse in casa e usò i suoi risparmi per fare acquisti, tutti legali, e mettere insieme il materiale di cui aveva bisogno. Arruolò alcuni amici, tecnici rimasti disoccupati, e si diede alla macchia. Nei tre mesi successivi Hervé divenne un Robin Hood dell’elettricità. Rubò batterie industriali e generatori dalle centrali più vicine, e costruì derivazioni clandestine che dirottassero il flusso verso il paese. Per due mesi nessuno si accorse di niente e tutti erano felici che la corrente fosse tornata nelle abitazioni e per le strade, poi una squadra di operai scoprì una derivazione e fece denuncia. Lo catturarono subito, il signor Morel, lo presero dopo una corsa in mezzo a campi e paludi. La foto fu scattata in quel momento: un uomo sporco di fango, ferito, eppure sorridente e con gli occhi di chi non ha rimpianti. Durante il processo l’intera comunità si schierò dalla sua parte e lo difese con ogni mezzo. La pena fu commutata in servizio civile ma Morel, purtroppo, morì pochi mesi dopo la sentenza. Quando lessi la sua storia mi chiesi cosa mai fosse scattato nella testa di quell’uomo per convincerlo a passare dalle parole, a cui credo i più sarebbero rimasti, alle azioni. Perché a volte reagire è necessario, per noi stessi o per gli altri, e allora non mi stupisco che avvenga; in questo caso no. Hervé Morel di scelte ne aveva, poteva fare qualsiasi altra cosa. Fu la curiosità di conoscere quel processo, la concatenazione di pensieri e sentimenti che spinge un uomo fuori dal guscio, a farmi iniziare la professione. Non avrei mai pensato che un giorno questa mia indagine mi avrebbe riportato a casa. Sono atterrato al vecchio aeroporto di Peretola e da lì una navetta mi ha condotto fino alla stazione di Belfiore passando attraverso la periferia di Novoli. Vedo condomìni silenziosi, i bucati tesi alle finestre sono tutti uguali. Non c’è vita in strada e anche stasera, quando università e palazzo di giustizia chiuderanno i portoni e si apriranno i piccoli bordelli, non ci sarà che qualche ombra col bavero alzato a camminare rapida sui marciapiedi in cerca di piacere. Decido di proseguire a piedi e attraverso l’ultima cerchia di periferia prima del centro. Nonostante la fama artistica della città anche qui le presenze umane sono minime. Le auto che passano sono poche ed elettriche, c’è silenzio. La pioggia appena finita ha lasciato scie umide lungo i marciapiedi e rigagnoli d’acqua seguono i capricci dell’asfalto per scorrere dal fondo delle grondaie alle grate di scolo. Le case hanno facciate piene di crepe e balconi fioriti, come vecchie signore che non vogliono rinunciare all’eleganza di un po’ di trucco. Respiro aria di casa, un odore umido e antico mi bagna gli occhi. C’era un piccolo giardino qui, un cortile di cemento con un canestro al muro in cui a volte mio nonno mi portava quando ero piccolo. Non c’era quasi mai nessuno e io e lui eravamo contenti di passarci la palla per una mezz’ora e chiacchierare solo con i sorrisi. Ogni volta lui mi chiamava con il nome di un calciatore diverso e ogni volta io non avevo la minima idea di chi fosse. Al centro di quel poco di traffico rimasto a Firenze vive ancora la Fortezza, da sempre indifferente ai cambiamenti della città. Il parco che la circonda non ha subito grandi variazioni da quando modificarono la forma del laghetto per renderlo simile a un giglio. Prendo per Piazza dell’Indipendenza e non appena ne varco il confine mi sorprendo nel sentire il lieve bip della mia carta d’identità. Avevo quasi dimenticato di essere ancora residente qui. Il Bosco, di cui questa piazza è uno dei tanti accessi, ricopre una buona parte del centro, si dirama in varie strade più piccole e forma un reticolato di sentieri e viottoli ben tenuti che collegano tra loro i giardini principali: San Marco, Unità, San Lorenzo, Santissima Annunziata, e Repubblica. I due ponti arborei di Carraia e Grazie permettono agli alberi di continuare oltre l’Arno, per comunicare anche con i parchi più distanti e i giardini di Boboli e Torrigiani. Vedo più gente qui, alcune famiglie, bambini, animali. Firenze gode di tre o quattro settimane all’anno di clima perfetto prima che il freddo acuto dell’inverno ceda il passo al caldo umido d’estate; è difficile non approfittarne. Le file di negozi chiusi e di fondi convertiti in garage o abitazioni mi mette una certa tristezza. Come tutti, anche io sono rimasto affascinato al pensiero che fino a pochi anni prima della mia nascita nessuno avesse mai sentito parlare dell’ISS. Il mondo di un tempo, quello fatto di vita vissuta in strada, di continui pericoli per la salute e per l’incolumità fisica, è qualcosa che ha sempre impaurito e attratto i giovani, me incluso. In effetti mi è capitato di tornare a Firenze, di visitare le sue mappe informatiche, di passeggiare per le ricostruzioni di vie e giardini. Mi sono seduto sulle sue panchine e ho anche partecipato a uno di quegli eventi promozionali che si fanno da sempre, in cui una pedana per giocare a golf viene messa su Ponte Vecchio e a turno si può comprare un tiro. La possibilità di inserire elementi grafici ovviamente ha modificato il gioco con bersagli da colpire, premi e scherzi per i più inetti. Due anni fa ogni volta che qualcuno colpiva la palla con troppa violenza una stella cadeva dal cielo e piombava in Arno illuminandolo da sotto. Nonostante questo non mi sono mai sentito tornato a casa. Adesso che ho l’aria di questa città nei polmoni mi rendo conto di cosa significhi per me essere qui. Anche di questo vorrei parlare con la persona che sto andando ad incontrare. Mi lascio alle spalle il verde del centro e proseguo da San Marco verso Piazza della Libertà da dove potrò procedere verso la zona del vecchio stadio. Questa storia, come tutte, ha una sua premessa: oggi, il 28 Marzo del 2112, viene ufficializzato il nuovo Atto di Ambivalenza, la legge con cui sarà regolata la relazione tra la nostra vita terrena e quella virtuale. Alcuni smaliziati hanno coniato il termine ironico A.A.II.0!, esprimendo la loro sensazione che questa legge sia in realtà un errore che il mondo non dovrebbe concedersi. Facciamo un passo indietro. Nel 2049 un gruppo di ricerca canadese guidato dal professor Goustave Bomal rende noto l’ISS, InSight System, un complesso procedimento attraverso cui un computer sufficientemente potente può digitalizzare la mappa dei nostri segnali cerebrali in una ristretta unità di tempo; come se riuscisse a scattare un’istantanea del nostro stato emotivo. All’inizio le applicazioni furono soprattutto mediche e militari. Così come la genetica e la robotica anche questa invenzione si aggiungeva al libro nero dell’opinione pubblica, alcuni demonizzavano una simile funzione, altri si auguravano il meglio e altri ancora la credevano una bufala. Nel giro di alcuni anni la tecnologia si perfezionò, si rimpicciolì e si semplificò. In Giappone la fotografa Yuiko Oe fu la prima artista a sdoganare l’ISS, traducendo le istantanee delle emozioni scattate dal sistema in immagini astratte. Quadri di emozioni pure. La sua personale fece il giro del mondo e fu così che attraverso l’arte l’ISS divenne di casa. Uomini e donne volevano togliersi la curiosità di vedere con i loro occhi a che immagine corrispondeva la loro anima. La Oe Imaging fu solo la prima delle aziende a mettere sul mercato questo servizio. Da quel momento i passi furono veloci e nel 2069 ISS e informatica domestica si fusero. Per i social network di tutto il mondo fu una rivoluzione: gli utenti potevano registrare il loro ISS sotto una forma semplificata e in questo modo non solo l’utente poteva “osservare” le proprie emozioni ma tutto diventava più mirato. La rete leggeva l’ISS ed elaborava l’ordine in cui presentare i suoi contenuti, inclusa la pubblicità. Più divertimento e più affari, e tutti vincevano. Un elemento così particolare, intimo e prezioso come l’ISS non poteva restare a lungo in circolazione senza creare scompiglio. Coloro che erano scettici già da prima presero a odiarlo mentre altri lo considerarono aberrante e presuntuoso, tanto da staccarsi da quella corrente che stava portando il mondo a una vita più virtuale che reale. Il ’69 fu l’anno dell’Alter ego, un sistema nato da un accordo tra le maggiori aziende informatiche del mondo. Ogni utente poteva chiedere che al proprio schema ISS fosse associato un Alter ego, un doppio di se stessi in rete. Nacque prima una moda e poi un autentico culto della “vera immagine”. Uomini e donne decisero che il loro aspetto più significativo era quello studiato dell’Alter ego e non quello a cui la genetica li aveva vincolati. Crebbe il desiderio di poterlo usare al posto del proprio anche nei documenti o negli ambienti di lavoro e crebbe il senso di disagio ogni volta che qualcuno cercava di passare oltre e di conoscere l’aspetto fisico, genetico, della persona. Sorse così il problema dell’unicità dell’Ae e della loro registrazione. Dopo cinque anni di dibattiti e battaglie fu infine coniato l’Atto di Ambivalenza. Riassumendo: ogni persona acquisisce il suo Alter ego al compimento della maggiore età. Tale identità digitale non gode di alcun diritto civico. Una volta scelto, l’aspetto di base dell’Ae è unico e immodificabile, soggetto a un insieme finito di opzioni di personalizzazione. Quando l’utente è connesso “indossa” l’Ae rendendolo un Avatar; quando l’utente non è connesso, l’Ae si muove con un certo grado di autonomia, svolgendo alcuni compiti per conto del suo utente nel rispetto dell’ultimo ISS registrato. Può rispondere a certi messaggi di posta, selezionare quella indesiderata, fare compere autorizzate, pagare le bollette, interagire con altri Ae o utenti amici (per i quali ha un permesso) e automatiche amministrare della casa. le L’Ae funzioni deve essere distrutto alla morte del suo possessore insieme a ogni memoria passata e può essere “congelato” solo nel caso in cui l’utente si trovi in uno stato di incoscienza prolungata o sia sotto controllo medico o giudiziario. Dopo tre settimane di mancato collegamento dell’utente con il suo Ae questo si iberna e manda un messaggio di allarme (leggero) alla famiglia. Dopo un’altra settimana vengono allertate le forze dell’ordine e i medici. Ogni persona è responsabile di tutto quello che il proprio Ae fa e dice. L’Atto di Ambivalenza stabiliva che un Alter ego è come una parte del corpo. Alcune persone trattano l’Ae come fosse un fratello o un figlio. Talvolta lo mandano a sostenere incontri o conversazioni al loro posto, a volte lo usano per il sesso virtuale in una sorta di paradosso del voyerismo. C’è chi sostiene che donare emozioni a qualcosa, anche in prestito, sia pari a creare “qualcuno”. Ne derivano responsabilità e, dicono, potrebbe essere frettoloso considerare questi Ae al pari di semplici strumenti. Ho raggiunto il quartiere chiamato Coverciano. Nel luogo in cui mi trovo posso toccare con mano i due popoli che a quest’ora vivono il mondo reale. Da una parte l’ampio edificio delle poste è utilizzato solo da persone anziane, che non hanno mai usato il sistema ISS per una questione generazionale o che hanno dovuto smettere per problemi fisici. Dall’altra parte vedo un campo sportivo dove ragazze con l’elmetto in testa indossano guantoni e mulinano mazze. E’ diventato raro, anche se non impossibile, trovare persone che si mettano a rischio praticando sport qui dove possono capitare infortuni e incidenti veri. Da queste parti abita la persona con cui vorrei parlare. Nel 2102 in questa stessa città ebbe luogo una storia destinata a provocare una serie di ricadute che hanno portato il mondo a modificare l’Atto di Ambivalenza. Non l’ho detto all’inizio di questa introduzione ma la vicenda di Hervé Morel, il ladro di elettricità, diede inizio culminò al nella dibattito riforma governativo della che gestione dell’energia elettrica. Io vorrei tanto, umilmente e con piena coscienza dei miei poveri mezzi, che almeno questa storia non fosse dimenticata. 2 - IL PORTO DI MARE «Ai cambiamenti!» Cinque piccoli bicchieri di cristallo brindarono. L’imbarcazione assomigliava a una gondola, appena un po’ più larga di quelle che passano per i canali di Venezia. Sul ponte c’erano due panche da due persone una di fronte all’altra e due puf, ai lati del tavolino centrale. Tutto intorno si apriva la baia. Almeno un centinaio di barche identiche solcavano un’acqua nera come petrolio punteggiata da riflessi lattei. La luna in cielo era bianchissima e rotonda e le stelle ben visibili nonostante le lanterne e le abbracciavano fiaccole. la baia I si promontori disgregavano che in lontananza in una lunga striscia di scogli che proteggeva dal mare aperto e smorzava la forza di correnti e risacca. Dall’altra parte, non lontano, si profilava la spiaggia dove sorgeva il complesso edificio del Porto di Mare, un pieno di terrazze e balconate che offriva musica, cocktail e un gran numero di feste. Si trattava di un posto esclusivo, costoso, a cui il più delle volte si poteva accedere solo per invito. Era un locale per grandi occasioni. «Otto anni di lavoro ed eccoci!» dichiarò Corsaro, che dopo il brindisi rimase in piedi quasi volesse tenere un discorso «Chiameremo lo studio Apeiron... fico eh?» Zenith, la sua fidanzata, lo guardò scuotendo la testa dal basso del suo puf «Ci prenderanno per un aperitivo, lo sai vero?» Corsaro rise e si buttò a sedere sulla panca facendo oscillare la barca, abbracciò l’amico che gli stava a fianco e gli offrì di nuovo il bicchiere per brindare. «Di nuovo! Di nuovo!» «Ai cambiamenti.» Concesse Zefiro con un sorriso. Era difficile vedere Corsaro così raggiante ma in fondo lui e Zenith avevano lavorato otto anni per mettere insieme le risorse e il portfolio necessari a un’azienda di grafica, non c’era da sorprendersi se adesso voleva festeggiare. «Pap! Alza il bicchiere!» Paperella occupava interamente la seconda panca, il suo ragazzo, Sance, le accarezzava i piedi sporgendosi dal puf. Era stata giù di tono tutta la serata, poco incline a unirsi a quel clima di festa. Proprio lei che amava ballare sui tavoli e dare spettacolo adesso alzava controvoglia la larga coppa del suo cocktail. «Ma cambiamo brindisi, ok?» propose «A te e Zenith. Siete stati bravissimi.» «Grazie…» Corsaro scambiò una rapida occhiata con Zefiro che non poté far altro che alzare le spalle. «L’inaugurazione dello studio avverrà tra qualche settimana ma nel frattempo vorremmo fare una cena a porte chiuse con voi amici.» Disse Zenith «Abbiamo arredato lo studio con elementi fatti da noi, riprendendo stili di epoche passate e sviluppando un po’ il design. Ci dai una mano tu con la cucina, Zef?» «Sì, che tipo di…» Un tonfo secco li fece voltare tutti. Paperella aveva ritratto di scatto le gambe e aveva urtato il bordo del tavolino facendo sobbalzare patatine e arachidi. Sance ritrasse la mano con cui l’accarezzava, aveva una malcelata espressione di offesa sul volto, si limitò a sistemarsi sul puf ed evitò di guardare la sua ragazza negli occhi. «Non mancheremo. Grazie.» Paperella si mise a sedere, drappeggiò la gonna leggera sulle gambe e scorse sulla panca per stare più vicina a Zenith. Non disse nulla riguardo l’invito. Seguì uno di quei momenti in cui il silenzio si fa pesante e gli argomenti di conversazione fuggono come da un incendio. «Perché non torniamo al Porto?» suggerì Corsaro «Abbiamo la terrazzina prenotata per tutta la prossima ora, possiamo darci alle danze.» La proposta raccolse un tiepido ma unanime consenso e Sance si mise al timone, spostò l’asse per impostare la rotta e sfiorò il comando per far partire la barca. Tagliarono in diagonale la baia, passarono tra altre gondole di commensali e raggiunsero la spiaggia. Con le scarpe in mano scesero e si avviarono al locale. Alla terrazza si accedeva con un codice di prenotazione, una volta finito il tempo il lampeggiare delle luci avrebbe avvertito i clienti di lasciarla libera. Corsaro aveva chiesto che fosse sistemata come il ponte di una vecchia nave con l’aggiunta di un paio di divani, un tavolo basso, un po’ di musica e tutto quello che serviva a dei bravi pirati: spade e cappelli. Le danze furono aperte da Corsaro e Zefiro che improvvisarono un tango sulle note di un remix degli ultimi mesi, Zenith rideva dal divano e intanto carezzava i capelli di Paperella che continuava a essere scura in volto. Sance stava con la schiena al parapetto, assorto. Approfittando del momento Zenith decise di tastare il terreno «Che succede Pap? Non ti piacciono i brindisi, non balli. Hai litigato con Sance?» L’amica ebbe un brivido, strizzò e riaprì gli occhi e si sforzò di sorridere «No, che dici. Va bene. Tutto bene.» «Non mi pare proprio. Mi preoccupo per te.» «Tu ora devi stare bene. E’ un bel momento.» Zenith si alzò e le prese le mani «Starei meglio se tu ballassi. Su, forza!» Al tango seguì un pezzo rock più moderno, le ragazze mossero in aria i capelli fingendo di suonare la chitarra mentre Corsaro, cappello in testa e spada in pugno, faceva il cantante. Zefiro si avvicinò a Sance e diede una lunga occhiata al panorama. «Incantevole, va detto.» La vista offriva tutta la distesa d’acqua della baia, punteggiata delle luci rosse e gialle delle lanterne sulle gondole. Il riflesso della luna creava un’ondulata strada bianca e i suoni di altre musiche e feste si mescolavano in un baccano distante e rassicurante. «Sance, io e te ci conosciamo da un po’. Non tanto, ma da un po’. Se c’è qualcosa che non va e vuoi parlarne, io e Corsy siamo a disposizione.?» Lui incurvò le labbra «Boh senti... sono sincero. Io non ci capisco un cazzo. E’ chiaro che ho fatto qualcosa che non va, ma se lei non me lo dice io non so che farci.» «Sicuro di non saperlo?» chiese Zefiro «A volte magari ripetiamo una cosa che…» «Sì che sono sicuro. Non lo so. Mi chiedo se lo sa lei, piuttosto.» «Conosco Paperella da una vita.» Fece Zefiro in tono tranquillo «Io lei e Corsaro abbiamo iniziato insieme a fare uscite come queste. Eravamo ancora al liceo, figurati. E lei queste crisi ce l’ha sempre avute. So che non è facile, ma devi solo tenere duro, a lei passerà in fretta.» «Tra me e lei le cose funzionano perché nessuno vuole problemi. Funzionano perché tutto fila liscio. Filava.» «Beh» azzardò Zefiro «Allora falla filare. Su... proviamo a ristabilire un contatto.» Tornarono a ballare e a giocare, tutti quanti. Zenith e Corsaro avevano un modo tutto loro per stabilire dei contatti privilegiati, quasi intimi, anche in mezzo agli altri. Bastava un’occhiata o un paio di passi di danza. Lui le circondava le spalle con un braccio, le baciava la nuca in un rapido gesto d’affetto e subito tornavano a becchettarsi e a pestarsi i piedi. Zefiro fece volteggiare Paperella un paio di volte prima di sospingerla tra le braccia di Sance. Lei si irrigidì ma provò comunque a prenderlo per la vita e a posargli la testa sulla spalla. Sembrò si fosse calmata e restò immobile per tutta la canzone successiva, un lento che Zef e Corsaro cantarono insieme con voce da ubriachi. «Amico mio» fece Corsaro «Tu non puoi immaginare che goduria. La soddisfazione. Otto anni fa tu ce l’hai presente com’ero?» «Grasso e coi capelli lunghi?» «Sfigato, te lo dico io. Mi ci voleva Zen e tutta quest’impresa per capirlo. Non mi piaceva com’era la mia vita e ora guarda… l’ho cambiata! Se non è un motivo per festeggiare…» Zefiro sorrise, restò silenzioso accanto a lui mentre una giornate gli serie di passavano immagini davanti delle agli sue occhi. Corsaro indovinò una parte dei suoi pensieri «Tranquillo, Zef. Avrai tempi migliori anche tu.» La sua attenzione poi venne catturata da Zenith che si era alzata in piedi con espressine crucciata. Nel breve silenzio che seguì, l’attimo sospeso tra una canzone e l’altra, tutti si resero conto che Paperella stava piangendo con la faccia nascosta nella spalla di Sance, il quale le mormorava parole, domande, all’orecchio. «Cazzo, Pap!» Sbottò. «Se vuoi dirmi che hai, bene; sennò piantala di fare la depressa! Sono giorni che cerco di starti dietro. Ti tocco e scappi, ti parlo e stai zitta! Hai rotto...” La allontanò da sé e tornò al parapetto dandole la schiena. Zenith raggiunse l’amica che piangeva a pugni stretti, rigida con le braccia lungo i fianchi. Le furono tutti intorno. Zefiro era sempre stato sensibile alle lacrime e Paperella l’aveva vista bambina. «Senti un po’» disse alzando di un tono la voce alla schiena di Sance «Ma che hai in testa? Sta male e te la prendi con lei?» Fu il grido di Paperella a fermarlo. La ragazza si portò le mani al viso e scosse la testa «E’ colpa mia, colpa mia…» Sance si voltò a guardarla «La tua colpa è che sei una lagna!» le gridò «Questa era una festa, un’occasione per stare bene e invece guardati! Guardaci! Tutti intorno a te, la reginetta della serata... un tempo sapevi fare di meglio per attirare l’attenzione. Un tempo…» «Sono stata con un altro.» Lo disse piano, sottovoce, ma lo sentirono tutti come se la musica non fosse esistita. Sance chiuse la bocca, la riaprì e poi la richiuse. Zenith le strinse d’impulso le braccia, forte, per darle il massimo del sostegno. Corsaro sgranò gli occhi e Zefiro, per qualche ragione, riuscì solo a pensare che doveva essere molto più dura per lei che per lui. Il silenzio si protrasse qualche secondo di troppo poi Sance andò verso di lei, Zefiro si frappose e Corsaro sostenne da dietro entrambe le ragazze. «Che hai fatto? E me lo dici qui? In questo modo? Sei cretina?» «Calma, calmiamoci tutti…» intervenne Zefiro. La luce si spense e si riaccese per tre volte, segno che il loro tempo nella terrazza era concluso. «Dobbiamo andare» disse Corsaro «E loro devono parlarne da soli, non con noi. Noi ci saremo dopo.» Lo disse più che altro per Zenith, ancora restia a staccare le mani dalle braccia dell’amica «dai... vieni.» Le afferrò delicatamente le spalle. «Pap... ce la fai?» Lo sguardo della ragazza era spaurito, perduto. Zefiro non l’aveva mai vista in quello stato. Quando l’aveva incontrata per la prima volta le era parsa smaliziata e sicura di sé, ci aveva messo mesi a capire quanta fragilità nascondesse con il trucco. Tuttavia Pap riuscì ad annuire e Zenith le rivolse un sorriso dolce «Io sono qui cara, mi trovi quando vuoi.» Zefiro cercò lo sguardo di Sance «San» gli disse «Civilmente. Ok?» Seguirono altri tre lampeggi, poi un segnale sonoro, poi il mondo si dissolse. Zefiro vide la terrazza svanire nel bianco, il cielo e la luna offuscarsi, una rapida nebbia coprì tutto e l’ultima cosa a scomparire furono i lontani punti luminosi delle lanterne. Pochi istanti e il sistema configurò attorno a Zefiro il suo ambiente base, una riproduzione della sua camera di quando era ragazzo nella casa dei suoi. Precisamente si trovava in una replica del 2093 e in quella camera aveva avuto 21 anni. C’era la sua piccola collezione di libri, il suo computer e un assortimento eterogeneo di oggetti e biancheria pavimento. Era al sparsi per sicuro tutto adesso. il Il collegamento con Corsaro era ancora attivo, tutti gli altri si erano chiusi al momento del passaggio. «Zef, ci sei?» la voce proveniva da uno di quei piccoli ippopotami di gomma che quando si strizzano sembrano defecare. Gliene avevano regalati uno a testa ai tempi della scuola, per prenderli in giro dopo che la diarrea li aveva colti entrambi durante la gita. Parlavano dei massimi sistemi mentre se ne stavano chiusi in bagni attigui e intanto il resto della classe visitava Praga. Erano bambini allora, altri tempi, e nessuno dei due era abbastanza grande per i tour virtuali. Quando costruirono i loro ambienti base ognuno riprodusse l’ippopotamo dell’altro e ci collegò la sua voce durante le chiamate. «Ci sono.» Zefiro sedette sulla poltrona e si lasciò cullare dallo schienale «Che si fa adesso?» «Si va a letto.» Sentenziò Corsaro «Aggiorniamoci a domani, potrebbe anche essere una giornata lunga.» «Il primo che sa qualcosa chiama?» «Il primo che sa qualcosa chiama.» Zefiro strinse un paio di volte l’ippopotamo, lo ripose e si alzò dalla sedia. Si sentiva stanco, aveva ancora nelle orecchie i singhiozzi di Pap e le parole di Sance. Più ci pensava e più sentiva crescere la rabbia, decise di uscire dal sistema prima di lasciare un ISS troppo negativo. «Che stronzo» disse mentre afferrava la maniglia della porta. «Uscita.» Pronunciò, e aprì. 3 - SOLDINO Quando era ragazzo Riccardo «Zefiro» Corsi abitava la camera in fondo al corridoio della casa dei genitori, nella periferia di Firenze. Ogni giorno quando usciva raccoglieva lo zaino ai piedi del letto, staccava il giubbotto dal gancio al lato dell’armadio di fianco alla porta e percorreva il tratto di corridoio che separava la sua stanza dal resto della casa. Mentre camminava i suoni gli giungevano poco a poco: rumori di cucina, di televisione, di suo padre che parlava al telefono, di sua madre che interrogava la propria memoria su ricette che a quanto pare teneva in ostaggio. Per un breve periodo avevano avuto un gatto di nome Soldino che amava dormire disteso di fronte alla porta che conduceva dal corridoio al salotto. Il miagolio addolorato nel momento in cui veniva calpestato faceva da allarme per suo padre, che compariva con le mani dietro la schiena all’estremità della stanza: «Dove vai?» «Esco.» «Esci per andare dove?» «Non lo so, mi vedo con amici e…» «Che vuol dire che non lo sai?» Si arrivava a quella domanda ogni volta. Il cambiamento delle reazioni di Riccardo nel corso del tempo avevano rappresentato le tappe della sua crescita, diceva sua madre. All’inizio, da piccolo, con un certo timore e con la speranza che il padre si interessasse delle sue attività Riccardo snocciolava tutto nei dettagli. Il più delle volte usciva per giocare di ruolo o per il cinema e suo padre scuoteva il capo e non faceva alcuna domanda. Quando fu più grande le risposte si fecero più acide. «Dove mi pare.» «A vedere se trovo pace.» «Lontano, spero.» Per tutta l’adolescenza quella domanda fu il campo di battaglia tra padre e figlio. Gli anni passavano in fretta ma quella piccola parentesi non cambiò mai per molto tempo, abbastanza da diventare per sua madre una fonte di serenità: tante cose potevano succedere ma quel teatrino restava sempre lo stesso e quello spettacolo andava sempre in replica. Poi le cose cambiarono all’improvviso, come spesso accade. Quando uscì dalla sua stanza Zefiro non trovò alcun corridoio e sbucò invece in una piccola radura circondata da faggi. La porta dietro di lui appariva inchiodata alla corteccia di un albero. Al centro dello spiazzo erboso, tenuta su da corde legate ai rami più bassi, dondolava un’amaca. Zefiro vi si stese sopra e si lasciò cullare da deboli aliti di vento. «Uscita» ripeté, e dopo un breve istante le prime gocce di pioggia caddero attorno a lui, si trasformarono in scrosci e fecero suonare le foglie del faggeto. Zefiro sospirò e chiuse gli occhi. L’acqua gli bagnò il viso e gli appiccicò i vestiti addosso ma almeno gli concesse un po’ di quiete. Si sforzò di rilassarsi. In quel momento il sistema stava indagando le sue reti neurali, stava confrontando la sua mente con i parametri in memoria per stabilire il suo stato d’animo, i motivi di gioia e di rabbia per poi aggiornare l’Alter Ego. Riccardo immaginò che l’amarezza per quel che era successo e la rabbia per il comportamento di Sance fossero troppo acute. Cercò di pensare ad altro mentre l’acqua lo circondava come se la pioggia avesse colmato il bosco e lo avesse trasformato in un lago. Se avesse aperto gli occhi avrebbe potuto osservare la trasformazione del faggeto in fondale ma il risveglio era più dolce se si stava ad occhi chiusi e ci si concentrava sulle percezioni del corpo. L’acqua salì di livello, lo circondò e lo sollevò dall’amaca. Zefiro perse la cognizione dello spazio intorno e pur senza smettere di lentamente. respirare Quando si fu sentì immergere completamente in sospensione, il sistema iniziò l’ultima fase del distacco risvegliando il suo corpo fisico. Riccardo Corsi aprì gli occhi nella sua vasca modello HL6. Le luci di sicurezza interne erano accese e illuminavano il suo corpo immerso nel liquido denso e azzurrino, avvolto dalla tuta da connessione indispensabile per evitare i danni da iperidratazione. Riccardo mosse prima le estremità e mani e piedi risposero normalmente. Alzò una mano per toccarsi la maschera, raggiunse con due dita il pulsante di rilascio e lo premette una volta. Sentì il ronzio del motore elettrico della vasca e a seguire il suono metallico delle bocche di scarico che si aprivano. In pochi secondi il liquido defluì via e le protezioni superiori, due archi di vetro che coprivano la vasca a guisa di coperchio, si ritirarono. Il suo corpo si adagiò sul fondo che si inclinò per facilitargli l’uscita. Riccardo premette una seconda volta il tasto di rilascio sulla maschera e le fibbie ai lati del collo si sganciarono, liberandola dal colletto della tuta. Il casco elettronico comunemente chiamato maschera era il cuore del sistema, la parte frontale aderiva al viso dell’utente e forniva progressivamente a vista, olfatto e udito gli impulsi elaborati dal computer. Il cervello stesso faceva il resto grazie all’autosuggestione e alla capacità innata di mettere insieme i pezzi e ricreare coerenza. Si riusciva, di fatto, a raggiungere facilmente uno stato di ipnosi profonda in cui ci si vedeva proiettati all’interno del mondo virtuale in un’esperienza simile a quella di un “sogno lucido”. Riccardo rimosse lentamente la maschera e si sfilò la sottile cannula dalla gola, quella per lui era la parte più maschera fastidiosa ne era del dotata: processo. molti Ogni utenti trascorrevano la maggior parte del tempo nel mondo virtuale e dovevano quindi sopperire al bisogno di cibo e acqua. Era possibile non farne uso ma ogni costruttore raccomandava di non escluderla dal momento che se il computer non ne rilevava la presenza non consentiva all’immersione in rete di durare più di un paio d’ore, per evitare problemi di disidratazione, denutrizione o pressione. Riccardo si alzò, inarcò la schiena e sentì schioccare qualcosa lungo la colonna vertebrale. Rimosse la cannula usata dalla maschera e la gettò, infilò il resto nel piccolo forno sterilizzatore insieme alla tuta, dove sarebbero rimaste per almeno un’ora prima del prossimo utilizzo. In mutande, con i capelli appiccicosi per la traspirazione, Riccardo si mosse alla fioca luce del suo screen saver fino alla finestra. Aprì i vetri e si appoggiò con le braccia al davanzale. La periferia era silenziosa e vuota. Poche finestre erano illuminate, le strade deserte e spoglie. Non c’erano luci di insegne luminose di bar, cinema o negozi. Nessuno squillo di telefono lo raggiunse. Le vasche e l’ISS erano entrati da pochi anni nella vita delle persone ma avevano già rivoluzionato il modo di passare una serata, di lavorare e vivere in città. Riccardo restò lì qualche minuto, l’aria era umida e odorava di asfalto e d’acido, come se l’intero quartiere stesse smaltendo il sudore della giornata. Le stelle in cielo non si vedevano, nuvole scure coprivano tutto. I lampioni a terra illuminavano a chiazze le facciate e le strade, molte delle quali erano state aperte secondo il progetto Nuove Radici. Il Comune di Firenze, come molti altri in Italia, aveva aderito a un’iniziativa internazionale per il recupero delle zone urbane: dato che il loro utilizzo si era notevolmente ridotto tanto valeva rinverdire le città piantando alberi e piante, organizzare giardini là dove si era a lungo litigato per avere un parcheggio e trasformare in sentieri battuti i vicoli e le vie più piccole. Solo le strade ad alta percorrenza sarebbero rimaste inalterate, le vie di traffico principali e ovviamente quelle intoccabili per motivi storici e culturali. Firenze era in subbuglio da tempo vista la normale propensione alla polemica e l’attaccamento a certe consuetudini, tuttavia l’amministrazione sembrava decisa a modificare quanto più possibile l’aspetto del centro per apparissero far sì che “incastonate le in sue un ricchezze ordinato e luminoso parco”, come recitava lo slogan. Riccardo sbadigliò e affrontò casa sua senza accendere la luce. Lasciò la finestra aperta e e passò le dita tra i raggi rossi, eredi del mouse, per disattivare il salva schermo. Il monitor si accese, lo sfondo era una vecchia foto di Soldino, la sua silhouette nera contro il cielo. L’unica finestra aperta era quella dell’ISS, visualizzato come un lago di montagna sotto un cielo grigio che prometteva pioggia. Non avrebbe voluto lasciare un’impronta di sé così turbata ma evidentemente non si poteva evitare. Attese meno di un minuto prima che il programma aggiornasse l’Alter Ego con il nuovo ISS, poi la finestra si chiuse e ne comparve un’altra con la visualizzazione 3d del suo Ae. Riccardo premette il tasto del microfono «Ciao Zefiro.» La voce che gli rispose era simile alla sua ma più pulita «Buonasera Riccardo. Mi dispiace per gli ultimi eventi.» «Sì. Dispiace a tutti. Non commentare niente nello spazio di Sance e non rispondere a nessuna sua mail.» «Va bene.» «Se si presenta qui, invia per lui il segnale di assente.» «Potrebbe segnalare la scortesia» suggerì in tono piatto Zefiro. Riccardo si grattò la testa, il sudore tra i capelli iniziava a prudere. «Poteva evitare di fare lo stronzo lui, allora. Vado a fare un bagno e a dormire.» «Buonanotte, Riccardo.» Spense il monitor, controllò che lo sterilizzatore fosse partito e coprì la vasca con un telo. Chi aveva i soldi si faceva una stanza apposta per immergersi, nei nuovi appartamenti era normale trovarcela, Riccardo aveva sistemato tutto in un angolo del salotto. Raggiunse la camera, piccola e quasi interamente occupata dal letto, tanto che per andare da una parte all’altra lui spesso ci saliva coi piedi. Ogni tanto desiderava un futon giapponese che almeno avrebbe potuto piegare al mattino per guadagnare qualche metro quadrato. Restava così poco spazio che aveva dovuto prendere un armadio ad ante scorrevoli per poterlo aprire. Prese della biancheria asciutta e passò in bagno a lavarsi, poi attraversò il minuscolo corridoio ed entrò in cucina, dove l’unico tavolo della casa era circondato da quattro sedie di metallo e plastica. Un divanetto per due persone sosteneva il peso di due bucati ancora da piegare e la cucina avrebbe avuto bisogno di una lucidata. Riccardo aprì il frigo, c’era qualcosa che mandava odore. Avrebbe dovuto controllare lo stato della frutta nei cassetti, ma non ora. Aprì una bottiglia d’acqua e bevve, il freddo che gli scese giù per la gola gli scosse i sensi. Aveva il cuore pesante, più di quello che pensava. Paperella, Nora, era sua amica dai tempi della scuola e poteva essere frivola, maliziosa nei momenti meno opportuni e anche una gran rompipalle, ma sicuramente non era cattiva. Era fragile, e poco ma sicuro adesso stava da cani, incalzata da uno come Sandro che le cose sa fartele pesare, quando vuole. Un tempo lui e Marco sarebbero rimasti con lei, l’avrebbero chiamata o sarebbero andati a bussare a casa sua ma i tempi erano cambiati e lei non era più una ragazzina, anche se era ancora una ragazzina. Riccardo andò verso il letto, piazzò la bottiglia d’acqua per terra davanti al comodino e si stese sulla schiena. C’era qualcosa in più che lo turbava, una sensazione che non riusciva a ricondurre a niente, un sottile disagio che gli faceva venir freddo ai piedi. Cercò di tranquillizzarsi: il giorno seguente non sarebbe cambiato nulla per lui, doveva solo restare calmo.