Zefiro \- Anteprima

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Zefiro \- Anteprima
GIACOMO GAILLI
Zefiro - Anteprima
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T h i s e b o o k w a s c r e a t e d w i t h B a c kTy p o
( h t t p : // b a c k t y p o . c o m )
by Simplicissimus Book Farm
Table of contents
1 - Ragioni
2 - Il Porto di Mare
3 - Soldino
1 - RAGIONI
Firenze, 2112.
Manco da Firenze da più di dieci anni. Ho
viaggiato molto, il mio lavoro da giornalista mi
ha permesso di conoscere luoghi e persone che
da piccolo vedevo solo attraverso lo schermo di
un computer. A quei tempi non ci credevo che
il mondo fosse così grande e più vedevo foto e
leggevo articoli più sentivo crescere il senso di
curiosità.
sembravano
Per
stemperare
rischiose
quelle
ambizioni
un
che
mio
insegnante mi spiegò che, secondo lui, la frase
latina «carpe diem quam minimum credula postero»
(vivi il presente, confidando il meno possibile
nel domani) non era da intendersi come un
incoraggiamento al rischio ma piuttosto come
la raccomandazione di non farsi sfuggire quel
che la vita sa offrire, lì intorno a noi, senza
mettersi a sperare o temere chissà che. Per
questo gli uomini stavano costruendo nuovi
mondi nei mari sicuri della rete, per togliersi le
curiosità e assaporare i piaceri della vita senza
metterla a repentaglio. All’inizio abbracciai
quest’interpretazione per le indubbie comodità
intrinseche, poi mi imbattei per caso nella foto
di un uomo coperto di fango, ferito, con gli
occhi azzurri e un gran sorriso sul volto.
Hervé
Morel
era
un
ingegnere
di
trentacinque anni, un francese naturalizzato
negli Stati Uniti. Correva il 2090 ed erano i
giorni della grande crisi energetica. Un’ondata
di
nuove
tecnologie
stava
invadendo
le
metropoli e a farne le spese in termini di
servizio
furono
alcuni
piccoli
centri
che
rimasero senza elettricità. In uno ci abitava
Hervé. Lui non era d’accordo con Orazio: Hervé
temeva il futuro, viveva di speranze e tutto quel
che fece fu volto a creare un domani ben
preciso. Si chiuse in casa e usò i suoi risparmi
per fare acquisti, tutti legali, e mettere insieme
il materiale di cui aveva bisogno. Arruolò alcuni
amici, tecnici rimasti disoccupati, e si diede alla
macchia. Nei tre mesi successivi Hervé divenne
un Robin Hood dell’elettricità. Rubò batterie
industriali e generatori dalle centrali più vicine,
e
costruì
derivazioni
clandestine
che
dirottassero il flusso verso il paese. Per due
mesi nessuno si accorse di niente e tutti erano
felici
che
la
corrente
fosse
tornata
nelle
abitazioni e per le strade, poi una squadra di
operai scoprì una derivazione e fece denuncia.
Lo catturarono subito, il signor Morel, lo
presero dopo una corsa in mezzo a campi e
paludi. La foto fu scattata in quel momento: un
uomo sporco di fango, ferito, eppure sorridente
e con gli occhi di chi non ha rimpianti. Durante
il processo l’intera comunità si schierò dalla sua
parte e lo difese con ogni mezzo. La pena fu
commutata
in
servizio
civile
ma
Morel,
purtroppo, morì pochi mesi dopo la sentenza.
Quando lessi la sua storia mi chiesi cosa mai
fosse scattato nella testa di quell’uomo per
convincerlo a passare dalle parole, a cui credo i
più sarebbero rimasti, alle azioni. Perché a volte
reagire è necessario, per noi stessi o per gli altri,
e allora non mi stupisco che avvenga; in questo
caso no. Hervé Morel di scelte ne aveva, poteva
fare qualsiasi altra cosa.
Fu la curiosità di conoscere quel processo, la
concatenazione di pensieri e sentimenti che
spinge un uomo fuori dal guscio, a farmi
iniziare la professione.
Non avrei mai pensato che un giorno questa
mia indagine mi avrebbe riportato a casa.
Sono
atterrato
al
vecchio
aeroporto
di
Peretola e da lì una navetta mi ha condotto fino
alla stazione di Belfiore passando attraverso la
periferia di Novoli. Vedo condomìni silenziosi,
i bucati tesi alle finestre sono tutti uguali. Non
c’è vita in strada e anche stasera, quando
università e palazzo di giustizia chiuderanno i
portoni e si apriranno i piccoli bordelli, non ci
sarà che qualche ombra col bavero alzato a
camminare rapida sui marciapiedi in cerca di
piacere.
Decido
di
proseguire
a
piedi
e
attraverso l’ultima cerchia di periferia prima
del centro. Nonostante la fama artistica della
città
anche
qui
le
presenze
umane
sono
minime. Le auto che passano sono poche ed
elettriche, c’è silenzio. La pioggia appena finita
ha lasciato scie umide lungo i marciapiedi e
rigagnoli d’acqua seguono i capricci dell’asfalto
per scorrere dal fondo delle grondaie alle grate
di scolo. Le case hanno facciate piene di crepe e
balconi fioriti, come vecchie signore che non
vogliono rinunciare all’eleganza di un po’ di
trucco. Respiro aria di casa, un odore umido e
antico mi bagna gli occhi. C’era un piccolo
giardino qui, un cortile di cemento con un
canestro al muro in cui a volte mio nonno mi
portava quando ero piccolo. Non c’era quasi
mai nessuno e io e lui eravamo contenti di
passarci
la
palla
per
una
mezz’ora
e
chiacchierare solo con i sorrisi. Ogni volta lui
mi chiamava con il nome di un calciatore
diverso e ogni volta io non avevo la minima
idea di chi fosse.
Al centro di quel poco di traffico rimasto a
Firenze vive ancora la Fortezza, da sempre
indifferente ai cambiamenti della città. Il parco
che la circonda non ha subito grandi variazioni
da quando modificarono la forma del laghetto
per renderlo simile a un giglio. Prendo per
Piazza dell’Indipendenza e non appena ne
varco il confine mi sorprendo nel sentire il
lieve bip della mia carta d’identità. Avevo quasi
dimenticato di essere ancora residente qui. Il
Bosco, di cui questa piazza è uno dei tanti
accessi, ricopre una buona parte del centro, si
dirama in varie strade più piccole e forma un
reticolato di sentieri e viottoli ben tenuti che
collegano tra loro i giardini principali: San
Marco,
Unità,
San
Lorenzo,
Santissima
Annunziata, e Repubblica. I due ponti arborei di
Carraia e Grazie permettono agli alberi di
continuare oltre l’Arno, per comunicare anche
con i parchi più distanti e i giardini di Boboli e
Torrigiani.
Vedo più gente qui, alcune famiglie, bambini,
animali. Firenze gode di tre o quattro settimane
all’anno di clima perfetto prima che il freddo
acuto dell’inverno ceda il passo al caldo umido
d’estate; è difficile non approfittarne. Le file di
negozi chiusi e di fondi convertiti in garage o
abitazioni mi mette una certa tristezza. Come
tutti, anche io sono rimasto affascinato al
pensiero che fino a pochi anni prima della mia
nascita nessuno avesse mai sentito parlare
dell’ISS. Il mondo di un tempo, quello fatto di
vita vissuta in strada, di continui pericoli per la
salute e per l’incolumità fisica, è qualcosa che
ha sempre impaurito e attratto i giovani, me
incluso.
In effetti mi è capitato di tornare a Firenze, di
visitare
le
sue
mappe
informatiche,
di
passeggiare per le ricostruzioni di vie e giardini.
Mi sono seduto sulle sue panchine e ho anche
partecipato a uno di quegli eventi promozionali
che si fanno da sempre, in cui una pedana per
giocare a golf viene messa su Ponte Vecchio e a
turno si può comprare un tiro. La possibilità di
inserire
elementi
grafici
ovviamente
ha
modificato il gioco con bersagli da colpire,
premi e scherzi per i più inetti. Due anni fa
ogni volta che qualcuno colpiva la palla con
troppa violenza una stella cadeva dal cielo e
piombava in Arno illuminandolo da sotto.
Nonostante questo non mi sono mai sentito
tornato a casa. Adesso che ho l’aria di questa
città nei polmoni mi rendo conto di cosa
significhi per me essere qui.
Anche di questo vorrei parlare con la persona
che sto andando ad incontrare.
Mi lascio alle spalle il verde del centro e
proseguo da San Marco verso Piazza della
Libertà da dove potrò procedere verso la zona
del vecchio stadio. Questa storia, come tutte, ha
una sua premessa: oggi, il 28 Marzo del 2112,
viene
ufficializzato
il
nuovo
Atto
di
Ambivalenza, la legge con cui sarà regolata la
relazione tra la nostra vita terrena e quella
virtuale. Alcuni smaliziati hanno coniato il
termine ironico A.A.II.0!, esprimendo la loro
sensazione che questa legge sia in realtà un
errore che il mondo non dovrebbe concedersi.
Facciamo un passo indietro. Nel 2049 un
gruppo
di
ricerca
canadese
guidato
dal
professor Goustave Bomal rende noto l’ISS,
InSight System, un complesso procedimento
attraverso cui un computer sufficientemente
potente può digitalizzare la mappa dei nostri
segnali cerebrali in una ristretta unità di tempo;
come se riuscisse a scattare un’istantanea del
nostro stato emotivo. All’inizio le applicazioni
furono soprattutto mediche e militari. Così
come la genetica e la robotica anche questa
invenzione
si
aggiungeva
al
libro
nero
dell’opinione pubblica, alcuni demonizzavano
una simile funzione, altri si auguravano il
meglio e altri ancora la credevano una bufala.
Nel
giro
di
alcuni
anni
la
tecnologia
si
perfezionò, si rimpicciolì e si semplificò. In
Giappone la fotografa Yuiko Oe fu la prima
artista
a
sdoganare
l’ISS,
traducendo
le
istantanee delle emozioni scattate dal sistema in
immagini astratte. Quadri di emozioni pure. La
sua personale fece il giro del mondo e fu così
che attraverso l’arte l’ISS divenne di casa.
Uomini e donne volevano togliersi la curiosità
di vedere con i loro occhi a che immagine
corrispondeva la loro anima. La Oe Imaging fu
solo la prima delle aziende a mettere sul
mercato questo servizio. Da quel momento i
passi furono veloci e nel 2069 ISS e informatica
domestica si fusero. Per i social network di tutto
il
mondo
fu
una
rivoluzione:
gli
utenti
potevano registrare il loro ISS sotto una forma
semplificata e in questo modo non solo l’utente
poteva “osservare” le proprie emozioni ma
tutto diventava più mirato. La rete leggeva l’ISS
ed elaborava l’ordine in cui presentare i suoi
contenuti,
inclusa
la
pubblicità.
Più
divertimento e più affari, e tutti vincevano.
Un elemento così particolare, intimo e prezioso
come l’ISS non poteva restare a lungo in
circolazione senza creare scompiglio. Coloro
che erano scettici già da prima presero a odiarlo
mentre altri lo considerarono aberrante e
presuntuoso,
tanto
da
staccarsi
da
quella
corrente che stava portando il mondo a una vita
più virtuale che reale.
Il ’69 fu l’anno dell’Alter ego, un sistema nato
da
un
accordo
tra
le
maggiori
aziende
informatiche del mondo. Ogni utente poteva
chiedere che al proprio schema ISS fosse
associato un Alter ego, un doppio di se stessi in
rete. Nacque prima una moda e poi un
autentico culto della “vera immagine”. Uomini
e donne decisero che il loro aspetto più
significativo era quello studiato dell’Alter ego e
non quello a cui la genetica li aveva vincolati.
Crebbe il desiderio di poterlo usare al posto del
proprio anche nei documenti o negli ambienti
di lavoro e crebbe il senso di disagio ogni volta
che qualcuno cercava di passare oltre e di
conoscere
l’aspetto
fisico,
genetico,
della
persona. Sorse così il problema dell’unicità
dell’Ae e della loro registrazione. Dopo cinque
anni di dibattiti e battaglie fu infine coniato
l’Atto di Ambivalenza.
Riassumendo: ogni persona acquisisce il suo
Alter ego al compimento della maggiore età.
Tale identità digitale non gode di alcun diritto
civico. Una volta scelto, l’aspetto di base dell’Ae
è unico e immodificabile, soggetto a un insieme
finito di opzioni di personalizzazione. Quando
l’utente è connesso “indossa” l’Ae rendendolo
un Avatar; quando l’utente non è connesso, l’Ae
si muove con un certo grado di autonomia,
svolgendo alcuni compiti per conto del suo
utente nel rispetto dell’ultimo ISS registrato.
Può rispondere a certi messaggi di posta,
selezionare quella indesiderata, fare compere
autorizzate, pagare le bollette, interagire con
altri Ae o utenti amici (per i quali ha un
permesso)
e
automatiche
amministrare
della
casa.
le
L’Ae
funzioni
deve
essere
distrutto alla morte del suo possessore insieme
a
ogni
memoria
passata
e
può
essere
“congelato” solo nel caso in cui l’utente si trovi
in uno stato di incoscienza prolungata o sia
sotto controllo medico o giudiziario. Dopo tre
settimane di mancato collegamento dell’utente
con il suo Ae questo si iberna e manda un
messaggio di allarme (leggero) alla famiglia.
Dopo un’altra settimana vengono allertate le
forze dell’ordine e i medici. Ogni persona è
responsabile di tutto quello che il proprio Ae fa
e dice. L’Atto di Ambivalenza stabiliva che un
Alter ego è come una parte del corpo.
Alcune persone trattano l’Ae come fosse un
fratello o un figlio. Talvolta lo mandano a
sostenere incontri o conversazioni al loro posto,
a volte lo usano per il sesso virtuale in una sorta
di paradosso del voyerismo. C’è chi sostiene
che donare emozioni a qualcosa, anche in
prestito, sia pari a creare “qualcuno”. Ne
derivano responsabilità e, dicono, potrebbe
essere frettoloso considerare questi Ae al pari di
semplici strumenti.
Ho
raggiunto
il
quartiere
chiamato
Coverciano. Nel luogo in cui mi trovo posso
toccare con mano i due popoli che a quest’ora
vivono il mondo reale. Da una parte l’ampio
edificio delle poste è utilizzato solo da persone
anziane, che non hanno mai usato il sistema ISS
per una questione generazionale o che hanno
dovuto smettere per problemi fisici. Dall’altra
parte vedo un campo sportivo dove ragazze con
l’elmetto
in
testa
indossano
guantoni
e
mulinano mazze. E’ diventato raro, anche se
non impossibile, trovare persone che si mettano
a rischio praticando sport qui dove possono
capitare infortuni e incidenti veri.
Da queste parti abita la persona con cui vorrei
parlare. Nel 2102 in questa stessa città ebbe
luogo una storia destinata a provocare una serie
di ricadute che hanno portato il mondo a
modificare l’Atto di Ambivalenza. Non l’ho
detto all’inizio di questa introduzione ma la
vicenda di Hervé Morel, il ladro di elettricità,
diede
inizio
culminò
al
nella
dibattito
riforma
governativo
della
che
gestione
dell’energia elettrica.
Io vorrei tanto, umilmente e con piena
coscienza dei miei poveri mezzi, che almeno
questa storia non fosse dimenticata.
2 - IL PORTO DI MARE
«Ai cambiamenti!»
Cinque
piccoli
bicchieri
di
cristallo
brindarono. L’imbarcazione assomigliava a una
gondola, appena un po’ più larga di quelle che
passano per i canali di Venezia. Sul ponte
c’erano due panche da due persone una di
fronte all’altra e due puf, ai lati del tavolino
centrale. Tutto intorno si apriva la baia. Almeno
un centinaio di barche identiche solcavano
un’acqua nera come petrolio punteggiata da
riflessi lattei. La luna in cielo era bianchissima e
rotonda e le stelle ben visibili nonostante le
lanterne
e
le
abbracciavano
fiaccole.
la
baia
I
si
promontori
disgregavano
che
in
lontananza in una lunga striscia di scogli che
proteggeva dal mare aperto e smorzava la forza
di correnti e risacca. Dall’altra parte, non
lontano, si profilava la spiaggia dove sorgeva il
complesso edificio del Porto di Mare, un pieno
di terrazze e balconate che offriva musica,
cocktail e un gran numero di feste. Si trattava di
un posto esclusivo, costoso, a cui il più delle
volte si poteva accedere solo per invito. Era un
locale per grandi occasioni. «Otto anni di lavoro
ed eccoci!» dichiarò Corsaro, che dopo il
brindisi rimase in piedi quasi volesse tenere un
discorso «Chiameremo lo studio Apeiron... fico
eh?»
Zenith, la sua fidanzata, lo guardò scuotendo
la testa dal basso del suo puf «Ci prenderanno
per un aperitivo, lo sai vero?»
Corsaro rise e si buttò a sedere sulla panca
facendo oscillare la barca, abbracciò l’amico che
gli stava a fianco e gli offrì di nuovo il bicchiere
per brindare. «Di nuovo! Di nuovo!»
«Ai cambiamenti.» Concesse Zefiro con un
sorriso.
Era difficile vedere Corsaro così raggiante ma
in fondo lui e Zenith avevano lavorato otto anni
per mettere insieme le risorse e il portfolio
necessari a un’azienda di grafica, non c’era da
sorprendersi se adesso voleva festeggiare.
«Pap! Alza il bicchiere!»
Paperella occupava interamente la seconda
panca, il suo ragazzo, Sance, le accarezzava i
piedi sporgendosi dal puf. Era stata giù di tono
tutta la serata, poco incline a unirsi a quel clima
di festa. Proprio lei che amava ballare sui tavoli
e dare spettacolo adesso alzava controvoglia la
larga coppa del suo cocktail.
«Ma cambiamo brindisi, ok?» propose «A te e
Zenith. Siete stati bravissimi.»
«Grazie…»
Corsaro
scambiò
una
rapida
occhiata con Zefiro che non poté far altro che
alzare le spalle.
«L’inaugurazione dello studio avverrà tra
qualche settimana ma nel frattempo vorremmo
fare una cena a porte chiuse con voi amici.»
Disse Zenith «Abbiamo arredato lo studio con
elementi fatti da noi, riprendendo stili di
epoche passate e sviluppando un po’ il design.
Ci dai una mano tu con la cucina, Zef?»
«Sì, che tipo di…»
Un tonfo secco li fece voltare tutti. Paperella
aveva ritratto di scatto le gambe e aveva urtato
il
bordo
del
tavolino
facendo
sobbalzare
patatine e arachidi. Sance ritrasse la mano con
cui
l’accarezzava,
aveva
una
malcelata
espressione di offesa sul volto, si limitò a
sistemarsi sul puf ed evitò di guardare la sua
ragazza negli occhi.
«Non mancheremo. Grazie.»
Paperella si mise a sedere, drappeggiò la
gonna leggera sulle gambe e scorse sulla panca
per stare più vicina a Zenith. Non disse nulla
riguardo l’invito. Seguì uno di quei momenti in
cui il silenzio si fa pesante e gli argomenti di
conversazione fuggono come da un incendio.
«Perché non torniamo al Porto?» suggerì
Corsaro «Abbiamo la terrazzina prenotata per
tutta la prossima ora, possiamo darci alle
danze.»
La proposta raccolse un tiepido ma unanime
consenso e Sance si mise al timone, spostò
l’asse per impostare la rotta e sfiorò il comando
per far partire la barca. Tagliarono in diagonale
la
baia,
passarono
tra
altre
gondole
di
commensali e raggiunsero la spiaggia. Con le
scarpe in mano scesero e si avviarono al locale.
Alla terrazza si accedeva con un codice di
prenotazione, una volta finito il tempo il
lampeggiare delle luci avrebbe avvertito i
clienti di lasciarla libera. Corsaro aveva chiesto
che fosse sistemata come il ponte di una
vecchia nave con l’aggiunta di un paio di divani,
un tavolo basso, un po’ di musica e tutto quello
che serviva a dei bravi pirati: spade e cappelli.
Le danze furono aperte da Corsaro e Zefiro che
improvvisarono un tango sulle note di un
remix degli ultimi mesi, Zenith rideva dal
divano e intanto carezzava i capelli di Paperella
che continuava a essere scura in volto. Sance
stava con la schiena al parapetto, assorto.
Approfittando del momento Zenith decise di
tastare il terreno «Che succede Pap? Non ti
piacciono i brindisi, non balli. Hai litigato con
Sance?»
L’amica ebbe un brivido, strizzò e riaprì gli
occhi e si sforzò di sorridere «No, che dici. Va
bene. Tutto bene.»
«Non mi pare proprio. Mi preoccupo per te.»
«Tu ora devi stare bene. E’ un bel momento.»
Zenith si alzò e le prese le mani «Starei meglio
se tu ballassi. Su, forza!»
Al tango seguì un pezzo rock più moderno, le
ragazze mossero in aria i capelli fingendo di
suonare la chitarra mentre Corsaro, cappello in
testa e spada in pugno, faceva il cantante. Zefiro
si avvicinò a Sance e diede una lunga occhiata
al panorama. «Incantevole, va detto.»
La vista offriva tutta la distesa d’acqua della
baia, punteggiata delle luci rosse e gialle delle
lanterne sulle gondole. Il riflesso della luna
creava un’ondulata strada bianca e i suoni di
altre musiche e feste si mescolavano in un
baccano distante e rassicurante. «Sance, io e te
ci conosciamo da un po’. Non tanto, ma da un
po’. Se c’è qualcosa che non va e vuoi parlarne,
io e Corsy siamo a disposizione.?»
Lui incurvò le labbra «Boh senti... sono
sincero. Io non ci capisco un cazzo. E’ chiaro
che ho fatto qualcosa che non va, ma se lei non
me lo dice io non so che farci.»
«Sicuro di non saperlo?» chiese Zefiro «A
volte magari ripetiamo una cosa che…»
«Sì che sono sicuro. Non lo so. Mi chiedo se lo
sa lei, piuttosto.»
«Conosco Paperella da una vita.» Fece Zefiro
in tono tranquillo «Io lei e Corsaro abbiamo
iniziato insieme a fare uscite come queste.
Eravamo ancora al liceo, figurati. E lei queste
crisi ce l’ha sempre avute. So che non è facile,
ma devi solo tenere duro, a lei passerà in fretta.»
«Tra me e lei le cose funzionano perché
nessuno vuole problemi. Funzionano perché
tutto fila liscio. Filava.»
«Beh» azzardò Zefiro «Allora falla filare. Su...
proviamo a ristabilire un contatto.»
Tornarono a ballare e a giocare, tutti quanti.
Zenith e Corsaro avevano un modo tutto loro
per stabilire dei contatti privilegiati, quasi
intimi, anche in mezzo agli altri. Bastava
un’occhiata o un paio di passi di danza. Lui le
circondava le spalle con un braccio, le baciava
la nuca in un rapido gesto d’affetto e subito
tornavano a becchettarsi e a pestarsi i piedi.
Zefiro fece volteggiare Paperella un paio di
volte prima di sospingerla tra le braccia di
Sance. Lei si irrigidì ma provò comunque a
prenderlo per la vita e a posargli la testa sulla
spalla.
Sembrò
si
fosse
calmata
e
restò
immobile per tutta la canzone successiva, un
lento che Zef e Corsaro cantarono insieme con
voce da ubriachi.
«Amico mio» fece Corsaro «Tu non puoi
immaginare che goduria. La soddisfazione.
Otto anni fa tu ce l’hai presente com’ero?»
«Grasso e coi capelli lunghi?»
«Sfigato, te lo dico io. Mi ci voleva Zen e tutta
quest’impresa per capirlo. Non mi piaceva
com’era la mia vita e ora guarda… l’ho cambiata!
Se non è un motivo per festeggiare…»
Zefiro sorrise, restò silenzioso accanto a lui
mentre
una
giornate
gli
serie
di
passavano
immagini
davanti
delle
agli
sue
occhi.
Corsaro indovinò una parte dei suoi pensieri
«Tranquillo, Zef. Avrai tempi migliori anche
tu.» La sua attenzione poi venne catturata da
Zenith che si era alzata in piedi con espressine
crucciata.
Nel breve silenzio che seguì, l’attimo sospeso
tra una canzone e l’altra, tutti si resero conto
che Paperella stava piangendo con la faccia
nascosta nella spalla di Sance, il quale le
mormorava parole, domande, all’orecchio.
«Cazzo, Pap!» Sbottò. «Se vuoi dirmi che hai,
bene; sennò piantala di fare la depressa! Sono
giorni che cerco di starti dietro. Ti tocco e
scappi, ti parlo e stai zitta! Hai rotto...” La
allontanò da sé e tornò al parapetto dandole la
schiena.
Zenith raggiunse l’amica che piangeva a
pugni stretti, rigida con le braccia lungo i
fianchi. Le furono tutti intorno. Zefiro era
sempre stato sensibile alle lacrime e Paperella
l’aveva vista bambina. «Senti un po’» disse
alzando di un tono la voce alla schiena di Sance
«Ma che hai in testa? Sta male e te la prendi con
lei?»
Fu il grido di Paperella a fermarlo. La ragazza
si portò le mani al viso e scosse la testa «E’ colpa
mia, colpa mia…»
Sance si voltò a guardarla «La tua colpa è che
sei una lagna!» le gridò «Questa era una festa,
un’occasione per stare bene e invece guardati!
Guardaci! Tutti intorno a te, la reginetta della
serata... un tempo sapevi fare di meglio per
attirare l’attenzione. Un tempo…»
«Sono stata con un altro.» Lo disse piano,
sottovoce, ma lo sentirono tutti come se la
musica non fosse esistita.
Sance chiuse la bocca, la riaprì e poi la
richiuse. Zenith le strinse d’impulso le braccia,
forte, per darle il massimo del sostegno.
Corsaro sgranò gli occhi e Zefiro, per qualche
ragione, riuscì solo a pensare che doveva essere
molto più dura per lei che per lui. Il silenzio si
protrasse qualche secondo di troppo poi Sance
andò verso di lei, Zefiro si frappose e Corsaro
sostenne da dietro entrambe le ragazze.
«Che hai fatto? E me lo dici qui? In questo
modo? Sei cretina?»
«Calma,
calmiamoci
tutti…»
intervenne
Zefiro.
La luce si spense e si riaccese per tre volte,
segno che il loro tempo nella terrazza era
concluso. «Dobbiamo andare» disse Corsaro «E
loro devono parlarne da soli, non con noi. Noi
ci saremo dopo.» Lo disse più che altro per
Zenith, ancora restia a staccare le mani dalle
braccia dell’amica «dai... vieni.» Le afferrò
delicatamente le spalle. «Pap... ce la fai?»
Lo
sguardo
della
ragazza
era
spaurito,
perduto. Zefiro non l’aveva mai vista in quello
stato. Quando l’aveva incontrata per la prima
volta le era parsa smaliziata e sicura di sé, ci
aveva messo mesi a capire quanta fragilità
nascondesse con il trucco. Tuttavia Pap riuscì ad
annuire e Zenith le rivolse un sorriso dolce «Io
sono qui cara, mi trovi quando vuoi.»
Zefiro cercò lo sguardo di Sance «San» gli
disse «Civilmente. Ok?»
Seguirono altri tre lampeggi, poi un segnale
sonoro, poi il mondo si dissolse. Zefiro vide la
terrazza svanire nel bianco, il cielo e la luna
offuscarsi, una rapida nebbia coprì tutto e
l’ultima cosa a scomparire furono i lontani
punti luminosi delle lanterne. Pochi istanti e il
sistema configurò attorno a Zefiro il suo
ambiente base, una riproduzione della sua
camera di quando era ragazzo nella casa dei
suoi. Precisamente si trovava in una replica del
2093 e in quella camera aveva avuto 21 anni.
C’era la sua piccola collezione di libri, il suo
computer e un assortimento eterogeneo di
oggetti
e
biancheria
pavimento.
Era
al
sparsi
per
sicuro
tutto
adesso.
il
Il
collegamento con Corsaro era ancora attivo,
tutti gli altri si erano chiusi al momento del
passaggio.
«Zef, ci sei?» la voce proveniva da uno di quei
piccoli ippopotami di gomma che quando si
strizzano sembrano defecare. Gliene avevano
regalati uno a testa ai tempi della scuola, per
prenderli in giro dopo che la diarrea li aveva
colti entrambi durante la gita. Parlavano dei
massimi sistemi mentre se ne stavano chiusi in
bagni attigui e intanto il resto della classe
visitava Praga. Erano bambini allora, altri
tempi, e nessuno dei due era abbastanza grande
per i tour virtuali. Quando costruirono i loro
ambienti base ognuno riprodusse l’ippopotamo
dell’altro e ci collegò la sua voce durante le
chiamate.
«Ci sono.» Zefiro sedette sulla poltrona e si
lasciò cullare dallo schienale «Che si fa adesso?»
«Si
va
a
letto.»
Sentenziò
Corsaro
«Aggiorniamoci a domani, potrebbe anche
essere una giornata lunga.»
«Il primo che sa qualcosa chiama?»
«Il primo che sa qualcosa chiama.»
Zefiro strinse un paio di volte l’ippopotamo, lo
ripose e si alzò dalla sedia. Si sentiva stanco,
aveva ancora nelle orecchie i singhiozzi di Pap
e le parole di Sance. Più ci pensava e più sentiva
crescere la rabbia, decise di uscire dal sistema
prima di lasciare un ISS troppo negativo. «Che
stronzo» disse mentre afferrava la maniglia
della porta.
«Uscita.» Pronunciò, e aprì.
3 - SOLDINO
Quando era ragazzo Riccardo «Zefiro» Corsi
abitava la camera in fondo al corridoio della
casa dei genitori, nella periferia di Firenze.
Ogni giorno quando usciva raccoglieva lo zaino
ai piedi del letto, staccava il giubbotto dal
gancio al lato dell’armadio di fianco alla porta e
percorreva il tratto di corridoio che separava la
sua
stanza
dal
resto
della
casa.
Mentre
camminava i suoni gli giungevano poco a poco:
rumori di cucina, di televisione, di suo padre
che parlava al telefono, di sua madre che
interrogava la propria memoria su ricette che a
quanto pare teneva in ostaggio. Per un breve
periodo avevano avuto un gatto di nome
Soldino che amava dormire disteso di fronte
alla porta che conduceva dal corridoio al
salotto. Il miagolio addolorato nel momento in
cui veniva calpestato faceva da allarme per suo
padre, che compariva con le mani dietro la
schiena all’estremità della stanza:
«Dove vai?»
«Esco.»
«Esci per andare dove?»
«Non lo so, mi vedo con amici e…»
«Che vuol dire che non lo sai?»
Si arrivava a quella domanda ogni volta. Il
cambiamento delle reazioni di Riccardo nel
corso del tempo avevano rappresentato le
tappe della sua crescita, diceva sua madre.
All’inizio, da piccolo, con un certo timore e con
la speranza che il padre si interessasse delle sue
attività Riccardo snocciolava tutto nei dettagli. Il
più delle volte usciva per giocare di ruolo o per
il cinema e suo padre scuoteva il capo e non
faceva alcuna domanda. Quando fu più grande
le risposte si fecero più acide. «Dove mi pare.»
«A vedere se trovo pace.» «Lontano, spero.» Per
tutta l’adolescenza quella domanda fu il campo
di
battaglia
tra
padre
e
figlio.
Gli
anni
passavano in fretta ma quella piccola parentesi
non cambiò mai per molto tempo, abbastanza
da diventare per sua madre una fonte di
serenità: tante cose potevano succedere ma quel
teatrino restava sempre lo stesso e quello
spettacolo andava sempre in replica. Poi le cose
cambiarono
all’improvviso,
come
spesso
accade.
Quando uscì dalla sua stanza Zefiro non trovò
alcun corridoio e sbucò invece in una piccola
radura circondata da faggi. La porta dietro di lui
appariva inchiodata alla corteccia di un albero.
Al centro dello spiazzo erboso, tenuta su da
corde legate ai rami più bassi, dondolava
un’amaca. Zefiro vi si stese sopra e si lasciò
cullare da deboli aliti di vento. «Uscita» ripeté, e
dopo un breve istante le prime gocce di pioggia
caddero attorno a lui, si trasformarono in
scrosci e fecero suonare le foglie del faggeto.
Zefiro sospirò e chiuse gli occhi. L’acqua gli
bagnò il viso e gli appiccicò i vestiti addosso ma
almeno gli concesse un po’ di quiete. Si sforzò
di rilassarsi. In quel momento il sistema stava
indagando
le
sue
reti
neurali,
stava
confrontando la sua mente con i parametri in
memoria per stabilire il suo stato d’animo, i
motivi di gioia e di rabbia per poi aggiornare
l’Alter Ego. Riccardo immaginò che l’amarezza
per quel che era successo e la rabbia per il
comportamento di Sance fossero troppo acute.
Cercò di pensare ad altro mentre l’acqua lo
circondava come se la pioggia avesse colmato il
bosco e lo avesse trasformato in un lago. Se
avesse
aperto
gli
occhi
avrebbe
potuto
osservare la trasformazione del faggeto in
fondale ma il risveglio era più dolce se si stava
ad occhi chiusi e ci si concentrava sulle
percezioni del corpo. L’acqua salì di livello, lo
circondò e lo sollevò dall’amaca. Zefiro perse la
cognizione dello spazio intorno e pur senza
smettere
di
lentamente.
respirare
Quando
si
fu
sentì
immergere
completamente
in
sospensione, il sistema iniziò l’ultima fase del
distacco risvegliando il suo corpo fisico.
Riccardo Corsi aprì gli occhi nella sua vasca
modello HL6. Le luci di sicurezza interne erano
accese e illuminavano il suo corpo immerso nel
liquido denso e azzurrino, avvolto dalla tuta da
connessione indispensabile per evitare i danni
da iperidratazione. Riccardo mosse prima le
estremità
e
mani
e
piedi
risposero
normalmente. Alzò una mano per toccarsi la
maschera, raggiunse con due dita il pulsante di
rilascio e lo premette una volta. Sentì il ronzio
del motore elettrico della vasca e a seguire il
suono metallico delle bocche di scarico che si
aprivano. In pochi secondi il liquido defluì via e
le protezioni superiori, due archi di vetro che
coprivano la vasca a guisa di coperchio, si
ritirarono. Il suo corpo si adagiò sul fondo che
si inclinò per facilitargli l’uscita. Riccardo
premette una seconda volta il tasto di rilascio
sulla maschera e le fibbie ai lati del collo si
sganciarono, liberandola dal colletto della tuta.
Il casco elettronico comunemente chiamato
maschera era il cuore del sistema, la parte
frontale aderiva al viso dell’utente e forniva
progressivamente a vista, olfatto e udito gli
impulsi elaborati dal computer. Il cervello
stesso faceva il resto grazie all’autosuggestione e
alla capacità innata di mettere insieme i pezzi e
ricreare
coerenza.
Si
riusciva,
di
fatto,
a
raggiungere facilmente uno stato di ipnosi
profonda
in
cui
ci
si
vedeva
proiettati
all’interno del mondo virtuale in un’esperienza
simile a quella di un “sogno lucido”. Riccardo
rimosse lentamente la maschera e si sfilò la
sottile cannula dalla gola, quella per lui era la
parte
più
maschera
fastidiosa
ne
era
del
dotata:
processo.
molti
Ogni
utenti
trascorrevano la maggior parte del tempo nel
mondo virtuale e dovevano quindi sopperire al
bisogno di cibo e acqua. Era possibile non farne
uso ma ogni costruttore raccomandava di non
escluderla dal momento che se il computer non
ne
rilevava
la
presenza
non
consentiva
all’immersione in rete di durare più di un paio
d’ore, per evitare problemi di disidratazione,
denutrizione o pressione.
Riccardo si alzò, inarcò la schiena e sentì
schioccare qualcosa lungo la colonna vertebrale.
Rimosse la cannula usata dalla maschera e la
gettò,
infilò
il
resto
nel
piccolo
forno
sterilizzatore insieme alla tuta, dove sarebbero
rimaste per almeno un’ora prima del prossimo
utilizzo. In mutande, con i capelli appiccicosi
per la traspirazione, Riccardo si mosse alla fioca
luce del suo screen saver fino alla finestra. Aprì
i vetri e si appoggiò con le braccia al davanzale.
La periferia era silenziosa e vuota. Poche
finestre erano illuminate, le strade deserte e
spoglie. Non c’erano luci di insegne luminose di
bar, cinema o negozi. Nessuno squillo di
telefono lo raggiunse. Le vasche e l’ISS erano
entrati da pochi anni nella vita delle persone
ma avevano già rivoluzionato il modo di
passare una serata, di lavorare e vivere in città.
Riccardo restò lì qualche minuto, l’aria era
umida e odorava di asfalto e d’acido, come se
l’intero quartiere stesse smaltendo il sudore
della
giornata.
Le
stelle
in
cielo
non
si
vedevano, nuvole scure coprivano tutto. I
lampioni a terra illuminavano a chiazze le
facciate e le strade, molte delle quali erano state
aperte secondo il progetto Nuove Radici. Il
Comune di Firenze, come molti altri in Italia,
aveva aderito a un’iniziativa internazionale per
il recupero delle zone urbane: dato che il loro
utilizzo si era notevolmente ridotto tanto valeva
rinverdire le città piantando alberi e piante,
organizzare giardini là dove si era a lungo
litigato per avere un parcheggio e trasformare
in sentieri battuti i vicoli e le vie più piccole.
Solo le strade ad alta percorrenza sarebbero
rimaste inalterate, le vie di traffico principali e
ovviamente quelle intoccabili per motivi storici
e culturali. Firenze era in subbuglio da tempo
vista la normale propensione alla polemica e
l’attaccamento a certe consuetudini, tuttavia
l’amministrazione
sembrava
decisa
a
modificare quanto più possibile l’aspetto del
centro
per
apparissero
far
sì
che
“incastonate
le
in
sue
un
ricchezze
ordinato
e
luminoso parco”, come recitava lo slogan.
Riccardo sbadigliò e affrontò casa sua senza
accendere la luce. Lasciò la finestra aperta e e
passò le dita tra i raggi rossi, eredi del mouse,
per disattivare il salva schermo. Il monitor si
accese, lo sfondo era una vecchia foto di
Soldino, la sua silhouette nera contro il cielo.
L’unica finestra aperta era quella dell’ISS,
visualizzato come un lago di montagna sotto un
cielo
grigio
che
prometteva
pioggia.
Non
avrebbe voluto lasciare un’impronta di sé così
turbata
ma
evidentemente
non
si
poteva
evitare. Attese meno di un minuto prima che il
programma aggiornasse l’Alter Ego con il
nuovo ISS, poi la finestra si chiuse e ne
comparve un’altra con la visualizzazione 3d del
suo
Ae.
Riccardo
premette
il
tasto
del
microfono «Ciao Zefiro.»
La voce che gli rispose era simile alla sua ma
più pulita «Buonasera Riccardo. Mi dispiace per
gli ultimi eventi.»
«Sì. Dispiace a tutti. Non commentare niente
nello spazio di Sance e non rispondere a
nessuna sua mail.»
«Va bene.»
«Se si presenta qui, invia per lui il segnale di
assente.»
«Potrebbe segnalare la scortesia» suggerì in
tono piatto Zefiro. Riccardo si grattò la testa, il
sudore tra i capelli iniziava a prudere.
«Poteva evitare di fare lo stronzo lui, allora.
Vado a fare un bagno e a dormire.»
«Buonanotte, Riccardo.»
Spense
il
monitor,
controllò
che
lo
sterilizzatore fosse partito e coprì la vasca con
un telo. Chi aveva i soldi si faceva una stanza
apposta
per
immergersi,
nei
nuovi
appartamenti era normale trovarcela, Riccardo
aveva sistemato tutto in un angolo del salotto.
Raggiunse
la
camera,
piccola
e
quasi
interamente occupata dal letto, tanto che per
andare da una parte all’altra lui spesso ci saliva
coi piedi. Ogni tanto desiderava un futon
giapponese che almeno avrebbe potuto piegare
al mattino per guadagnare qualche metro
quadrato. Restava così poco spazio che aveva
dovuto prendere un armadio ad ante scorrevoli
per
poterlo
aprire.
Prese
della
biancheria
asciutta e passò in bagno a lavarsi, poi attraversò
il minuscolo corridoio ed entrò in cucina, dove
l’unico tavolo della casa era circondato da
quattro sedie di metallo e plastica. Un divanetto
per due persone sosteneva il peso di due bucati
ancora da piegare e la cucina avrebbe avuto
bisogno di una lucidata. Riccardo aprì il frigo,
c’era qualcosa che mandava odore. Avrebbe
dovuto controllare lo stato della frutta nei
cassetti, ma non ora. Aprì una bottiglia d’acqua
e bevve, il freddo che gli scese giù per la gola gli
scosse i sensi. Aveva il cuore pesante, più di
quello che pensava. Paperella, Nora, era sua
amica dai tempi della scuola e poteva essere
frivola, maliziosa nei momenti meno opportuni
e anche una gran rompipalle, ma sicuramente
non era cattiva. Era fragile, e poco ma sicuro
adesso stava da cani, incalzata da uno come
Sandro che le cose sa fartele pesare, quando
vuole. Un tempo lui e Marco sarebbero rimasti
con lei, l’avrebbero chiamata o sarebbero andati
a bussare a casa sua ma i tempi erano cambiati
e lei non era più una ragazzina, anche se era
ancora una ragazzina. Riccardo andò verso il
letto, piazzò la bottiglia d’acqua per terra
davanti al comodino e si stese sulla schiena.
C’era qualcosa in più che lo turbava, una
sensazione che non riusciva a ricondurre a
niente, un sottile disagio che gli faceva venir
freddo ai piedi.
Cercò di tranquillizzarsi: il giorno seguente
non sarebbe cambiato nulla per lui, doveva solo
restare calmo.