Il mondo antico nella poesia di Costantinos

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Il mondo antico nella poesia di Costantinos
Chaos e Kosmos X, 2009 – www.chaosekosmos.it
Il mondo antico nella poesia
di Costantinos Kavafis1
Stefano Adami
Erode Attico, Ammonio Sacca: sono solo due delle
innumerevoli figure del mondo antico che abitano in modo vivido e
intenso la poesia di Costantinos Kavafis. Nato ad Alessandria d’Egitto
nel 1863, raffinato poeta in greco, Kavafis ha infatti sempre visto
ruotare gran parte della sua creatività – che ha profondamente
influenzato la poesia del Novecento, e la influenza tuttora2 – intorno al
sole potente della Grecia antica, alla sua ricerca di equilibrio, serenità,
compiutezza. Nella poesia di Kavafis, infatti, le figure e gli eventi del
mondo antico sono fissati con meraviglia in una eternità luminosa,
linguisticamente radicata nell’uso del tempo presente: quel che è
accaduto al grande condottiero, all’eruditissimo e sconosciuto
grammatico, a Marco Antonio abbandonato dal dio, la celebrazione di
offerte dovute agli dei, l’interrogazione di un oracolo, il corteo
incredibilmente capeggiato da un dio stesso, accade qui e ora, è
accaduto la prima volta e per sempre, e si ripeterà oltre il tempo in una
sorta di stupefacente e incorrotta sospensione, come impresso in un
bassorilievo marmoreo. I versi di Kavafis sono popolati di giovani di
luminosa bellezza, di passioni mai vissute, di personalità note od
anonime che attraversano l’antico. Ma tutto l’antico si manifesta e si
offre nel qui e nell’ora. Si pensi proprio all’uso del presente in questi
felicissimi versi:
Alessandro di Selefkia, uno dei nostri migliori sofisti,
arrivando ad Atene per tenere conferenze,
trova la città deserta; Erode, vedete,
è da queste parti, e tutti i giovani
1
Tutte le traduzioni da Kavafis sono di Stefano Adami, condotte su C.P. Cavafy,
The Canon, edited by y S. Haviarias, Cambridge (Mass.), 2007
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Tra gli scrittori che hanno dichiaratamente sottolineato i loro debiti nei confronti di
Kavafis, infatti, possiamo qui indicare almeno T.S.Eliot, W.H.Auden, Lawrence
Durrell, Eugenio Montale, Marguerite Yourcenar, e il recente Premio Nobel
Seamous Heaney.
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Rivista online
ISSN 1827-0468
Autorizzazione del Tribunale di Roma nr. 320/2006 del 3 Agosto 2006
Direttore responsabile e proprietario Riccardo Chiaradonna
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lo hanno seguito per sentirlo parlare.
Erode, vedete… il poeta ci chiama con lui, ad osservare. Ed ecco, tutto
è d’improvviso davanti a noi: vediamo finalmente l’attesissimo Erode
Attico giungere ad Atene; sentiamo il brivido di stupore, e forse di
sdegno, di Alessandro di Selefkia nel trovare, a sua volta, la città priva
di giovani: sono tutti ad ascoltare Erode. Non è un caso che tra le varie
epoche del miracolo greco, Kavafis abbia scelto come luogo della sua
ispirazione proprio l’ellenismo. In certo modo, infatti, Kavafis
immagina e desidera di vivere ancora nella quotidianità della Grecia
antica: ma la grecità a cui riconosce di essere più partecipe è proprio
quella dell’ellenismo – che vede Alessandria d’Egitto come una delle
sue maggiori capitali spirituali –, perché è l’epoca in bilico fra due
mondi, l’epoca della mescolanza, dell’impossibile ripetizione, del
confluire delle cose e del loro intorbidarsi, Atene, Roma, le scuole
ellenistiche, i culti orientali, lo scandalo del cristianesimo.
L’ellenismo è l’epoca in cui la filosofia, nata in parte dall’esame
critico della religione e delle sue narrazioni del mondo, torna di nuovo
a mescolarsi con culti e religioni; l’epoca in cui il cristianesimo lascia
il mondo nell’attesa del ritorno di Cristo e della realizzazione del
regno di Dio, alla fine dei tempi, quando finalmente la giustizia sarà
compiuta; e in cui il Cristo che dichiara “il mio regno non è di questo
terra” sembra suggerire che questa vita, questo mondo, non
partecipano della divinità. L’ellenismo, nella visione di Kavafis, in
certo modo prefigura il moderno, con la sua hybris, il suo fragore, la
sua violenza nascosta e manifesta, la sua nostalgia senza oggetto, i
suoi scopi mai chiariti, le sue patetiche finzioni, il suo girare a vuoto.
Ha scritto Platone nella Lettera VII, parlando della Sicilia: «.. si
riempiono la pancia due volte al giorno, e non passano mai la notte a
soli». I grandi modelli operano ancora, ma non possono che essere
imitati a metà, con la consapevolezza che siamo condannati soltanto
alla pallida, sterile imitazione. Tragico è, infatti, in Kavafis, il suo
tentativo di far rivivere il mondo greco: quel che è successo dopo non
si può cancellare o mettere tra parentesi, gli dei hanno davvero
abbandonato la terra, o ne sono stati cacciati. A Kavafis resta
un’esistenza lacerata, esiliato ai margini di una Alessandria d’Egitto
che è ormai una città di confine, resta l’immaginare di vivere e di
scrivere come se fosse nel mondo antico, in un’epoca – quella della
piena maturità del poeta, gli anni ’10 e ’20 del ‘900 – di confusa
violenza, in cui i destini degli uomini sono preda di forze mostruose,
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incomprensibili. A tutti resta lo stupore, il sentimento di colpa,
l’abbandono, il disperato desiderio di tornare indietro. Verso quale
stato? In Erode Attico, i giovani che parlano greco si raccolgono in
feste sontuose e, proprio come in alcune pagine dei dialoghi platonici,
mescolano nei loro discorsi filosofia, sofistica e amori, ma quello che
li fa veramente fremere e tacere per lo stupore e l’invidia è, in realtà, il
pensiero ossessivo della fama di Erode Attico, il suo successo
mondano.
Quanti giovani oggi ad Antiochia,
Alessandria, a Beirut
(i nostri futuri oratori, l'eredità dell'Ellenismo),
raccogliendosi in feste sontuose
dove la conversazione si svolge ora sulle finezze della sofistica
ora su meravigliosi affari di cuore
d'improvviso, come distratti, si zittiscono?
I bicchieri davanti a loro vengono abbandonati
quando considerano la fortuna di Erode –
quale altro sofista è stato tanto baciato dalla gloria? –
E qual è il motivo dello stupore e dell’invidia? Il fatto che, almeno
apparentemente, i Greci, per seguire Erode, hanno sospeso proprio
quello che hanno creato e donato al mondo, e che considerano il
centro della propria cultura: la facoltà critica.
Ogni suo desiderio, ogni atto,
i Greci (i Greci, badate!) lo seguono,
e non per giudicarlo o analizzarlo,
e neppure per scegliere. Lo seguono, tutto qui.
Quanto amore, quanta stupita ammirazione nel verso I Greci, badate!
Nei versi di Dalla scuola di un noto filosofo, a parlare e ad essere
narrata è invece la noia di un ricco giovane alessandrino sempre
insoddisfatto, il suo modo di guardare la vita con un senso di vuota
lontananza e stanca ironia. È stato studente di Ammonio Sacca per due
anni; ma ciò che lo portava alla scuola del noto filosofo non era
l’interesse per la ricerca, ma solo il tentativo di occupare il proprio
tempo in qualche modo. Era naturale che, partito con questa effimera
spinta, il giovane si stancasse ben presto sia della filosofia che del
maestro. Lasciato Ammonio, il giovane ha tentato la strada della
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politica: ma anche questa non è una vera vocazione, solo un altro
sterile tentativo d’impegnare il tempo. Le sue ragioni per abbandonare
la politica, infatti, sembrano tutte estetiche:
Il Prefetto era un perfetto idiota,
circondato da insopportabili arrivisti, troppo seri,
che parlavano un greco – questi spiacevoli sciocchi –
assolutamente barbarico.
Infine, è stato incuriosito dal cristianesimo. “Incuriosito” è un termine
molto vicino a quello scelto da Kavafis: per il ricco giovane, infatti, il
cristianesimo è solo uno dei tanti culti la cui pratica può occupare una
fase della vita, per non annoiarsi. E infatti il giovane si è fatto
cristiano, anche se è tornato ben presto sui suoi passi, per motivo
molto concreto: la sua famiglia è pagana, e se i suoi sapessero che è
diventato cristiano, non gli passerebbero più soldi.
Ma ha cambiato ben presto idea:
sarebbe stato un trauma per i genitori, pagani radicali come
sono,
e in un battito di ciglia quei due avrebbero potuto tagliare –
orrore! –
la generosa rendita mensile che gli passano.
Certo, a questo punto del percorso resta ancora un problema centrale
per il giovane: deve pure costruire la propria vita intorno a qualcosa,
prima o poi. Intanto, ha imboccato una via finalmente intrapresa senza
dubbio alcuno: si è lasciato completamente andare alla sensualità, alla
vita dell’eros, esplorandolo in tutte le sue forme. Cosa direbbe
Ammonio della piega che ha preso la sua vita! Cosa ne direbbe la
filosofia! Certo, il trionfo del corpo può, almeno temporaneamente, far
tacere le domande interiori e riempire il senso di vuoto; la vittoria
delle passioni può anestetizzare, ottundere, sospendere la
consapevolezza dell’esserci. Il giovane non se lo chiede: in fondo, la
sua permanenza presso la filosofia è stata solo un atto superficiale,
compiuto senza interesse né convinzione. Per ora, si è completamente
abbandonato al mondo notturno di Alessandria d’Egitto, alla
promiscuità che ospita l’Alessandria del III secolo d.C. È un bel
ragazzo, è desiderato, affascina. Per adesso è questo che lo nutre e lo
soddisfa. Ma, riflette, anche questa scelta ha un limite temporale.
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Prima o poi la sua bellezza passerà, sarà privato del suo aspetto
divino, resterà solo. Cosa farà allora? Considerando il suo percorso, il
giovane si risponde ancora con ironia: quando avrà finalmente
consumato i propri desideri e se stesso, tornerà da Ammonio Sacca; il
vecchio filosofo lo riprenderà certo con se. Se Ammonio sarà morto,
seguirà un altro filosofo o sofista disponibile, non importa di quale
scuola, tutte sono uguali per lui; oppure si darà di nuovo alla politica,
per riprendere la finzione:
E poi, alla fine, potrà anche tornare alla politica,
per ricordare in modo ammirevole
le tradizioni di famiglia, il dovere verso la patria, e simili ben
fatte pomposità.
In questi versi, Kavafis è in parte proprio il giovane ricco di cui
narra la vita. Anch’egli ha attraversato una Alessandria affollata
mosso da desideri inconfessabili per i corpi, da amori profondi per
giovani dai tratti divini. Anche Kavafis, sulle tracce degli antichi
maestri, ha prestato orecchio alle voci del logos, cercando davvero –
al contrario del giovane di Dalla scuola di un noto filosofo – di
moderare il proprio desiderio, di non abbandonarsi. Una scelta che
poi, narrandosi nei suoi versi, Kavafis rimpiangerà. Scrive infatti ne Il
vecchio: «Si chiede come la Ragione abbia potuto giocarlo in questo
modo;/ e si meraviglia di averle dato fiducia – perché non sapeva che
lo prendeva in giro? – / quando la truffatrice gli aveva assicurato: “Di
tempo, ce n’è d’avanzo”. / Riporta alla memoria ancora gli impulsi
trattenuti/ e tutte le gioie, i piaceri da cui si è costretto a star lontano».
Da una parte, quindi, il poeta guarda alle scelte del giovane con un
certo senso di distanza, mista forse a compassione e disprezzo:
quest’ultimo non si è mai veramente messo in gioco, non si è
realmente interessato a nulla, ha attraversato la politica e la filosofia
solo per capriccio, per occupare il tempo. Campione perfetto dello
Zeitgeist dell’età ellenistica, ha vissuto la sua vita come spreco.
Dall’altra, Kavafis sembra far sentire nei suoi versi una sorta di
ammirazione nel momento in cui il giovane sceglie finalmente di
seguire con convinzione il suo demone, di darsi alla corporeità: è in
qualche modo una scelta naturale, è un bel ragazzo; non appartiene
forse alla grecità il riconoscimento della bellezza, la partecipazione ad
essa? In qualche modo, qui veramente il giovane ha trovato la sua
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ragione di vita, si è messo veramente in gioco, anche se superando i
limiti.
Ha preso a frequentare
i posti più degradati di Alessandria,
ogni angolo clandestino di degenerazione.
In questo le sue fortune si son mostrate più provvidenziali;
è sempre stato attraente oltre ogni limite,
e ha messo a frutto al meglio questo dono degli dei.
Ed ecco qui emergere uno dei motivi che hanno particolarmente legato
Kavafis al mondo greco: il poeta di Alessandria, infatti, ha sempre
sentito un fascino profondo per il modo greco di guardare allo
spettacolo della vita, di vivere la presenza, di vivere la sofferenza.
L’esistenza umana è qualcosa che deve essere attraversato con la
giusta misura, il giusto passo, con consapevolezza, nell’esame
continuo, senza eccesso alcuno, senza rumore, senza teatralità. Siamo
tutti attori di un mimo; le cose che accadono al di fuori di noi, e quelle
che abbiamo dentro, come dice a ragione Omero, “un dio ce le ha
messe nel cuore”. Il giovane senza nome di questi versi esamina la
propria vita, riconosce con onestà che il suo vero interesse è l’eros; è
consapevole che si tratta di una scelta fallace e limitata. Troppo facile
abbandonarsi alle inclinazioni della materia. Al contrario di Kavafis
stesso, il giovane sceglie comunque di assumerla, finché il tempo
glielo concede e permette. In fondo, la sua bellezza è un dono degli
dei. Quando finisce, proprio come un attore, sarà tempo di scegliere
una nuova parte da recitare.
Erode Attico (1912)
Accidenti, che trionfo per Erode Attico!
Alessandro di Selefkia, uno dei nostri migliori sofisti,
arrivando ad Atene per tenere conferenze,
trova la città deserta; Erode, vedete,
è da queste parti, e tutti i giovani
lo hanno seguito per sentirlo parlare.
Allora il sofista
gli ha mandato un messaggio, a Erode,
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per chiedergli di rimandargli i greci.
Erode, pieno di tatto, gli ha risposto:
'Quando tornerò, con me torneranno anche i greci'.
Quanti giovani oggi ad Antiochia,
Alessandria, a Beirut
(i nostri futuri oratori, l'eredità dell'Ellenismo),
raccogliendosi in feste sontuose
dove la conversazione si svolge ora sulle finezze della sofistica
ora su meravigliosi affari di cuore
d'improvviso, come distratti, si zittiscono?
I bicchieri davanti a loro vengono abbandonati
quando considerano la fortuna di Erode quale altro sofista stato tanto baciato dalla gloria? Ogni suo desiderio, ogni atto,
i Greci (i Greci, badate!) lo seguono,
e non per giudicarlo o analizzarlo,
e neppure per scegliere. Lo seguono, tutto qui.
Dalla scuola di un noto filosofo (1921)
Per due anni è stato studente di Ammonio Sacca;
ma s’è stancato sia della filosofia che di Sacca.
Poi s'è dato alla politica,
ma ha abbandonato anche quella, alla fine. Il Prefetto era un
perfetto idiota,
circondato da insopportabili arrivisti, troppo seri,
che parlavano un greco – questi spiacevoli sciocchi –
assolutamente barbarico.
E poi la Chiesa l'ha intrigato:
s'è risolto a farsi battezzare
per passare da Cristiano. Ma ha cambiato ben presto idea:
sarebbe stato un trauma per i genitori, pagani radicali come
sono,
e in un battito di ciglia quei due avrebbero potuto tagliare –
orrore! –
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la generosa rendita mensile che gli passano.
Bene, in fondo, deve pur combinare qualcosa. Ha preso a
frequentare
i posti più degradati di Alessandria,
ogni angolo clandestino di degenerazione.
In questo le sue fortune si son mostrate più provvidenziali;
è sempre stato attraente oltre ogni limite,
e ha messo a frutto al meglio questo dono degli dei.
La sua bellezza resterà tale
per altri dieci anni. E dopo?
Forse tornerà da Sacca.
E se nel frattempo il vecchio filosofo sarà morto,
troverà un altro filosofo o sofista da seguire;
ce n'è sempre qualcuno a disposizione.
E poi, alla fine, potrà anche tornare alla politica,
per ricordare in modo ammirevole
le tradizioni di famiglia, il dovere verso la patria, e simili ben
fatte pomposità.
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