Regole fiscali e finanza decentrata: la disciplina del Patto di Stabilità

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Regole fiscali e finanza decentrata: la disciplina del Patto di Stabilità
Emma Galli**
* Articolo assoggettato a revisione anonima.
**Professore Associato di Scienza delle Finanze, Università La Sapienza di Roma
SOMMARIO: 1. Introduzione; 2. Regole fiscali e discrezionalità:
brevi cenni al dibattito economico; 3. Regole fiscali e finanza decentrata; 4.
L’esperienza italiana: il Patto di Stabilità Interno; 5. Conclusioni.
1. Introduzione
La letteratura economica analizza l’interazione tra le regole di bilancio e
altri aspetti istituzionali quali la forma di governo, le regole elettorale, il sistema dei partiti che sembrano avere un impatto rilevante sulle performances economico-finanziarie dei paesi (Ferejohn e Krehibel, 1987; von Hagen, 1992;
Hallerberg e von Hagen, 1997; Kontopoulos e Perotti, 1999; Schick, 2003;
Lagona e Padovano, 2007). In particolare le regole che disciplinano la finanza
pubblica rappresentano attualmente un importante strumento di controllo di
natura procedurale, sempre più frequentemente utilizzate per garantire rigore
fiscale a livello nazionale e locale e sostenibilità finanziaria. Le origini di tali regole, la loro diversa natura e tipologia, l’efficacia che le caratterizza sono state,
e sono tuttora, ampiamente discusse nella letteratura sia teorica che empirica.
La regola fiscale introduce un vincolo permanente alla discrezionalità della politica di bilancio che può riguardare il deficit ed il debito pubblico, le entrate e le spese complessive. In particolare nei sistemi decentralizzati, il perseguimento di obiettivi nazionali richiede un notevole grado di coordinamento
tra i vari livelli di governo rispetto al quale l’imposizione di regole fiscali può
giocare un ruolo positivo in termini di equilibrio complessivo di bilancio.
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del Patto di Stabilità Interno in Italia*
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L’imposizione di vincoli alle finanze pubbliche dei paesi membri dell’Unione Monetaria nella forma del Patto di Stabilità e Crescita e del recente
Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’Unione Economica e Monetaria (UEM), noto anche come Fiscal Compact, richiede infatti
la cooperazione dei livelli di governo sub-centrali nel garantire il rispetto
dell’impegno assunto dal governo centrale in termini di sostenibilità fiscale.
In questa ottica i paesi dell’UEM hanno introdotto varie forme di disciplina fiscale che hanno imposto o concordato con i livelli di governo subcentrale. Dopo un breve cenno al dibattito economico sulle regole fiscali
(paragrafo 2), questo lavoro si sofferma sulle ragioni teoriche che sono all’origine della opportunità di inserire tali regole nei sistemi di finanza pubblica decentralizzata (paragrafo 3) per poi analizzare l’esperienza italiana del
Patto di Stabilità Interno (paragrafo 4). Il paragrafo 5 conclude il lavoro.
2. Regole fiscali e discrezionalità: brevi cenni al dibattito
economico
Il dibattito relativo all’opportunità e all’utilità delle regole fiscali come
alternativa alla discrezionalità nella gestione della finanza pubblica trae
origine dalla diffusione della teoria keynesiana e dalle sue implicazioni di
politica economica. La concezione della finanza funzionale, che da essa deriva, ha sostituito il principio del rispetto del pareggio di bilancio su base
annuale, considerato il fondamento della finanza pubblica ortodossa, con
una impostazione interventista che ne prescrive l’utilizzo a fini di stabilizzazione dell’economia1. Gli economisti keynesiani ritengono che le regole
fiscali possano essere controproducenti in quanto riducono la flessibilità
necessaria per la stabilizzazione, la redistribuzione e l’efficienza allocativa.
Più recentemente è stato sostenuto che le politiche discrezionali debbano
essere limitate al raggiungimento di obbiettivi strutturali di lungo termine,
come le riforme della previdenza o le riforme fiscali finalizzate a garantire la
sostenibilità finanziaria e l’equità intergenerazionale (Taylor, 2000).
Le prime riserve sulla discrezionalità nella gestione della politica economica sono emerse in seno alla Scuola di Chicago, ad opera in particolare di
Henry A. Simons e Milton Friedman, entrambi favorevoli all’inserimento
di meccanismi automatici, soprattutto di politica monetaria, che riducesse Per una discussione più ampia di questo aspetto si veda, tra gli altri, Galli (1988).
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ro il grado di incertezza generato dalle stesse misure di politica economica.
Sul piano della politica fiscale invece l’introduzione degli stabilizzatori automatici come i sussidi di disoccupazione e l’imposta progressiva sul reddito
avevano la finalità di ridimensionare, automaticamente appunto, l’intensità
delle diverse fasi del ciclo economico. La problematica delle regole si sviluppa ulteriormente nell’ambito della Scuola di Public Choice che, in chiave
neo-contrattualistica, prospetta la ‘costituzionalizzazione’ di un insieme di
regole di politica economica che limitino la naturale inclinazione della classe politica a spendere, piuttosto che a tassare e ad utilizzare strategicamente
il debito pubblico al fine di massimizzare il consenso elettorale (Buchanan e
Wagner, 1977; Tabellini e Alesina, 1990). Questa posizione viene rafforzata
da un altro argomento a favore delle regole, rappresentato dall’incoerenza
temporale per cui i governi tendono ad abbandonare impegni politici assunti precedentemente (Kydland and Prescott, 1977).
Il riconoscimento dell’importanza della funzione di stabilizzazione macroeconomica svolta dai bilanci pubblici, soprattutto in situazioni di grave
crisi come quella sperimentata recentemente da buona parte delle economie
sviluppate, ha favorito di recente la ricerca di soluzioni capaci di conciliare
la solidità e il rigore nella gestione delle finanze pubbliche con la flessibilità
delle manovre finanziarie degli stati. Nuovi e più complessi sistemi di regole
che siano in grado di combinare i requisiti di sostenibilità finanziaria con
l’esigenza di reagire agli shocks macroeconomici vengono adottati sempre
più frequentemente sia nelle economie avanzate che in quelle emergenti (si
veda, su questo punto, Schaechter et al. [2012]).
Per lungo tempo le regole fiscali non hanno trovato espressione in testi
legislativi o costituzionali. Dopo la seconda guerra mondiale, alcuni paesi
(tra cui la Germania, l’Italia, il Giappone e i Paesi Bassi) hanno inserito
norme relative al saldo di bilancio a livello di governo centrale con risultati
discutibili, ma è a partire dagli anni novanta che l’introduzione di regole
fiscali di vario tipo si diffonde maggiormente come un modo per affrontare il crescente ricorso al debito pubblico degli anni settanta e ottanta. In
Europa, ad esempio, il Trattato di Maastricht introduce nel 1992 una serie
di criteri numerici relativi ai principali aggregati fiscali e monetari al cui
rispetto subordina l’ingresso dei paesi membri dell’Unione Europea nell’Unione Economica e Monetaria. Tali regole vengono poi riprese e rafforzate
successivamente nel 1997 attraverso il Patto di Stabilità e Crescita che entra
in vigore nel 1999 e più recentemente, il 2 marzo 2012, con la firma del
Trattato sulla Stabilità, Coordinamento e Governance nell’ Unione Econo-
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mica e Monetariada parte di 25 paesi dell’Unione europea, ad eccezione del
Regno Unito e della Repubblica Ceca2.
Più in generale, è possibile dire che il rafforzamento della disciplina fiscale è diventato una risposta diffusa all’eredità fiscale della crisi finanziaria.
3. Regole fiscali e finanza decentrata
Le regole di coordinamento della finanza pubblica sono generalmente
presenti nei contesti di decentramento fiscale al fine di coniugare l’esigenza
di stabilità macroeconomica a livello nazionale con i vantaggi, in termini di
efficienza, dell’allocazione dei servizi pubblici a livello locale.
La letteratura sul federalismo fiscale di seconda generazione3 argomenta
che il sistema decentralizzato è caratterizzato da una struttura di incentivi
che induce i livelli sub-nazionali a ricorrere sistematicamente alle risorse
comuni del governo centrale per finanziare le proprie decisioni di spesa e a
comportarsi quindi in modo fiscalmente irresponsabile, anche in contesti
non corrotti. Si tratta dei problemi del common pool (Shepsle, Weingast
and Johnsen, 1981) e del soft budget constraint (introdotto originariamente
da Kornai nel 1979 con riferimento al comportamento delle imprese pubbliche nei paesi socialisti) che, nel contesto del settore pubblico, implica
un’aspettativa da parte degli amministratori locali di intervento da parte
dei livelli di governo superiore per sanare situazioni di deficit e di indebitamento (Rodden et al., 2003). Questa letteratura ha tipicamente adottato
una struttura analitica di teoria dei giochi sequenziali attraverso cui cerca di
spiegare questo fenomeno, anche in presenza della cosiddetta clausola di no
bail-out ossia dell’impegno esplicito o formale del governo centrale a non
intervenire come prestatore di ultima istanza in caso di indebitamento del
governo locale. Ne valuta in particolare la credibilità alla luce di una serie
Il trattato, che entrerà in vigore il 1º gennaio 2013 se almeno dodici membri della zona
euro l’avranno ratificato, conferma l’obbligo di mantenere il deficit pubblico sempre al di sotto
del 3% del PIL, come previsto dal Patto di stabilità e crescita; sancisce l’impegno ad avere
un deficit strutturale che non superi lo 0,5% del PIL e, per i paesi il cui debito è inferiore
al 60% del PIL, l’1%; obbliga i paesi con un debito pubblico superiore al 60% del PIL a
rientrare entro tale soglia nel giro di 20 anni, ad un ritmo pari ad un ventesimo dell’eccedenza
in ciascuna annualità; prevede l’inserimento delle nuove regole in norme di tipo costituzionale
o comunque nella legislazione nazionale.
3
Per una rassegna recente ed esaustiva sul federalismo fiscale nelle sue varie articolazioni si
veda Oates (2008).
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di ragioni di natura politica o solidaristica che possono spingere il governo
centrale a procedere in ogni caso al salvataggio finanziario dell’ente locale.
Le ragioni per l’inserimento di regole a livello sub-centrale risiedono in
alcuni aspetti che caratterizzano i sistemi decentralizzati e la loro stessa utilità varia a seconda della struttura di decentramento del paese e soprattutto
della natura dei legami finanziari tra enti di diverso livello. La presenza di
ampi squilibri verticali finanziati attraverso trasferimenti da parte del governo centrale, ad esempio, rischia di incentivare una spesa locale eccessiva
in quanto il costo del suo finanziamento ricade sul contribuente nazionale
(Eichengreen e von Hagen, 1996; Rodden et al., 2003). A questo si aggiunge un problema di rischio morale, ossia l’effetto assicurativo di ultima
istanza creato dalla presenza di un ente di governo superiore che interviene
a sanare il dissesto finanziario. Questo in quanto, anche in presenza di un
esplicito impegno di no bail out da parte del governo centrale, quest’ultimo
non lascia fallire gli enti sub-nazionali finanziariamente dissestati, che sono
too big to fail, e così facendo indebolisce il vincolo di bilancio dell’ente locale (Wildasin, 1997). Il costo politico di una decisione di non intervento
da parte del governo centrale sarebbe più elevato del costo dell’intervento
stesso nel caso di servizi pubblici locali ‘politicamente sensibili’ come la
sanità e l’istruzione e/o quando il consenso locale è rilevante anche per la
politica nazionale (Dafflon, 2002; Breullié et al., 2007).
A partire dall’analisi delle ragioni strutturali del soft budget constraint, e
quindi dei fattori politico-istituzionali ed economici quali la storia politica
dell’ente, la dipendenza dai trasferimenti, il malfunzionamento di alcuni
mercati rilevanti, la confusione nella divisione delle competenze e delle
responsabilità, vengono elaborate possibili riforme nella direzione dell’introduzione o del rafforzamento a livello sub-centrale di regole fiscali di vario tipo quali il pareggio di bilancio, limiti numerici o targets sul saldo di
bilancio annuale, l’imposizione di un tetto alle spese correnti o al prelievo
fiscale, le restrizioni sui tipi di spese che possono essere finanziate attraverso
il debito pubblico, i limiti all’indebitamento (Gastaldi e Giuriato, 2009).
Le regole fiscali possono tuttavia generare quelli che Milesi-Ferretti (2000)
chiama ugly outcomes, vale a dire operazioni di contabilità creativa come trasferimenti di debiti ad altri enti della pubblica amministrazione non vincolati
o ad imprese pubbliche locali esterne ad essa o altre operazioni di cosmesi
contabile che neutralizzano l’efficacia intertemporale della regola stessa.
Un altro aspetto importante è rappresentato dalla coesistenza della disciplina fiscale, imposta dai livelli di governo superiori, con l’autonomia fi-
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nanziaria di diverso grado dei livelli di governo sub-centrale che caratterizza
i sistemi decentralizzati (si vedano in particolare su questo punto i lavori di
Sutherland et al., 2006 e di Kumar - Ter-Minassian, 2007). Un lavoro molto recente di Governatori e Yim (2012) ha dimostrato empiricamente che
a) il decentramento fiscale nei paesi dell’UE non influenza negativamente il
raggiungimento dei targets nazionali di per sé, ma ha un impatto negativo
significativo solo se la spesa pubblica è finanziata prevalentemente attraverso i trasferimenti del governo centrale; b) le regole fiscali sub-nazionali
tendono ad essere più stringenti quando è più elevato il grado di autonomia
di spesa e di prelievo dei livelli di governo sub-centrali; c) l’effetto positivo
della responsabilità finanziaria sui saldi di bilancio è favorito dalla presenza
della regola del bilancio in pareggio.
La letteratura economica si è soffermata anche sull’efficacia delle regole fiscali nell’indirizzare il comportamento fiscale dei vari livelli di governo
(Tommasi e Braun, 2004; Broyles et al., 2009). Una definizione chiara delle
relazioni tra i livelli di governo e gli obiettivi, insieme alla natura costituzionale della regola fiscale e all’esistenza di meccanismi sanzionatori e di
controllo, possono rafforzarne l’efficacia (Kopits e Symansky (1998); Kopits
(2001); Sutherland et al., 2006). La combinazione di più vincoli risulta inoltre appropriata nei casi in cui un solo vincolo particolarmente rigido rischi
di generare comportamenti non desiderabili da parte degli enti sub-nazionali. Ad esempio, il solo vincolo sul saldo di bilancio annuale è suscettibile di
indurre gli enti che possono disporre di tributi propri rilevanti a comportamenti fiscali pro-ciclici, cioè ad aumenti di spesa solo nelle fasi positive del
ciclo. Le regole, comunque composte, devono costituire un impegno credibile da parte dei governi locali e nazionali; la loro efficacia dipende non solo
dal loro disegno, ma anche dal sistema di controlli che le accompagna. Pertanto diventano determinanti il monitoraggio accompagnato possibilmente
da meccanismi sanzionatori o premiali, l’esistenza di un sistema di revisione
indipendente, la pubblicità e la standardizzazione dei dati di bilancio.
Una serie di lavori empirici su singole esperienze di decentramento
ha riscontrato che l’esistenza di regole fiscali a livello sub-nazionale generalmente riduce i disavanzi pubblici: Bunch (1991), Alt e Lowry (1994),
Bohn e Inman (1995), Poterba (1994, 1996) per gli Usa; Joumard, e Giorno (2005), Miaja (2005) per la Spagna; Lubke (2005) per la Germania;
Feld e Kirchgassner (2006), Krongstrup e Walti (2007) per la Svizzera; Patrizii, Rapallini e Zito (2005), Brugnano e Rapallini (2009), Grembi et al.
(2012) per l’Italia; Grembi and Manoel (2012) per l’America Latina.
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4. L’esperienza italiana: il Patto di Stabilità Interno
È a partire dal 1999 che l’art. 28 della legge n.448/1998 collegato alla
legge finanziaria del 1999 introduce il Patto di Stabilità Interno a livello
delle finanza locale disponendo che “… le Regioni, le Province Autonome,
le Province, i Comuni e le Comunità Montane concorrono alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica che il paese ha adottato con l’adesione
al patto di stabilità e crescita, impegnandosi a ridurre progressivamente il
finanziamento in disavanzo delle proprie spese e a ridurre il rapporto tra il
proprio ammontare di debito e il prodotto interno lordo”.
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Tuttavia buona parte di questi lavori non affronta il problema dell’endogeneità collegato alla valutazione dell’impatto delle regole, vale a dire l’eventualità che alcuni enti locali siano in grado di controllare più facilmente
i livelli di spesa in quanto fiscalmente più prudenti di altri o semplicemente
perché già prima dell’introduzione della regola fornivano livelli più bassi di
servizi (si veda su questo aspetto Grembi et al., 2012, Galli e Grembi, 2013).
Nella maggior parte dei paesi europei l’introduzione di regole interne di
finanza pubblica a livello sub-nazionale si è tradotto in strumenti istituzionali
di coordinamento e di concertazione tra i vari livelli amministrativi e di governo e/o in regole fiscali in senso stretto (European Commission, 2006). Queste
ultime consistono generalmente in a) vincoli imposti sui saldi delle amministrazioni decentrate, le più diffuse, con leggere varianti rispetto al bilancio
rilevante (preventivo o consuntivo); hanno il vantaggio della semplicità, ma
possono risultare svuotate di significato se alcuni tipi di entrate e spese sono
escluse e se non si riesce ad impedire la formazione di gestioni fuori bilancio.
b) Tetti alla spesa, complessiva o corrente o ad alcune voci di spesa e/o tetti al
prelievo. Questi possono provocare tuttavia inefficienze allocative se, per rispettare il vincolo, gli enti sub-nazionali riducono le spese per servizi essenziali
o spese per investimento. c) Limiti all’indebitamento delle amministrazioni
decentrate sullo stock di debito o sull’emissione di nuovo debito e/o sul tipo
di spese finanziabili con debito, generalmente le spese per investimento, come
indicato nella cosiddetta golden rule (Gastaldi e Giuriato, 2009).
L’Italia rappresenta un caso interessante di disciplina fiscale dei livelli di
governo sub-centrali in quanto ne ha sperimentato varie articolazioni sia rispetto alla definizione degli obiettivi programmatici che agli enti e comparti coinvolti e ai i meccanismi premianti e sanzionatori (Patrizi et al., 2005).
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Nel corso dell’ultimo decennio, infatti, due sono stati i principali aspetti caratterizzanti l’evoluzione della finanza pubblica italiana: il risanamento
ed il decentramento. Il duplice obiettivo di aumentare il grado di responsabilizzazione politico-finanziaria per seguire condizioni di maggiore trasparenza nella conduzione della politica fiscale ha indirizzato il paese verso un
graduale superamento del sistema di finanza derivata – istituito all’inizio
degli anni settanta e basato su criteri di accentramento del potere fiscale e
decisionale – a favore di un modello di finanza decentrata fondato sull’autonomia di spesa e di prelievo dei livelli di governo sub-nazionali. Come
vedremo nel dettaglio successivamente, il percorso di riforma in tal senso,
avviato all’inizio degli anni novanta e scandito da diverse innovazioni legislative, è stato sancito con la riforma del Titolo V della Costituzione nel
2001, con la legge delega n.42 del 2009 al governo in materia di federalismo fiscale ed i decreti attuativi.
L’Italia ha adottato un approccio di tipo top-down basato principalmente sull’imposizione di regole da parte del governo centrale alle
amministrazioni locali, senza precisare il contributo dei singoli comparti
della P.A. al raggiungimento dell’obiettivo ma disponendo vincoli annuali per ciascun ente territoriale, differenziandoli tra Regioni ed altri enti
locali in alcuni anni. Questa modalità di condivisione dell’obiettivo del
Patto di Stabilità e Crescita deriva essenzialmente dai forti legami, anche
finanziari, esistenti direttamente tra il governo centrale e i singoli comparti
degli enti territoriali che preferiscono rapportarsi direttamente con lo Stato, piuttosto che con l’ente territoriale sovraordinato. I principali limiti di
un’impostazione di questo tipo consistono nella mancanza di una chiara
specificazione dell’obiettivo che le amministrazioni periferiche dovrebbero
raggiungere e nella rigidità dei vincoli imposti ai singoli enti. Non avendo
la possibilità di effettuare compensazioni tra enti del medesimo comparto
(ad esempio, i Comuni di una stessa Regione) questi potrebbero essere
incentivati a forme di contabilità creativa.
Le regole del Patto di Stabilità Interno vengono stabilite nella fase finale
del processo di formazione del bilancio, ossia al momento della definizione
della manovra di finanza pubblica. La mancanza di una negoziazione diretta fin dalle prime fasi del processo di formazione del bilancio e di un chiaro
accordo ex ante tra le parti è stata una delle cause dei numerosi interventi di
modifica ex post a cui il Patto interno è stato sottoposto anno dopo anno.
Le quasi annuali revisioni del Patto di Stabilità Interno hanno comportato difficoltà nella programmazione a livello locale, oltre a costi di adat108
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tamento. Il vincolo, che inizialmente era identico per tutte le amministrazioni periferiche, a partire dal 2002 è stato diversificato per le Regioni e
per gli altri enti locali. Esclusi i primi due anni (1999 e 2000), in cui esso
imponeva la riduzione del disavanzo aggregato tendenziale del complesso
degli enti sottoposti al Patto, negli anni successivi e fino al 2006, la regola
ha richiesto a ciascun singolo ente la correzione dei saldi finanziari ottenuti
negli anni precedenti e/o di un vincolo ala crescita delle spese correnti,
espresso come tetto rispetto a valori storici: in particolare, per le Regioni,
a partire dal 2002, il vincolo è consistito solo in un tetto alla spesa. Nel
2005 e nel 2006, in linea con l’esigenza di controllare l’evoluzione della
spesa complessiva della P.A., l’obiettivo del Patto di Stabilità Interno è stato
riformulato nei termini di un tetto alla crescita delle spese, includendo, per
la prima volta, anche le spese in conto capitale, e distinguendo enti virtuosi
e non virtuosi. Eccetto che nei primi due anni di applicazione del Patto, i
vincoli sono sempre stati definiti su una base storica e mai con riferimento
a valori tendenziali. Dai vincoli è stato escluso un numero sempre maggiore di voci: nel caso delle Regioni, l’esclusione della spesa sanitaria limita il
Patto a circa 1/3 della spesa.
Il Patto di Stabilità Interno è inoltre stato caratterizzato da un sistema
di monitoraggio molto debole e da forme di controllo da parte del governo
centrale solo sugli enti di maggiori dimensioni. Alla scarsa tempestività e
alla parzialità dei flussi informativi, si è aggiunta la scarsa trasparenza. Anche
il regime delle sanzioni è stato particolarmente blando e mutevole, passando dalla condivisione di una multa imposta a livello comunitario (1999),
a incentivi per gli enti virtuosi espressi nella forma di riduzione dei tassi di
interesse sui mutui concessi dalla Cassa Depositi e Prestiti (2000 e 2001).
Fino al 2007, non è stato mai previsto un regime di pubblicità degli enti che
non avessero adempiuto ai vincoli del Patto e le sanzioni non sono mai state
applicate. I vincoli contenuti nel Patto si aggiungono ad altri vincoli esterni
ad esso su debito e imposte locali, dettati dalla legislazione degli anni precedenti o da apposite norme inserite nelle Leggi finanziarie. In alcuni anni
(2003-2005), tali limiti all’autonomia tributaria si sono trasformati in veri
e propri tetti alle entrate. Per quanto riguarda il debito, le condizioni di accesso sono state regolate negli anni da numerose disposizioni legislative. Gli
enti territoriali possono finanziare con debito la spesa per investimenti, non
solo presso la Cassa Depositi e Prestiti, ma anche presso altri intermediari
finanziari ed emettere titoli. La golden rule si accompagna alla richiesta di
adempimenti di tipo amministrativo (obblighi di comunicazione, redazione
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di piani finanziari), a obblighi (esclusione di garanzie da parte del governo
centrale/regionale, restrizioni sui rendimenti dei titoli locali rispetto a quelli
nazionali) e garanzie (garanzia del rimborso del debito attraverso la copertura con entrate correnti). Il tetto all’espansione del debito è individuabile
nel tetto fissato al rapporto tra spesa per interessi ed entrate (Titoli I-III)4.
Il debito locale non è mai entrato esplicitamente nelle regole del Patto: i
riferimenti ad esso sono indiretti e sempre impostati in termini di premio/
sanzione. Le regole del Patto per gli enti territoriali in vigore dal 1999 al
2006 si presentano, in sostanza, ambivalenti: da un lato, sono molto rigide
(riferimento a valori annuali, assenza di clausole di salvaguardia e di accomodamento del ciclo, assenza di trasferimenti di emergenza a livello locale),
dall’altro, poco stringenti (esclusione di un numero sempre maggiore di voci
di entrata e spesa, nessuna considerazione delle esternalizzazioni di attività
pubbliche, debole sistema di monitoraggio e sanzione, scarsa trasparenza dei
flussi informativi). Nelle sue relazioni annuali al Parlamento sull’andamento
della finanza locale, la Corte dei conti ha evidenziato un rispetto dei vincoli
soddisfacente e crescente, dal momento che la differenza tra obiettivi e risultati è stata positiva ogni anno, soprattutto per le Regioni e per le Province5.
I vincoli introdotti dalle Leggi finanziarie per il 2007 e per il 2008 con
riferimento agli anni 2007-2010 per le Regioni a Statuto ordinario non
si discostano molto da quelli degli anni passati, salvo che per il ripristino
del tetto alla spesa finale. Il Patto prevede l’avvio di una sperimentazione
con le Regioni e Province autonome, finalizzata ad assumere quale base di
riferimento il saldo finanziario. A decorrere dall’anno 2008, anche le altre
Regioni possono riferirsi a questo vincolo, previa verifica che la sperimentazione effettuata abbia conseguito esiti positivi per il raggiungimento degli
obiettivi di finanza pubblica. Le novità maggiori introdotte dal Patto 2007
riguardano soprattutto le Province e i Comuni con popolazione superiore
ai cinquemila abitanti, per i quali è stato introdotto un vincolo sui saldi, che
deve essere rispettato in sede di preparazione del bilancio di previsione. Nel
computo del saldo obiettivo sono incluse tutte le voci di bilancio, comprese
Tale tetto era inizialmente del 25% (art. 204 T.U. enti locali), è stata ridotta al 12% rispetto
al 2004 e infine innalzato al 15% nel 2006.
5
La comparabilità dei dati sul rispetto del Patto forniti dalla Corte dei Conti è, tuttavia,
dubbia: “non è possibile però trarre considerazioni circa le differenze registrate per i diversi
anni perché i saldi finanziario e programmatico, riportati dalla Corte non costituiscono una
serie storica di dati confrontabili, dal momento che la norma è stata modificata tutti gli anni
escludendo sempre nuove voci dal saldo monitorato e, quindi, il riferimento è ad aggregati
anche radicalmente diversi” (Gastaldi e Giuriato, 2007).
4
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le spese per investimento. Il nuovo Patto distingue tra enti virtuosi ed enti
non virtuosi, sulla base del risultato di bilancio (saldo di cassa) mediamente
ottenuto nel triennio 2003-2005 e differenzia per le due categorie il calcolo
di una cosiddetta manovra annuale: per gli enti con avanzo medio, l’importo annuo della manovra del 2007 viene determinato utilizzando esclusivamente la media (2003-2005) della spesa corrente, mentre nel 2008 non
viene imposta alcuna correzione, ossia la manovra è apri a zero. Per gli enti
in disavanzo medio, la manovra è invece la somma ponderata della media
(2003-2005) della spesa corrente e della media (2003-2005) dei saldi consuntivi. La correzione introdotta è dunque di tipo proporzionale. Inoltre, a
partire dal 2008, Comuni e Province in avanzo possono beneficiare di un
ulteriore sconto del computo del proprio saldo obiettivo, se hanno effettuato nel triennio 2003-2005 una politica di forti dismissioni.
Le regole per il 2007 non prevedono margini di flessibilità: i vincoli
sono imposti infatti sul bilancio annuale, senza possibilità di compensare
avanzi e disavanzi nel medio periodo; non è possibile attenuare i vincoli a
fronte di uscite impreviste o investimenti di particolare entità; non è prevista la costituzione di fondi di riserva o adattamenti a fluttuazioni del ciclo.
La consapevolezza delle rigidità delle regole ha portato a introdurre per gli
anni 2008-2010 un elemento di flessibilità attraverso una nuova modalità
di definizione del saldo utilizzato sia nel calcolo della manovra, sia nel calcolo del saldo obiettivo: il nuovo saldo, denominato di “competenza mista”, apre spazi di manovra sia nella gestione di cassa delle spese correnti, sia
in quella di competenza delle spese di parte capitale. Esso si presenta come
un caso unico a livello europeo.
La nuova versione del Patto migliora anche il sistema di monitoraggio di tutti gli enti territoriali e modifica il meccanismo sanzionatorio, che
contempla l’aumento automatico delle aliquote di alcune imposte locali.
L’automaticità delle sanzioni contribuisce notevolmente a rafforzare la disciplina del Patto, che finora aveva previsto un ampio margine di discrezionalità che ne riduceva considerevolmente la credibilità, sebbene il fatto
che le sanzioni non siano commisurate all’entità della violazione del Patto
possa costituire un incentivo a rilevanti sforamenti degli obiettivi. Le nuove
regole disegnano un quadro abbastanza complesso, che persegue molteplici
obiettivi: avvicinare il vincolo interno ed esterno, differenziare il trattamento di Comuni e Province a seconda della loro virtù fiscale e non irrigidire i
bilanci degli enti locali grazie al riferimento a obiettivi espressi in termini
di saldo e all’introduzione dei saldi di competenza mista.
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Per gli anni 2007-2010 il Patto si presenta ancora con caratteristiche
non omogenee rispetto all’esperienza degli altri paesi dell’UEM e lontane
rispetto all’obiettivo della condivisione del vincolo esterno. Nonostante la
differenziazione tra enti virtuosi e non, le regole non presentano elementi
di adattabilità al ciclo o a imprevisti e non consentono compensazioni su
un arco di tempo pluriennale o tra enti del medesimo comparto. Inoltre,
il riferimento costante a vincoli espressi sulla base di valori storici, rende il
Patto una regola fiscale backward-looking. Se questo, da un lato, ha l’effetto
positivo di evitare comportamenti opportunistici da parte degli enti locali
che su di esse non possono influire, dall’altro tuttavia vincola il sistema
di controllo delle finanze locali a risultati sempre più lontani nel tempo e
rischia di penalizzare gli enti che hanno operato un maggiore sforzo fiscale
o controllo delle politiche di spesa.
Le disposizioni recenti del Patto di Stabilità Interno indicate nella legge n.
220/2010 prevedono che l’obiettivo di ciascun ente locale sia individuato in
base alla spesa corrente media sostenuta nel periodo 2006-2008. Nel triennio
2011-2013 ogni ente dovrà conseguire un saldo di competenza mista non inferiore al valore della propria spesa corrente media registrata negli anni 20062008, moltiplicata per una percentuale fissata per ogni anno del triennio.
Una deroga ai vincoli del Patto è stata introdotta al fine di sostenere la spesa
per investimenti degli enti locali. Ulteriori novità per il 2012 derivanti dalle
manovre correttive (decreto legge n.98/2011 e decreto legge n.138/2011) e
della legge di Stabilità n.183/2011 riguardano i seguenti principali aspetti:
l’estensione dei vincoli di finanza pubblica a tutti i Comuni; l’introduzione
dei criteri di virtuosità e le modifiche al Patto regionalizzato.
Ma qual è l’impatto effettivo che le regole del Patto hanno manifestato
sull’andamento della finanza pubblica? Uno degli aspetti più controversi
emersi negli oltre 10 anni di applicazione del PSI riguarda l’evidenza di
un persistente sopravanzo da parte dei Comuni dei target assegnati (Scozzese, Parlato e Croella, 2011). Tale esubero, definito anche overshooting, si
presenta come un fenomeno anomalo: se da un lato i Comuni lamentano
l’impossibilità di realizzare spesa di lungo periodo a causa dei vincoli imposti dal Patto, dall’altro registrano consistenti esuberi positivi del target di
finanza pubblica, che potrebbero essere impiegati per realizzare le suddette
spese. Scozzese, Parlato e Croella (2011) analizzano le componenti di tale
overshooting per il biennio 2009-2010 identificando i fattori, in parte prevedibili, in parte noti solo ex post agli amministratori, che creano tale margine di esubero dell’obiettivo del Patto. Se si utilizza il criterio del rispetto
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Emma Galli: Regole fiscali e finanza decentrata
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formale dei requisiti, come in Patrizi et al. (2005), emerge che mentre inizialmente solo il 66% dei Comuni aveva rispettato i targets, a partire dal
2003 questa quota è salita al 92%. Le elaborazioni condotte da Brugnano
e Rapallini (2009) sui certificati conti consuntivi del 94% dei Comuni
vincolati per il periodo 1999-2004 hanno invece evidenziato risultati meno
positivi rispetto a quanto reso pubblico dalle elaborazioni sul campione di
enti monitorato dalla Corte dei Conti. Le ragioni di queste differenze sono
sostanzialmente riconducibili alle differenze relative alle fonti informative
utilizzate. Gli autori evidenziano come l’impossibilità di escludere le voci
di spesa relative alle esternalizzazioni dei servizi abbia aumentato il volume
della spesa autorizzata ai fini del PSI e conseguentemente le probabilità
che gli enti abbiano rispettato il vincolo, laddove questa voce non è invece
identificabile nei certificati dei conti consuntivi.
Un risultato interessante emerge infine dal lavoro di Bartolini e Santolini (2009) che, in un campione di 246 Comuni delle Marche per il periodo
1994-2003, hanno riscontrato che l’inserimento del Patto ha ridotto il livello di spesa pubblica corrente ma rafforzato il comportamento opportunistico della classe politica al governo negli anni pre-elettorali.
Tuttavia utilizzare il livello di osservanza dei requisiti come indicatore
dell’efficacia delle regole può rivelarsi fuorviante se si considera che la loro
stessa esistenza potrebbe rappresentare un incentivo a realizzare operazioni di finanza creativa. Balduzzi e Grembi (2012), ad esempio, verificano
la presenza di comportamenti di questo tipo nei Comuni tra il 1999 e il
2004, laddove un livello di osservanza dei requisiti relativamente elevato
si accompagnava ad una situazione della finanza pubblica locale piuttosto
modesta, ma non riscontrano alcuna evidenza empirica di finanza creativa.
Utilizzando l’approccio empirico Difference-in-Discontinuities che risolve il problema dell’endogeneità di cui si diceva nel paragrafo precedente,
Grembi et al. (2012) hanno invece verificato per il periodo 1999-2004 che
le regole fiscali applicate a livello comunale sono state efficaci nel ridurre
l’accumulazione di debito pubblico; hanno stimato inoltre nella misura del
2% l’impatto che il rilassamento della stessa regola ha comportato. A partire da questo lavoro e utilizzando l’approccio empirico Difference-in-Difference, Galli e Grembi (2013) hanno successivamente analizzato l’efficacia
di regole fiscali diverse, saldo di bilancio versus tetto alla spesa, durante il
periodo 1999-2006 su dati comunali. I risultati hanno mostrato che il passaggio al tetto alla spesa ha prodotto in effetti solo una diminuzione della
spesa corrente, senza modificare gli altri aggregati di bilancio.
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Complessivamente questa evidenza empirica, per quanto ancora limitata, ci porta a riflettere sull’entità della portata del Patto di Stabilità Interno
rispetto al suo obiettivo di conformare il comportamento degli enti di governo sub-nazionali agli impegni definiti in sede europea e solleva una serie
di aspetti critici su cui è ancora necessario interrogarsi anche con l’ausilio
di ulteriori analisi empiriche.
5. Conclusioni
La scelta delle regole fiscali sub-nazionali deve riflettere gli obiettivi da
raggiungere quali il contenimento della dimensione del settore pubblico, la
condivisione di vincoli esterni, la sostenibilità del debito, gli incentivi all’efficienza allocativa e, in presenza di più obiettivi, le regole devono essere più
di una ed tra loro coerenti. Ad esempio, se uno degli obiettivi è la condivisione tra livelli di governo diverso di un vincolo esterno, come avviene per
il Patto di Stabilità e Crescita, è opportuno che le regole interne replichino
la struttura del vincolo esterno e che quindi l’obiettivo sia espresso rispetto
alle stesse grandezze contabili.
Nonostante il Patto di Stabilità Interno sia stato in varie occasioni riformato al fine di limitare alcuni comportamenti inefficienti degli enti e
migliorare il sistema di monitoraggio e le procedure sanzionatorie, alcuni
problemi ancora persistono: non è previsto un coordinamento tra i vincoli
del Patto e quelli sul debito pubblico e sulle entrate tributarie a livello locale; gli obiettivi sono definiti per i singoli enti e non è specificato quale
debba essere il contributo aggregato dei governi locali al rispetto della regola esterna; non sono stati considerati gli effetti sulla redistribuzione delle
risorse; restano ancora insoddisfacenti sia le procedure di monitoraggio che
quelle sanzionatorie. Produrre ulteriori valutazioni empiriche dell’efficacia
effettiva delle regole fiscali rappresenta pertanto un obiettivo prioritario
della ricerca economica, soprattutto con riferimento a contesti istituzionali,
come quello italiano, in cui disciplina fiscale e autonomia finanziaria dei
livelli di governo sub-centrali coesistono.
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