Dio, il Signore, è nostra Luce

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Dio, il Signore, è nostra Luce
Dio, il Signore, è nostra Luce (SL 117,27)
LA UNICITA' DI DIO CONTRO LE MOLTEPLICI IDOLATRIE DELLA NOSTRA VITA
L’uomo biblico, a differenza di quello greco, non ama definire i concetti che usa: rifugge da quell’operazione
che in fondo (anche a livello etimologico) corrisponde a segnare dei limiti, a circoscrivere una verità per
mezzo di altre verità, in qualche modo a relativizzare.
Piuttosto che di una definizione preferisce servirsi di un nome: questo è quanto serve all’uomo per entrare in
relazione con un altro uomo o con una realtà che lo riguarda. Il nome costituisce la mediazione con cui si
riconosce una realtà e si distingue una cosa o una persona da un’altra; dà la possibilità di conoscere, ma
richiede anche l’umiltà di ammettere che non è possibile raggiungere l’altro, si può soltanto stabilire con lui
un contatto, e questo solo perché è l’altro a concederlo e a stabilire la misura in cui ciò può avvenire.
Quando poi si tratta di Dio, ciò che vale già per le persone assume una valenzamassima: è sempre Dio che
si concede all’uomo, che gli permette di entrare a contatto col suo mondo: è Dio che dice il suo nome. Allo
scrittore sacro rimane l’accoglienza e l’adorazione per questa condiscendenza divina.
Se cerca di dire l’indicibile, di accostarsi a quanto di più santo esiste, lo fa per mezzo di una serie
innumerevole di tentativi, tutti parziali e tutti umani, gli unici possibili. Cerca di servirsi di ciò che fa parte della
comune esperienza di comunicazione per permettere la relazione dei suoi fratelli con l’Unico che vale la
pena di incontrare e che comunque si incontra solo perché ha scelto di farsi vicino al suo popolo.
Ogni tentativo è necessariamente parziale, perché niente scopre del tutto la verità di Dio – ne è cosciente lo
scrittore e ne diventa a poco a poco cosciente il credente – e ogni termine si avvicina e insieme conserva la
distanza tra l’uomo eDio.
Ecco allora che Dio è detto
forza, potenza, gloria, sposo, padre…
Una delle immagini che l’agiografo utilizza più spesso per il Dio di Israele è LUCE.
L’esperienza umana del contrasto tra luce/giorno e buio/tenebre in tutte le culture corrisponde all’alternativa
tra positivo e negativo, tra vita e morte. Specialmente in un’epoca in cui più netto era il passaggio tra la
notte, buia, e il giorno, luminoso, si era soliti attribuire a queste due condizioni naturali valori e simbolismi
profondi. La notte richiama per l’uomo antico la paura di camminare senza vedere, il pericolo di aggressioni,
il rischio di perdere la strada, di cadere in balia di nemici… ma soprattutto la notte e l’oscurità sono da
sempre qualità del mondo dei morti. Luce corrisponde a sicurezza, speditezza nel cammino, autonomia,
possibilità di difendersi.
Un’esperienza così forte e universale viene assunta anche a livello simbolico per esprimere nella luce la
conoscenza, la capacità di comprendere, di scegliere in modo ragionevole, mentre nel buio e nell’oscurità
l’incapacità a vedere chiaro nelle cose e nella storia, la dipendenza dall’altro, più forte o più sapiente…, fino
all’immagine del cieco che brancolando si aggira in un mondo che gli è oscuro, sconosciuto e ostile, in balia
di avversari, che se anche più deboli di lui possono opprimerlo, farlo cadere, colpirlo. Cifra ultima di chi è
privo della luce è il morto, che ha chiuso gli occhi e non vede più, né ben presto sarà più visto: cecità e
morte diventano simboli della lontananza dalla vita. La luce è talmente importante per l’uomo del passato
che molti popoli adoravano gli astri come divinità, addirittura come le divinità più importanti, legate alla vita,
alla generazione umana e animale e alla fertilità della terra. Non sfuggiva a nessuno, tanto meno agli antichi
così legati ai cicli delle stagioni, che all’inverno, con notti lunghe e poca luce anche di giorno corrispondeva
un’interruzione nella produzione agricola e come un sonno della natura, mentre al rinascere della luce
faceva eco la nascita dei piccoli degli animali e il lento, ma sicuro risveglio delle piante e dunque della vita.
Israele conosce queste esperienze, ma si fa un vanto di distinguere il suo Unico dai tanti dei; e così nel
racconto della creazione è Dio che dà origine alla luce, la prima realtà che viene all’esistenza, ma solo
perché creata; Dio nel quarto giorno “arreda” l’universo e crea gli astri, capaci di regolare il giorno e la notte,
ma essi rimangono creature sottoposte all’Onnipotente.
C’è tra Dio e la luce una corrispondenza talmente forte che la sua mancanza segna o l’assenza di Dio e il
suo nascondersi o il suo castigo. A questo proposito non si può dimenticare l’esperienza fondante dell’esodo
dall’Egitto: Poi il Signore disse a Mosè (siamo al secondo dei segni di potenza che Dio opera davanti
agli egiziani): «Stendi la mano verso il cielo: verranno tenebre sul paese di Egitto, tali che si
potranno palpare!» . Mosè stese la mano verso il cielo: vennero dense tenebre su tutto il
paese d'Egitto, per tre giorni. Non si vedevano più l'un l'altro e per tre giorni nessuno si
poté muovere dal suo posto. Ma per tutti gli Israeliti vi era luce là dove abitavano. (Es
10,21-23).
Il
Signore marciava alla loro testa di giorno con una colonna di nube, per guidarli sulla via da
percorrere, e di notte con una colonna di fuoco per far loro luce, così che potessero
viaggiare giorno e notte(Es 13,21); e nel momento dell’inseguimento da parte dell’esercito egiziano:
L'angelo di Dio, che precedeva l'accampamento d'Israele, cambiò posto e passò indietro.
Anche la colonna di nube si mosse e dal davanti passò indietro. Venne così a trovarsi tra
l'accampamento degli Egiziani e quello d'Israele. Ora la nube era tenebrosa per gli uni,
mentre per gli altri illuminava la notte; così gli uni non poterono avvicinarsi agli altri durante
tutta la notte (Es 14,19s).
Se Dio è con Israele, questo non può essere nelle tenebre! Come avviene nella fuga nel deserto:
Una bella immagine si ritrova nelle ultime parole del vecchio re Davide, quando riassume la storia della sua
vita. Egli è stato re a nome di Dio, la sua regalità, che ha il riflesso dell’Eterno, si trova ad essere ben
espressa dal simbolismo della luce: Chi governa gli uomini ed è giusto, chi governa con timore
di Dio, è come la luce del mattino al sorgere del sole, in un mattino senza nubi, che fa
scintillare dopo la pioggia i germogli della terra. (2 Sam 23,3-4).
Non è marginale nel messaggio del libretto di Tobia quanto in poche parole l’anziano Tobi sintetizza; al
saluto dell’angelo: «Possa tu avere molta gioia!». Tobi rispose: «Che gioia posso ancora
avere? Sono un uomo cieco; non vedo la luce del cielo; mi trovo nella oscurità come i
morti che non contemplano più la luce. Anche se vivo, dimoro con i morti; sento la voce
degli uomini, ma non li vedo» (5,10). L’intervento di Dio si mostra nel guarirlo dalla cecità (11,11-14).
Altre volte la comune esperienza del binomio luce-tenebre serve allo scrittore sacro per esprimere l’evidenza
del bene e del male e la capacità di distinguere: Cambiano la notte in giorno, la luce dicono è più
vicina delle tenebre (Giob 17,12); Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene,
che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l'amaro in dolce e il
dolce in amaro (Is 5,20).
L’esperienza insieme umana e spirituale della luce, come vita, come fecondità, come guida, segna il popolo
ebraico tanto che la letteratura sapienziale assume questo simbolismo per esprimere la presenza operante
di Dio, la sua paternità e benevolenza nei riguardi del popolo.
(Tu, Signore, sei luce alla mia
lampada Sl 18,29), luce e salvezza, (27,1), l’origine stessa della luce (alla tua luce
vediamo la luce Sl 36,10).
Così Dio diventa per il salmistala luce che rischiara le tenebre
(Sl 43,8
Manda la tua verità e la tua luce; siano esse a guidarmi, mi portino al tuo monte santo e
alle tue dimore); se l’uomo di Dio dubita di saper riconoscere ciò che è giusto, la luce di Dio lo illumina
(Sl 4,7: Molti dicono: «Chi ci farà vedere il bene?». Risplenda su di noi, Signore, la luce del
tuo volto); se il peccatore fatica a riconoscere il proprio peccato, confida però in Dio che conosce anche le
tenebre più nascoste del suo cuore e accompagna i passi del pentimento (Sl 90,8: Davanti a te poni le
nostre colpe, i nostri peccati occulti alla luce del tuo volto). Quando è oppresso dalla sofferenza e
sta per disperare della salvezza, alza il suo grido, quasi rimprovero di chi si sente abbandonato da Dio:
Sono annoverato tra quelli che scendono nella fossa, sono come un morto ormai privo di
Se l’oscurità è simbolo dell’incertezza della vita, la luce di Dio indica nuove strade per il credente
forza. È tra i morti il mio giaciglio, sono come gli uccisi stesi nel sepolcro, dei quali tu non
conservi il ricordo e che la tua mano ha abbandonato. Mi hai gettato nella fossa profonda,
nelle tenebre e nell'ombra di morte (Sl 88,5-7). Senza Dio non c’è luce, non c’è futuro, non c’è vita:
per l’ebreo la morte segna la vittoria definitiva delle tenebre.
Quando allo scrittore sacro viene proposta la sfida di annunciare un futuro ideale nel quale si realizzeranno
le predizioni profetiche, universalizzate e spiritualizzate, in diverse circostanze sceglie di servirsi della
simbologia della luce: sia che si tratti di indicare una persona: il Messia - Il popolo che camminava
nelle tenebre vide una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce
rifulse. (Is 9,1); sia che questa promessa si vesta dei tratti della città santa, la nuova Gerusalemme:
Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di
te…Cammineranno i popoli alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere… Il sole non
sarà più la tua luce di giorno, né ti illuminerà più il chiarore della luna. Ma il Signore sarà
per te luce eterna, il tuo Dio sarà il tuo splendore, il tuo sole non tramonterà più né la tua
luna si dileguerà, perché il Signore sarà per te luce eterna; saranno finiti i giorni del tuo
lutto... (Is 60,1.3.19-20). L’immagine dello splendore luminoso contrasta con l’esperienza dell’esilio, con
quella della servitù e del peccato, della rovina e dell’infedeltà. Anche nella figura del servo di Dio si possono
cogliere tratti simili: Mi disse: «È troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di
Giacobbe e ricondurre i superstiti di Israele. Ma io ti renderò luce delle nazioni perché porti
la mia salvezza fino all'estremità della terra» (Is 49,6).
Beato l'uomo
che teme il Signore e trova grande gioia nei suoi comandamenti … Spunta nelle tenebre
come luce per i giusti, buono, misericordioso e giusto.(Sl 112,1.4).
E sull’esempio del suo Dio, anche l’uomo giusto viene descritto con caratteristiche simili:
Se Dio è luce, fonte della luce, tutto ciò che promana da Lui è capace di illuminare l’uomo, di orientarne i
passi, di aiutarlo a vedere e a distinguere tra il bene e il male. La parola in primo luogo (Sl 119,105:
Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino; Sl 119,130: La tua parola
nel rivelarsi illumina, dona saggezza ai semplici), la sua legge (Sl 19,9: Gli ordini del
Signore sono giusti, fanno gioire il cuore; i comandi del Signore sono limpidi, danno luce
agli occhi), la sapienza (Sap 7,29: Essa in realtà è più bella del sole e supera ogni
costellazione di astri; paragonata alla luce, risulta superiore), tutte sono espressioni di un’unica
rivelazione di Dio; nel corso della storia della salvezza poco alla volta il credente ha compreso che esse non
sono esterne a Dio, suoi doni, ma altre modalità della comunicazione di sé all’uomo, tanto che le ha
personificate finché nella pienezza dei tempi sono divenute la Persona del Figlio.
Un’etimologia tradizionale del termine toràh-Legge ricollega questa parola ebraica a ‘or-luce: Dio ha
donato a Israele la legge, la sua alleanza, non per renderlo schiavo, ma per restituirgli la dignità di chi,
vedendo chiaro in sé e nella storia, può scegliere liberamente; gli chiede di rimanerle fedele, facendosi
orientare nel cammino, per poter procedere senza perdersi e raggiungere la meta della sua felicità, l’amicizia
con Dio, il possesso della terra, la vita e la posterità.
Se Dio è luce-vita allora essere nella vita, vivere significa essere nella Luce, essere luce. I malati e gli
operatori Unitalsi sono coloro che vivono della Luce riflessa, fino a diventare trasparenza che non trattiene
per sé la Luce, ma la trasmette nell'essere illuminati da essa. Da qui il chiarore, la semplicità della vita, la
non difesa della propria immagine, la libertà dalla doppiezza, dalla scorciatoie del sottobosco dell'equivoco e
dell'ambivalenza, per vivere nella luminosità del Risorto.
La nostra società è avvolta da un pensiero idolatrico, lo mostra l'affanno dell'uomo per il proprio futuro, la
centralità data al denaro che è ricapitolativo di ogni idolatria come il potere, l'immagine di se stesso,
l'estetismo. A questi idoli di sicurezza l'uomo presta culto donando cibo, bevande, salute, piaceri,
divertimenti; ma questi idoli come un dio esigono tutto, per loro amore bisogna essere disposti a rinunciare
alla propria dignità, a ingannare, a rubare, a rovinare gli altri, a perdere le amicizie, a trascurare moglie/mariti
e figli, bisogna essere disposti ad uccidere, la propria vita e quella degli altri. Chi si incammina in questa
idolatria di vita significata dal denaro e dall'immagine falsa si illude di aver trovato un obiettivo concreto e
gratificante che dà senso al tutto, ma ha solo scoperto un vano ripiego per esorcizzare il pensiero della
morte, delle tenebre.
Dio luce manifesta la sua benevolenza rassicurante verso tutto, una luce che non è colta se non da chi non
si nasconde ad essa.
Purtroppo anche fra i cristiani prende campo la mentalità di questo mondo che valuta le persone in base al
successo che ottengono, alle doti che hanno, alla ricchezza che accumulano. I geni, gli atleti, le personalità
eminenti, chiunque dimostra di possedere attitudini particolari è ricercato e ammirato; i deboli, i poveri, gli
incapaci, i portatori di handicap appaiono a molti - anche se difficilmente lo si ammette - quasi un bagaglio
ingombrante.
La comunità che si gloria dei suoi «eroi» e prova una inconfessata ripulsa per i peccatori, i malati, gli ultimi
che considera zavorra, rami secchi, un «disonore» per tutta la famiglia, mostra di aver assimilato i criteri di
questo mondo idolatra, non quelli di Dio che si innamora dei bisognosi, di coloro che non contano. Egli ha
mandato suo Figlio ad illuminare chi sta nelle tenebre e nell'ombra di morte, Egli infatti è luce che
riscalda e orienta sul cammino della vita.
Pensiamo poianche alla idolatria del tecnicamente possibile che equivale al moralmente lecito e buono. È
tipico della nostra epoca il superamento di tanti limiti da parte della coscienza della gente: si tende a vivere o
almeno a pensare come se non ci fossero più. L'uomo d'oggi, ha l'impressione che quasi tutto gli è o gli sarà
presto tecnicamente possibile, che i limiti fisici ritenuti invalicabili possono o potranno ben presto essere
superati. Sarà possibile, almeno si pensa, clonare un essere umano, anzi creare esseri immortali. L'umanità
è quindi indotta a ritenere che in avvenire potrà fare quasi tutto ciò che vuole a riguardo della natura, dei
modi di essere dell'umano, della vita e della morte.
Ne segue che le regole, le tradizioni, le convenzioni di riferimento sono viste sempre di più come qualcosa di
negativo o comunque di parziale, di superabile, non come un assoluto da non toccare. Esse valgono nella
misura in cui sono utili in un determinato contesto, nella misura in cui sono contrattabili liberamente.
Abbiamo tutti in mente esempi recenti di queste tendenze: la facilità a giustificare l'aborto, la spinta verso
una liberalizzazione della morte autogestita, il superamento dei quadri tradizionali della concezione del
matrimonio come unione stabile e feconda tra un uomo e una donna (cfr la giurisdizione di alcuni stati
europei), la possibilità di esperimenti da "piccoli dei" con l'embrione ecc.
Siamo davanti alla vera idolatria con la quale l'uomo si attribuisce prerogative divine, nella illusione di
onnipotenza libera e selvaggia che chiude ancor di più l'uomo nella sua solitudine e non lo apre ad un vivere
pienamente la dignità di creatura di Dio.
Viene così spenta, emarginata o rimossa la tensione per il vivere, l'idea che l'uomo sia chiamato a dominarsi,
a lottare, a impegnarsi a fondo, è scomparsa, ha lasciato il campo all'idea che l'uomo sia fatto per godere di
ogni soddisfazione, per essere gratificato di ogni facilità. Di qui una delle ragioni profonde di tanta tristezza
nei giovani, di tanta amarezza che preme sul nostro tempo.
I credenti, invece, grazie al dono della luce, «non fissano lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili.
Le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili sono eterne» (2 Cor 4,18). Questo è l'atteggiamento
proprio di chi considera tutto in relazione al fine ultimo, di chi guarda soprattutto al termine del cammino, alla
Gerusalemme celeste, e vede tutto il resto in questa luce. Allora sia le vicende liete sia le tristi appaiono
come penultime di fronte al bene e alla meta definitiva. Ogni realtà di questa terra impallidisce di fronte al
«mistero della gloria futura che sarà rivelato in noi» (Rrn 8,18).
La spiritualità dell'Unitalsi si impegna a favorire la sintesi della vita come realtà personale e unificata
nell'accogliere il dono della rivelazione, della manifestazione del Dio-Luce, che libera da ogni schiavitù
idolatrica.