Sedicesimo Richell 1-15 tgcom24:Layout 1

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Sedicesimo Richell 1-15 tgcom24:Layout 1
HANNAH RICHELL
LE BAMBINE
CHE CERCAVANO
CONCHIGLIE
Prima edizione: febbraio 2013
Per essere informato sulle novità del Gruppo editoriale Mauri Spagnol visita:
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Traduzione dall’inglese di
Enrica Budetta
Titolo originale dell’opera:
Secrets of the Tides
© Hannah Richell 2012
First published in UK by Orion.
This edition published by arrangement with Grandi & Associati
ISBN 978-88-11-67058-2
© 2013, Garzanti Libri s.p.a., Milano
Gruppo editoriale Mauri Spagnol
Printed in Italy
www.garzantilibri.it
PROLOGO
Un treno mezzo vuoto avanza tra le campagne e i terreni coltivati verso l’agglomerato grigio-cemento della città. C’è una giovane donna rannicchiata nell’angolo più remoto dell’ultima carrozza. I capelli, come un velo, ne nascondono le lacrime. In tasca ha
una spilla antica. Le sue dita ne accarezzano il profilo incurvato
prima di girarla e rigirarla al ritmo delle ruote che sferragliano
sui binari. Quando non riesce più a resistere, ne sgancia il fermaglio e se ne conficca la punta nel palmo. Finalmente il treno sobbalza e rallenta. I freni stridono. Quando arrivano a destinazione,
la ragazza spinge la spilla in fondo alla tasca del cappotto, prende
la sacca e poi scende sulla banchina. La gente le sfreccia intorno.
Due donne strillano e si abbracciano. Un uomo alto, con il turbante, corre verso i tornelli. Un ragazzino brufoloso saltella da un
piede all’altro, alzando lo sguardo verso il tabellone delle partenze mentre si ficca in bocca una manciata di patatine. Sembra che
tutto ciò che la circonda pulsi e ronzi mentre lei si limita a rimanere immobile sulla banchina, respirando profondamente. I cartelli della metropolitana indicano tutti un’unica direzione, ma lei
li ignora, mettendosi la sacca in spalla e dirigendosi verso l’uscita
che dà sulla strada. Attraversa a passi svelti un’area pedonale affollata e gira a sinistra verso il ponte. In lontananza si staglia il Big
Ben; mancano tre minuti a mezzogiorno. Cammina decisa; sa dove sta andando e cosa deve fare. Non c’è più tempo.
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DORA, OGGI
Dora chiude gli occhi. Vuole che il sonno s’impossessi di lei,
ma sa che manca ancora molto. Invece, lascia vagare la mente sui
sentieri del suo passato. Lentamente, scivola lungo una strada ampia, costeggiata dagli alberi. Riesce quasi a sentire il vento che soffia tra i sicomori alti, e l’odore salino trasportato dalla brezza. Gira un angolo ed eccola lì, una vecchia casa colonica dalla struttura
irregolare che sorge sulle scogliere del Dorset, con le mura imbiancate che brillano come un faro sotto la luce del sole. Mentre
si avvicina vede il viluppo di edera che striscia su per la facciata,
incurvandosi intorno ai cornicioni del tetto grigio di ardesia. Si
avvicina ancora di più e scorge il massiccio portone in legno di
quercia, scolorito dagli agenti atmosferici e dal passare del tempo.
Con la forza dell’immaginazione apre il portone, sfiorando il legno liscio che le è tanto familiare, ed entra in un vestibolo freddo,
buio e calcato dai passi di una generazione di Tide. Passa dinanzi
a una porta aperta, ignorando la donna elegante dai capelli scuri
china su una scrivania piena di libri e fogli. Si allontana dalle risatine che risuonano lungo le scale scricchiolanti e supera il bell’uomo dai capelli chiari seduto in salotto, intento a leggere il giornale che tiene sulle ginocchia. Ignora il richiamo della casa e si
dirige invece verso il giardino d’inverno, dove il profumo invitante delle rose e dei gigli esce dalle porte aperte. Andando oltre, si
aggira per il grande prato irregolare, attirata dalla canzone del
mare intonata dalle sirene, mare che si infrange in lontananza sugli scogli sottostanti.
Quando arriva davanti a un vecchio ciliegio ritorto giù nel frutteto, si volta e studia la casa, osservando le ampie finestre a ghigliottina. Le fissa, cercando risposte nelle profondità delle loro
ombre, ma i vetri sono oscurati dal riflesso del sole.
Clifftops. Il posto che una volta chiamava casa.
Dan accanto a lei si sposta e sospira nel sonno e Dora, mentre si
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tocca la pancia ancora piatta e pensa al futuro, improvvisamente
capisce. Non può più nascondersi. Deve tornare a Clifftops. Deve
tornare e guardare in faccia il passato.
Fin da quando era piccola, la casa le è sembrata magica, pittoresca per la posizione e incantevole per lo stile. Mentre si avvicina
in auto, le mura di pietra bianca riflettono la luce rosa scuro del
sole pomeridiano, e Dora viene colta da un piccolo brivido. Non è
il posto tetro che si ricordava e che appariva nei suoi sogni. È bellissimo. Continua a salire, e la casa entra ed esce scintillando dal
suo campo visivo, dietro i sicomori e i biancospini. Riesce quasi a
sentire suo padre che cinguetta tutto contento: «Il vostro palazzo
vi aspetta!». Quasi si aspetta di vedere i nonni sulla soglia con i loro sorrisi affettuosi e le braccia spalancate, che le danno il benvenuto. Ma quei giorni sono passati da un pezzo e lei scuote la testa
per cancellare i ricordi.
Ben presto Dora ferma la macchina sulla ghiaia scricchiolante
davanti alla casa. Resta seduta per un attimo, ascoltando il ticchettio sommesso del motore che si arresta. Rimane dov’è. Il grumo
che aveva nello stomaco ha assunto le dimensioni di una palla da
bowling. Ignorandolo, si allunga per prendere il cellulare e digita
un messaggio veloce per Dan. Arrivata! Baci. Preme INVIO e si gira
e rigira il telefono tra le mani, spostando lo sguardo sul portone
sovrastato da un arco di pietra. Non deve fare altro che scendere
dalla macchina, attraversare il vialetto e bussare al vecchio portone di quercia, ma, adesso che è qui, questi ultimi metri le sembrano insormontabili, come una roccia ripida e scivolosa su cui in
qualche modo deve arrampicarsi. Rabbrividisce al pensiero.
Non è troppo tardi per tornare indietro. Potrebbe fare inversione e andarsene prima che sua madre si renda conto che è arrivata. Potrebbe essere a casa prima che faccia buio, cullata dal
trambusto familiare di Londra e tra le braccia rassicuranti di
Dan. La sua vita non è così male. Sulla carta è una donna di successo – ha un buon lavoro, una casa sgangherata, un fidanzato
amorevole –, la sua vita a Londra è qualcosa di cui si può andare
fieri, per cui essere addirittura invidiati. Se sarà capace di continuare a scivolare sulla superficie, se riuscirà a evitare le crepe frastagliate che hanno iniziato a comparire, e la terribile sensazione
di essere in procinto di precipitare nell’abisso, se ce la farà a seppellire gli incubi e a placare gli attacchi di panico, sa che starà bene. Perché dragare le acque fangose del passato? Cosa spera di ot-
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tenere veramente? Non deve farlo. È stata una pazza a venire. Il
passato è passato; dovrebbe rimanere sepolto. Mentre pianifica la
fuga, Dora sente il battito del cuore che rallenta. Si allunga verso
le chiavi nel cruscotto, ma mentre le sue dita sfiorano il metallo
freddo, il cellulare emette un bip squillante. Abbassa lo sguardo: è
un messaggio di Dan. Sii coraggiosa! Baci.
Deglutisce.
Dan.
Il bambino.
All’improvviso è tutto chiaro: non può tirarsi indietro. C’è una
vita che cresce dentro di lei. Si ricorda di Dan che le sedeva davanti, solo una settimana prima, tenendo delle vitamine per la
gravidanza nel palmo della mano, con gli occhi scintillanti di speranza ed eccitazione. Questo basta ad annullare i suoi piani di
precipitosa ritirata. Deve far fronte a ciò che l’attende in casa. Lo
deve a Dan e al futuro di entrambi, qualunque cosa abbia in serbo
per loro.
Con un respiro profondo e le mani tremanti, Dora toglie le
chiavi dal cruscotto e apre lo sportello. «È ora di affrontare il passato», sussurra, e sale i gradini d’ingresso della casa.
Con l’imbarazzo di un’ospite inattesa, Dora bussa timidamente
al portone. La risposta è un silenzio assordante. Pensando che sua
madre debba essere in giardino, si dirige sul fianco della casa, oltrepassa un cancello di legno e poi si avvia sulla terrazza che circonda l’edificio, cercando frattanto di liberarsi dalla sensazione di
essere, in qualche modo, entrata abusivamente.
Da lontano Clifftops era avvolta da una suggestiva atmosfera da
cartolina, ma mentre Dora si addentra nel giardino si accorge che
le cose sono un po’ diverse. Certo, è bellissimo. Gli alberi nel frutteto sono carichi di fiori, come è normale a primavera inoltrata,
ed è tutto un frusciare e un fremere di foglie nel tepore primaverile; ma ci sono piccoli particolari che conferiscono alla tenuta
una certa trascuratezza. C’è una carriola che è rimasta ad arrugginire accanto a un cumulo di letame; l’erba nel prato è troppo alta
e disseminata di ciuffi incolti di margherite e denti di leone; mucchi di foglie, residuo dell’autunno precedente, sono ammassati in
vari punti della terrazza e Dora nota una grondaia che gocciola e
la vernice scrostata degli infissi. Prese singolarmente, sono piccole
negligenze, niente che un tuttofare efficiente non possa sistemare
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nel giro di un paio di giorni, ma nel complesso fanno sembrare la
casa trasandata e un po’ squallida. Non è così che Dora la ricorda.
«Buonasera, sei arrivata in tempo per il tè.»
Dora sussulta al suono di una voce. «Ciao, mamma. Oddio, mi
hai fatto spaventare!»
Helen spunta da dietro un traliccio di clematide e avanza verso
di lei, togliendosi i guanti da giardinaggio e sistemandosi la maglia di fronte alla figlia prima di abbracciarla. Il loro è un abbraccio impacciato, e Dora si accorge che le labbra della madre le sfiorano appena la guancia.
Helen si fa indietro e la osserva con gli occhi socchiusi. «Hai
un’aria stanca», dice alla fine.
Dora si rende conto che sta giocherellando con i capelli che le
sono sfuggiti dalla coda di cavallo e rimette le mani in tasca. «Sono un po’ provata, già.»
«Com’è andato il viaggio?»
«Bene, grazie. Tu stai molto bene, mamma. E il giardino è... in
piena fioritura.» Dora sbatte le palpebre. È ancora più nervosa di
quanto si aspettasse.
«Sì», conviene Helen, guardandosi intorno con aria un po’
preoccupata. «Adesso che sono sola per me è proprio un bell’impegno.» Le due donne restano l’una accanto all’altra per un attimo, considerando in silenzio l’enormità delle responsabilità di
Helen. «Bene, vieni dentro. Metto su l’acqua.»
Dora segue la madre in casa, approfittandone per studiarla
mentre cammina davanti a lei. Non è cambiata molto. È una donna elegante: non ha ancora cinquant’anni ed è in gran forma nei
suoi pantaloni di cotone con la maglia verde salvia. Dora si accorge della comparsa di una spruzzata di grigio nella sua massa di capelli folti e scuri e di qualche nuova ruga intorno agli occhi verde
smeraldo; ma è ancora bellissima.
Helen appoggia i guanti da giardinaggio sul ripiano e fa per
riempire il bollitore. «Temo di non avere più il tè sciolto. Non sono riuscita ad andare a fare la spesa stamattina. Ti dispiace se uso
una bustina?» Le mostra una scatola di Earl Grey che ha l’aria di
essere piuttosto costosa.
Dora fa una risatina. Di solito beve quello che Dan chiama «tè
da muratori»: una bustina di una marca commerciale lasciata in
infusione per dieci minuti. «Va bene, grazie», risponde. «E allora», aggiunge, ansiosa di portare avanti la conversazione, «come
va la vita in paese?»
«Oh, non troppo male. Abbiamo avuto una splendida primave-
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ra, con un clima caldo e gradevole. La gente del posto è stata in
grande fermento per colpa della possibile chiusura dell’emporio:
petizioni e tutto il resto. E naturalmente sono iniziati i preparativi
per l’evento dell’anno.»
Dora rivolge alla madre uno sguardo interrogativo.
«Hai presente», prosegue Helen, «l’annuale mostra di fiori? Le
zitelle del posto sono immerse fino al collo nell’organizzazione,
fra torte da confezionare e composizioni floreali da realizzare. Dicono che quest’anno sarà molto competitiva, soprattutto nelle sezioni marmellate e crostate di frutta.» La voce della madre gronda
sarcasmo e Dora non può fare a meno di ridere. A Helen non sono mai interessati gli intrighi e i pettegolezzi del villaggio. È a dir
poco ironico che sia l’unica rimasta a vivere nella vecchia casa, come una reincarnazione di Daphne Tide.
«Comunque», dice Helen, «vogliamo prendere il tè nel giardino d’inverno? A quest’ora lì è incantevole.» Sta parlando con il tipico tono educatamente formale di quando ha ospiti e Dora si
rende conto che sua madre deve essere nervosa quanto lei. Questo la fa sentire un po’ meglio.
Helen afferra il vassoio e lei la segue fuori dalla cucina, superando la porta aperta della biblioteca e lanciando un’occhiata alla
vecchia scrivania di quercia della mamma che trabocca, come al
solito, di fogli e libri. In corridoio passa accanto a un tavolo pieno
di fotografie di famiglia con le cornici d’argento impolverate e
macchiate dal tempo. C’è una foto color seppia del matrimonio
di Daphne e Alfred, un ritratto di Cassie che se ne sta imbronciata
e impettita con l’uniforme della scuola e uno di Dora da piccola
su una coperta scozzese, che si morde il pugno. Dietro a tutte
scorge una foto più piccola di cui si era completamente dimenticata, fino a questo momento. La guarda più da vicino e vede che
ritrae lei, Cassie e il padre in spiaggia. La sorella è venuta benissimo; deve avere undici o dodici anni, il vento le scompiglia i capelli biondi e i suoi occhi azzurri e seri guardano fisso l’obiettivo. Dora vede sé stessa che la rincorre: una bambinetta magrolina, colta
da un attacco di ridarella, con i denti in bella mostra; ancora più
indietro c’è il papà, con le guance arrossate e un gran sorriso, che
si scrolla l’acqua di mare dai capelli chiari. Sembra appena uscito
dall’acqua e, anche se Dora non riesce a rammentare esattamente
quel giorno, ha un vago ricordo di un freddo picnic pasquale. Eppure l’immagine la turba. È la vista di loro tre in spiaggia – così
giovani, felici e inconsapevoli – che le fa attorcigliare lo stomaco.
Si chiede come riesca sua madre a sopportarla. Sente un brivido e
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distoglie lo sguardo, affrettandosi per raggiungere Helen che è
già sparita in fondo al corridoio con il vassoio del tè.
Entrano nel luminoso giardino d’inverno e si accomodano sulle poltrone di vimini scricchiolanti. L’annuncio che è venuta a fare grava come un peso su di lei, ma non osa ancora parlarne. Va
fatto come si deve, per cui lascia che Helen prosegua con il suo
monologo sulla vita di Summertown ascoltandola a malapena e
tenendo d’occhio un grande moscone scintillante che cerca disperatamente di uscire dall’unica finestra chiusa. L’insetto si lancia contro il vetro, ansioso di sfuggire all’atmosfera soffocante del
giardino d’inverno. “Ti capisco”, pensa Dora.
«E che mi dici di te? Come va la vita a Londra... e come sta Daniel?» Le domande di Helen irrompono nel suo sogno a occhi
aperti.
Dora decide di esordire con gli argomenti più neutri. «Dan sta
bene. La sua ultima mostra ha avuto successo e ha ricevuto delle
nuove commissioni. C’è una signora a Highgate che vuole tre dei
suoi bronzi per il giardino, perciò non è riuscito a venire questo
fine settimana.» Dora si ferma un attimo, chiedendosi se sia arrivato il momento; poi si tira indietro. «E io ho avuto una promozione al lavoro.»
«Oh, davvero?» dice Helen.
«Sì... sono appena diventata senior account manager. Abbiamo acquisito un nuovo cliente, produce cereali per la colazione. In pratica, abbiamo sfilato l’affare ai nostri più grandi concorrenti. L’ho
scoperto solo ieri, e sinceramente è davvero un bel colpo nel
mondo della pubblicità... Il mio capo è al settimo cielo», aggiunge
e si rende conto di farfugliare.
«Ma è magnifico», ripete Helen, prendendo un altro sorso di
tè, e Dora rimane in silenzio per un attimo, guardando l’ombra di
un uccello che vola lungo il muro di fronte. Non sa come andare
avanti. Improvvisamente il moscone smette di ronzare e di lanciarsi contro la finestra e la stanza piomba in un silenzio di tomba.
«Ma tu stai bene?» chiede Helen, alzando lo sguardo.«Mi sembri un po’ pallida.»
Prima stanca. Adesso pallida. Dora si meraviglia di come le
semplici osservazioni della madre possano assomigliare più a critiche che a commenti apprensivi. «Sto... bene.» Ci pensa per un attimo. «Sì, bene», ripete e poi, prendendo un respiro profondo, finalmente lo annuncia ad alta voce:«A dire il vero, sono incinta».
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Un silenzio pesante piomba sul giardino d’inverno.
«Sono solo di sette settimane, ma sicuramente incinta.»
Se dipenda dal fatto che lo ha espresso ad alta voce nell’atmosfera carica di tensione della stanza, o dal sollievo per aver comunicato la notizia, o forse dal puro terrore che la consuma, Dora
non saprebbe dirlo, ma improvvisamente scopre inorridita che sta
piangendo. Il suo corpo è scosso dai brividi mentre si lascia andare a fragorosi singhiozzi che spezzano il silenzio.
Piange in modo incontrollabile più o meno per un minuto,
una cascata di lacrime irrefrenabili, prima di passarsi le dita sotto
gli occhi per eliminare le tracce di mascara in un vano tentativo di
ricomporsi, di asciugarsi la faccia bagnata sulla manica e poi di
prendere in mano la sua tazza di tè. È mortificata. Non è questo
che aveva in mente. Beve un paio di sorsate ormai fredde, quindi
guarda la madre. Helen è sempre seduta, apparentemente impietrita sulla poltrona di vimini, con il viso tirato e, tutto a un tratto,
pallido. Dora la fissa con un’espressione interrogativa, aspettandosi qualche domanda, un commento, una minima dimostrazione di preoccupazione o di gioia, ma Helen rimane completamente immobile, come una statua.
Dora aspetta un altro po’. Lì dentro manca l’aria e, all’improvviso, prova una sensazione stranissima: forse non si trova affatto
qui. Forse questo è solo uno dei suoi incubi. Forse lei non è altro
che un fantasma. Si sente stordita. Inconsistente. Invisibile.
Alla fine non ce la fa più. «Mamma?» chiede. «Non vuoi dire
niente? Proprio niente?» Il suo imbarazzo si sta trasformando rapidamente in rabbia.
Helen rimane in silenzio, con la tazza a metà strada tra il grembo e le labbra. Poi emette un piccolo sospiro, un suono simile a
un soffio di vento che passa tra i rami degli alberi in giardino.
Dora non le toglie gli occhi di dosso. «Mamma? Avrò un bambino. Mi hai sentito?»
Finalmente Helen si gira e guarda la figlia. «Ti ho sentito,
Dora.»
«E?»
«Cosa vuoi che ti dica?»
«Be’, non sono un’esperta in questioni del genere, mamma,
ma credo che “congratulazioni” sia ancora la risposta più ovvia.»
Dora non può più tenere a freno la rabbia. Di solito non si rivolge alla madre con tanta schiettezza; in passato ha sempre cercato
di evitare lo scontro, di mantenere buoni rapporti. Ma questo è
troppo.
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«E allora congratulazioni», dice Helen, ma Dora si accorge che
non riesce ancora a guardarla negli occhi.
Scuote la testa sbigottita. «Ma non puoi essere felice per me e
basta?»
Helen rimane in silenzio.
«Non so perché mi sono presa il disturbo di venire. Speravo
che le cose potessero essere diverse. Speravo che potessimo riuscire a gettarci tutto dietro le spalle. Pensavo che questa notizia...»
La voce le viene meno. «Ma mi sbagliavo, non è vero? Non è cambiato niente.»
Helen continua a tenere la faccia rivolta al giardino. Dora lo interpreta come un rifiuto e ciò le provoca la sensazione fisica di
uno schiaffo sulla guancia. Il sangue le va alla testa. Sbatte la tazza
sul tavolo che le divide e si alza di scatto. E poi, inaspettatamente,
le viene fuori una raffica di parole.
«Sai una cosa, mamma?» dice mentre si dirige verso la porta.
«Mi ero quasi convinta di essermi sbagliata; di essermi immaginata tutto in questi anni. Mi ripetevo che, nel profondo del tuo cuore, mi volevi davvero ancora bene, solo che non riuscivi più a dimostrarmelo, dopo quello che era successo.» Fa una risatina. «Mi
dispiaceva per te. Pensavo che fossi... troppo... troppo addolorata
per mostrarmi ciò che provavi. Ma adesso capisco che mi sbagliavo.» Scuote la testa e ride amaramente. «Dio, se mi sbagliavo. La
verità è che, adesso che porto la croce per ciò che è successo quel
giorno, non potremo mai più tornare indietro. Non mi perdonerai mai, vero? Sono passati anni e ancora quasi non riesci a guardarmi in faccia.»
La stanza piomba nel silenzio e, finalmente, lo sguardo di Helen si sposta per incontrare quello di Dora. Quest’ultima, nonostante la distanza, riesce a scorgere i riflessi ambrati che scintillano nelle profondità degli occhi verdi della madre.
«Io... io... io voglio... sto cercando...» Helen balbetta e poi tace di nuovo. Alza le spalle sconfortata e torna a girarsi verso il
giardino.
«“Io... io” cosa? Cosa c’è, mamma? Cos’è che non puoi dirmi?
Perché mi punisci ancora in questo modo? Cosa c’è che non funziona in te? Perché non riesci a parlarmi?» Dora è sulla soglia.
Aspetta, con gli occhi spalancati e pieni di lacrime, sperando che
la madre le dica che si sbaglia, si alzi, la prenda tra le braccia e le
sussurri all’orecchio parole di conforto; ma le sue spalle restano
voltate dalla parte opposta e il suo sguardo tenacemente fisso sulle fronde che stormiscono là fuori.
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Dora rimane a guardare ancora un attimo mentre un’altra ondata di rabbia la sommerge, poi si gira ed esce dalla stanza. Deve
fare appello a tutto il suo autocontrollo per non sbattere la porta.
Dora attraversa di corsa il corridoio rivestito da pannelli di
quercia ed esce dal portone d’ingresso nella luce accecante del
pomeriggio. Non sa dove sta andando; sa solo che deve allontanarsi dalla casa e, in un modo o nell’altro, cancellare l’immagine
che ha fissa in mente della faccia della madre tirata e pallida –
quando distoglie lo sguardo da lei e dalla notizia della sua gravidanza. Al momento Dora non riesce a sopportare l’idea di essere
sotto lo stesso tetto di Helen.
Non fa caso a ciò che la circonda mentre un po’ corre e un po’
cammina oltrepassando il giardino e il frutteto prima di imboccare il sentiero fangoso che porta alla scogliera. Il terreno è un pantano, dopo settimane di piogge primaverili, e Dora si concentra
per schivare le pozzanghere sparpagliate lungo il percorso. Le sue
inadatte ballerine sguazzano nell’acqua fredda che le sta già bagnando i piedi nonché l’orlo dei jeans, ma non le importa. Prosegue, a testa bassa, rimuginando su quanto è appena accaduto nel
giardino d’inverno.
La reazione di Helen l’ha profondamente sconvolta. Sapeva
che non sarebbe stata una conversazione facile, ma adesso Dora si
rende conto che aveva almeno osato sperare in qualcosa di più da
parte di sua madre: una parola di gioia e sostegno, nonostante
l’angoscia e il dolore. Invece ha la sensazione che Helen abbia
eretto un’altra barriera tra di loro. C’è una distanza incolmabile
che pare non siano proprio in grado di superare.
Che cosa è successo alla madre che lei si ricorda, quella della
sua infanzia? La mamma che l’accoglieva nel suo letto di notte e
la teneva stretta mentre fuori infuriava il temporale? O che la
spalmava di lozione alla calamina contro il prurito della varicella? Quella che le ricamava il nome sulle divise scolastiche, le preparava il pranzo, le rimboccava le coperte, le lavava le ginocchia
sbucciate, le baciava la fronte quando era febbricitante e le asciugava le lacrime? La madre della sua infanzia sembra non avere
niente a che fare con la donna glaciale seduta nel giardino d’inverno di Clifftops. A Dora viene voglia di piangere per il dolore e
la frustrazione.
Arriva alla fine del viottolo; i cespugli di biancospino su entrambi i lati spariscono e si ritrova sulla scogliera che sovrasta Ly-
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me Bay. Si rende conto di essere inconsapevolmente tornata sui
sentieri che percorreva da bambina. A sinistra c’è la spiaggia, a
destra una vecchia chiesa esposta alle intemperie. Di fronte a lei si
estende il mare calmo e scintillante. Dora guarda la luce del sole
che danza sulla sua superficie, un foglio d’argento che ondeggia
nella brezza. Lentamente il battito del cuore inizia a calmarsi. In
alto, nel cielo, si sta formando una leggera foschia, ma fa ancora
caldo e lei sa che ci sarà luce ancora per qualche ora. “Visto che
sono in ballo...” pensa e con un sorriso amaro svolta a destra e si
dirige verso la chiesa.
È proprio come se la ricorda: un edificio modesto, dipinto di
bianco, con le finestre ad arco dai vetri colorati e una croce di legno tagliata rozzamente appesa sopra l’ingresso. È circondata da
un muretto di pietra diroccato, e sparse qui e là ci sono le lapidi
di un centinaio di tombe, che sembrano spuntare dal terreno come i fiorellini selvatici scossi dal vento. Dora esita solo un attimo
prima di varcare il cancello di legno.
Per un minuto o due si aggira fra le tombe, sfiorando la pietra
tiepida e leggendo i nomi e le date di nascita e di morte dei defunti. Alcune delle sepolture sono ricoperte di vegetazione, con le
lapidi semidistrutte e le parole, un tempo incise nella pietra con
grande cura, erose dalle intemperie e consumate fino a diventare
illeggibili; altre invece sono ben tenute, ornate di mazzi di fiori sistemati con amore a indicare un dolore e un senso di perdita che
ancora perdurano. Dora si rende conto che molti sono marinai,
anime perdute nel mare in tempesta nel corso degli anni. Mentre
si avvicina lentamente alla tomba dei suoi nonni, pensa che le piacerebbe essersi ricordata di portare dei fiori.
Si ferma più o meno nello stesso punto di quindici anni prima,
quando aveva seguito con lo sguardo le bare di Alfred e Daphne
che venivano calate nella terra. Il ricordo di quel giorno è stranamente sfocato ma, stando lì, ripensa alla sensazione della mano
fredda del padre che stringeva la sua, coperta da un guanto. La
presa di Richard era stata spasmodica, come quella di un uomo
che sta annegando. In seguito erano tornati tutti a Clifftops, e Dora si era seduta rabbrividendo sui gradini d’ingresso a guardare
un flusso costante di adulti che arrivavano dal villaggio. Ben presto aveva avuto le guance livide per via dei loro pizzicotti compassionevoli, mentre il frigorifero si riempiva fino a scoppiare di torte e pietanze che quelle persone avevano portato. Dopo un po’ si
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era resa conto che Cassie aveva avuto un’idea migliore. Aveva lasciato perdere la compunta espressione di dolore degli adulti ed
era salita al piano disopra a cercare la sorella.
«Cassie?» Aveva scosso con forza la maniglia della porta della
sua camera.
«Cosa c’è?» era stata la risposta soffocata.
«Posso entrare?»
Aveva sentito un sospiro, seguito dal rumore delle gambe di
una sedia che strusciavano sul pavimento. Quando Dora aveva afferrato di nuovo la maniglia, la porta si era aperta. Cassie si stava
adagiando di nuovo sul letto con una boccetta di smalto in mano.
«Cosa fai?»
«A te cosa sembra che stia facendo?»
Dora sapeva che era meglio non dire niente. Quando Cassie
era di cattivo umore, non ci voleva molto per farla arrabbiare; a
volte anche i commenti più innocui potevano far sì che lei venisse
espulsa dal sancta sanctorum della sorella. Perciò si era seduta
buona buona, osservando a distanza di sicurezza Cassie che si applicava con grande perizia uno spesso strato di smalto nero sulle
unghie dei piedi. La mamma si sarebbe arrabbiata moltissimo.
«Cassie?» aveva osato dire alla fine.
«Eh?» Non si era presa il disturbo di alzare lo sguardo.
«Secondo te cosa si prova quando si muore?»
Cassie si era girata per osservare Dora con i suoi occhi azzurro
ghiaccio, la mano sospesa a metà fra la boccetta e le dita dei piedi.
Per un attimo era sembrato che stesse soppesando la domanda.
«Credo che probabilmente i morti stiano bene. Sai, in pace...
tranquilli...» Si era fermata un istante. «Come quando sei in un
bagno caldo: galleggi, galleggi e non hai niente nella testa.»
«Perciò non fa male?»
«No, quando muori non provi niente. Finisce tutto e basta.»
Dora ricorda di essersi sentita un po’ meglio. Aveva guardato
Cassie che si piegava in avanti e si toglieva la carta igienica arrotolata che le separava le dita, prima di toccarsi le unghie per controllare se lo smalto era asciutto. Apparentemente soddisfatta, si
era girata verso di lei. «Io mi annoio. Vieni?»
«Dove?»
«Fuori. Non riesco a sopportare tutti questi vecchi dappertutto.
È così deprimente.»
Dora non se lo era fatto ripetere due volte. Aveva seguito la sorella giù per le scale, avevano preso cappotti e scarpe ed erano
corse nel giardino sul retro. Avevano attraversato il prato e fian-
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cheggiato il ruscello fino al frutteto, guardando in silenzio i bastoncini che lanciavano nell’acqua scivolare verso il mare.
Dora sbatte le palpebre di fronte all’improvviso assalto di ricordi e, malgrado il sole, rabbrividisce e si cinge il busto con le braccia. Era stato in quel momento che tutto aveva iniziato a sfilacciarsi? Perché era stata solo questione di settimane prima che la
famiglia lasciasse Londra e si trasferisse a Clifftops. Era stato allora
che le cose avevano cominciato a disfarsi? Come un buchino in
un tessuto a maglia stretta, era stato il trasferimento nel Dorset a
tirare il primo filo e a dare il via al disfacimento dell’ordito della
loro famiglia?
Dora abbassa di nuovo lo sguardo sulle tombe dei nonni. Non
ha fiori da lasciare, ma c’è qualcosa che può fare. Si inginocchia e
inizia a strappare le erbacce che sono spuntate intorno alle lapidi,
senza far caso alla terra umida che le bagna la stoffa dei jeans.
Mentre lavora, il suo orecchio si abitua all’alternarsi del flusso e
riflusso delle onde che sbattono contro gli scogli sottostanti. Il rumore è stranamente confortante, come l’andamento regolare del
suo respiro: dentro e fuori, avanti e indietro, il movimento perpetuo delle onde ha un ritmo incessante.
Continua finché non ha strappato tutte le erbacce dal tumulo
di terra che ricopre le bare dei nonni. Poi si alza e guarda verso
l’orizzonte. Il sole sta impallidendo nel cielo e affondando piano
nella terra. Dora sa che deve rientrare in casa. È troppo tardi per
tornare a Londra adesso. Dovrà fermarsi lì per la notte.
Si ricompone, incapace di lanciare anche solo un’occhiata alla
lapide più nuova e lucida accanto a quelle dei nonni e, dando le
spalle alla chiesa, esce dal cancello e poi si dirige verso il sentiero
fangoso che la condurrà a casa.
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