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Giorgio Orelli e il "lavoro" sulla parola. Atti del Convegno
internazionale, Bellinzona 13-15 novembre 2014 a cura di Massimo
Danzi e Liliana Orlando
DANZI, Massimo (Ed.), ORLANDO, Liliana (Ed.)
Abstract
Actes du colloque international de Belinzone sur Giorgio Orelli (Airolo 1921-Belinzone 2013),
le plus important poète, traducteur, narrateur et critique littéraire de la Suisse italienne du XXe
siècle et certainement aussi un des plus remarquables poètes en langue italienne de la
deuxième moitié du XXe siècle.
Reference
DANZI, Massimo (Ed.), ORLANDO, Liliana (Ed.). Giorgio Orelli e il "lavoro" sulla parola.
Atti del Convegno internazionale, Bellinzona 13-15 novembre 2014 a cura di
Massimo Danzi e Liliana Orlando. Novara (Italie) : Interlinea, 2015
Available at:
http://archive-ouverte.unige.ch/unige:84153
Disclaimer: layout of this document may differ from the published version.
Giorgio Orelli
e il “lavoro” sulla parola
Convegno internazionale di studi
COMITATO SCIENTIFICO
Simone Albonico (Università di Losanna)
Ottavio Besomi (Politecnico Federale di Zurigo)
Massimo Danzi (Università di Ginevra)
Pietro De Marchi (Università di Zurigo)
Uberto Motta (Università di Friburgo)
Liliana Orlando (Liceo Cantonale di Bellinzona)
Fabio Pusterla (Università della Svizzera italiana)
Niccolò Scaffai (Università di Losanna)
GIORGIO ORELLI
E IL “LAVORO”
SULLA PAROLA
Atti del convegno internazionale di studi
Bellinzona 13-15 novembre 2014
a cura di Massimo Danzi e Liliana Orlando
INTERLINEA
Volume pubblicato con il sostegno della Fondazione Ulrico Hoepli di Zurigo,
del Fondo generale dell’Università di Ginevra e del Contributo del Cantone Ticino
derivante dall’Aiuto federale per la salvaguardia e promozione della lingua e cultura italiana
© Novara 2015, Interlinea srl edizioni
via Mattei 21, 28100 Novara, tel. 0321 1992282 - 612571
www.interlinea.com [email protected]
Stampato da Italigrafica, Novara
ISBN 978-88-6857-058-3
In copertina: fotografia di Yvonne Böhler
Sommario
Massimo Danzi, Introduzione p. 7
Stefano Agosti, Giorgio Orelli e l’istanza della lettera
Maria Antonietta Grignani, Pedagogia dello sguardo e declinazione
dei colori Silvia Longhi, Le sillabe di Orelli Clelia Martignoni, Per Giorgio Orelli narratore Pietro Gibellini, Pane e coltello: un poeta fra quattro narratori Gilberto Lonardi, Su Orelli che traduce otto versi di Lucrezio Alice Spinelli, “Attraversando” Valeri. Aemulatio e (co-)intertestualità
nel Goethe di Orelli Massimo Danzi, Orelli lettore: genealogia e figure di un “metodo” Christian Genetelli, Per il critico e per il poeta. Giorgio Orelli
lettore di Leopardi Niccolò Scaffai, Un’altra fedeltà: Orelli e Montale Giovanni Fontana, «Gli occhi attenti, contro stipiti saldi, duraturi».
Orelli e Luzi Georgia Fioroni, Orelli e Sereni: un possibile dialogo Yari Bernasconi, Quello che resta nella memoria: L’ora del tempo
di Giorgio Orelli Ottavio Besomi, Il lavoro sulla parola d’altri: gli inediti del Fiore Pietro de Marchi, L’orlo della vita di Giorgio Orelli. Notizie sull’inedito
e proposta editoriale Pietro Montorfani, «Wer redet, ist nicht tot». Prime ricognizioni
nella bibliografia di Giorgio Orelli Giovanni Orelli, Una testimonianza
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»23
»37
»51
»63
»77
»87
»111
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»169
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»209
»223
»243
»255
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Autografo di Primavera a Ravecchia (aprile 2013) poi divenuta L’uomo da marciapiede.
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Introduzione
In occasione della festa per i novant’anni di Giorgio Orelli, svoltasi in questa
stessa sala nel maggio del 2011, in diversi c’eravamo detti che occorreva affrontarne il lungo “lavoro” letterario in una sede scientifica. Ora che Orelli ci ha lasciato, questo compito è parso anche più urgente. Sappiamo tutti la velocità con
cui il presente diventa passato; e questo si perde inesorabilmente. Quando, nel
2008, Orelli ricevette l’importante premio della Banca della Svizzera italiana,
toccato in precedenza a Contini, Isella, Amerio, Pozzi e altri studiosi, a tenere la
laudatio fu chiamato il romanista Cesare Segre, da molti anni amico del poeta.
Segre ha lasciato una sua autobiografia, nella quale a un certo punto si chiede
che cosa dei nostri studi sarebbe rimasto dopo la morte. E la conclusione era
una: occorre sempre ricominciare, perché nella memoria collettiva come nel
diritto dei popoli nulla è iscritto per sempre. Questo è il compito di chi rimane,
di operare cioè perché il rapporto tra presente e passato non venga cancellato
dalle sirene dell’attualità e chiara, o più chiara possibile, resista la coscienza
della nostra storia, delle nostre radici. Giorgio Orelli credeva nella forza delle
radici, non solo di quelle leventinesi o bellinzonesi (pur così importanti per lui);
ma di quelle che, in un artista, emergono con il lavoro “onesto” degli anni che
non è altro che lo sforzo per essere se stesso tirando l’acqua al proprio mulino:
lavoro “onesto” perché fedele alla natura e alla propria profonda aspirazione.
Concepiva, Orelli, e lo ha scritto parlando di artisti che ha amato, un lavoro intellettuale come chiarimento di sé, dei propri motivi esistenziali e della propria
ansia conoscitiva: «A un artista», scrisse a proposito del bleniese Ubaldo Monico, «preme di consegnare nient’altro che l’immagine che porta nell’anima». E, a
proposito dello scultore Giovanni Genucchi, altro bleniese ma questa volta nato
a Bruxelles, osservò: «La forza di Genucchi è nella ricchezza (devo proprio dir
così) della sua povertà, della sua umiltà, nella profonda onestà che gli permise
di non recitare farse con se stesso, prima che con gli altri, tradendo le proprie
radici. Veramente la sua anima si prolunga nelle opere». Viene in mente un
autore molto caro a Orelli, che si interrogava sul nuovo “ordine” che l’artista
impone alle cose: «Comment une œuvre remarcable sortirait-t-elle de ce chaos»,
scriveva Paul Valéry, «si ce chaos qui contient tout ne contenait aussi quelques
chances sérieuses de ce connaître soi-même?» (ed. Pléiade, vol. I, p. 1335). In
Italia, queste parole ci riportano a un poeta come Saba, che Orelli incontrò a
Milano, in un’osteria di via XX Settembre per la mediazione di Vittorio Sereni,
un’«unica indimenticabile volta» (così ricorda in Quasi un abbecedario, p. 53)
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Massimo Danzi
e alla sua «poesia onesta», che per il poeta triestino significava «non travisare
il proprio io e non ingannare con false apparenze quello del lettore». «Benché
esser originali e ritrovar se stessi siano termini equivalenti, chi non riconosce»,
scriveva Saba in Quello che resta da fare ai poeti (del 1911 ma pubblicato solo
nel 1959), «che il primo è l’effetto e il secondo la causa?» C’è molto di Saba in
questa posizione di «poesia onesta» brandita da Orelli, in quel suo (è ancora
Saba) «mantenersi puri ed onesti di fronte a se stessi» senza paura di «ripeter se
stessi». Lo si rilegga e si capirà perché, e quanto, quell’unico incontro milanese
restò fissato nella memoria del poeta.
Un tale modo di vedere le cose attesta naturalmente (e così era anche in
Saba) una posizione morale, in cui “barare” è, prima di tutto, “barare con se
stessi”. Ciò vale anche per i poeti, la cui personalità risulta negli anni da un
“lavoro” che rende lo stile vieppiù personale e riconoscible. Di questo “lavoro”,
teso a far emergere la propria profonda natura e ispirazione, ha scritto sempre
Valéry sottolineandone la complessità e la completezza. E, dalla sua Firenze, il
poeta e francesista Mario Luzi, amico da sempre di Orelli, gli ha fatto eco, ricordando il «lavoro enorme che attende [il poeta] per ritrovare il suo suo gesto,
la sua voce essenziali» (L’inferno e il limbo, Il Saggiatore, Milano 1964, p. 14).
Solo a questo prezzo, di un “lavoro” condotto senza fretta (come voleva Orelli),
l’opera che risulta è poi il «prolungamento dell’anima del poeta».
Il convegno che si apre oggi fa centro su un poeta che in molti abbiamo conosciuto. Per una ragione o per un’altra (il destino è sempre per metà frutto del
caso e per metà altra cosa) a vari di noi è toccato in sorte di frequentarlo. Ad
altri, tra Bellinzona e Prato, di incontrarlo e scambiare parole, che poi – con
lui – due non erano mai perché Giorgio Orelli è stato un interlocutore straordinario, posseduto da un «bisogno di esprimersi» nel quale Segre ha riconosciuto
senz’altro «la prima spinta all’invenzione critica e alla poesia». Questo non è
dunque solo un convegno “accademico” (quale anche sarà), ma un’assemblea
di amici che alle ragioni della letteratura uniscono quelle di una lunga e amistosa fedeltà all’autore, per la prima volta espondenole al pubblico. Un pubblico
– sappiamo – non fatto solo di specialisti e che ha, negli anni, sentito la figura
di Orelli, e ora forse con maggior forza la sente, come parte del suo mondo. Il
mondo di Orelli è stato un mondo di uomini e di rapporti umani, prima che di
libri e di letteratura: di scavo e di ricerca interiore perché, come ha scritto con
grande semplicità, «uno scrittore consapevole che la vita è una sola, sa che fuori
dalla conoscenza di sé non c’è scampo» (Quasi un abbecedario, p. 32).
Anche fuori del suo borgo e della scuola, dove ha insegnato per quarant’anni, Orelli era amato: ricordo l’amicizia con poeti come Montale, Sereni, Luzi
o Fernando Bandini. O con studiosi come Gianfranco Contini, suo maestro
friburghese, Cesare Segre, Maria Corti, Stefano Agosti o lo storico dell’arte Roberto Longhi; e da noi, fra tutti, Virgilio Gilardoni, creatore, qui a Bellinzona,
dell’“Archivio Storico Ticinese” e storico tra i più esposti e vigili del nostro
Paese. Ma potrei ricordare anche un buon numero di artisti: Cavalli, Moni-
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Introduzione
co, Genucchi, Selmoni, Bolzani; ma anche Boldini, Carrà, Rosai o Italo Valenti, che disegnano una “storia” parallela e altrettanto ricca del poeta. Accanto
però a questi amici, Orelli faceva posto anche a persone che non immaginiamo.
Nell’ultimo libretto Quasi un abbecedario, parlando molto seriamente della scarsa considerazione in cui i commenti ai poeti tengono il fatto acustico, strizza con
ironia l’occhio al portinaio della Scuola di Commercio (che molti di noi ricordano) e con il quale, dopo le lezioni, si intratteneva spesso. Sentite il tono delle sue
parole: «È curioso (tristemente significativo, diceva il portinaio della mia scuola)
che nei commenti si ignori questo fatto» ecc. Questo era l’uomo.
A lato di questo convegno, abbiamo voluto una mostra che raccogliesse i fili e
gli intrecci anche di quest’altra storia “culturale” che, come accade nei migliori
momenti, travalica i confini del Cantone per incunearsi negli spazi di una cultura
senza muri. Qui i fili s’intrecciano, perché ciò che la mostra documenta è posto
sotto la lente del convegno: penso all’attività del traduttore, del critico, del poeta
o del narratore. Uomo sostanzialmente legato a due soli luoghi, Bellinzona e Prato
Leventina, Orelli ci invita, in realtà, a un dialogo costante con l’Italia di Gadda,
Sereni, Montale, la Germania di Goethe o dell’amato Hölderlin o la Francia di
Baudelaire, Mallarmé, Valéry o René Char. Da critico, poeta o traduttore Orelli
ha trovato editori illuminati, che hanno saputo rispettare i tempi e lo spirito che
erano i suoi: Scheiwiller, Casagrande, Mondadori, Garzanti o Einaudi. Con tutti
ha dialogato nei suoi scritti intensamente durante decenni. Vi invito dunque a
percorrere la mostra, che si aprirà dopo le relazioni di questo pomeriggio.
Ma torno alla poesia e alla letteratura, il campo che Orelli ha arato, seminato
e nel quale ha raccolto il frutto di settant’anni di “lavoro”. Con la doppia appartenenza dello svizzero italiano, Orelli è entrato, dopo gli anni universitari di
Friborgo, nel Novecento italiano con il passo sicuro di un “lavoro” nutrito dalla
fede nella poesia. Da anni, è riconosciuto come une dei «poètes véritables» del
secondo Novecento, nonché riferimento certo per chi scrive, fino alle generazioni attuali. Per questo, la parola “lavoro” compare nel titolo di questo convegno
e della mostra. Travail è stata parola molto cara a Valéry che con essa esprimeva
la sua decisa opposizione alla nozione, troppo vaga e fumosa, di “ispirazione”. E
la parola trattiene, anche per Orelli, tutto il segreto, l’industrioso segreto dell’artigianato verbale del poeta.
L’accostamento di “poesia” e “lavoro” risulta forse ancora ostico a qualcuno.
L’idea un poco metafisica dell’“ispirazione” che di colpo invade il poeta è dura
a morire. Non contentava critici come Valéry, che le aveva preferito la nozione
(decisiva anche in Orelli) di faire: «faire des vers». Così come non accontentava
molti poeti e scrittori. Sentite cosa scrive al proposito Gottfried Benn, ricordando come i giornali del suo tempo ospitassero spesso le poesie dei lettori:
nel nostro paese vi è una vasta schiera d’individui che se ne stanno a scriver versi da
inviare ai giornali; e i giornali, a loro volta, sembrano convintissimi che il pubblico dei
lettori desideri poesie, se no impiegherebbero altrimenti il loro spazio. Non mi occuperò, oggi, di tali poesie occasionali […] ma sono partito da questo spunto perché alla
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Massimo Danzi
base di tale fatto sta una ragione d’essere collettiva: […] la maggioranza del pubblico
vive ancora con la convinzione che una poesia nasca semplicemente così: ecco un paese
selvaggio o un tramonto del sole, ed ecco un giovane o una ragazza d’umore un po’ melancolico. Ebbene, no! così non nasce nessuna poesia; una poesia sorge, in genere, molto
di rado, una poesia viene “fabbricata”: «ein Gechicht wird gemacht» nell’originale (in
“Aut-Aut”, 9, 1952, p. 199).
Lo scritto di Benn ci parla del “lavoro” del poeta, della consapevolezza e del controllo che richiede la composizione di un testo e che il poeta tedesco sentiva come
un «tratto decisamente moderno», estendendolo, del resto, alla musica, alla pittura, all’arte. Anche per Benn, la sperimentazione dell’artista è sperimentazione essenzialmente “formale”. Nei grandi autori, in poesia come nella musica e nell’arte,
è la “forma” a individuare uno stile, a profilare e rendere riconoscibile un artista.
Si pensa ancora a Valéry, così decisivo nel secolo che è stato di Orelli: «Une alliance intime du son et du sens, qui est la caractéristique essentielle de l’expression en
poésie, ne peut s’obtenir qu’aux dépenses de quelque chose, – qui n’est autre que
la pensé. Inversement, toute pensée qui doit se préciser et se justifier à l’extrême
se désintéresse et se délivre du rythme, du nombre, des timbres» (I 455). In questo
sta, per Valéry, il singolare lavoro di traducteur del poeta, che «traduit le discours
ordinaire, modifié par une émotion, en “langage des dieux”»; un “lavoro”, che
«consiste moins à chercher des mots pour ses idées qu’à chercher des idées pour
ses mots et ses rythmes prédominants» (ed. Pléiade, vol. I, p. 212). “Poesia”, “prosa”, “suono”, “senso”, “ritmo”: siamo davanti ai concetti cardine del “lavoro” e
della riflessione di Giorgio Orelli.
Ho ricordato Benn, perché (con Hölderlin e Goethe) è fra i poeti frequentati
da Orelli. Ma l’idea che una poesia non nasca ma sia “fabbricata” si trova prima
che in lui nell’amato Dante che parla di fabricatio trattando della canzone antica
nel De vulgari eloquentia. E ritorna poi, di nuovo, in Valéry, che parla di «fabrication de l’oeuvre». Un’idea, insomma, che era di alcuni e che, sentendo l’opera
come il risultato di un artigianato (di «artefatto» parla Orelli) segna un equilibrio maggiore tra momento compositivo e risultato raggiunto, interpretando il
“fare” come viatico al perfezionamento del testo: «ce travail d’approximations»
come diceva ancora Valéry.
Giorgio Orelli è stato, in questo senso, un grande artigiano della parola. Ha
lavorato a perfezionare poesie, racconti, traduzioni per anni, senza pubblicarli
o pubblicandone pochi e scartandone molti. La radice di questa lentezza, che
il poeta rivendicava nella scrittura come nella lettura che doveva essere (con
aggettivo continiano) “minuziosa”, spiega certo le numerate raccolte poetiche
da lui licenziate. Ma forse più spiega che egli si annoveri senz’altro tra i poeti del
secondo Novecento che più hanno accompagnato il “fare” con un’alta “coscienza del fare”: il mestiere con uno sguardo attento sul mestiere. Non era questo
un fatto scontato nell’Italia degli anni cinquanta, quando ancora pesava il giudizio di Croce sui capostipiti di quella riflessione, i vari Mallarmé, Valéry ecc.,
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Introduzione
bollati come «cerretani dalle idee pseudofilosifiche». Anni fa, Alfredo Giuliani,
poeta del Gruppo ’63 e curatore dei Novissimi, testo fondamentale della neoavanguardia italiana, affidava a una provocatoria stroncatura del grande poeta
Thomas Stearns Eliot questa considerazione, malgrado tutto, ancora attuale:
«Faccio notare», scriveva Giuliani liquidando come snobistica l’attenzione di
Eliot alla tecnica e alla retorica della poesia, «che in quell’epoca prestrutturalista, presemiologica, ottusamente “realistica”, del mestiere, da noi non parlava
pressoché nessuno. A sentire i critici e gli stessi poeti, sembrava che la poesia discendesse direttamente dalla Grazia» (Eliot nella terra desolata. Quasi una
stroncatura, in “la Republica”, 18 settembre 1988).
Orelli è dunque stato tra i non molti poeti del Novecento che del proprio
mestiere hanno scritto a fondo e con passione, accompagnando il suo lavoro di
poeta e narratore con la lettura attenta di altri scrittori e poeti. E gli siamo grati.
Appena possiamo immaginare cosa sarebbe la conoscenza di Dante senza la sua
riflessione linguistico-retorica o l’esegesi leopardiana senza le aperture dello Zibaldone o la poesia del Novecento (e non solo) senza le riflessioni di Mallarmé,
Eliot, Valéry o Pound. In Italia, una tale “coscienza del fare” inizia con Dante e
passa poi per Petrarca, Tasso, Leopardi o Montale. Sono autori che Orelli, forse
non per caso, ha privilegiato nelle sue raffinate “auscultazioni” critiche. Ma lo
stesso, mi pare, vale per il traduttore: non è un caso che Goethe, abbia costituito
per lui un vero “laboratorio” o che si sia provato, lasciando poi in gran parte
inediti quei testi, a tradurre il difficile Mallarmé.
La modernità letteraria, che Baudelaire inaugura, è stata anche il tempo della
riflessione sul “lavoro” letterario. Da Mallarmé, Proust o Valéry è derivata a
noi – nani sulle spalle di giganti – quella moderna “coscienza del fare”, che in
vari campi della creazione artistica è tra gli acquisti più vivi della cultura europea. Allievo di Gianfranco Contini, che aveva scritto di Proust e Mallarmé fin
dal 1947, Orelli si era familiarizzato per tempo con questa riflessione, che nel
maestro si accompagnava a una dimensione militante della letteratura. Altri fatti
aveva annusato col fiuto del poeta. Nel 1943, l’esordio del saggio di Contini
sulle “correzioni” del Petrarca volgare lo aveva certo segnato: «La scuola uscita
da Mallarmé e che ha in Valéry il suo teorico considera la poesia nel suo farsi e
l’interpreta come un “lavoro” perennemente mobile, di cui il poema “storico”
rappresenta una sezione possibile, non necessariamente, l’ultima». Contini pensava certo al caso del Cimetière marin, che Jacques Rivière sottrae un bel giorno
a Valéry, mentre l’autore vi sta lavorando, e pubblica in rivista fissandone così
il testo. Ma anche su altri fronti, la formazione friborghese era stata ricca. Se
pensiamo al rilievo della linguistica di Ferdinand de Saussure, alla conoscenza
che Contini ebbe presto di Roman Jakobson e all’amicizia con l’esule Emile
Benveniste o, per altro verso, al rapporto diretto con quelli che chiamava i «big
four» – Saba, Cardarelli, Ungaretti, Montale – intuiamo l’apporto e la sensibilità
che agli allievi veniva in dono dal maestro friborghese.
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Massimo Danzi
Gli ambiti che convegno e mostra toccano sono stati da Orelli sentiti come profondamente connessi e complementari. Prosa e poesia ai suoi occhi non correvano su binari troppo diversi e un poeta era per lui, come ancora Valéry voleva,
prima di tutto anche un critico. Così, la sua poesia è andata negli anni verso il
racconto e la prosa si è liricizzata, mentre il traduttore toccava nel vivo la lingua
sulle pagine dei grandi autori. Di ciò un convegno doveva tenere conto. Lo
abbiamo fatto con gli interventi che il programma evidenzia: nel pomeriggio
di giovedì la poesia, venerdi mattina prosa, traduzioni e critica letteraria, nel
pomeriggio il dialogo con i poeti moderni; sabato una serie di “lavori in corso”,
che apriranno su quella parte dell’opera che l’autore non ha potuto licenziare
in vita e alla quale lavorava alacremente ancora nei giorni della sua scomparsa.
A render conto di questa lunga attività intellettuale e di questo intreccio di
piani saranno colleghi a lui legati, negli anni, da sicura amicizia. Con una particolare affettuosa menzione per il cugino Giovanni Orelli, vicino a Giorgio per
molti motivi e che qui ha accettato di essere presente con una testimonianza.
Che mi sia concesso, ora, mentre andiamo verso la prima relazione dovuta al
più caro amico di Giorgio, di ringraziarli per l’entusiasmo con cui hanno aderito
a questa iniziativa. Ringrazio, insieme ai relatori, anche il comitato scientifico,
formato dai colleghi delle Università della Svizzera italiana, di Losanna, di Friborgo, dell’Università e del Politecnico di Zurigo, che con me hanno disegnato
la mappa del convegno; e in particolare Enrico Lombardi e Fabio Pusterla, che
hanno pensato alla “serata” di lettura di venerdì 14 novembre; e quanti hanno
collaborato all’organizzazione, con una concordia e accelerazione che ha avuto,
nelle ultime settimane, del meraviglioso: particolarmente Liliana Orlando, Pietro Montorfani e Sveva Frigerio. A Lucas Häfliger e Fabrizia Gendotti, autori
del manifesto che reca la bella fotografia di Yvonne Böhler, va la nostra gratitudine per un lavoro svolto, spesso, in tempi brevissimi. Ma un convegno non
poteva farsi senza il contributo generoso degli sponsor: ringrazio in particolare
il Dipartimento Cultura del Canton Ticino e i membri della “Commissione culturale” per il contributo finanziario derivante dal “Supplemento federale per
la promozione della Cultura e della lingua italiane”; la città di Bellinzona, nelle
persone del responsabile del Dipartimento cultura Roberto Malacrida e di Barbara Perini-Venzi; il Comune di Prato Leventina, sensibile e fiero nell’omaggio
al suo poeta. Finanziamenti ci sono venuti anche dalle Universtà di Ginevra,
della Svizzera italiana e di Friborgo, che nel 1991 ha conferito a Orelli il dottorato h.c. E un apporto decisivo da quelle di Losanna e Zurigo, che con il Politecnico Federale sono presenti nel Comitato scientifico. Ricordo infine e ringrazio
per il generoso sostegno e la sensibilità dimostrataci il “Gruppo Coop”, presente con la direttrice della Sezione cultura Monica Piffaretti e con Samantha
Dresti; e con esso due Fondazioni benemerite: la “Fondazione Carlo Danzi per
lo sviluppo dell’alta Leventina” e la “Fondazione per la cultura del Locarnese”.
Infine, ultimi solo per le leggi dell’ospitalità, la Scuola cantonale di Commercio
e il Liceo cantonale di Bellinzona, istituti dove Giorgio Orelli ha insegnato tutta
la vita e che ci premeva vedere coinvolti in questo omaggio. A tutti, istituzioni,
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Introduzione
enti pubblici e privati, nonché al pubblico presente va la nostra gratitudine,
nella speranza che la manifestazione si riveli all’altezza dell’uomo che abbiamo
inteso onorare e della passione che, per tutta la vita, lo ha animato.
Massimo Danzi
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STEFANO AGOSTI
Giorgio Orelli e l’istanza della lettera
In questa comunicazione commemorativa mi occuperò solo della poesia di
Giorgio Orelli, anche se la titolazione che esibisce la «lettera» come perno del
discorso potrebbe convenire, con pari legittimità, a quello che è stato il suo
lungo percorso critico.
E per déblayer le terrain circa il senso, il valore, la funzione della lettera nel
testo, e in particolare nel testo poetico, mi affiderò subito ad alcune citazioni,
atte ad eliminare ogni sovrabbondanza esplicativa.
E, per esempio, a questa, da Mallarmé (tratta dalla grande prosa che porta
il titolo significativo di Le Mystère dans les lettres, ove «les lettres» sono, sì,
sinonimo di letteratura, ma in quanto si riferiscono proprio alle “lettere dell’alfabeto” di cui è fatta quest’ultima, e al loro “mistero”): la profondità del testo,
il segreto della sua profondità, che Mallarmé designa attraverso l’espressione
squisita di «miroitement, en dessous», tal segreto è (cito) «peu séparable de
la surface concédée à la rétine»: tradotto in termini volgarmente comunicativi
questo significa: la superficie del testo incorpora la sua stessa profondità (il che
può ricordare altresì quanto Valéry, nel suo provocatorio gusto del paradosso,
affermava circa il corpo umano, e, in definitiva, circa l’organismo: «la profondeur de l’homme, c’est sa peau»).
Su questa profondità di cui la lettera si fa depositaria, allineo ora tre straordinarie dichiarazioni di Lacan, dal volume postumo Autres Écrits.
La prima: «la pratique de la lettre converge avec l’usage de l’inconscient»:
affermazione che possiamo considerare del tutto corrispondente, sia pure in
termini psicoanalitici, alla citazione mallarméana;
la seconda riferisce, in formulazione stupenda, come il dire più proprio del
Soggetto sia quello sottratto al suo stesso sapere: e corrisponde sia alla parola associativa dell’analisi sia alla stessa parola poetica, in quanto di questa permanga
un resto (sottolineo questo vocabolo) situato fuori dalla competenza riflessa del
Soggetto: «tout ce qui est de l’inconscient, ne joue que sur des effets de langage.
C’est quelque chose qui se dit, sans que le sujet s’y représente [traduco: è qualcosa che viene detto senza che il soggetto vi sia rappresentato], n’y qu’il s’y dise
[né che vi si esprima] ni qu’il sache ce qu’il dit [né che sappia quello che dice]».
Qui rinvio a quanto, dianzi, ho affermato circa il «resto», il «residuo» del dire
sottratto al Soggetto;
ed ecco la terza citazione, ove si sottolinea, del tutto sintomaticamente per
noi, proprio l’ambiguità di una parola – associativa e/o poetica – di cui una
parte non è altro che la materia stessa del dire, nella quale si pronuncia quella
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Stefano Agosti
profondità di cui il Soggetto è proprietario senza esserne il “maître”: «le dire, le
dire ambigu de n’être que matériel du dire [traduco: quel dire ambiguo che è
solo il materiale, la materia del dire], donne le suprême de l’inconscient dans
son essence la plus pure».
Del resto, di una «pratica della lettera» come connaturata al proprio dettato
poetico, Orelli espone lui stesso l’istanza nella bandella editoriale, firmata con
sigla, di Il collo dell’anitra: in particolare sul valore e il senso della lettera /i/.
Entrando ora, dopo queste premesse, nel cuore del discorso, devo avvertire
che, inizialmente, parlerò, anzi ri-parlerò (avendone già trattato in precedenti
interventi) soprattutto di due modalità secondo le quali si svolge questa «pratica
della lettera».
La prima modalità è quella che, ancora Mallarmé, designa come «allitterazione dissimulata», e il cui esempio per noi è fornito da una lettura effettuata
da Ungaretti su Leopardi, e precisamente su un punto di A Silvia, nel quale egli
individua il segreto della «musica» leopardiana. Il punto è il seguente:
Mirava il ciel sereno
le vie dorate e gli orti:
ove il gruppo timbrico /OR/ figura distribuito diversamente nei due vocaboli
che lo ospitano: in «orti», è in posizione di sillaba compiuta, provvista di accento tonico-ritmico; mentre, in «dorate» risulta spezzato e distribuito su due
sillabe, atona e accentata.
Ed ecco a raffronto l’incipit del famoso Frammento della martora (da L’ora
del tempo), in cui l’allitterazione dissimulata si esercita (non certo casualmente)
su affine gruppo timbrico, incorporando, per di più, il lessema della titolazione
del volume:
A quest’ora la martora chissà
dove fugge:
ove il gruppo /ORA/, costitutivo del sostantivo in forte posizione ritmico-accentuativa, si ripresenta in «martORA», ma in posizione totalmente atona.
La seconda modalità della «pratica della lettera» in Orelli, è quella che, altrove, abbiamo definito della «lettera come nodo di senso»: è il lacaniano “significante” in quanto «noeud de signification». Di fatto, si tratta di una catena
simbolica che incalza il Soggetto (ecco il “dire” citato prima, del quale il Soggetto non è direttamente consapevole), catena in cui il Soggetto – proprio come
Edipo – si trova irretito.
Qui Lacan, pur non frequentato da Giorgio, sembra inserirsi nel cuore del
suo operare poetico, della sua, chiamiamola pure, “ossessione” della verbalità.
Ora, la catena simbolica precitata risulta spesso, anzi quasi sempre, mimetizzata nelle pieghe dell’ironia, e magari del sarcasmo o dell’amarezza. E tuttavia a volte si pronuncia – sicuramente grazie alla complicità o al consenso del
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Giorgio Orelli e l’istanza della lettera
Soggetto – come manifestazione, o sintomo, della sua costituzione morale più
propria: quella che ha la radice nel tragico – spesso dissimulato e magari quotidiano – dell’esistere.
Tale, ad esempio, è la catena simbolica che emerge, sia pure per segmenti,
in una delle bellissime poesie della sezione Con Mimma, nel Collo dell’anitra.
Si tratta della poesia che inizia: «Non conosco l’azzurro / tuo preferito», ove la
serie cromatico-simbolica circoscrive successivamente, come «nodo della lettera», o anello della catena, non più l’azzurro ma il colore giallo: quello, però, non
di forsizia o mimosa – dice il testo –, ma di ginestra o corniolo, finendo poi per
incarnarsi nella (cito)
nuova
farfalla che a un tratto ritorna
gialleggiando con altra
dove lucertole vagano liete
fra i nostri resti mortali.
Si tratta, in definitiva, dello stesso nodo (e qui torno a ripetermi) rappresentato dall’immagine «fitti argenti» che figura nella poesia Dopo Lucca (da Sinopie),
e che, successivamente a varie migrazioni sulle cose e sugli aspetti del mondo, si
conclude e si fissa (ancora in riferimento a uno dei più sublimi emblemi del tragico, il sarcofago di Ilaria del Carretto, a Lucca, di Jacopo della Quercia), si fissa
dunque (cito) sulle «punte dei piedi d’Ilaria / toccate da una luce di bufera».
E vengo, finalmente, alla parte nuova di questo intervento.
Essa riguarda una poesia, Ragni, pubblicata in una preziosa plaquette d’arte,
con serigrafie di Nathalie du Pasquier, inviatami da Mimma insieme a un biglietto per me, scritto da Giorgio, il «giorno prima» (dice Mimma) di «passare di là».
Naturalmente quanto sto dicendo è autorizzato da Mimma, cui esprimo di
nuovo, qui, tutta la mia riconoscenza, soprattutto per il dono che mi ha fatto del
citato biglietto di Giorgio.
Eccone il contenuto, che trascrivo con emozione:
Caro Stefano,
Bellinzona, 8 nov. 2013
questi Ragni (:)
aspettano te quelque part.
Con affetto
Giorgio
Ebbene, ho assunto le parole di Giorgio come una sorta di legato testamentario, cui ottempero ora, proprio in rapporto ai citati Ragni, con la presente
relazione o, meglio, lettura.
Dico lettura in quanto la poesia Ragni presenta una tale rete di rapporti della
lettera (allitterazioni, orizzontali e verticali, iterazioni di timbri, rime interne
17
Stefano Agosti
ecc.) che immediatamente mi rimanda alla lettura eseguita da Giorgio sul Sabato
del villaggio (Per leggere «Il sabato del villaggio», in Accertamenti verbali). Nel
Sabato, la lettura di Giorgio rileva infatti una (cito) «così fitta […] rete di rime,
assonanze, chiasmi ecc. che quasi tutte le parole del Sabato [vi] sono intricate».
Ebbene, lo stesso si verifica qui, ove quasi tutte le parole del testo sono implicate – come si è detto – in un reticolo fittissimo di relazioni, delle quali sarà
proprio la «lettera» – nei valori che le abbiamo assegnato – a determinare la
profondità.
Si riconfermerebbe così la citazione da Tolstoj avanzata da Giorgio al principio della sua lettura, citazione ricavata da Lotman, e che qui riproponiamo
per la sua stupefacente pertinenza al caso: «quell’infinito labirinto di concatenazioni, nel quale consiste l’essenza dell’arte» (in Lotman, La struttura del testo
poetico, Mursia, Milano 1972, p. 18).
Di questo reticolo, di queste «concatenazioni», che provvediamo a evidenziare con la maiuscola nei loro svariati occorrimenti – cui fa séguito, in esponente, il numero del verso –, do ora un regesto, solo essenziale, unitamente alla
riproduzione del testo.
Ragni
Da quando? se da giorni
e giorni, mesi ormai,
mentre riposo li osservo
e scordo e non senza stupore
riscopro: ombre d’acheni,
più piccoli di mezza formichetta
smarrita nell’acquaio: sempre lì,
lontano quanto basta dalla lampada
che ha bruciato l’incauto calabrone,
diàfani a furia di guardarli, quasi
trascoloranti in rosa:
chi sa mai se lo sanno
d’essere l’uno a una spanna dall’altro
come due nèi su una schiena,
inquilini abusivi del soffitto,
strani compagni della mia vecchiaia:
sempre lì, sempre soli, senza preda,
una volta soltanto
è arrivato dal Nord
un ragno d’altro rango,
quasi robusto, nerastro,
è passato col fare inquisitorio
d’un commissario
tra i due come se fossero
sorvegliati speciali,
senza distrarli, è sparito
in fretta nel gran bianco,
18
5
10
15
20
25
Giorgio Orelli e l’istanza della lettera
e dunque non li ha visti
sincronici calarsi,
sostare penzolando
nel vuoto dove nemmeno si sognano
di cercare un appiglio
per una tela: intenti alle filiere
troppo presto esaurite e come
saggiando il peso d’essere, il mistero,
già pronti a risalire divorando
filo e distanza:
per fingersi di nuovo
due punti nei dintorni
di me.
30
35
40
Da1 – quanDo1 – Da1
giORni1 – giORni2 – ORmai2 – scORdo4 – stupORe4
ripOSo3 – OSServo3
sCOrdo4 – risCOpro5 – aCHEni5 – piCCOli6 – formiCHEtte6 – aCQUAio7 – QUAnto8
– inCAUto9 – CAlabrone9 – QUAsi10
lontAno quAnto bAsta dAlla lAmpAdA
che hA bruciAto l’incAuto cAlAbrone
diAfano a furia di guardArli, quAsi
quasi : rosa (rima impf.) : vv. 10-11
quaSi10 – roSa11 – Sa12 – Sanno12 – d’eSSere13
sANNo12 – spANNa13
Uno13 – Una13 – dUe14 – sU14 – Una14
NÈI14 – schIENa14 (palindromo)
InquIlInI abusIvI del soffItto
stRANI16 – compAGNI16 (-- RAGNI)
SEMPRE lì SEMPRE lì SENza PREda17
una vOLTA sOLTAnto18
un RAGNO d’altro RANGO20 (anagramma)
AlTRO20 – nerAsTRO21 (sostituzione di lettera)
robuSTo – neraSTro21
arrivATO19 – passATO22 (rima interna)
inquisitORIO22: commissARIO23 (rima impf.)
SPeciali25 – SParito26
speciALI25 – distrArLI26
viSTi28 – soSTare30
nel vuoto dove nemmeno si sognano31
calARsi29 – sostARe30
sostARE30 – cercARE32 (rima interna)
per una TEla inTEnTi alle filiEre33
i tre endecasillabi, vv. 8,9,10
scanditi ritmicamente dalla
lettera /a/
unico endecasillabo di 7ma, e
immune da relazioni timbriche
allitterazione e accentazione
ritmica sulla /e/
19
Stefano Agosti
Troppo presTo esauriTe34
riprende l’allitterazione sulla
dentale sorda del verso prece-
dente, ma su posizioni atone
troPPo34 – Presto34 – Peso35
Saggiando il peSo d’eSSere il miStero35
saggiANDO35 : divorANDO36 (rima interna)
FIlo37 – FIngersi38
DIstanza37 – DI nuovo38 – Due39 – DIntorni39 – DI me40
allitterazione continua sulla
dentale sonora /d/, la stessa
dell’incipit
Del reticolo evidenziato, sottolineerò ora alcuni fatti ove l’eminenza della lettera, pur nelle funzioni che le abbiamo assegnato, si associa ad effetti particolari.
Così, ad esempio, l’allitterazione dell’incipit sulla dentale sonora, la /d/, «da
quando? se da giorni», viene ripresa – come abbiamo segnalato – nei versi finali
con effetto, appunto, di strutturazione timbrica circolare del testo: «per fingersi
di nuovo / due punti nei dintorni / di me». Circolarità ribadita per di più dalla rima «giorni» : «dintorni», che risulta inoltre l’unica rima in senso proprio
dell’intero componimento.
Oppure si pensi ai tre splendidi endecasillabi in successione (vv. 8-10), già
sottolineati nel regesto, tutti ineccepibilmente scanditi, dal punto di vista ritmico-timbrico, sulla lettera /a/ (probabilmente sulla traccia, o dietro il ricordo, di
alcune memorabili sillabazioni, proprio sulla lettera /a/, di Petrarca, quale ad
esempio, «piága per allentár d’árco non sána», sillabazione corroborata dall’occorrimento centrale, sulle sillabe sesta e settima, dell’allitterazione /TAR/ - /
D’AR/,associata alla variante della dentale, sorda-sonora). Ecco i tre versi, con
coda di settenario con accento portante ancora sulla /a/, il primo scandito secondo uno stupendo ritmo giambico:
lontano quanto basta dalla lampada
che ha bruciato l’incauto calabrone,
diàfani a furia di guardarli, quasi
trascoloranti in rosa.
Ma si può segnalare anche, per una sorta di prova a contrario, l’unico verso
del componimento che risulta immune da quello che possiamo anche chiamare
il “lavoro della lettera”. Si tratta del verso 31, notificato nel regesto:
nel vuoto dove nemmeno si sognano.
Ebbene, si tratta – ripetiamo – del solo endecasillabo presente nel testo con
accento di 7ma. Che è, se vogliamo, il tipo più raro di endecasillabo, cui si affidano, da Dante a Foscolo a D’Annunzio, funzioni ritmico-espressive svariatissime. Nel caso di Giorgio, possiamo notare che, in questa stessa comunicazione,
ci siamo già imbattuti in un endecasillabo di 7ma. E precisamente in quella poe-
20
Giorgio Orelli e l’istanza della lettera
sia dedicata a Mimma che abbiamo citato, e di cui abbiamo evidenziato i nodi
della struttura simbolica:
dove lucertole vagano liete
fra i nostri resti mortali.
E tuttavia, il «nodo della lettera», in Ragni, detiene una valenza tutta particolare.
Nell’ultimo libro scritto, La chambre claire. Note sur la photographie, dedicato alla memoria della madre ed esattamente all’immagine di lei, che tuttavia non
viene mai mostrata, Roland Barthes distingue due elementi nella rappresentazione fotografica: lo studium e il punctum.
Lo studium è il quadro formale entro il quale si dispone l’immagine stessa:
la luce, la composizione, l’inquadratura ecc.: è, insomma, quanto definisce la
foto come produzione riflessa e, per lo meno nelle intenzioni, d’ordine artistico.
Il punctum è, invece, quanto esorbita dallo studium: più precisamente, è quel
dettaglio magari non previsto dall’operatore, che fuoriesce dallo studium, e tocca, anzi “punge” (punctum, precisa Barthes, viene dal verbo pungere) l’osservatore: il dito fasciato della bambina, le scarpe con il cinturino del personaggio
femminile nella foto di una famiglia negra americana ecc.
(Rinvio per una disamina più approfondita dei due elementi, al libro di Barthes).
Ebbene, per ritornare al testo, in Ragni, se lo studium può essere assimilato al
reticolo calcolatissimo della lettera che abbiamo notificato, il punctum, che tocca e punge il lettore, e cioè, per riprendere la nostra terminologia, il nodo della
lettera che apre il testo alle più riposte profondità del Soggetto, è rappresentato
dalla raffigurazione dei “ragni”.
E cioè, in un primo occorrimento, dai «due nèi su una schiena» (v. 14); i
quali nèi, nei due ultimi versi del testo, si trasformano nei «due punti», cui viene
associato, in stretta contiguità, l’omografo del sostantivo, vale a dire la preposizione articolata «nei». Così, i ragni finiscono (cito)
per fingersi di nuovo
due punti nei dintorni
di me.
(Sono i due punti tra parentesi (:) che Giorgio inseriva nel suo biglietto).
E qui credo proprio di poter chiudere il mio intervento.
Il grafema interpuntivo (i due punti) è di solito adibito ad aprire un elenco,
una serie. Tuttavia, la sua adibizione, per così dire, canonica, è quella dell’apertura del discorso diretto: due punti, virgolette ecc.
Ebbene, nel nostro caso, l’enunciazione finale del Soggetto ove i ragni finiscono (cito)
per fingersi di nuovo
due punti nei dintorni
di me,
21
Stefano Agosti
ebbene, qui, l’enunciazione del Soggetto del grafema interpuntivo, i due punti,
non costituisce altro che l’enunciazione stessa di un discorso che si apre sulla
propria interruzione.
Tale è il messaggio che, in Ragni, il Soggetto ha affidato – sotto la soglia della
coscienza – all’istanza della lettera.
Ma sarà proprio questa parola non detta, questa lettera che manca, che provvede a irradiare a ritroso l’intera opera di Giorgio Orelli di quella luce straordinaria che è la luce del postumo: «Tel qu’en lui-même enfin»…: dando inizio a
quella che sarà non diciamo la gloria del Poeta ma piuttosto la sua vita futura.
22
MARIA ANTONIETTA GRIGNANI
Pedagogia dello sguardo
e declinazione dei colori
Io sento la vita che scappa, sento il furto del tempo, a cui è difficile
sottrarsi, ma ho ancora molte cose da fare. Sono arrivato ai 90, anche se mi sono sentito sempre provvisorio e credevo di scollinare
giovanissimo.
(Intervista rilasciata a Paolo Di Stefano,
in “Corriere della Sera”, 19 giugno 2011)
Io sono walseriano per la pelle. […] Il pregio fondamentale di
Walser è la creazione con niente di un mondo profondo e intimo
(G. Orelli, Quasi un abbecedario, a cura di Y. Bernasconi,
Casagrande, Bellinzona 2014, p. 61)
Come forse in nessun altro poeta del secondo Novecento, in Orelli le parole
della civiltà letteraria si fondono con quelle dell’attualità, senza finta innocenza
e senza virtuosismi esposti, in una miscela polifonica che va dalle sfumature regionali (e da prove in dialetto) a intarsi con lingue altre d’Europa. Orelli è poeta
coltissimo, ma non schiavo della cultura: nelle sue poesie le suggestioni, le citazioni e gli omaggi all’alta letteratura si innestano su occasioni spesso apparentemente feriali.1 Il suo linguaggio ha sul lettore un effetto fresco, diretto, e spesso
quasi materico, pur essendo lavorato nei riferimenti ai modelli – ora espliciti ora
ammiccanti – e nelle derive ritmico-timbriche intertestuali; fa vedere il mondo
come se si offrisse per la prima volta allo sguardo o addirittura balzasse dallo
sfondo al primo piano. Italo Calvino, nella conferenza Mondo scritto e mondo
non scritto (1983), aveva notato come l’approccio dei poeti del nostro tempo
all’esperienza sia dominato – più di quanto non accada alla prosa – dall’osservazione del dettaglio trasparente, dall’investire oggetti minimi, piante o animali
che fossero, come identificatori di realtà e di significato, dal William Carlos Williams del ciclamino a Marianne Moore del nautilus a Eugenio Montale dell’anguilla. Ne deduceva questa lezione utile anche alla narrativa:
La vera sfida per uno scrittore è parlare dell’intricato groviglio della nostra situazione
usando un linguaggio che sembri tanto trasparente da creare un senso d’allucinazione,
come è riuscito a fare Kafka.
Che la poesia di Giorgio colpisca l’emotività, per dire così primaria, di professionisti di norma addetti a notomie raffinate su fenomeni complessi della te-
23
Maria Antonietta Grignani
stura verbale e metrica lo mostra la poesia di uno dei critici più solidali con le
idee estetiche di Giorgio, Stefano Agosti; il quale ingloba in una delle sue rare
poesie date alla stampa, Il prato di margherite nel volumetto La riconoscenza, un
omaggio all’immagine del bimbo Matteo che bruca le margherita nella splendida
poesia Che fa Matteo Delbrück (in Spiracoli), tutta piena di colori e di rinvii, già
in esergo e poi nel finale, alle meraviglie lucreziane del visibile: «perché tutto /
è nuovo per il figlio di mia figlia, / tutto è meraviglia». Agosti inscrive addirittura il nome nel testo: «Tu intanto / stai preparando l’insalata / che brucheremo
come Matteo Delbrück, / carponi sul prato, le margherite».2
Uno dei motivi che rendono memorabile la poesia di Orelli è quello dello
stupore di fronte all’esistenza, una meraviglia che si offre all’adulto e riattiva in
lui l’incanto tipico dell’infanzia nella scoperta e nel presentarsi alla percezione
di quel che si vede.3 Pier Vincenzo Mengaldo ha parlato di «sorridente capacità
di suggerire la natura sfuggente di quanto ci circonda»,4 aggiungerei non tanto
attraverso lo sfumato quanto tramite una nitida “pedagogia” dello sguardo, che
ci invita a riconoscere due direzioni e due percorsi di va-e-vieni: innanzi tutto la
direzione dal soggetto verso l’oggetto e, al contrario, quella dall’oggetto in direzione del soggetto ricevente; e poi la dimensione che va dal dettaglio minimo
alla presa grandangolare e viceversa.
Si direbbe che in rapporto a questi doppi movimenti delle apparizioni del
“reale” stia un altro tema, anch’esso originario e perdurante: la mutua permeabilità e permutabilità tra vita e morte. Basta pensare ai titoli delle raccolte Sinopie e Spiracoli molto indicativi, l’uno della sovrimpressione tra vivi e defunti
e l’altro dell’apparire di ciò che non è più, o non è palese, per fessure e spifferi;
oppure a qualche passo anche antico come «I morti sono più vivi dei vivi» (Nel
cerchio familiare); «la vita che noi morti qui viviamo»; e ancora: «pensare che la
vita / dev’essere viva, cioè vera vita, o la morte la supera / incomparabilmente di
pregio» (SI);5 infine al titolo e al testo de La trota argentea di montaliana memoria, la quale – simbolo di vita – sfugge alla mano di chi l’ha catturata e in questo
modo, non tanto “si salva”, quanto letteralmente «torna al suo fiume, ci salva».
La fluidità tra i vari dominî del mondo, cose, animali, umani vivi o trapassati,
si appoggia sovente a elementi coloristici, con maggior frequenza rispetto alla
media della poesia contemporanea.
I colori in Orelli sono un supporto essenziale di quell’atteggiamento che
ho appena chiamato, in mancanza di una definizione migliore, pedagogia dello
sguardo. Ci viene incontro, nel risvolto di copertina dell’ultima raccolta edita Il
collo dell’anitra, la nota d’autore:
Dal collo dei colombi di Lucrezio a quello dell’anitra, è continua meraviglia il trasmutare dei
colori a seconda della luce: così è della vita, degli spettacoli anche minimi del mondo.
A tale nota, che ne è quasi sintesi, corrisponde il testo posto ad aprire il
volume, traduzione da De rerum natura II, 798-805, con il solfeggio di rossoazzurro-smeraldo tra tenebre e luce:
24
Pedagogia dello sguardo e declinazione dei colori
Quale colore permettono le cieche tenebre?
Già nella luce stessa trasmuta un colore
se rifulge perché lo percuote obliqua o diritta;
così cambiano al sole le piume dei colombi
che di torno alla nuca coronano il collo,
e infatti talvolta sono rosse di fulgido piropo
e paiono talaltra mischiare all’azzurro il colore
dei verdi smeraldi.
Gilberto Isella, in un recente suo saggio molto acuto, ha osservato che «le
gamme cromatiche ricoprono un ruolo attivo e in larga misura euforizzante,
nella produzione del senso». Il che è vero non solo per il ruolo attivo che queste gamme ricoprono, ma anche per come lo ricoprono, con quali declinazioni
linguistiche.6
La percezione della forma e del volume nell’Orelli poeta è molto spesso subordinata alla evidenza cromatica, esattamente il contrario di quanto – poniamo –
fa il Manzoni correggendo il Fermo e Lucia e dandoci un romanzo di volumi, ma
prevalentemente in bianco e nero e relative sfumature intermedie.7
Ricorro a un esempio tra i molti. In A Giovanna sulle capre (SI) le capre,
elemento naturale, per effetto della luce perdono volume e diventano macchie
nere, assumendo la pura forma bidimensionale della chiazza in quanto tale, che
padre e bambina potrebbero attraversare stagliata contro il cielo. La «fissità un
po’ smaterializzata che potremo chiamare araldica», secondo l’efficace formulazione di Mengaldo (p. 193), è data dalla figuratività cromatica:
e in giorni come questo luminosi,
vedi, non hanno corpo, non sono che macchie
nere sul greppo; e quella, immota contro il cielo,
potremo attraversarla tenendoci per mano.8
Sicura e costante la dominanza dei colori basici che, a quanto dicono gli
esperti, equivalgono ai fenomeni emotivi primari (sono dunque pan-human perceptual universals?), anche se la loro semiologizzazione varia nelle varie culture:
bianco, nero, rosso, verde, giallo, azzurro/blu, marrone, viola/porpora, rosa,
arancione, grigio. Sono i basici a prestarsi ancora oggi a varie estensioni e neoformazioni.9
Il campo lessicale del giallo e quello dell’azzurro producono nelle raccolte mature l’estensione dell’aggettivo/sostantivo alle forme derivative verbali e
quindi danno alla resa del colore una sfumatura di processo o di evento in durata. Per azzurreggiare: «vedi un azzurreggiare / limpido» (Per Agostino, SP);
«da tanto biondeggiare azzurreggiare» (Come quando di là dal Gottardo, CA).
Per gialleggiare: «il muro dove gialleggia la buca / delle lettere» (Cardi, II, SP);
«più non gialleggia la buca / delle lettere» (La buca delle lettere, in forma di
implicito rinvio interno al precedente, in un testo reso noto dell’imminente ultima raccolta L’orlo della vita). Secondo una ricerca di Rita Fresu condotta sulle
25
Maria Antonietta Grignani
cinque edizioni della Crusca, per gialleggiare esistono esempi antichi, tra i quali
nel 1384 il Libro di viaggi di Pier Del Nero («La gente, che dimora appreso
questa fiumana, verdeggiano e gialleggiano»). Il verbo nel Grande Dizionario
della Lingua Italiana è attestato in Leonardo, Frugoni, Pindemonte, Carducci,
D’Annunzio, Soffici, Gadda.10
Vasta in italiano la duttilità dei cromonimi, di norma lemmi con funzione
nominale o aggettivale. La tipologia delle flessioni riguarda i procedimenti di
lessicalizzazione analitica, ossia associazione dei colori con pietre, metalli, flora,
fauna, realtà gastronomiche e sostanze che li hanno suggeriti, dato che il rosa,
il viola, l’arancio dimenticano – oppure possono riallacciare – il legame originario con il fiore o frutto cui sono associati. Perfino fatti storici e guerreschi
sono generatori di colori. Ricordo il montaliano Nubi color magenta, che non
colleghiamo d’acchito con il rosso particolare, attestato fin dal 1862 e ispirato
purtroppo al luogo del bagno di sangue che nel 1859, con la vittoria dell’esercito
franco-sardo su quello austriaco, concluse la seconda guerra di indipendenza:
un rosso cruento, detto appunto color Magenta.
Non stupisce in Cardi II (SP) il «rosso Gaudenzio» delle magnolie, dentro un
tripudio di viola, bianco, arancio, azzurro e giallo; associazione caritatevolmente
postillata da Orelli come suggestione dei colori del ciclo di Gaudenzio Ferrari a
San Cristoforo di Vercelli:
Da bianche magnolie o d’un rosso
Gaudenzio, sul viola, due tortore
vanno non senza gioconde
esitazioni (il bianco ripete il breve
ventaglio della coda) nell’araucaria che uncina
con troppi rami morti un balcone.
Le solite onoranze del sambuco.
Un pensionato dà la prima mano
di minio al suo cancello. Un cane vestito di stracci
e di vuoto rincorre l’autocarro
della Nettezza Urbana. Mi saluta in arancio un addetto
sempre in piedi di dietro con occhi
d’intensissimo azzurro.
[…]
il muro dove gialleggia la buca
delle lettere.
[…]
Veniamo ora a un’analisi blandamente diacronica, partendo da L’ora del tempo, perché anche da una specola apparentemente secondaria si coglie l’evoluzione dello stile di Orelli.
In questa prima fase della poesia l’aggettivo di colore è spesso preposto al
sostantivo, secondo la disposizione agg + sost tipica della tradizione: «candido
braccio» (Paese); «argenteo pulviscolo» (Colgo questo paese); «verde primavera»
26
Pedagogia dello sguardo e declinazione dei colori
(Gli occhi che un poco muoiono se guardano); «verde traiettoria» (Lettera da Bellinzona). Ma è già più frequente la posizione posposta, meno tradizionale: «Ai
boschi bruni, alle pietre più grige / ci riconosceremo» (Per Agostino); «splendono bacche rosse» (Perché il cielo è più ingenuo); «barbagli azzurri» (Il lago);
«fronde sempreverdi» (Natale 1944); «aria rosata» (Lettera da Bellinzona).
Nella forma sostantiva si trova: «il primo verde / di robinia» (Assenza); «il
più giovane verde» (A una bambina tornata al suo mare); «dove incupisce nel
suo verde il pino» (Lo stagno); «lungo il verde proteso d’infanzia» (Nel dopopioggia); «l’azzurro che viene / dal Nord» (Il lago).
Già compaiono i verbi derivati in -eggiare: «tra i calcestri / biancheggianti
del passo» (Campolungo), dove calcestro, frequente nel Ticino, vale “roccia calcarea”.
Anche l’apposizione sostantivale compare e indirizza verso quell’astrazione
dal volume a vantaggio del puro colore, che ho ricordato sopra per le macchie
nere delle capre: «ritrovo, grigio appeso, lo spauracchio / che somiglia un fanciullo» (Novembre 1944).
Riporto alla fonte del colore, cioè alle entità botaniche che diedero nome a
due colori, in questo passo: «le gazze curiose, lasciando a piè degli alberi / il loro
sterco come un reciticcio / d’arance e di viole?» (Dicembre a Prato).
Fin dalle prime poesie che vanno a comporre OT, i cromonimi, colori della
natura e di certi animali, sono serie definite una sullo sfondo dell’altra per stacchi netti. La scolopendra «dal roseo ventre / ch’agita folle i piedi nell’azzurro»
introduce un frammento di meraviglia-colore, campito sull’azzurro del cielo;
mentre il Frammento della martora, come ha messo in evidenza De Marchi e
ha confessato Orelli stesso, è stato scritto per ridare vita e dinamismo – in virtù
della parola poetica che riprende nel colore il legame originario con il frutto –
all’unica martora da lui vista, e purtroppo uccisa, in un episodio di cui parla una
antica prosa di Un giorno della vita: «A quest’ora la martora chi sa / dove fugge
con la sua gola d’arancia».11 Procedimento portato al massimo in «Grida un
tacchino i suoi coralli» (Lettera da Bellinzona).
Altro primo piano dei colori in versione sostantivata e in sintassi nominale è
nella Lettera da Bellinzona, che inizia con l’immagine del castello più alto della
città, dato attraverso il primo piano di due colori, il grigio e il verde, fuori da
qualsiasi allettamento di naturalismo:
Una fascina d’anni, una collina.
E il castello più alto.
Tutto il grigio all’altezza dei colombi,
tutto il verde che scorre fino al grigio…
[…]
Ma secondo la poetica di allora, che amava gli infiniti e le analogie esplicite,
il colore è talora indicato solo in negativo (Né bianco né viola):
27
Maria Antonietta Grignani
Nulla più chiedo. Contemplare il cielo
che trasfigura la mia terra.
Lontano
dagli incantevoli luoghi di nausea
dove l’anima è fredda,
simile a un crisantemo
né bianco né viola.
Gli «incantevoli luoghi di nausea», simbolo della vita metropolitana e probabilmente di un lutto storico – la guerra in Europa – hanno un’anima mortuaria
e indistinta, di contro al cielo che trasfigura la terra d’origine.
Inseguiamo per un attimo la nuance bianco-viola. Sempre in OT in Epigramma pisano troviamo il «falciatore in Piazza dei miracoli» e il pescatore fissato da
sempre nella sinopia di Pisa, ma il primo è simbolo di morte con la sua falce e
il colore del lutto: «viola stinto con falce lungo il muro del Campo». Negli anni
ottanta – significativamente – gli stessi due colori (bianco e viola), indicatori
del lutto, vengono ripresi e trasferiti in essenze sostitutive: «Oh nigritelle oh
lividi nel gelo» si legge in A un ragazzo perito in montagna (SP), dove il viola e
il bianco assumono la materialità di sostanze, la nigritella alpestre e il gelo micidiale della montagna. La preferenza per il primo piano della forma nominale
della qualità cromatica si legge, nella stessa raccolta, per un’amica di gioventù
scomparsa (Ah dopo tanti bianchi il lillà):
Ah dopo tanti bianchi il lillà
così viola intravisto contro il muro
della tua casa in montagna,
Carlotta che m’hai guidato leggera
nei primi tanghi su piste ai margini
del bosco, leggera
sei passata di là!
SI non offre gran quantità di cromonimi, dato il taglio polemico o “narrativo” di molti pezzi. Participio presente nei ginocchi lucenti della ragazza che va
in altalena e nella gomma biancicante che a richiesta porge (Ginocchi). Il verbo
biancicare e il participio presente relativo, oggi rari, si trovano dal Tesoretto di
Brunetto Latini fino al Foscolo e al Pascoli.
Nella scarsità di aggettivi di colore preposti o posposti al nome, spiccano
le forme sostantive, tipo «nebbia tinta d’azzurro»; «l’arancio della calendula».
Spesso emerge la “motivazione”, come qui, con la giunta del luogo di riferimento: «Il cielo in qualche zona / ha l’azzurro nutrito dal ferro / delle ortensie
sul Ceneri» (Quadernetto del bagno Sirena, I). Notevoli le definizioni indirette
tramite analogia: «setter color sasso» (La trota). Attribuzione coloristica in metonimia ardita in questo esempio, ancora col viola del lutto: «i vecchi padroni
senza figli / dormivano violetti, foderati d’abete» (Frammento dell’ideale).
28
Pedagogia dello sguardo e declinazione dei colori
Interessante il seguente fenomeno, che possiamo chiamare un non detto cromatico, l’omissione del colore per ricorso all’enciclopedia dantesca del lettore:
«nell’ombra dove vanno, più che burro, due oche» (In riva al Ticino), con rinvio
a Dante, Inf. XVII, 63: «mostrando un’oca bianca più che burro», lì descrizione
di una impresa araldica.
Il ventaglio di soluzioni appena ricordato preannuncia l’esito in totale astrazione della poesia intitolata STOP (SP), dove la rupe e i colombi si imbucano in
«un buio verde immaginario» (quale dei due – buio / verde – il sostantivo? quale
l’attributo?), simile a una cruna d’ago per chi osserva; i piccioni si alzano dal
basso dell’asfalto, sul cui colore (in perifrasi: «colore d’asfalto») erano schiacciati o sovrapposti in riposo, e si appropriano, aprendo le ali, del bianco di uno
stop stradale («macchiati di STOP»), in totale straniamento dal “realismo” figurativo. È questo un procedimento di attribuzione metonimica, tra l’altro molto
produttivo nelle attuali coniazioni della langue:12
D’improvviso una frotta di colombi
volò sopra di noi verso la rupe
spogliata del castello e allungandosi in fila
sparì nel buio verde immaginario
d’una cruna.
Ma non diceva nulla alla signora
che avevo salutato e ormai piccioni
ce n’era a bizzeffe, colore d’asfalto
e nell’alzarsi macchiati di STOP.
Per indugiare ancora su SI, i colori resi materia sono passaggi primari attraverso la percezione di oggetti che mutano o si muovono in una loro specificità
difficile da individuare. In Dopo Lucca appare innanzi tutto un cromonimosostanza, l’argento, che poi si rivela qualità coloristica di un branco d’acciughe:
Tu credevi che fosse uno scherzo del vento
controcorrente: fitti argenti, scompigli
d’un attimo, là, presso gli scogli del molo.
Ma erano le acciughe: […]
La distanza del tempo può riallacciarsi al presente attraverso un colore dotato di una apposizione metaforica; ed è il rosa vecchio regalato al centro di Urbino, col palazzo individuato in cima a una valle, chiazzata come le mucche di Pied
Beauty di Hopkins, una valle «stupendamente pezzata, sparsa di / lingotti d’oro
bianco»: «scorgemmo, rosa vecchio, Urbino» (Quadernetto del bagno Sirena:
inc. «C’era davvero il duca?»).13
Nel mondo dei bambini, così congeniale a Orelli, si accampano colori smaltati, che precedono o vicariano i soggetti cui sono attribuiti, quasi ne portassero la
quiddità in quanto soterici. Sono il palloncino rosso e le gialle forsizie, portati in
29
Maria Antonietta Grignani
dono da una nonna, a ridare vita e salute a un interno di penombra, tono su tono
per metonimia rispetto alla bambina malata di morbillo («tutto quel giallo […]
l’altro giallo») in Sera di San Giuseppe, con una suggestione botanico-coloristica
derivata da un passo di Benn che tornerà poi in CA ne Le forsizie di Bruderholz:
[…]
Col palloncino rosso e un fascio
di fiori gialli che altro non erano
che le forsizie di cui lessi in Benn,
per fortuna è venuta tua madre:
sùbito così nonna, così sagra
nella nostra penombra al primo piano
che non potevo darle un bacio. Del resto, qualcuno
doveva pur liberarla da tutto quel giallo
perché potesse abbracciare
l’altro giallo: balzata al trambusto dal letto
col pigiamino giallo, veramente Giovanna.14
Colori di cose e animali si scambiano le parti in SPI, dove prevale l’aggettivo
posposto al sostantivo, secondo l’uscita definitiva della poesia italiana dai modi
del lirismo di tradizione. In Alter Klang, intitolato come un quadro di Klee, troviamo corvi turchini, mirtilli rossi, formiche ora rosse ora nere, farfalle brunicce,
oltre alla sostantivazione in «cavallette d’un grigio deprimente»; oppure in «rocce / chiazzate di giallo lichene e nerastro». La sostantivazione cromatica crea un
animale-colore, la ghiandaia, definita citazionalmente, da Il riverbero di Govoni:
«quel celeste impossibile di fianco, striato di nero».15
Stefano Agosti a suo tempo ha notato che talvolta il colore guarda e parla
al soggetto, come appunto in Alter Klang dove una delle ghiandaie, dal suo
«celeste impossibile», a un certo punto – si legge – «mandò breve un saluto».16
Questa bestiola a sua volta sollecita uno sguardo di rimando in chi la riconosce felicemente. Subito dopo un altro animale guarda sorpreso e domanda al
soggetto «chi sei?»; è la faina, con sua livrea coloristica in accusativo alla greca:
«balzò sul mio sguardo / inclinato agli steli paglierini tremanti sull’orlo / del
precipizio, bianca la gola, la faìna».
Metafora con la sola provenienza del valore cromatico per un ragazzo definito dantescamente «fresco smeraldo in l’ora che si fiacca» (Ascoltando una relazione in tedesco).17 Si deve far ricorso all’induzione del lettore pure in quest’altro
caso: «Col silenzio di cento ramarri» (Cardi, VI), sinestesia virtuale per un colore
implicito nel suo portatore eponimo (è espressione comune “verde ramarro”).
Tra un enunciato come «senza giallo di mimosa» (Blu di metilene) e un altro
che suona «in un giallo di forsizie» (Le bottiglie vuote), la bellissima poesia Che
fa Matteo Delbrück, con l’esergo dal De rerum natura V,18 innesca una catena
di colori netti, binati o in sintesi pittorica, mentre il neologistico denominale
volpeggiare suggerisce una zona permeabile tra mondo meccanico e mondo animale, secondo la percezione “animistica” tipica dell’infanzia:
30
Pedagogia dello sguardo e declinazione dei colori
Come sorride alla rissa dei merli
tra le ruote del passeggino,
ai treni giallorossi che volpeggiano
filando verso Flüh,
al becco rosa che tanto si svia
dal fuso bianco e nero
della cicogna […].
Colori fondamentali giallo, rosso, blu a sconfiggere una giornata nebbiosa
in Nebelzone, mentre, in sinestesia cromatica sostantivale (giallo) rispetto a una
sensazione tattile (viscido), si presenta D’autunno:19
Al ritorno la patria
non odorava più
di letame, la strada luccicava
di mica e nella nebbia eri tu
che ci passasti accanto
con un lepido camion
di giocattoli gialli, rossi, blu.
Felinamente in giallo
viscido di salamandra
tra siepe e asfalto: neanche la faccia
gli ho visto al ragazzo che in bici
quasi m’investe a uno svolto.
[…]
Il culmine del primo piano dei colori a danno dei volumi lo presenta la stupenda poesia Certo d’un merlo il nero. All’interno della sintassi nominale, per
di più senza punteggiatura, i colori balzano su, come sostantivi (tranne all’inizio
il «nero / mazzo di fiori»: tuttavia nero è in punta di verso separato dal nome
per via di enjambement e sta quasi come sostantivo a sé). La forma del merlo
spiaccicato sull’asfalto muta rapidamente in riprese metaforiche, dal nero-rosso
del mazzo di fiori alla «farfalla / enorme d’un nero / punteggiato di rosso»); il
«giallo aranciato» del becco è irreperibile; i successivi metaforizzanti suggeriscono colori in obliquo o per implicito: crosta… squame… eczema dell’asfalto
(grigio), girasole (giallo), raschietti di spazzacamino (nero). Se si ripensa al più
naturalistico «ricci furono, ora misera pelle / e sangue sull’asfalto» (dantesco,
Inf. XIII, «Uomini fummo ed or siam fatti sterpi») di Mezzogiorno a C. di SI, si
coglie la natura molto più ardita delle figurazioni coloristiche di SP:
Certo d’un merlo il nero
mazzo di fiori d’un rosso
sorpreso dalla morte
nel breve buio d’un sottopassaggio
l’indomani farfalla
enorme d’un nero
31
Maria Antonietta Grignani
punteggiato di rosso
nessuna traccia del giallo aranciato
il terzo giorno crosta
sfaldantesi in squame
eczema dell’asfalto il quarto
girasole dai petali rari
raschietti di spazzacamino
In CA, a parte la sezione Altri cardi che essendo di impianto polemico non
comporta come l’omologa di SP aggettivi di colore, prevale – come ci si aspetta
a questa altezza cronologica – la posizione posposta (becco azzurro, ghiaia viola,
magnolia viola ecc.).
Ancora elementi cromatici, quasi più protagonisti rispetto al mondo animale
cui appartengono, attivano un movimento verso il campo visivo di chi presta
loro lo sguardo. Ecco un micio bicolore: «Il gatto disteso bocconi / sul muretto,
che aveva preso a fissarmi / dal bianco dal nero»; poi un corvo che stava «a un
palmo dalla nera / metà», sottinteso: del gatto (Favoletta):
Il gatto disteso bocconi
sul muretto, che aveva preso a fissarmi
dal bianco dal nero,
un corvo partito da un tetto
poco lontano
con suo cra senza grazia
gli s’è posato accanto,
a un palmo dalla nera
metà, ma non gli ha fatto
perdere un ette della grande calma.
Come si ricordava all’inizio, il primo testo del libro, traduzione da Lucrezio,
si riferisce al trascolorare delle piume dei colombi per effetto della luce: «e infatti talvolta sono rosse di fulgido piropo / e paiono tal altra mischiare all’azzurro
il colore / dei verdi smeraldi».20
L’anitra, animale totemico del titolo di Orelli, simbolo della poesia, torna in
un pezzo dedicato a un bambino, con il prediletto accusativo alla greca: «riaccesa il collo / di verde malachite / due volte ti fa festa / uncinando se stessa»
(Scappa scappa il micetto).21
Nel ventaglio dei colori spiccano l’azzurro (questa volta egiziano) e il giallo
mediterraneo cari alla moglie: «il tuo giallo: / non forsizia o mimosa, ma se mai /
ginestra» (Non conosco l’azzurro) e poi l’arancione iconico della farfalla bruna,
che aprendo le ali, ha «mostrato / un 8 limpidissimo, arancione» (Quelle farfalle brune); oppure, con figura allitterativa paretimologica, «Le fragole in Val
Sementina! / Ma non rosseggia, non fragra» (Le fragole in Val Sementina!).22
Abbondano i verbi derivati dall’aggettivo o dal nome del colore nella sez. VIII
dedicata ai bambini: biondeggiare, azzurreggiare (Come quando).
32
Pedagogia dello sguardo e declinazione dei colori
Le forsizie del Bruderholz chiude la raccolta, prendendo spunto dall’episodio
di certe infermiere di Lainz che davano la buona morte agli anziani ricoverati,
tornato alla mente durante una visita all’ospedale di Basilea. Nel passaggio dalla
versione nella “Nuova Antologia” del 1989 all’antologia bilingue e poi al volume, il testo si arricchisce di colori (e di particolari presi dal rapporto di polizia).23
Ma le forsizie del giardino ospedaliero, legate con “etimologia poetica” con il
Forse dell’attacco e con quello del finale (rispettivamente «Forse triste non è la
pasquetta» e «forse parla d’amore»), offrono occasione a un auspicio vitale, nel
candido piede e negli occhi azzurrissimi dell’infermiera in riposo e soprattutto in
questa sinestesia, con la consueta inversione tra determinato e determinante: «le
avvolge / folta una gioia gialla di forsizie / attutita da merli perfetti».
Ignoro cosa sarà L’orlo della vita. Ma tra i testi anticipati, che attendono la
stampa in volume, vedo in data 2003 Un gatto,24 in cui il poeta apostrofa un
felino bianco e nero che l’ha seguito, deludendone le aspettative e dicendogli
di “fiottare” via il lustro del suo nero nel verde intenso: «e dunque è meglio /
che te ne torni nel verde più verde / donde mi hai visto passare, / fiottandovi
lustro il tuo nero».25 In un’altra anticipazione, Ragni, domina l’aspetto diafano,
quasi trascolorante in rosa, dei due mini-ragni appesi al soffitto bianco dell’appartamento e compagni della vecchiaia casalinga di Orelli, che diventano non
a caso figuralmente e quasi graficamente «due punti nei dintorni / di me».26 I
due inquilini minuscoli (ricordo che Orelli li indicò sul soffitto in una visita a
Bellinzona in cui mi lesse anche la poesia) sono la figura estrema di un dire che
resiste e di una poesia che ha fiducia nella comunicazione:
Ultimamente ho scritto una poesia sui ragni in un’atmosfera pessoiana, credo d’averla
finita. Dove per la prima volta assegno all’interpunzione una funzione iconica. In questa
poesia il due punti […] sono i due ragni.27
Dal nostro mondo, una realtà variamente affascinante ma anche spaventosamente contraddittoria, in cui si è svolta la sua lunga esperienza di affetti, di
cultura, di studio e di impegno civile, Giorgio ci lascia in eredità la declinazione
formale di un orecchio assoluto per i ritmi e i suoni e i colori della poesia, capace
di riallacciare antico e moderno.
A me piace pensare anche che il suo andirivieni tra illustre e quotidiano,
umano e non umano, adulto e bambino, lontano e vicino, massimo e minimo,
questo suo aggirarsi tra evidenze vitali ed esperienze visive macro e microscopiche abbia compensato, per miracolo laico, il transeunte e l’angoscioso della
vita, indicando al cerchio familiare cui rimase fedele e a quello largo dei lettori
le avventure e l’insegnamento della percezione visiva di chi guarda sapendo di
essere guardato, privilegio di un soggetto prensile e ricettore attento, fabbro
ineguagliabile della parola.
33
Maria Antonietta Grignani
1
Superfluo citare lavori critici sulle “fonti” e le tecniche del “riuso” di Orelli. Del resto
esempi di comprovata intertestualità si leggono, in questo stesso volume, negli studi di Gilberto Lonardi, Christian Genetelli, Georgia Fioroni, Giovanni Fontana; clamorosi prelievi
lessicali dal Fiore, studiato intensamente da Orelli soprattutto nell’ultimo periodo della sua
vita come appare dal saggio di Ottavio Besomi, sono illustrati in poesie destinate a L’orlo della
vita dal contributo eccellente di Silvia Longhi, Le sillabe di Orelli, qui alle pp. 37 ss.
2
S. Agosti, La riconoscenza, Coup d’idée-Edizioni d’Arte, Alba 2014, p. 44.
3
Indicazioni in sigla: NB (Né bianco né viola, 1944); OT (L’ora del tempo, 1962); SI (Sinopie, 1977), SP (Spiracoli, 1989), CA (Il collo dell’anitra, 2001).
4
P.V. Mengaldo, Giorgio Orelli, in G. Bonalumi, R. Martinoni, P.V. Mengaldo, Cento
anni di poesia nella Svizzera italiana, Armando Dadò Editore, Locarno 1997, pp. 189-196.
Ivi si aggiunge, sui caratteri che individuano lo stile: «Il primo è la sicurezza netta e sobria
nel mettere a fuoco colori e meglio linee della realtà (è stato detto: “incide a graffito secco”),
quasi alternando continuamente cannocchiale e microscopio […]», p. 190.
5
Ecco Orelli: «Prendo dai poeti. Né Dante né Petrarca stringono a vita un aggettivo
solidale come viva; con la “vita” che dev’esser “viva, cioè vera vita” la prosa di Leopardi fa
pensare a un cielo invaso a poco a poco dal tramonto più bello», in G. Otter, Ritratti della
Poesia. I vasi comunicanti, I quaderni del circolo degli artisti, Faenza 1998.
6
G. Isella, Per Sinopie e Spiracoli, in punta di penna, in “Bloc Notes”, 64 (2014), maggio, p. 88.
7
M.L. Altieri Biagi, Semantica e sintassi dell’aggettivo nei “Promessi Sposi”, in Manzoni
“l’eterno lavoro”, Atti del congresso internazionale della lingua sui problemi e del dialetto
nell’opera e negli studi del Manzoni (Milano 6-7-8-9 novembre 1985), Casa del Manzoni,
Milano 1987, pp. 255-284.
8
In A Vittorio Sereni (CA) nella seconda strofa appare di schiena un ragazzo con berretto
viola stinto, «un ginocchio / alto piegato a spostarmi / l’occhio dal lago alla neve dei monti, /
così lucente a tratti / che in corpo non pareva più vivo».
9
B. Berlin, P. Kay, Basic Color Terms: Their Universality and evolution, University of
California Press, Berkeley 1969; M. Brusatin, Storia dei colori, Einaudi, Torino 1999, pp.
26 ss.; vi si nota naturalmente che nella chiesa cristiana e nei paramenti sacri nero/bianco,
verde, viola hanno assunto connotazioni simboliche riassorbite dal sentire comune; R. Fresu,
Neologismi a colori. Per una semantica dei cromonimi nella lingua italiana, in “Lingua italiana
d’oggi”, III (2006), pp. 153-157. In generale e per la bibliografia cfr. http://www.treccani.it/
enciclopedia/termini-di-colore.
10
Per le varianti linguistiche del giallo cfr. R. Fresu, Giallo, giallume, gialleggiare. Processi
di derivazione da cromonimi della Crusca, in Atti convegno ASLI su Il Vocabolario degli Accademici della Crusca (1612) e la storia della lessicografia italiana, a cura di L. Tomasin, Cesati,
Firenze 2013, pp. 167-181.
11
P. De Marchi, Dove portano le parole. Sulla poesia di Giorgio Orelli e altro Novecento,
Manni, Lecce 2002, pp. 26-27. G. Orelli, Ampelio, in Id., Un giorno della vita, Lerici, Milano
1960, p. 13: «O d’una martora? L’unica da lui veduta era stata uccisa da un vecchio cacciatore
mentre fuggiva su un pino; ne ricordava soprattutto la gola, color d’arancia».
12
M.L. Rodotà, in “La Stampa”, 3 marzo 2001, a p. 8, registra un «color tangenziale».
L’esempio è citato in G. Sergio, Parole di moda. Il «Corriere delle dame» e il lessico della moda
nell’Ottocento, Franco Angeli, Milano 2010, pp. 244-256.
13
Ma già un esempio di questo tipo lo si è trovato in NB: «ritrovo, grigio appeso, lo spauracchio / che somiglia un fanciullo» (Novembre 1944).
14
Sera di S. Giuseppe e Par. XII, 79-81: «O padre suo veramente Felice / o madre sua
veramente Giovanna, / se, interpretata, val come si dice» (cioè: domini gratia).
15
Rovesciamento semantico della citazione di Govoni in Odette: «schiudendo un azzurro
credibile».
16
S. Agosti, Poesia italiana contemporanea, Bompiani, Milano 1995, pp. 81-87. Stesso
fenomeno in Cardi VII: «Grato del saluto di due ghiandaie più un’altra / inaspettata, anche
più largitrice di azzurro».
34
Pedagogia dello sguardo e declinazione dei colori
Purg. VII, 75.
Questa la citazione: «unde oriebantur risus dulcesque cachinni, omnia quod nova tum
magis haec et mira vigebant».
19
Per la salamandra cfr. Assenza in OT: «o la lenta / salamandra che mena per i ciottoli /
la sua inusata allegrezza di polvere».
20
Orelli insiste su -i- di anitra, lettera della luminosità e della trafittura, rinviando a due
luoghi di Dante analoghi non per tema ma per ritmo e accenti metrici: «non altrimenti l’anitra di botto, / quando ’l falcon s’appressa, giù s’attuffa», Inf. XXII, 130, sui barattieri, e Par.
XXVI, 100: «e similmente l’anima primaia», dove Adamo è paragonato a un animale con
piume. Del resto si ricordi la poesia tutta giocata sulla -i- Imber.
21
Qui anche «falbo / strato di foglie» con rinvio a Montale, Gloria del disteso mezzogiorno, ove «parvenze falbe».
22
Verbo magari pascoliano: «Fragri la rosa e il timo dell’Imetto».
23
Si aggiunge nell’edizione Garzanti: «nelle notti di guardia quando si fa più vivo / il
niente aiuterà / (con dosi improprie, eccessive, mortali, / d’insulina o sonnifero che astuto / si
disperda nel corpo senza lasciarvi traccia, / o altro, farmaci paralizzanti, / aria iniettata nelle
vene», ecc. Anche l’ultima strofa diventa più lunga con maggiori particolari sulla infermiera
sdraiata, ove Orelli aggiunge note di colore: «fissa con occhi azzurrissimi / l’acqua, allunga un
candido piede», mentre nella lezione precedente si leggeva soltanto: «col piede nudo».
24
Uscita in Un inquieto ricercare. Studi offerti a Pio Caroni, Casagrande, Bellinzona 2004,
p. 4.
25
In altri due testi, anticipati in una plaquette di Lithos 2013, sembra confermata la rilevanza della componente cromatica. In La buca delle lettere, l’incipit reimpiega la gamma dei
colori trattati come sostanze cari a Orelli, nonché il dinamismo conferito dalla resa in forma
di verbo: «Dove mirabilmente / giallo su prima mano / di rosso anche d’autunno / resistono
ardite parole […] più non gialleggia la buca / delle lettere […] ove adesso si leva / un altro
giallo, l’arancio dei cachi / […] nel suo caldo colore».
26
Cito da La buca delle lettere. Ragni, libro d’artista con due poesie di Giorgio Orelli e
serigrafia originale di Natalie Du Pasquier, Edizioni Lithos, Como 2012.
27
G. Orelli, Quasi un abbecedario, a cura di Y. Bernasconi, Casagrande, Bellinzona 2014,
p. 48.
17
18
35
SILVIA LONGHI
Le sillabe di Orelli
Quotiens sillabas contorsimus, quotiens verba transtulimus
(Francesco Petrarca, Familiares X 3, 21)
1. Annunci matrimoniali (leggendo il Fiore)
Con una lettera del 15 giugno 2003, Giorgio Orelli mi ringraziava di un breve
saggio sulla raccolta Il collo dell’anitra, che gli avevo sottoposto per avere il suo
giudizio prima di pubblicarlo.1 Caloroso e spiritoso, come era sua natura, si
divertiva a snidare allegramente altri riscontri in aggiunta; e mi mandava come
dono due graziose poesie, a quella data inedite. Le due poesie sono autografe,
trascritte con un’inclinazione diagonale al centro di un foglio; sono precedute
da una nota in parentesi: «[da “rendezvous”, fascina in italiano, francese e tedesco]»; e portano un numero d’ordine che segnala la loro appartenenza a un
insieme maggiore (rispettivamente I e VII): Possibile che non ci sia (due strofe di
sei versi ciascuna); Né giovane né malbalita (una strofa di sei versi). Anche così
nude e sole, si leggono subito come un’imitazione dei piccoli annunci giornalistici di chi cerca, come si suol dire, l’anima gemella.
Vengono pubblicate la prima volta da Orelli nella miscellanea in onore di
Pier Vincenzo Mengaldo (2007),2 insieme con altre due della medesima serie
(numerate VIII e XVIII): Non sei più giovanissima e folletta; e Sarà che non son
io. Tre su quattro (Né giovane né malbalita; Non sei più giovanissima e folletta;
Sarà che non son io) figurano nel bellissimo omaggio postumo a Orelli della
rivista “Poesia”, a cura di Pietro De Marchi e Pietro Montorfani. Insieme ad
altri componimenti di diverso carattere, rappresentano un anticipo della nuova
raccolta, L’orlo della vita, che era in fase avanzata di elaborazione al momento
della morte del poeta.3
Trascrivo qui le quattro poesie:
«Possibile che non ci sia
in questo felice paese
un uomo libero serio solare
con un po’ di cultura
che abbia desiderio di combattere
con me la solitudine
Ho 52 anni, una biondina
ero, sono tuttora
bella saggia cortese
37
Silvia Longhi
un tantino lunare
adoro la Natura
hobby tarocchi pendolo MAGIA».
*
«Né giovane né malbalita
cerco un gentile compagnone
che stia comeco non dico per tutta
la vita, che sarebbe meta ardita,
ma per provare come va, se va
come per tutta la vita».
*
«Non sei più giovanissima e folletta
ma sempre un po’ volaggia?
Volaggiamente provo
ad esibirmi e far quel che ti piace
tralasciando le infinte druderie
che insegnano alla scuola dell’amore.
Non conta che tu sia
d’angelico sembiante,
ricca e ben foderata,
e in erbaggio i capelli tinga e all’uovo.
Io non sono che un oste trapassante,
ma son presto ad aprire la maletta».
*
«Sarà che non son io,
non son io che ti manco,
donna smagata e matura,
ma posso starti al fianco
perfino con dolcezza,
purché tu non sia dura
come Condoleezza
che quel che vuole ottiene,
magari con doglienza;
sì che t’aspetto, senza
rincorrermi però,
nella speranza di passare insieme
questo tempo che passa, che non ho».
È sempre emozionante raccapezzarsi all’interno di un insieme mobile, ancora non del tutto assestato: ma a orientarmi tra edito e inedito, programmato e
incerto, è stato indispensabile l’aiuto cortesissimo di Pietro De Marchi. A proposito dello stato variabile di questa coroncina dei Rendezvous mi informa:
38
Le sillabe di Orelli
Ora, nel dattiloscritto del volume rimasto inedito e incompiuto, e cioè L’orlo della vita,
la sezione che raccoglie le poesie che fanno il verso alle inserzioni per cuori solitari è
collocata (provvisoriamente?) alla fine e porta un altro titolo, o un titolo nuovo, se si
vuole: Riserva protetta. Le poesie comprese in tale sezione sono solo undici, e tra di esse
Possibile che non ci sia è in seconda posizione; Né giovane né malbalita in quarta; Non sei
più giovanissima e folletta in undicesima.
Mimma Orelli dice che l’estate scorsa Giorgio aveva ripreso in mano il dattiloscritto
delle sue poesie, togliendo alcuni testi che non lo convincevano fino in fondo. Tra le
sacrificate o eliminate, o almeno sospese nel limbo, c’era anche Sarà che non son io, che
pure compariva nella miscellanea per Mengaldo. A parte, rispetto al dattiloscritto conservato in un raccoglitore, Mimma ne ha trovate per ora due: Tu viaggi sui 70 e Sarà che
non son io, la prima con il n. IX e la seconda con il n. XI (numeri romani, questa volta).
Dove siano finite le altre, non saprei (forse nel cestino).
Un’altra cosa che forse ti può servire: Riserva protetta è accompagnata da un’epigrafe tratta
dalla lettera di un emigrante ticinese in America: «Il mondo è corioso e lo sarà sempre ed
io non ho voglia di mangiarmi il fìdaco» (Lettera dall’America). Era una frase che Giorgio
ripeteva spesso con gusto (in particolare per via quel corioso con la o e per il fìdaco).
Che dirti d’altro? Delle 11 sopravvissute, quelle che portano ora il numero 1, 3, 5, 7 e 8
sono in tedesco; la numero 10 contiene un paio di espressioni in francese.
Un grande grazie a Pietro De Marchi; e grazie alla signora Mimma Orelli.
E dunque: la coroncina plurilingue si è ridotta nel corso del tempo da 18 a 11
elementi; qualcosa ancora era in sospeso nel giudizio dell’autore; e il titolo più
diretto Rendezvous era intanto cambiato nel più metaforico Riserva protetta.
Come andrà inteso? Mi pare che più d’uno sia il significato possibile. Una riserva protetta (parchi, aree protette ecc.) ha lo scopo di difendere flora e fauna,
proteggendo in particolare specie viventi in pericolo di estinzione: Orelli allude
forse agli individui che scrivono, o meglio scrivevano, questo tipo di annunci, e
alla pratica stessa? Una pratica che ormai sta cadendo in disuso, soppiantata da
altre forme di comunicazione e ricerca più funzionali, in numerosi siti on line di
dating; e che quindi è un relitto del passato.
Per coincidenza, sfogliando “la Repubblica” di martedì 18 febbraio 2014, ho
incontrato un articolo riguardante la rivista “Le chasseur français”: storica rivista
di natura e caccia, attiva dal 1885, che ha sempre pubblicato annunci matrimoniali. Si parla di un libretto appena uscito, La grande histoire des petites annonces
(pubblicazione hors série della rivista stessa), che valuta l’imponenza di questa
produzione (qualcosa come 450 000 inserzioni); ed esamina come siano cambiati
nel corso degli anni gli annunci, nella sostanza delle richieste e nello stile, a specchio del mutamento della società e dei costumi. Un’escursione assai divertente.
Vien da pensare che Riserva protetta possa significare anche “riserva di caccia” (zona in cui sono regolamentate le limitazioni e le modalità imposte all’esercizio venatorio): posto che la caccia, come la guerra, con tutto l’armamentario
connesso, è da sempre campo metaforico preferenziale della tematica amorosa.
Ma istituire un’area protetta ha avuto spesso anche implicazioni archeologiche: assicurare alla conservazione – oltre che gli ultimi frammenti di passati
ecosistemi naturali – anche tracce della cultura umana: arte, storia, insediamenti
39
Silvia Longhi
e attività tradizionali. E allora la Riserva protetta di Orelli può mirare a mantenere un ecosistema non naturale ma letterario. Quale? Con ogni evidenza il
linguaggio a base quotidiana e neutra di queste “inserzioni” (costruite su schemi
convenzionali di descrizione di sé e di richieste al partner auspicato) si impenna
ripetutamente su vocaboli e sintagmi preziosi della lingua letteraria delle Origini. Un impressionante ricalco di linguaggio, e di grande coerenza, una volta che
ci si accorge che Orelli deruba, anzi saccheggia il Fiore di Dante (che il Fiore sia
opera di Dante, per lui è incontestabile).4
Cominciamo, per maggiore efficacia dimostrativa, con il secondo testo della
nostra scelta, la poesia della malbalita:
«Né giovane né malbalita
cerco un gentile compagnone
che stia comeco non dico per tutta
la vita, che sarebbe meta ardita,
ma per provare come va, se va
come per tutta la vita».
Malbalita è un francesismo, significa “malridotta”, ed è prelevato da due
luoghi del Fiore: 24, 10 e gli dirén com’e’ fia malbalito, e 98, 2 la Santa Chiesa si è
malbalita. Quindi abbiamo un equivalente della formula cara a Orelli né giovane
né vecchio, agghindata all’antica. Anche il gentile compagnone, nel senso di “nobile amico”, viene dritto dal Fiore 70, 5 Ma sì·tti priego, gentil compagnone. E
dallo stesso sonetto 70, 10 viene la forma assimilata comeco: e menerò comeco tal
aiuto (anche a 80, 2; 99, 5; 192, 13). La grazia di questa poesia sta nella misura
del suo breve giro scandito di echi insistenti (la vita… la vita; come va, se va; le
tre rime in -ita); e nel garbo di quell’attenuazione: «non dico per tutta / la vita
[…] come per tutta la vita».
E ora la voce maschile, nel terzo testo:
«Non sei più giovanissima e folletta
ma sempre un po’ volaggia?
Volaggiamente provo
ad esibirmi e far quel che ti piace
tralasciando le infinte druderie
che insegnano alla scuola dell’amore.
Non conta che tu sia
d’angelico sembiante,
ricca e ben foderata,
e in erbaggio i capelli tinga e all’uovo.
Io non sono che un oste trapassante,
ma son presto ad aprire la maletta».
L’impertinente folletta “spensierata, pazzerella” discende dall’incipit di Fiore
148, 1 I’ era bella e giovane e folletta (dove parla la Vecchia, che ricorda i suoi bei
40
Le sillabe di Orelli
tempi); mentre il gallicismo volaggia “volubile” si tira dietro l’avverbio volaggiamente nel sonetto 61, 5-6 E se·ttu ami femina volaggia / volaggiamente davanti le
vieni. Orelli deve aver adorato queste parole «alate», come usava dire. E la voce
continua – entro un dominante ritmo endecasillabico – a sciorinare le sue risorse,
tesori prelevati dall’arca del Fiore: le infinte druderie sono le false tenerezze, le
simulate smancerie, che la Vecchia consigliava alla giovane Bellacoglienza in 169,
14 e fa co·llui infinte druderie. Anche un sintagma apparentemente neutro come
scuola dell’amore ha il suo riscontro, nel già citato sonetto 148, 2 ma non era a la
scuola de l’amore. Tralasciamo pure angelico sembiante, un topos di repertorio;
invece il verso «e in erbaggio i capelli tinga e all’uovo» è proprio ricalcato su Fiore
166, 5-6 Se non son bionde, tingale in erbaggio / e a l’uovo (sì perché le belle bionde
treccie, v. 4, devono essere bionde per forza). Naturalmente in erbaggio significava nel Duecento “con infusi d’erbe”, e significa adesso una colorazione vegetale,
che non fa danno ai capelli. Infine, il nostro uomo conclude gloriosamente la sua
inserzione proponendosi con due memorabili endecasillabi: «Io non sono che un
oste trapassante, / ma son presto ad aprire la maletta». Dove oste trapassante è il
“forestiero di passaggio” di Fiore 169, 9 Né non amar già oste trapassante (che là
però è sconsigliato come amante); e la maletta è la “borsa”, da 171, 8 s’e’ non iscioglie prima la maletta. Perfino l’attitudine son presto “sono pronto, sono disposto”
è calco di Fiore 2, 9 Ed i’ risposi:«I’ sì son tutto presto» (e 132, 14).
L’ultimo testo dei quattro è quello dal destino rimasto in sospeso:
«Sarà che non son io,
non son io che ti manco,
donna smagata e matura,
ma posso starti al fianco
perfino con dolcezza,
purché tu non sia dura
come Condoleezza
che quel che vuole ottiene,
magari con doglienza;
sì che t’aspetto, senza
rincorrermi però,
nella speranza di passare insieme
questo tempo che passa, che non ho».
Certo, il nome di Condoleezza Rice,5 su cui tutto il componimento ruota
fonicamente, è una brusca intrusione dell’attualità politica che non concorda col
resto. Si sa dalle biografie della Rice che il suo nome deriva dall’espressione con
dolcezza, una delle indicazioni, in lingua italiana, impiegate nella musica classica.
Nella poesia si trapassa da con dolcezza a con doglienza: parrebbe sull’esempio
di Fiore 4, 13 un’ora gioia avrai, altra, doglienza. Mentre donna smagata, cioè
“disillusa”, potrebbe venire da Fiore 2, 1 Sentendomi ismagato malamente (dove
però l’aggettivo vale “indebolito”). Qualcosa comunque stona nella compattezza dell’insieme; tanto più che l’inizio della poesia «Sarà che non son io, / non
41
Silvia Longhi
son io che ti manco» ricorda piuttosto un verso ariostesco, di un luogo famoso:
Non son, non sono io quel che paio in viso (il lamento di Orlando che sta impazzendo, Orlando furioso XXIII 128, 1).
Ci rimane da considerare rapidamente il primo testo:
«Possibile che non ci sia
in questo felice paese
un uomo libero serio solare
con un po’ di cultura
che abbia desiderio di combattere
con me la solitudine
Ho 52 anni, una biondina
ero, sono tuttora
bella saggia cortese
un tantino lunare
adoro la Natura
hobby tarocchi pendolo MAGIA».
Questo ha connotati più scialbi, e si adegua più tranquillamente al linguaggio di repertorio delle inserzioni per la ricerca di un compagno: come dichiara
l’abituale formula combattere con me la solitudine. Solo grazie al legame con gli
altri individui della serie, a riscontro di una biondina / ero si può richiamare
Fiore 143, 10 e ’n su le treccie bionde; o 166, 4 le belle bionde treccie. E per bella
saggia cortese funziona Fiore 18, 5-6 ch’egli è giovan e bello e avenante, / cortes e
franco; oltre a 143, 13-14 e disse: «Vien’ qua, figliuola cortese. / Riguàrdati se·ttu
se’ punto bella», e 146, 7 com’i’ era cortese e gente e bella.
Come possiamo definire queste poesie? Non vorrei chiamarle una parodia
del Fiore. Piuttosto un esercizio di imitazione. Il Fiore è la storia di una conquista amorosa, la lenta, combattuta, travagliata vicissitudine di una conquista
amorosa. I due lunghi discorsi di Amico (sonetti 49-72) e della Vecchia (sonetti
144-193) sono pura ars amandi, precettistica di seduzione, rispettivamente a
vantaggio dell’uomo e della donna. Orelli si diverte a mettere alla prova la durata plurisecolare di quel linguaggio seduttivo. Certo, una corretta lettura della
coroncina Riserva protetta richiederà – quando i testi saranno disponibili – che
si esamini e valuti la serie nella sua interezza.
Per restare alla mimesi del Fiore, è utile considerare anche una poesia estranea a questa serie, ma ugualmente destinata alla raccolta L’orlo della vita: quella
intitolata Sasso Corbaro (leggendo il «Fiore»):
Sulla soglia di Sasso Corbaro
mia figlia esultante
avrebbe voluto spogliare ogni rovo,
cogliere tutte le drupe,
le coccole, le bacche, specialmente
le rosse d’agrifoglio,
42
Le sillabe di Orelli
e lontano i bagliori del fiume
che si perde nel lago.
Le piaceva infogliarsi
anche più su delle caviglie
con voglia di castagne che si stanno
sdiricciando; fermarsi a contemplare
la nuda meraviglia
d’un albero foltissimo di cachi.
Ma il sole basso l’abbagliava,
la costringeva a schermare gli occhi
con la mano; finché non l’attrasse
uno scompiglio d’ombre
scagliate da una sùbita famiglia
di corvi, ed esultante
disse: «Ci giacigliamo nelle foglie».6
Questo esperimento virtuosistico di uso del garbuglio, dove il nesso GL si
appoggia a diverse combinazioni vocaliche, in alternanza vorticosa (oglia - iglia
- oglie - oglio - aglio - iglie - aglia - iglio), si ispira a parecchi sonetti del Fiore (specialmente il trio 47-49; e inoltre 36, 69, 103). Un esempio: «Non ti maravigliar
s’i’ non son grasso, / Amico, né vermiglio com’i’ soglio, / ch’ogne contrario è
presto a ciò ch’i’ voglio» (48, 1-3).
Sono tre gli studi principali che Orelli, in veste di critico, ha dedicato al
Fiore, importanti per il contributo dei numerosi riscontri e dettagli nuovi a favore della paternità dantesca: sulla quale, a suo giudizio, non è lecito nutrire
dubbi.7 La sua frequentazione del poemetto resta intensa fino agli ultimi anni.
Si può trovare ancora su Internet il filmato del colloquio con Maurizio Canetta,
intitolato Stupore e meraviglia (trasmesso sulla Rete Svizzera La2, il 24 maggio
2011, per festeggiare i novanta anni del poeta): vediamo un Orelli invecchiato,
ma pieno di energia, brillante, divertito nel raccontare aneddoti, stringato nelle
osservazioni critiche, senza esaltazioni, con una sua semplicità esatta, sempre
fedele a se stesso («pratico tutti i giorni la critica inventata da Contini, critica
verbale; continuo su questa strada perché non ce n’è un’altra»). Subito all’inizio
è inquadrato il suo tavolo: su cui stanno le sue carte, gli occhiali, la penna, la
macchina da scrivere Olivetti Lettera 22; e il libro del Fiore, aperto alla pagina
del sonetto 202, che per un attimo si distingue contornato da un reticolo di segni
e postille. Alla fine dell’intervista, Orelli è al lavoro, e lavora sul Fiore, battendo
a macchina dei riscontri.8
2. Petrarca, oralità, memoria
Come omaggio e ricordo, dopo la scomparsa del poeta, si è reso disponibile on
line un tesoro di riproposte della RSI, la Radiotelevisione Svizzera: si raggiungono
facilmente interviste, colloqui e lezioni, sia recenti sia più lontani nel tempo. Una
43
Silvia Longhi
meraviglia, per riavere la sua viva voce o addirittura la vista e la presenza. Qui mi
importa parlare della voce. L’ho riascoltata nella registrazione di cinque trasmissioni della rete LA1, Obiettivo Petrarca (19-22 ottobre 2004): cinque lezioni sul
Canzoniere petrarchesco (si tratta dei sonetti 35 Solo et pensoso i più deserti campi;
180 Po, ben puo’ tu portartene la scorza; 9 Quando ’l pianeta che distingue l’ore;
335 Vidi fra mille donne una già tale; 364 Tennemi Amor anni ventuno ardendo), di
dieci minuti l’una, indimenticabili. La voce di Orelli, immutata negli anni, recita
i testi con misurato pathos. Nel recitare scandisce e separa le singole sillabe, che
vengono potenziate. L’eleganza sobria delle definizioni adibisce un lessico critico
personale (che ospita anche espressioni di Contini, Mallarmé, Valéry). Nel ritmo
alacre della pronuncia orale, le sue definizioni acquistano spessore, paiono create, inventate sul momento. Qualche esempio: svelto spostamento delle sillabe;
sdrucciolo che ha dell’inesorabile; scansione di dolente gravezza; riprende torcendo
(e tutta la declinazione di torcere, torsioni); una frotta di parole; asperitas dei gruppi
/tr/ e /sc/; concentrare la sostanza fonica delle parole; una scrittura fatale; gruppo
alato; passaggio dal corporeo all’incorporeo. Una tesi più volte affermata: la forte
inclinazione isofonica dei grandi poeti che rafforza il significato. I modi preferiti
di formulare le proprie reazioni di lettore: non sembra insulso dire; non è stolto
aspettarsi; non tardiamo ad avvederci; me ne sono accorto.
In questa dimensione orale, il critico Orelli è persuasivo e avvincente: nei
saggi scritti, gli accertamenti risultano spesso così intricati e molteplici da frastornare; mentre nella lezione solo i fenomeni più vistosi sono selezionati con
una speciale efficacia. Proviamo a fare una piccola verifica. Nel primo libro critico, Accertamenti verbali, sono due i saggi di materia petrarchesca: Un verso del
Petrarca (si tratta di 303, 5 fior’, frondi, herbe, ombre, antri, onde, aure soavi), e
Dantismi del Canzoniere.9 Noto di passaggio che in tutto questo volume il linguaggio attinge allegramente a un registro naturalistico e venatorio: Dante piglia
almeno due rigogoli a un fico (p. 14); mi limito a scuotere la rete (p. 68); incoraggiando (per così dire) gli uccelli di passo come me ad assaltare altri frutti (p. 159);
poesie… vive come lucertole al sole (p. 169).
Nel libro successivo Il suono dei sospiri, Orelli rifonde quei due primi esperimenti in un insieme più ampio e organico, riservato soltanto a Petrarca.10 Ci
importa sapere se vi siano esaminati testi che saranno commentati a distanza di
tempo nelle lezioni alla radio del 2004. In sostanza non c’è ricalco di materia,
salvo quattro casi, di cui due molto parziali. Si incontra nel libro il sonetto 335,
considerato solo per la disseminazione sillabica della parola ALma (pp. 6-7); e
il sonetto 9, di cui è analizzato accanitamente solo l’ultimo verso primavera per
me pur non è mai (pp. 12-14). C’è invece, come oggetto di indagine di un intero
capitolo, il sonetto 35 Solo et pensoso (pp. 45-50). E c’è il sonetto del Po, 180
(pp. 63-68). Le esecuzioni dei testi in comune appaiono molto diverse: il dispiegamento analitico, minuziosissimo, degli accertamenti nei saggi lascia il posto,
nelle lezioni orali, a una visione sintetica: qui Orelli gerarchizza i fenomeni, «tira
dritto» (per usare una sua espressione) su una quantità di riscontri minuti e
minimi, addita solo le linee di forza della struttura. Commenta il contenuto con
44
Le sillabe di Orelli
rapidi cenni riassuntivi, elegantissimi. Non viene meno, anzi si intensifica, il paragone continuo con la Commedia: la lingua poetica di Dante appare l’alimento
che Petrarca ha trasformato in sua carne e sue ossa.11 Ormai indistinguibile, se
non fosse che Orelli lo distingue benissimo. E si rallegra, si congratula con se
stesso, quando con soddisfazione uncina un riscontro sempre passato inosservato prima. Insomma, non è solo una questione di tempo, i minuti contati a disposizione, che obbligano l’autore a «crudamente contrarre» il suo discorso: ma è
la natura diversa dell’oralità, che prescrive una comunicazione più graduata, ed
evidente, e affabile: e l’esame ci guadagna assai.
Del resto, motivando il titolo Il suono dei sospiri nella prima pagina del volume («Intitolo questo esercizio Il suono dei sospiri […] giusto per attirare col
poeta stesso l’attenzione sull’accordo profondo di suono e senso»), Orelli trovava opportuno citare un passo di una delle epistole di Petrarca (Sen. II 3):
«Quando poi quel che tu hai concepito sarà interamente trasformato in parole
o in scritture continuate, leggi ad alta voce, sì che tu possa ascoltarti, e quasi tu
non fossi l’inventore ma il giudice, chiama in tuo aiuto l’orecchio e l’animo».
E così ci si imprime nella mente la sua voce, che con devozione ed entusiasmo, con ammirazione infinita per il grande artefice, sillaba quei versi petrarcheschi in cui il lavoro della lettera realizza «una scrittura fatale»: per esempio il
sonetto 335, definito «sonetto de l’alma», perché tutto imperniato sul sintagma
l’alma, con il suo «nesso alato» AL. Nella seconda quartina, il verso 7 è detto
«brace sibilante»:
Nïente in lei terreno era o mortale,
sì come a cui del ciel, non d’altro, calse.
L’alma ch’arse per lei sì spesso et alse,
vaga d’ir seco, aperse ambedue l’ale.
In generale si può affermare che il critico Orelli attua decine di riconoscimenti. Individua campi di tensione, e correnti di parole come corsi d’acqua. Gli
riesce facile la scoperta delle parole nascoste sotto, o in mezzo ad altre parole:
les mots sous les mots di Saussure e Starobinski.12 Ricordiamo un caso bellissimo: si accorge che dietro il reiterato Addio di Promessi sposi VIII, si cela il nome
Adda, ultima parola del capitolo.13
E poi produce nella sua poesia legami analoghi: parole segrete nascoste dentro altre parole. Constatiamo che nei titoli Il cOllo dELL’anItRa e L’ORlo dELLa
vIta è contenuto per intero il suo nome, ORELLI (parziale in L’ORa deL tEmpo,
e in SpiRacOLI). Forse anche per questa firma interna agisce il modello di Petrarca, visto quello che Orelli scrive del primo sonetto del Canzoniere:
Ma, nelle solide borchie del verso che chiude la fronte, non sarà paragrammato il nome
del poeta? Il primo a dirmelo è stato Furio Brugnolo dell’Università di Padova. Il sonetto essendo proemiale, inclino a crederlo anch’io: spPEro TRovAR pietà, non CHE
perdono (PE-TR-AR-CHE).14
45
Silvia Longhi
Ricordiamo bene certi suoi grovigli di anagrammi: È grama, Mauro, al Muro
di Grammont!; le dure mele di Kafka, due merli.15 Le catene di sillabe ripetute, in
versi come sei scosceso per costa così subdola e Certo d’un merlo il nero; o magari un
intero componimento artificioso, che sembra una delle strofette di Toti Scialoja:
Un giorno caldo di luglio un corvo
dopo accurate curve digradanti
si accorse che non c’erano carcasse
tra quei tronchi e scusandosi quasi
lasciò che mi corresse il sole in pace.16
Orelli era dotato di una memoria fuori del comune, anche perché allenata
fin dall’inizio. Una volta ha raccontato in un’intervista che il suo dominio della
metrica era dovuto al fatto che conosceva e recitava a memoria le Odi di Orazio.
Una memoria “parlata”, dunque: in grado di resuscitare e sgranare sul momento
centinaia di versi danteschi. Queste pregevoli abitudini scolastiche purtroppo si
sono perse. Quando ero al liceo “Alessandro Volta” di Como, il professore di
italiano ci imponeva di imparare a memoria lunghe tirate di terzine: un’interrogazione poteva consistere nella recita di un canto della Commedia, che lui ascoltava rapito, a occhi chiusi. Si chiamava Gelpi, Giacomo Gelpi. La mia mente è
rimasta impressionata per sempre da questo esercizio.
3. Parole animate, parole come azioni, e la parola «cosa»
Orelli tratta le parole, che dànno corpo fisico al «disegno del pensiero»,17 alla
stessa stregua di esseri animati: usa «fare festa» agli animali – che lo ricambiano con perfetta reciprocità – e ugualmente «festeggiare» (verbi entrambi ben
suoi)18 un nesso, un costrutto, una rima, un dantismo.
Per lui le parole fanno azioni concrete: pungono, scottano, si chiamano, si
inseguono, si attraggono, si attaccano, fanno coppia, si torcono, si aggrovigliano,
e via dicendo. In un’intervista del 2012, Orelli ripete una definizione dantesca
della poesia che gli è cara, e che ha citato in varie occasioni: «Fabricatio verborum armonizatorum. Costruzione di parole armonizzate. In poesia le parole si
chiamano. Questo è uno dei segreti della poesia ed è di importanza enorme. A
volte è inconscio, a volte consapevole. È un’avventura mai finita».19
Sfogliamo l’ultimo libro di critica, La qualità del senso,20 e puntiamo l’attenzione sui saggi ariosteschi, alla ricerca di esempi che mostrino questa consapevolezza delle parole che compiono azioni.
Occupandosi della prima ottava dell’Orlando furioso, Orelli devia sull’inizio
della Gerusalemme liberata: per misurare la differenza tra il discreto io canto collocato in una posizione riparata dall’Ariosto, e l’esibito Canto piazzato del Tasso
nella posizione più esposta; quindi soppesa e valuta il secondo verso tassiano:
«un verso tra i più scricchianti che si conoscano, che il GRan sepolCRo liberò di
46
Le sillabe di Orelli
CRisto, atto (si direbbe) a scoperchiare il sepolcro consumando fin dal principio
l’impresa» (p. 34).21
A proposito del verso ch’in bel giardin su la nativa spina (Orlando furioso I
42, 2) Orelli annota: «subito colpisce l’attività straordinaria di /i/, lettera della
luminosità e della trafittura» (p. 45). Una precisazione: questa sensibilità agli
effetti della lettera i è una costante. In Sinopie si legge questo passo intarsiato di
dialetto del Mendrisiotto e di latino:
gli chiede una ragazza da un muretto
Che ur a in? dalla u alla i
quasi come in Virgilio o nel Folengo:
barathrùm oculìs; e la i della massaia
che forse litiga col marito,
Dìu Dìu (dopo un silenzio, crepa),
trafigge anche più in dentro.22
E nel libro Il suono dei sospiri è intitolato Sonetto in «i» il capitolo dedicato
a Petrarca 191 Sì come eterna vita è veder Dio. Con massima evidenza poi, in
una delle lezioni su Petrarca, Orelli scandisce e prolunga con enfasi quella che
chiama la «figura per VI» di un luogo dantesco: Dal primo giorno ch’i’ VIdi il
suo VIso / in questa VIta, infino a questa VIsta (Par. XXX, 28-29); e si rallegra
dell’effetto speciale, quasi ridendo: «è incredibile! è incredibile!»
Aggiungo pochi altri prelievi ariosteschi di La qualità del senso: ci sono parole scivolose, come il «viscido» (p. 55) del sintagma peSCI uSCIr nel verso Alcina
i pesci uscir facea de l’acque (Orlando furioso VI 38, 1).23 E ci sono parole pesanti,
come il grosso tonno di vi venìa a bocca aperta il grosso tonno (Orlando furioso
VI 36, 2): «Dopo la lunga riga dei delfini trionfano /o/ e /a/ per questo tonno
molto divertente: grosso tonno è sintagma compatto e grave che fa dimenticare
la mezzaluna della coda» (p. 62).
Come ultima curiosità, vorrei sostare sulle implicazioni di una parola imprecisa, indistinta, e massimamente accogliente, la parola cosa. Che impiego ne fa
Orelli? Nelle sue poesie è una parola primaria, del linguaggio iniziale: una parola tipica dell’uso dei bambini. Esempi divertenti in Sinopie: «Devo dire una cosa
alla tua ascella / una cosa pochissimo da ridere» e «Vedo una cosa che comincia
per gn / Cosa? / Gnente» (Dal buffo buio, pp. 36-37); «Mia figlia ha un bel dirmi: dimmi una cosa / che comincia con la r in mezzo» (Strofe di marzo, p. 71).24
Come lettore, Orelli prende in considerazione gli usi della parola cosa nei
suoi grandi modelli: Petrarca e Dante. In Il suono dei sospiri (p. 52), commentando il sonetto petrarchesco Erano i capei d’oro a l’aura sparsi, accosta al v. 9
«Non era l’andar suo cosa mortale» il rinomato «e par che sia una cosa venuta /
da cielo in terra» di Dante, Tanto gentile e tanto onesta pare, vv. 7-8. Più avanti
(p. 139), si ferma sul nesso cosa-oscuro-(n)ascondere nel finale del sonetto 218
«tanto et più fien le cose oscure et sole, / se Morte li occhi suoi chiude et asconde»: «cose – afferma – è subito ingoiato da OSCurE, a sua volta prolungato come
47
Silvia Longhi
caligine da aSCOndE». E porta il riscontro di Par. XXIII, 3 la notte che le COSE
ci NASCONDE, e dei primi versi dell’Inferno, dove selva OSCURA rima con
COSA dura.
Ma l’indagine più proficua riguarda Manzoni, col saggio Una cosa manzoniana.25 Nel capitolo VI dei Promessi sposi, i dialoghi perplessi e incerti tra Agnese,
Renzo e Lucia si avvolgono ripetutamente intorno a uno stesso sintagma, la
cosa: che sostituisce (velandolo, tenendolo a distanza) un concetto difficile da
pronunciare a chiare lettere, il cosiddetto “matrimonio di sorpresa”, cioè l’espediente estremo che Agnese raccomanda, che Renzo accoglie con eccitazione,
ma a cui Lucia oppone resistenza. Di battuta in battuta: «la cosa è facile», «la
cosa mi par troppo bella», «i religiosi dicono che veramente è cosa che non istà
bene», «Se è cosa che non istà bene, non bisogna farla», «quand’è così, la cosa
è fatta», «o la cosa è cattiva, e non bisogna farla; o non è, e perché non dirla al
padre Cristoforo?», «vedo che, per far questa cosa, come dite voi, bisogna andar avanti a furia di sotterfugi, di bugie, di finzioni». L’analisi insistita di Orelli
mostra come una parola così neutra si colmi di allusioni ambigue, di timori, di
pensieri riposti.
Noto, per controprova, che il termine evitato, matrimonio, sottinteso a tutto
l’insieme, esce fuori di necessità solo in contesti esplicativi: come quando Renzo
(sempre nel capitolo VI) illustra a Tonio il servizio che vuole da lui, cioè che gli
faccia da testimone:
Il signor curato va cavando fuori certe ragioni senza sugo, per tirare in lungo il mio matrimonio; e io in vece vorrei spicciarmi. Mi dicon di sicuro che, presentandosegli davanti
i due sposi, con due testimoni, e dicendo io: questa è mia moglie, e Lucia: questo è mio
marito, il matrimonio è bell’e fatto.
Vorrei insinuare che, a partire dalla proibizione dell’inizio «questo matrimonio non s’ha da fare», l’interdizione di fare diventi anche veto e censura, o
almeno grosso ostacolo, a dire. Mi permetto anche un’osservazione scherzosa:
I promessi sposi è un titolo reticente, evasivo, che non dice niente dell’azione.
Manzoni avrebbe ben potuto intitolare il romanzo: Il matrimonio impedito,
sull’esempio di La Gerusalemme liberata, o La secchia rapita; oppure Le nozze di
Renzo, come Le nozze di Figaro (data la sua familiarità con il libretto di Lorenzo
Da Ponte, in cui Figaro e Susanna sono, appunto, «promessi sposi»).
Nel seguito del suo saggio, Orelli snida una seconda occasione di impiego
“forte” della parola cosa, entro i capitoli XXVI e XXXVI: dove la cosa, questa
cosa, significa il voto di Lucia, che è un fatto penoso, difficilissimo da comunicare alla madre, e poi a Renzo. Una cosa che una volta fatta è fatta, «una cosa che,
quand’anche dispiacesse, non si può cambiare»; e che – dopo la sopraffazione di
un prepotente – costituisce il secondo impedimento della storia al matrimonio
dei due promessi. E dunque cosa di nuovo è parola piena di paura e di angoscia.
48
Le sillabe di Orelli
1
S. Longhi, Anitre, acqua e fonti letterarie, in “Quaderni di critica e filologia italiana”,
1 (2004), pp. 257-268. La raccolta poetica esaminata è Il collo dell’anitra, Garzanti, Milano
2001.
2
G. Orelli, Da «Rendevous», in Studi in onore di Pier Vincenzo Mengaldo per i suoi
settant’anni, a cura degli allievi padovani, Sismel-Edizioni del Galluzzo, Firenze 2007, vol. I,
pp. 9-10.
3
Id., L’orlo della vita, a cura di P. De Marchi e P. Montorfani, in “Poesia”, 289 (2014),
gennaio, pp. 30-38: i testi che ci interessano a p. 36 (senza numero d’ordine).
4
Mi servo dell’edizione: Dante Alighieri, Il Fiore – Detto d’Amore, a cura di L.C. Rossi,
Mondadori, Milano 1996, di cui sfrutto anche il ricco commento.
5
Consigliere per la Sicurezza nazionale di George W. Bush dal 2000 e poi Segretario di
Stato degli Stati Uniti dal 2005 al 2009.
6
Riprodotta nel già citato numero della rivista “Poesia”, p. 38.
7
G. Orelli, Un sonetto del «Fiore», in Id., Accertamenti verbali, Bompiani, Milano 1978,
pp. 33-50; Tornando al «Fiore», in Carmina semper et citharae cordi. Etudes de philologie et
de métrique offertes à Aldo Menichetti, a cura di M.-C. Gérard-Zai, P. Gresti, S. Perrin, Ph.
Vernay, M. Zenari, Slatkine, Genève 2000, pp. 261-279; Dante del «Fiore»: son. CVII, in La
ricerca e la passione come metodo. Omaggio a Romano Broggini, a cura di G. Margarini, F.
Panzera, A. Sargenti, Alberti Editore, Verbania-Intra 2005, pp. 471-476. Ma una delle novità
maggiori che emergono dal presente convegno è il ponderoso studio inedito sul Fiore di cui
dà conto Ottavio Besomi.
8
Della sua vecchia Olivetti parla la poesia In memoria, in Il collo dell’anitra, p. 29.
9
G. Orelli, Accertamenti verbali, pp. 51-65 e 67-81.
10
Id., Il suono dei sospiri. Sul Petrarca volgare, Einaudi, Torino 1990.
11
Petrarca riconosceva questa appropriazione per altri autori (Virgilio, Orazio, Boezio,
Cicerone), da lui letti non una volta ma mille, e entrati nel suo sangue, e fatti tutt’uno con il
suo ingegno, in un passo celebre delle Familiares (XXII 2, 12-13): Orelli lo ricorda in Il suono
dei sospiri, p. 125.
12
J. Starobinski, Les mots sous les mots. Les anagrammes de Ferdinand de Saussure, Gallimard, Paris 1971. Orelli fa menzione di questo saggio in Accertamenti verbali, p. 129 e nota.
13
G. Orelli, Quel ramo del lago di Como e altri accertamenti manzoniani, Casagrande,
Bellinzona 1990, p. 63.
14
Id., Il suono dei sospiri, p. 29: ma Gilberto Lonardi rivendica questa trouvaille. Di portata generale lo studio di P. De Marchi, Petrarca nella poesia di Giorgio Orelli e di altri poeti
della Svizzera italiana, in Un’altra storia. Petrarca nel Novecento italiano, Atti del convegno
(Roma 4-6 ottobre 2001), a cura di A. Cortellessa, Bulzoni, Roma 2004, pp. 255-270.
15
G. Orelli, Il collo dell’anitra, pp. 21 e 75.
16
Id., Spiracoli, Mondadori, Milano 1989, pp. 49, 95, 71.
17
Negli Accertamenti verbali, il primo capitolo si intitola Ritmi, timbri, il disegno del
pensiero.
18
Ripeschiamo il verbo nel Fiore 172, 14 Po’ dimora con lui e fagli festa (“fagli festose
accoglienze”).
19
Intervista rilasciata a Guido Grilli, apparsa su “La Regione Ticino” del 21 aprile 2012,
in occasione dell’uscita del libro La qualità del senso (vedi la nota seguente). L’intervista è
accessibile sul sito delle Edizioni Casagrande.
20
Id., La qualità del senso. Dante, Ariosto e Leopardi, Casagrande, Bellinzona 2012.
21
Già lo affermava in Il suono dei sospiri, p. 11: «Del pari accade che il 2° verso della
Liberata, che il GRan sepolCRo liberò di CRisto, sembri espressionistico nel consumare, come
fa, scricchiando tre volte – come stessimo di colpo davanti al sepolcro nell’attimo che lo
scoperchiano –, tutta l’attesa psicologica e metafisica che la crociata importa, e la crociata
stessa».
22
Id., Sinopie, Mondadori, Milano 1977, p. 29.
49
Silvia Longhi
23
Orelli aveva una predilezione anche per il sintagma appiccicoso tenace pece dell’arzanà
dei Veneziani (Inf. XXI, 8), «che sembra designare, si direbbe continuare materialmente […]
la sozza merce appiccicaticcia in cui poi vediamo immersi i barattieri» (Accertamenti verbali,
p. 11; e vedi Il suono dei sospiri, p. 161).
24
Sempre in Sinopie, ma su un registro serio: «Certo, se penso cose tristissime […] se
penso / cose bellissime» (A un filologo, p. 45).
25
Id., Quel ramo del lago di Como, pp. 65-80.
50
CLELIA MARTIGNONI
Per Giorgio Orelli narratore
Versatile e raffinato, Giorgio Orelli è soprattutto poeta di prima grandezza
(nonché saggista finissimo, e superbo traduttore), che in più di settanta anni di
poesia con riserbo ed eleganza ha edito nella sostanza quattro libri poetici (mondadoriani salvo l’ultimo, per Garzanti), quattro come Sereni: L’ora del tempo
(1962), frutto di selezione del lavoro dai vent’anni ai quaranta; Sinopie (1977),
Spiracoli (1989), e Il collo dell’anitra (2001).1 Sanno gli orellisti che Giorgio
Orelli ha lasciato i materiali, non perfettamente finiti, ma lungamente elaborati,
di una quinta raccolta, L’orlo della vita (titolo dantesco – Purg. XI, 128 – come
già L’ora del tempo), di cui aspettiamo l’edizione dal fedelissimo Pietro De Marchi, che ce ne parlerà in questi giorni.
Qui ho scelto di inoltrarmi nel settore meno battuto della prosa narrativa,
abbastanza esigua per mole, nel desiderio – tra esperti di lunga data come i presenti – di limitarmi in sentieri laterali però ben congiunti ai primari, come hanno
ben illustrato tutti i critici e lettori. Segnalo in particolare un saggio molto ricco
di Massimo Danzi, letto a Losanna nell’87, ed edito su “Autografo” nel 1989;2
più recentemente l’intervento di Pietro De Marchi, che introduce la benemerita
riedizione zurighese bilingue (2012) di Un giorno della vita (il testo di De Marchi è ripreso con incremento di note nel numero speciale di “Bloc notes” del
maggio 2014),3 e si aggiungano le incisive pagine di Alberto Nessi nello stesso
“Bloc notes”.
De Marchi ha anticipato in altra sede (“Poesia”, 289, gennaio 2014, scrivendo per la scomparsa del poeta), che L’orlo della vita include anche «alcune
prosette narrative, sapide di aneddoti e di ritratti di personaggi rustici e vitali,
specie dell’Alta Leventina»: come già avveniva nel Collo dell’anitra, a marcare
gli sconfinamenti poesia/prosa e le intime contiguità.
Due dati bibliografici: Un giorno della vita esce nel 1960, Milano, Lerici editore, ma attenzione alla collana: “Narratori italiani” diretta da due illustri amici
toscani, Romano Bilenchi e Mario Luzi, con cui Orelli respira aria di famiglia.
«Toscano di Svizzera» fu definito argutamente da Contini, primo patron delle
sue poesie, in opposizione all’etichetta «lombardo di svizzera» coniata da Luciano Anceschi per la sua controversa antologia Linea lombarda del ’52.4 Così
ricorda Orelli in un pezzo raccolto nel postumo Quasi un abbecedario (Casagrande, Bellinzona 2014) che Yari Bernasconi ha derivato in parte da conversazioni orali, e che per noi ha particolare interesse anche se le trenta “voci” sono
difformi, ellittiche, di linguaggio confidenziale.5
51
Clelia Martignoni
Qui è inclusa appunto la voce “Toscano di Svizzera”, dove si citano le intui­
zioni di Contini negli anni quaranta, in margine non alle poesie ma alle prose
(«quei magri raccontini» che Orelli ricorda di aver dato in lettura al Maestro
nei corridoi dell’Università di Friburgo). La diagnosi di Contini fu fulminea:
Cassola, La visita. Orelli aggiunge: Bilenchi, ed Emilio Cecchi (di cui altrove
nell’Abbecedario ricorda l’intensa America amara), quel Cecchi amato, sottolineo in margine, persino dal moderno e inquieto Calvino, che ne apprezzava,
nonostante il conservatorismo ideologico complessivo certo non condiviso, appunto l’inquietudine, la vena sulfurea e incandescente, lo stile straordinario,
citando l’abbagliante incipit dei Pesci rossi.
Un giorno della vita precede di poco il sintonico L’ora del tempo: due libri diciamo “verdi” e paralleli, da leggere insieme. “Verdi” sia per la giovinezza dell’autore (i pezzi raccolti vanno in entrambi dai vent’anni alla quarantina) sia e più
ancora per la comune ambientazione en plein air, sottilmente agreste-boschiva.
Alberto Nessi appunta finemente in “Bloc notes”: «Orelli prosatore alla fine
degli anni cinquanta tesse reti di ragno nelle quali restano impigliate mosche,
cetonie, anche qualche cavolaia», e cita con ragione un altro nitido prosatore toscano, Nicola Lisi. La metafora della ragnatela di Nessi ha fitti appigli testuali in
Orelli (la relazione di Stefano Agosti ha commentato ora con magistrale finezza
poesie recenti sul tema) e rinvia inoltre all’elegante epistola in versi di Contini
premessa a Né bianco né viola (1944),6 costruita su ragno e ragnatela attraverso
ben tre passaggi: 1) un autoritratto dell’autore, che si assimila a «quei ragni
verdi, trampolieri in bilico / su otto filamenti»; 2) la poesia «infinitesima» di
Orelli (riluttante allo «specchio di Narciso») sarebbe «strappata dalle viscere /
come il ragno fa dello stame»; 3) la «ragnatela» di Orelli è «sistema esatto però
fragile», da maneggiare con cautela (e si noti anche l’insediamento del concetto
di «sistema», esperito in anni contigui dal fondatore della critica delle varianti).
Un elemento-chiave di Un giorno della vita è la coincidenza di tasselli tra
prosa e poesia, già ben sondata nello studio di Massimo Danzi sino a Sinopie,
ed estesa da De Marchi alle raccolte poetiche seguenti, Il collo dell’anitra e testi
più recenti. Il caso più celebre, che cito per affezione ma già molto interrogato
dai lettori precedenti, è la splendida martora con la «gola d’arancia» de L’ora
del tempo, uno dei luoghi più affascinanti, dantescamente nutrito, della poesia
orelliana.7
Importanti gli anticipi sparsi dei testi (dal ’45 via via negli anni cinquanta
anche a ridosso dell’edizione in volume, cui nessuna prosa arriva inedita),8 e
non meno interessanti le riprese successive, come in particolare Pomeriggio bellinzonese del 1978,9 esito di Pomeriggio d’estate, con dilatazione testuale molto
significativa. Tornerò su entrambi i casi, anticipi e riprese.
Se è ovvia l’autosufficienza delle prose-racconto, per converso va ribadito
che il libro del ’60, aereo e fluido nel timbro, è interconnesso in macrotesto
grazie a isotopie di più tipi: tematico-ambientali, strutturali e “narrative”, con
personaggi ricorrenti, condivisi con le poesie stesse (Zalèk, Pasquale, il padre),
52
Per Giorgio Orelli narratore
e grazie a chiare convergenze tipologiche e di registro. In quest’ultimo senso,
indicherò come modulo privilegiato del libro (ricorrente anche nelle poesie)
la “passeggiata”, con o senza bicicletta: passeggiata sentimentale ma ironica,
svagata ma di vivo realismo, divagante, affabulante, a zonzo con ilare vitalità
paga di sé attraverso campagna e montagna, lungo il fiume o verso la città. Passeggiata alla Robert Walser, per intenderci: e Walser emerge non una sola volta
nel senile zibaldone Quasi un abbecedario. A Walser rêveur e promeneur, mite
e lievemente anarchico, di psicologia molto fragile che ne tormentò via via l’esistenza, si deve almeno l’incantevole Passeggiata primonovecentesca, tramata
di leggerezza, dove come in Orelli non succede nulla, nulla si conclude, ma che
sul filo del caso e in schema modulare-lineare brulica di incontri, visioni, rumori, svaghi, momenti evanescenti, increspature emotive e sensoriali (per Orelli si
annetta senza divergenze la “passeggiata” in treno, pure aperta a fortuite occasioni). La struttura testuale deriva da, e coincide con, la passeggiata stessa, nel
fantasioso vagabondaggio: il modulo è accogliente, ed è insieme tema e forma
stilistica, combinatorio a piacere. Lo vedremo per stralci nei passaggi variantistici, in particolare nell’evoluzione dal Pomeriggio d’estate del volume al Pomeriggio bellinzonese del 1978.
Ecco nell’Abbecedario, stralciando dalla voce dedicata a Walser:
Io sono walseriano per la pelle. Lo leggo in italiano e in tedesco. Anche le poesie. Le sue
qualità sono tali da non temere incrinature nei secoli dei secoli. Il pregio fondamentale
di Walser è la creazione con niente di un mondo profondo e intimo. […] Ottenere molto
con poco è uno dei grandi desideri dell’artista: del pittore, del poeta… E Walser ne è
maestro.
Se alla “passeggiata” di Orelli compete più di tutto il marchio nitido di Walser (tanto che sarebbe utile riservare sondaggi comparati – anche in lingua originaria – al rapporto testuale tra i due, per rilevare precisi prelievi), neppure va
trascurata la frequenza di tale tecnica-tema in Palazzeschi poeta, caro a Contini
e al gruppo friburghese, con gusto più spiccatamente sperimentale-beffardo-dada (e con rinvio pure a certe modalità di Apollinaire). In Orelli concorrono poi
altri apporti tonali: la malinconia amarognola dei racconti del diletto Čechov,
la grazia anche crudele di Bilenchi, specie nel clima campagnolo e pensoso del
Conservatorio di Santa Teresa.10 (Dietro, l’ombra grave e sofferente di Tozzi).
Senza scordare la scarna e primitiva letizia di Lisi.
Osservando da vicino il libro: tredici i racconti, quasi sempre gestiti da un io
narrante (che somiglia molto all’autore), tranne quattro casi (Ampelio, Serale,
Veronica, Un giorno della vita, tutti con protagonisti maschili). L’ultimo dei tredici dà il titolo alla raccolta (che è, quasi alla lettera, una citazione da Luzi). Le
misure dei testi non divergono granché: molto brevi l’iniziale Scherzo (quasi un
sogno, con clima alla Grand Meaulnes, romanzo-culto del 1913 della NRF, molto influente in cerchia toscana all’epoca di “Solaria” e oltre, sospeso tra sogno/
53
Clelia Martignoni
veglia/fiaba), di sole tre pagine, come, al centro, Per un filino d’erba. Più distese
e articolate le due suites contigue dal titolo musicale (come già Scherzo): in particolare la Suite provinciale.
Fitte e realistiche sono la topografia e la toponomastica, la botanica e il bestiario, quasi accaniti. I luoghi sono nominati con tanta insistenza, nei suoni non
di rado aspri, da far desiderare a un lettore non ticinese il conforto di una minuta mappa del luogo. Alberto Nessi, che è nativo di Mendrisio, scrive infatti: «La
rete orelliana si tende da nord a sud del nostro angolo di mondo, dalla leventina
al mendrisiotto […] dai prati in ripido declivio del paese del padre alla conca
dolce dov’è nata la madre», con competenza che piacerebbe condividere.
Nelle escursioni fuorivia il taglio non cambia. Vedi Cristina: al mare con gli
amici, nella ligure Riva Trigoso, che assicura una degustazione verbale tipicamente orelliana (p. 46: «Dopo Riva non par vero che ci sia una parola ingorda
come Trigoso»), e vede anche un omaggio all’amico Bo («Riva Trigoso, pensai,
chi m’ha detto, che è il paese di Carlo Bo?»). Da rilevare il titolo malizioso,11 di
assenza ed ellissi. Cristina è infatti il nome della donna che mai si vede, evocata
lungo tutto il racconto. Sosta al lago d’Iseo: altra gita lombarda, con personaggi
un po’ bislacchi come spesso in Orelli, ben caratterizzati, al pari della simpatica
e impropria colloquialità (nella battuta femminile registrata in discorso diretto,
la «donnina dal naso a saltamartino» dice all’io narrante: «Un uomo come lui
dovrebbe sposarsi […] Lui avrà trent’anni, scusi neh», p. 62, corsivi nel testo).
Un giorno della vita, eponimo e finale, trasporta in «Alemannia» (metà in treno metà nella visita al convento del protagonista Antonio per visitare la sorella
Ausilia che lì studia), con inconcludenza distratta ed evanescente come il viso
femminile tracciato dal protagonista con il dito sul finestrino del treno. Significativo l’explicit, nel segno del non concluso, che è nel contempo l’infinitamente
ripetibile, agro e dolce:
Fuori, il buio gli dà un senso di tepore dimenticato dall’adolescenza, e a braccetto delle
due ragazze, per la campagna segnata di poche luci, ecco che racconta perfino delle
storie, brevi storie d’inverno, come meglio può nella lingua della Rosemarie (p. 238).
Come nella poesia, il libro è gremito di riferimenti a fatti del «de re rustica»:
abitudini, cicli, stagioni, riti, animalità e naturalità vegetale mista a umanità, con
tangibile e ingordo gusto dell’esistenza (tra i lemmi più ricorrenti: “allegria”,
“ilarità”, “contentezza”, con sinonimi e derivati). La naturalità diffusa accoglie anche trapassi quasi metamorfici, come nel consentaneo L’ora del tempo,
ospitando rassegne e presenze infinitesime, per riusare l’aggettivo opportuno di
Contini, captate al microscopio. Sui transiti umano-animale-vegetale (dentro un
clima di comparazione domestica), si veda solo qualche campione: la betulla di
Ampelio (p. 22) «sembrava non osasse appoggiarsi contro un nero masso liscio»;
il cuccù fa un «grido concavo e sempre solitario», p. 22; e le «enormi ortensie»
di Scherzo «parevano navigare nel loro verde serale», p. 18,12 attestando più in
generale un animato analogismo diffuso, talora di registro lieve talora rilevato e
54
Per Giorgio Orelli narratore
saliente,13 affidato non solo a frequenti similitudini e metafore, ma anche al veicolo dei verbi parere/sembrare. Ancora: il vecchio di Pomeriggio d’estate salta
come «un uccello che emettesse dei gridi freschi e naturali solo in apparenza»,
p. 34; per converso la scimmia ha la «testa da giudice», p. 30; e «le pietre della riva […] biancicavano come ossa», p. 34; in Cristina, «la macchina sembra
un’enorme cetonia», p. 42, e un’altra, ivi, «ha un cuore che sfarfalla con fedeltà
commovente», p. 44; la bicicletta ha la sella «molto rialzata e sottile, simile a
uno strano uccello», p. 52; le turiste straniere sono dette «nordiche uccelle dal
lungo collo, biancorosate» (Sosta al lago d’Iseo, p. 58); il padre chiama «con un
fischio breve di marmotta», ivi, p. 68; e in Suite provinciale così si legge di un
personaggio: «Somigliava sempre più, il mio amico, a certi funghi forse velenosi,
parlava tra il viola e un giallastro», p. 152.
Se per decifrare la topografia si è evocato l’ausilio di una mappa dei luoghi
del passato e del presente, così e tanto più (consentendo con il discorso di fondo
di Pietro Gibellini) si desidererebbe per Giorgio Orelli uno scavo antropologico, tra i materiali della civiltà montana e contadina,14 che ne racconti i segreti e
il senso profondo, portando alla luce riti, costumi, canti, locuzioni, linguaggio
e dialetti.15 Penso alla stessa forte insistenza del motivo feroce e arcaico della
caccia, in specie nel violento La morte del gatto, dall’agro odore di vita cattiva,
alla Tozzi. Se ne veda la conclusione:
Il gatto non ha avuto bisogno di girarsi gran che perché Basilio gli spruzzasse i pallini
in faccia.
– I gatti hanno nove vite, – dice poi, – e io volevo ammazzarlo con la prima cartuccia.
Questo lo do al Pèpi prestinaio, che è un pezzo che mi dice se posso dargli un gatto per
una cena. La pelle, vedrò (p. 148).
Ed ecco in Cristina come si presenta l’affittacamere con pseudo urbanità
piccolo-borghese:
Vera Machiavelli arrivò dopo, avevamo finito di mangiare e accettò volentieri una sigaretta.
– Scusino, – disse, – se vengo solo adesso. Ho dovuto sgozzare tre vitelli stamane.
Piantata davanti a noi, le maniche rimboccate, le braccia forti come quelle d’un boscaiolo: Lady Machiavelli, pensai, costei è lady Machiavelli. Non mi sarei stupito di discernere
tracce di sangue sulle sue mani (pp. 52-53).
Dall’intreccio di tanti fattori il libro ricava nell’insieme un quasi-autobiografismo di ruvida materialità antropologica, ironizzato e arguto, a tratti favoloso,
ciarliero e affabulante, ma non idillico. Alcuni testi (specie Ampelio, lo stesso
fiabesco Scherzo) sono vicini anche al gusto del racconto di formazione (bilenchiano, già aspramente tozziano, e molto solariano).
Approfondendo il discorso sulla struttura “passeggiata”, ne possiamo osservare il felice impiego in Orelli esaminando qualche campione testuale e verificandone la tenuta negli interessanti passaggi variantistici. I nostri spogli sono
55
Clelia Martignoni
ampi, ma parziali e duplici, coinvolgendo sia il cospicuo recupero di Pomeriggio
d’estate dal volume del 1960 alla ripresa del 1978 Pomeriggio bellinzonese (cfr.
qui nota 9), sia l’evoluzione di una serie di testi dagli anticipi in rivista all’edizione in volume. Partiamo dal caso di Pomeriggio d’estate, nonostante sia seriore,
perché molto illuminante, e poi vedremo i campioni dell’altro tipo.
Nella versione in volume Pomeriggio d’estate accumula linearmente una serie
di bizzarri incontri minimali, di freschi “improvvisi”, tutti dotati di grande realismo ma con accenti anche fantasisti-surreali, ognuno dei quali soppianta lievemente il precedente. Li elenco in breve: un io narrante spensierato e fanciullesco
raccoglie per strada una gran quantità di biglie, mentre esce in bicicletta di casa (la
città si esplicita in Bellinzona solo nella ripresa del ’78); gli balza sul portapacchi
una scimmia, dalla «testa da giudice che ha appena tenuto giudizio o lo terrà fra
poco», p. 30, che poi scappa;16 il protagonista evoca un gufo in cui si era imbattuto
giorni prima; vede una donna distesa al sole (la Cleopatra) «che nell’ombelico ha
un ciuffo di prezzemolo», ibidem, con cui scambia un saluto; arriva un vecchio
magrissimo, padre di un amico morto in giovane età, che gli si unisce per un tratto
parlando fittamente e lo accompagna sul fiume, l’io narrante se ne congeda; ripresa la pedalata incontra una giovane che gli racconta di sé e di sue sciagure familiari, il protagonista le commissiona pietosamente un paio di calze; sopraggiunge di
corsa una ragazza del paese in bikini che ha perduto gli abiti (l’io narrante pensa
a un furto dalla scimmia); si rivede il vecchio solo e silenzioso; l’io narrante rientra in città e sale verso casa. Il rifacimento del 1978 è espanso con inserzione di
divagazioni o apparizioni, che la struttura modulare accoglie con agio, accrescendosi di molte pagine. Qualche esempio delle consistenti aggiunte. Nell’incipit, la
descrizione della città, inizialmente breve e sforbiciata ritmicamente da virgole, è
inciampata e protratta da dettagli a profusione, germinanti impressionisticamente
e con slancio deittico da sensazioni, ricordi, visioni, analogie. Ecco i due testi a
confronto (nel secondo segnalo con il corsivo i tasselli aggiunti):
L’altrieri la nostra piccola città pareva tutta vuota, e andando per vicoli e piazzette, ecco,
qua e là, in un poco d’erba, su uno scalino, ma specialmente per terra, io altro non trovavo che biglie, biglie tutte di media grossezza, variegate (p. 30).
L’altrieri la nostra piccola città pareva tutta vuota, e andando per vicoli e piazzette, da
un monumento all’altro, e sul Viale della Stazione da una banca all’altra (bisogna che un
qualche dì le conti: l’ultima l’hanno scavata dentro alla roccia del castello di mezzo), ecco
che qua e là, in un poco d’erba, su uno scalino, ai piedi d’una statua, ma specialmente per
terra fra dadi sconnessi, altro non trovavo che biglie, biglie tutte di media grossezza, variegate, dentro alle quali frugavo con gli occhi per rintracciarvi chi sa che. Eh finito il tempo
che soldi trovavo, monete da cinque, che sembrano da cinquanta, e da dieci, venti, cinquanta centesimi improvvisamente luccicanti, o quietamente opache, dimesse, o sporche,
tartassate; ma una volta ho trovato un franco che mi aspettava dalla parte dell’Elvezia su
dal porfido, me lo ricordo come se profumasse di mughetto perché giusto in quel momento
nella breve vampa di caldo artificiale (era dunque d’inverno) all’entrata dell’Innovazione
passava una signora che da sempre si mette il profumo di mughetto, l’unico che le piaccia.
Finito il tempo del denaro fiorito per strada, dove, quasi per un misterioso disegno com-
56
Per Giorgio Orelli narratore
pensativo, nei giorni caldi (giravo intorno allo stadio per veder perdere la nostra squadra),
vedevo come non m’era mai capitato lucertoline appena nate che guizzavano un po’ da per
tutto come i bambini di Xuan Loc sul finire della guerra nel Vietnam (p. 3).
Un inserto molto più esteso è incuneato subito dopo, prima che balzi la
scimmia sul portapacchi: la marcia in bicicletta sul sentiero lungo il fiume introduce cumuli di apparizioni e divagazioni, in un cicaleccio frizzante abilmente
mimetico dell’oralità. Ecco ancora a confronto i due testi, ma, dato l’incremento
massimo, qui segnalo in corsivo nel testo del 1978 i pochi elementi conservati,
scusandomi della lunga citazione:
Ne riempii le tasche [di biglie] e intanto uscivo in bicicletta di città, m’avviavo al fiume.
|| Ma anche lungo il fiume non vedevo che biglie, biglie d’uguale grossezza, variegate:
ormai non le raccoglievo più (p. 30).
Ho tolto e rimesso in tasca le biglie, e intanto con la nuova bicicletta d’argento e blu Giscard
uscivo dal centro detto storico (anche per via dei topi) e mi avviavo senza fretta al fiume,
lungo il quale scorgevo ancora qualche biglia d’uguale grossezza, variegata: ormai non le raccoglievo più. Andavo senza quasi pensare a nulla sul sentiero accidentato, o meglio devastato
dai cavalli dei ricchi, badando di non sbattere contro le radici che sporgono dal terreno con
quella specie di caparbietà e più d’una volta, mentre gettavo occhiate a destra e a sinistra, mi
han fatto trabalzare e cadere al di sopra del manubrio come un fantino. Finora mi è andata
bene e naturalmente mi dico che non devo profittarne, anche se, data la velocità minima,
al massimo mi rompo un polso, non come quelle teste di casco dei motociclisti dell’Honda
che sull’autostrada di là dal fiume passano via come saette con un fischio dell’altro mondo.
Da un ponte all’altro, cemento, ferro, aspettandomi d’incontrare sotto un ciliegio il mio
droghiere che somiglia a Yul Brinner e ha mandato un mucchio di soldi a Padre Pio, sempre
lì in costume da bagno, in piedi come un benedettino nella sua cella, a prendere il sole fin
quando non se ne va dietro alla montagna abbastanza vicina, anzi «troppo vicina»; i due
vecchi che colgono i fiori d’un tiglio foltissimo, lei da terra, lui nascosto nell’albero, lei la
prima volta mi ha detto: «il mio uomo lo beve anche freddo il tè», forse per farmi capire
che c’era anche lui là dentro; la famiglia dell’immigrato calabrese che ha superato lo stadio
dello stagionale, così al picnic possono prender parte anche i figli minorenni;…, se vado a
destra; se invece prendo a sinistra, dove c’è più alberi più prato il camping il Percorso Vita
il ponte che ha pensato bene di fermare e trattenere quasi ormeggiandolo il nostro collega
suicida, poco ma sicuro che nel primo tratto arruffato incontro quella, pure in bicicletta
con veste perlopiù azzurra straordinariamente svolazzante, che se le dico in tono tutt’altro
che di fauno «si fermi signorina per favore! chi sa com’è vellutata lei! faccia vedere che le
sarò riconoscente!», guarda come spaventata e scappa, certo scappa più da se stessa che da
me perché non ha tempo, perché (con voce stridula, sì, da matta) cerca la vita su un altro
pianeta, questo Percorso non le dice un bel niente; mentre più addentro nella boscaglia da
una stazione all’altra del Percorso dà conforto e pace quasi già ultraterrena la vista della
Fonsa che una volta faceva rallentare i camion gonfi di soldati acclamanti di sotto ai caschi
«Fonsa! Fonsa!», una pelle d’occhi che le succhiavano in fuga un po’ del suo miele famoso,
«famoso? macché famoso signor iddio, vede com’è la gente qui da noi che una volta battezzati non c’è più niente da fare anche se tra le parole e i fatti c’è molta differenza», adesso a
dir la verità non verrebbe neanche al fiume, non fosse per il cane prenderebbe il sole a casa
57
Clelia Martignoni
sua; a buon conto né a destra né a sinistra, puoi star tranquillo, mai che salti fuori un uomo
politico: gli onorevoli non onorano di loro presenza il fiume. I soldati sì, dalla caserma nuova al fiume è uno scherzo, nei giorni più strapazzati dalla sferza del sole anche il caporale più
stupido e zelante conduce il suo manipolo di reclute al Ticino (pp. 59-61).
La prosa qui si fa sempre più spigliata, condotta a rotta di collo quasi a
gara con la passeggiata in bicicletta. Il testo iniziale è una griglia minima cui si
appiccano le più varie irruzioni con scompiglio buffonesco e ilare. Sul piano
dello stile, oltre alla dilatazione della struttura, si osserva come si diceva il gusto
puntuale del parlato (già ottimo, ma molto più parco, nel libro del 1960, e incrementato frattanto nelle raccolte poetiche), con affioramenti di battute altrui,
e con usi tipici del discorso orale, come i “che” polivalenti, i frequenti sintagmi
nominali, le locuzioni colloquiali, gli spostamenti di costrutto e visuale. La sintassi si espande in campate lunghe o lunghissime (si veda in particolare il felice
virtuosismo di un solo periodo da «Da un ponte all’altro» a «gli onorevoli non
onorano di loro presenza il fiume»), in parallelo si diradano i segni interpuntivi
forti, sostituiti da punti e virgola scansionanti, e dalla prevalenza al caso di virgole (ma si vedano anche i punti sospensivi per allusioni lacunose). Esplorando
l’intero racconto, emergono analoghe e stabili procedure estensive. Dalla griglia
iniziale si diramano continui segmenti con le medesime modalità: cumuli di apparizioni, tipi, dettagli, e costante accrescimento del parlato, in un cicaleccio
anche corale.17 Questo, come si diceva, in parallelo con l’evoluzione dello stile
poetico, ma qui in totale sbrigliatezza desultoria.
Passando ora brevemente agli anticipi in sedi sparse raffrontati con gli esiti
in volume, le collazioni fanno emergere ancora inserti sistematici a tasselli (spesso con incrementi anche sul piano del costume contadino) che non alterano e
non intaccano nella sostanza la griglia iniziale, sottoposta a varianti puntuali
interessanti ma esigue. L’espansione risulta nell’insieme notevole, ma ben inferiore rispetto alla gran floridezza raggiunta in anni avanzati da Pomeriggio
bellinzonese, cui si guarderà come a un’importante sperimentazione che salvo
smentite parrebbe isolata.
Non insisto oltre, riservando sperabilmente analisi dettagliate a «indispensabili tesi di laurea» (Contini). Più in generale preme sottolineare che la struttura
digressiva e affabulante del racconto-passeggiata è la più idonea a reggere annessioni e tasselli vari, che non ne disturbano né la linearità né la leggerezza. Del
resto già il Walser dell’omonimo racconto chiedeva comprensione della prolissità inevitabile.18
Un breve indugio sui finali. Quello di Pomeriggio d’estate con il rientro a casa
è inconcluso in modo brillante, rinviando allusivamente alla ripetitività dell’esistenza, senza divergere in sostanza da Pomeriggio bellinzonese:
Meglio a piedi, stavolta. E appoggiarmi alla bicicletta. Non dalla parte del marciapiedi,
ma dall’altra, a strapiombo su un torrente quasi asciutto, dove pareva che da tanto tempo bambini e rifiuti non si chiamassero più (p. 40).
58
Per Giorgio Orelli narratore
Già si sono visti l’explicit svagato di Un giorno della vita; e la cruda battuta finale della Morte del gatto, sempre ancorata al ritmo quotidiano dell’esistenza e del
suo ripetersi. L’explicit di tutti i racconti testimonia nella forma differita e sospesa
la natura volatile di questa scrittura, tanto più notevole in questo luogo testuale
profondamente significativo. Anche in contrasto con il tratto fermo della scrittura,
con la strenua precisione lessicale del grande stilista, con l’esattezza onomastica,
ornitologica e botanica, comune a poeta e prosatore. Qualche altro esempio explicitario: dall’amorosa passeggiata in coppia con le due bici di Serale:
– Te la racconterò un’altra volta, – disse. – Girammo una mezz’ora per le strade di Varese
[…]. Prometto di raccontarti tutto la prossima volta. Ciao.
– Arrivederci, – disse l’Adriana (p. 84).
O da Veronica (dove il protagonista Giuseppe, segretario comunale di Martinengo, segnala il figlio di una vecchia contadina, la Veronica del titolo, ma senza esito):
Più volte, pensando alla vecchia, avrebbe voluto mandarle in ricordo la copia della lettera all’alto funzionario delle Ferrovie. Il quale non ha risposto mai. O perché non si
degna, o perché teme di far errori d’ortografia (p. 98).
Da Primavera a Rosagarda:
Talvolta non incontro nessuno per il paese, Pasquale sarà con le bestie alla Spina, o a
lavorare con l’impresa; vado a salutare il suo cavallo; vado a guardare il mio paese da
tutte le parti; canticchio, fischio, colgo erbe o fuscelli, ne mastico; fingo di cacciare alla
pastura qualche vaccherella o qualche capra (p. 132).
Dagli archivi arriveranno poi come sempre altri dati e altre scoperte, anche
credo dai ricchi epistolari.
Accenno brevemente, perché sembra un caso notevole, alla lettera riprodotta nella plaquette per i novant’anni del poeta I giorni della vita.19 A p. 34 è riprodotta una lettera a Contini del ’51. Così la chiusa: «E aspetto la primavera […].
Desidero uno strepito fitto d’elitre. Mi sento proprio un insetto, provvisorio
come un insetto». L’immagine si ritrova puntualmente ne L’ora del tempo, Passo
della novena («Poi, sul passo, guardare, stancarsi di guardare, / chiudersi nel
rumore fitto d’elitre»), testimoniando l’osmosi ininterrotta non solo tra poesia/
prosa; ma anche tra scrittura privata ed epistolare e invenzione.
Interconnesso nell’intera opera, coltissimo e di memoria scintillante, ricco
anche per questo di implicazioni intertestuali più o meno segrete, sia lessicali sia
metrico-ritmico-foniche sia culturali, che nulla tolgono alla sua sigla personale,
Giorgio Orelli merita altri accertamenti e indagini, come queste giornate di studi confermano con nitida passione.
59
Clelia Martignoni
1
Numerose e notevolissime, come è noto, le plaquettes di anticipi e i libretti parziali: il
tutto è censito ora da Pietro Montorfani, con la collaborazione di Yari Bernasconi, nell’utilissima Bibliografia di Giorgio Orelli, Edizioni Cenobio, Lugano 2014.
2
Cfr. M. Danzi, Esegesi d’autore e memoria di sé: Giorgio Orelli fra prosa e poesia, in
“Autografo”, 18 (1989), ottobre, pp. 3-20.
3
“Bloc notes”, 64 (2014), maggio, Bellinzona, pubblica un ricco Dossier a cura di JeanJacques Marchand: Ricordo di Giorgio Orelli, con interventi di: J.-J. Marchand, Y. Bernasconi, A. Buletti, P. De Marchi, S. Frigerio, G. Güntert, G. Isella, F. Medici, P.V. Mengaldo, A.
Menichetti, A. Nessi, Giovanni Orelli, M.M. Pedroni, A. Roncaccia.
4
Nella voce “Anceschi” dell’Abbecedario Orelli, pur testimoniando affettuosa amicizia e
gratitudine per l’inclusione nella Linea lombarda con altri amici, scrive però con finezza: «lui
era più un teorico che non un critico nel senso che intendo io: cioè di vero e proprio lettore
di testi poetici».
5
Nella Nota introduttiva Yari Bernasconi precisa la genesi, legata a un’inchiesta della
rivista “Viceversa Letteratura” tra 2010 e 2011, e la natura dissimile delle voci, alcune stese
direttamente da Orelli, altre trascritte dalla sua amabilissima conversazione.
6
Poi in Pagine ticinesi di Gianfranco Contini, a cura di R. Broggini, prefazione di S. Salvioni, Salvioni, Bellinzona 1981.
7
Nella prosa Ampelio di Un giorno della vita, «la martora, dalla gola color d’arancia» in
fuga «su un pino» è colpita da un cacciatore (nella poesia: «fugge con la sua gola d’arancia»).
Un’autolettura di Orelli del Frammento della martora, prezioso e fittissimo “accertamento
verbale” (per la rivista svizzera “Quarto”, giugno 2000) è riprodotta in coda a Quasi un abbecedario.
8
Tutti i dati sono censiti nella Bibliografia di Giorgio Orelli. Dal lemma 1960. 7, p. 17, e
dai relativi rinvii appare che molti anticipi avvennero sul “Corriere del Ticino” – il primo è
Ampelio, 13 aprile 1945 – e su altre poche sedi ticinesi), o spesso nell’amichevole area fiorentina (“La Chimera”, “Letteratura”, e soprattutto “Paragone”); ma anche in “Palatina”, sul
“Verri” dell’amico Anceschi, e nell’“Approdo letterario” di Angioletti e Betocchi.
9
Nel bel libro a cura di Virgilio Gilardoni, Luci e figure di Bellinzona negli acquerelli di
William Turner e nelle pagine di Giorgio Orelli, Casagrande, Bellinzona 1978.
10
Il bambino del racconto Serale, fratellino ipersensibile della fidanzata Adriana dell’io
narrante, si chiama Sergio: un caso forse, ma Sergio è il nome del protagonista del Conservatorio, ragazzo delicatamente in formazione, schivo e assorto, diviso tra l’affetto di mamma e
zia, e ritratto con entrambe in lente passeggiate campestri
11
Che nella Chimera del 1955 era più referenzialmente Viaggio d’estate (cfr. Bibliografia
di Giorgio Orelli, p. 14).
12
In qualche modo vicina ad altra immagine: «i castelli sulle colline erano navi pronte per
andarsene», Suite provinciale, p. 152, decisamente ripresa dall’amato Cardarelli: «Le chiese
sulla riva paion navi / che stanno per salpare», Sera di Liguria (stabile nelle Poesie Mondadori,
ma già in Giorni in piena 1934).
13
Come sono spesso salienti e intense sintassi e interpunzione, che andrebbero studiate
analiticamente.
14
Vedi infatti per la poesia come l’enigmatica Sera a Bedretto (che prende spunto da una
partita a tarocchi in famiglia) sia spiegata con acutezza particolare dall’intimo Giovanni Orelli, nel numero di “Bloc notes” citato, pp. 120-123. Ma si veda già G. Orelli, Lettura di Sera
a Bedretto, nella plaquette per i novant’anni di Giorgio: G. Orelli, I giorni della vita, a cura
di P. De Marchi, con la collaborazione di S. Soldini, Casa Croci, Mendrisio 2011, pp. 15-18.
15
Per i canti, penso, sempre nell’Abbecedario, sotto la voce “militare (servizio)”, al cenno
ai canti militari, emersi dal «Ticino spiritoso», come quello «della Manon», che non si riferisce all’opera di Puccini, ma a una canzonetta popolare.
16
Scimmia che a Nessi ricorda Daumier.
17
Su cui estrapolo almeno un segmento vivacissimo: dopo l’apparizione preesistente del
gufo, si aggiunge ex novo un uccello misterioso: «C’è poi un uccello di cui parla tutta la falda
del quartiere alto, che di notte, sempre alla stessa ora, verso mezzanotte, canta, per pochi
60
Per Giorgio Orelli narratore
minuti, e nessuno, compreso l’ornitologo (capo caseggiato in caso di guerra atomica), è mai
riuscito, non dico a vederlo, ma a sapere che razza d’uccello sia, non civetta come molti dicono, no no, non allocco, o forse sì un allocco, macché allocco, ti dico io che è una tortora,
domandi alla signora Benvenga come fanno a cantare le due tortorelle nel suo giardino, no
no, questo qui fa un verso continuo né lungo né breve, appena più alto all’inizio, e dopo un
cinque secondi un altro verso spezzato in due, brevissimo nell’avvìo e diverso dal primo, non
nego che possano essere due gli uccelli, maschio e femmina che si chiamano e rispondono,
chissà» (p. 62).
18
Cfr. dall’edizione adelphiana 1976 (trad. Emilio Castellani), p. 47: «Per tutte le lungaggini, divagazioni e prolissità […] chiedo in anticipo umilmente scusa».
19
Cfr. nota 14. Contiene anche testi inediti di Orelli, e la ristampa di alcuni suoi “ricordi”.
61
PIETRO GIBELLINI
Pane e coltello: un poeta fra quattro narratori
1. Oggetto, limiti e intenti
L’oggetto del mio intervento è circoscritto, e almeno in apparenza assai limitato:
si tratta della prosa Autunno a Rosagarda, pubblicata nel 1975 nel volume Pane e
coltello che riuniva, con quello di Giorgio Orelli, altri quattro «racconti di paese»
scritti da Piero Bianconi, Giovanni Bonalumi, Plinio Martini e Giovanni Orelli.
Il fine, invece, è assai ambizioso, o forse scontato: caratterizzare la scrittura in
prosa di Giorgio Orelli come quella di un narratore-poeta a confronto con quattro narratori-narratori (o narratori-saggisti), proponendo di leggere Autunno a
Rosagarda come virtuale sequenza di “sinopie” in prosa, di “spiracoli” sul suo
paesaggio esterno e interno. Il sottotitolo, Un poeta tra quattro narratori, l’ho
scelto per chiarezza didattica, senza intenti provocatori: è naturalmente semplificatorio, perché narratore seppur rapsodico era e sarebbe stato anche Giorgio
(lo chiamerò così non per eccesso di confidenza ma solo per distinguerlo dal cugino Giovanni); d’altra parte anche Plinio Martini aveva iniziato verseggiando,
e Giovanni era destinato ad assecondare anche la sua vena di poeta in dialetto
e in lingua, al punto da bilanciare nella maturità la sua non rinnegata vocazione
narrativa. Quanto a Bianconi e a Bonalumi, il loro profilo si presentava allora
come quello di due critici e saggisti prima e più che narratori, ché del primo
non poteva dirsi romanzo l’Albero genealogico (1969), “cronache” di emigranti
stese con taglio memorialistico e storico e di cui la variazione offerta in Pane e
coltello isola il motivo centrale, mentre il secondo, che pur aveva alle spalle un
romanzo non privo di meriti e riconoscimenti (Gli ostaggi, 1954), era più noto
come studioso di letteratura e docente nell’ateneo di Basilea.
Il metodo che cerco qui di seguire non è propriamente quello degli «accertamenti verbali» prediletto e praticato da Giorgio; non indugerò infatti sul significante verbale, sul «suono dei sospiri» (ne escono anche fra le righe di Autunno
a Rosagarda), ma cercherò di caratterizzare, per dirla con il sottotitolo di Pane
e coltello, il “paese” reale e mentale di Giorgio, ponendolo a confronto con i
“paesi” degli altri quattro scrittori; metterò a fuoco le cose da loro guardate e
la diversità dei loro sguardi. La piccola investigazione poggerà su tre mots-clés,
o più modestamente mots-clous, tre chiodi cui agganciare il filo per stendere i
panni delle osservazioni, esposte al vento che potrebbe farle svolazzare qua e là:
Memoria, Passeggiata, Risentimento.
63
Pietro Gibellini
2. Pane e coltello, 1975
Correva dunque l’anno 1975; la Svizzera, come e più di altre parti d’Europa, viveva il momento della grande espansione economica, quando usciva dall’editore
locarnese Armando Dadò quel volume quadrato ed elegante, dalla rigida copertina telata, di color verde oliva chiaro, con le pagine in carta patinata per accogliere le fotografie di Alberto Flammer, perfettamente intonate al soggetto (un
sesto racconto, fatto per immagini). Poteva sembrare una strenna simile ad altre
che editori con il gusto del bel libro preparavano nell’imminenza delle feste. Ma
titolo e sottotitolo, ancor prima che il cast degli scrittori raccolti, facevano capire
subito che l’intento non era quello di donare un libro-oggetto ispirato al dolciastro clima natalizio in cui domina un sentimento spesso superficiale di letizia. Il
Chiarimento di apertura, siglato P.B. (certo Piero Bianconi, riconosciuto decano
della pattuglia, come mi conferma Giovanni), dissipava il possibile equivoco:
Pane e coltello: quest’ultima parola non deve evocare truci immagini di sangue, l’espressione viene a dire semplicemente (con bella energia e non senza ironia), pane asciutto,
pane solo: senza nemmeno la poca consolazione del facchino di Parigi, qui mangeait son
pain à la fumèe du raust: come racconta Pantagruel a Panurge in mal di matrimonio, nel
capitolo XXXVII del Tiers Livre.
Pane e coltello; o come dice la nostra gente, pan e spüda, pane e saliva. Ed è espressione
che viene a dire povertà, se non miseria: «Pane e coltello non empie mai il budello»,
suona il proverbio; e come titolo di nobiltà si può aggiungere che la si incontra in Machiavelli: «un pascersi di pane e coltello». Comunque l’espressione bene si attaglia a far
da titolo, se non a tutti, a parecchi degli scritti raccolti in questo volume: di scrittori tutti
notoriamente non di estrazione borghese, bensì di popolo, e che hanno mantenuto del
loro mondo di origine una memoria incancellabilmente affettuosa: anche se le mutate
condizioni gli consentono companatico più sapido del nudo coltello.
Sintesi perfetta, nella sua concisione! Val la pena però di storicizzare l’impatto
di quel libro su chi, allora trentenne, aveva rapporti con il Cantone ma viveva in
Italia. Quel Ticino, che ai nostri occhi appariva l’emblema dello stato in vertiginoso progresso di ricchezza, gettava lo sguardo su un passato che credevamo remoto
ed era invece prossimo; vissuto anzi in prima persona dai cinque scrittori che vi
erano inclusi, invitati a una passeggiata nel proprio territorio e nei propri ricordi.
Ma quella silloge fissava tacitamente un canone di auctores, proponendo il fiore
degli scrittori elvetici di lingua italiana di una generazione compresa fra il 1899 di
Piero Bianconi da Minusio, il fine critico d’arte, e il 1928 di Giovanni Orelli da
Bedretto, Giovanni Bonalumi da Muralto (classe 1920), Giorgio Orelli, nato ad
Airolo nel 1921, e Plinio Martini da Cavergno, classe 1923.
Ora, in tutti questi, pur nella diversità della misura e della scrittura, del taglio
ideologico e del registro di stile e di genere, coesisteva una risposta, ironica o
accorata, a questo rapido trapasso, al tramonto di un mondo plurisecolare, una
povera montagna tutt’altro che idillica, ma dignitosa con le sue ombre e le sue
luci, violentata nel paesaggio, negli affetti, nei valori dal trionfo del vetrocemento,
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Pane e coltello: un poeta fra quattro narratori
dall’invenzione dei turisti e dall’irruzione della finanza; una valanga non meno
insidiosa di quella che minacciava i villaggi alpestri. Trapasso troppo rapido per
non suscitare reazioni satiriche o accorate, le prime nella forma della polemica o
dell’ironia, le seconde oscillanti fra pietà ed elegia, mai sfumanti in astratta nostalgia di un mondo pur pieno di durezze, di sofferenze, di repressioni.
Si tratta di uno scenario antropologico-letterario che diede titolo a un mio
scritto, Due Svizzere in conflitto (1979), in cui rifondevo le recensioni stese a
caldo all’Albero genealogico di Bianconi, al Requiem per zia Domenica di Martini
e alla Festa del ringraziamento di Giovanni (dei primi due libri gli autori offrivano in Pane e coltello una sinopia e un frammento). Fu forse per questa mia
attenzione alla cultura del Cantone che il libro arrivò tra le mie mani: lo riapro,
trovandovi la dedica del donatore («All’amico Piero / Romano Broggini») e
rileggendo i racconti, di cui darò un cenno del soggetto e qualche stralcio, per
dare un assaggio concreto della scrittura: il tutto vòlto al confronto finale con il
testo di Giorgio.
3. Piero Bianconi, Fatiche di donne
Così Bianconi apre le sue Fatiche di donne, descrivendo una fotografia che troviamo in Albero genealogico, libro fatto di parole e immagini proprio come Pane
e coltello (un dato che assieme alla sigla del Chiarimento prefatorio individua in
Bianconi l’ideatore o il regista del libro collettivo):
La sola immagine che conservo della mia nonna materna è una fotografiuccia grande
come un francobollo: dove la si vede curva sotto un carico di legna, appoggiata a tirare il
fiato a un muricciuolo, col misero corpettino sulla camicia candida e ruvida, il grembiule
allacciato alto: gli occhi spauriti e come imploranti sotto la gronda nera del fazzoletto.
La fotografia deve avergliela fatta un bravo turista tedesco già allora a caccia di aspetti
“pittoreschi” del Ticino: che Dio gliene renda il giusto merito. Da quella minima immagine la tardiva pietà dei figli aveva fatto ricavare un ingrandimento che rendeva spettrale
la striminzita figura: uno di quegli ingrandimenti a carboncino (modo di spillar soldi alla
buona gente, facendo leva sui buoni sentimenti, la memoria dei morti, dei poveri morti:
industria che fioriva e certo ancora fiorisce un po’ dappertutto nei paesi depressi, Mergoscia come Barbiana, se ne vedono tracce appunto nelle lettere di don Milani).
Parte di qui l’andirivieni memoriale di Piero Bianconi, che rievoca i suoi
antenati emigrati dalle povere valli locarnesi alla volta dell’Australia o della California, spinti dal bisogno, contagiati anche dall’illusoria febbre dell’oro e sfiniti
dal lavoro per mandare una manciata di soldi alle mogli rimaste a casa con i figli
a faticare come bestie. E stupore per la condizione servile delle donne ticinesi manifestavano, segnala Bianconi, tanti viaggiatori nordici, da Bonstetten a
Ruskin. Memoria personale e letture ad ampio raggio concorrono a rievocare la
generale miseria di quelle valli e a seguire l’esodo dei suoi maiores scorrendo la
corrispondenza fra gli uomini emigrati e le loro donne rimaste a penare. Scritto-
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Pietro Gibellini
re-saggista, Bianconi ne incastona passi per colorare la prosa con quella scrittura
da dignitosi semidotti, oscillante tra forme impettite e slittamenti dialettali, uno
stile che non suscita sorriso ma rispetto: quei montanari si mettono allo scrittoio
con la stessa compunzione con cui posano per il ritratto fotografico. E il cammino nel tempo diventa odissea nello spazio. Alle traversate oceaniche (altro che
passeggiate!) si intreccia il commento riflessivo dell’autore, che rende omaggio
a quelle generazioni dignitose e dolenti, e si interroga anche sull’hic et nunc, sul
confronto fra loro e sé, sulla propria inspiegabile stanchezza, che sente come
colpevole accidia ma che ha forse in quel passato la sua causa e la sua scusante:
E mi pare, così cercando, mi par di capire che si tratta di una stanchezza non mia personale, ma di una stanchezza ancestrale, ereditata, la stanchezza delle remote fatiche
dei miei antenati, da loro non potuta smaltire: perciò me l’hanno legata in eredità, che
provvedessi io, infingardo nipote, a esorcizzarla.
Ecco perché, quasi a scongiurare quelle fatiche, ecco perché scrivo di mia nonna appena
conosciuta, del mio prozio morto prima che io nascessi: e con loro penso alle umiliate
donne del nostro paese, ai tanti emigranti andati a faticare e a morire in terra aliena.
Così si chiude il racconto di Bianconi, che muove da una pietas erga parentes
a suo modo ereditata da suo nipote, Renato Martinoni, studioso valente ma
anche scrittore vero, che ripercorrerà in modo originale materia e documenti
di quella saga familiare nelle sue «storie di emigrazione alpina» (Il paradiso e
l’inferno, 2011). Se lo scritto di Bianconi è un omaggio al coro dei suoi antenati,
quello di Giorgio (vedremo) è l’agnizione di una voce che non può più accordarsi con il coro dei suoi compaesani.
4. Giovanni Bonalumi, “Ai castagni”
Mentre nella prosa di Bianconi l’io-narrante coincide con l’autore che compulsa
le carte di famiglia, solo fittizia è la prima persona dello scritto di Bonalumi,
quello cui calza meglio l’etichetta di racconto, e che è anche il più lontano dalla Rosagarda di Giorgio. Nulla sembra accomunare l’io-narrante all’autore: un
pittore di strada che vive tra Basilea (unico tratto accostabile allo scrittore, che
nella città renana svolgeva il suo insegnamento universitario), la luminosa Provenza dove si sposta per dipingere, e la villa ticinese di Rosaria, la escort morta
misteriosamente, l’«amante per un giorno, amica per tutta la vita», dal cui ritratto dipinto con trasporto non si staccherà mai. La struttura è quella di un giallo,
seppure modernamente irrisolto (Gadda e Dürrenmatt docunt). Il ritmo, incalzante, interciso da brevi dialoghi e svelte descrizioni, rivela il temperamento da
romanziere. Se ne veda un esempio, appena dopo l’inizio:
Certo che al commissario non ho mica detto tutto quello che sapevo. Primo, perché molte di quelle domande si riferivano a quisquilie, a particolari: secondo, perché a parlare
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Pane e coltello: un poeta fra quattro narratori
con un poliziotto (con quel mio mestiere di pittore in piazza, poi) c’è solo da perderci.
No, proprio non mi andava di compromettermi, di farmi inchiodare in quella stanzetta
per giorni, magari per settimane. Parlargli, che so, della casa, della villa di Contra, della
lite scoppiata un paio di mesi prima tra lei e Karl? Una storia che a raccontarla mi ci
sarei perso. Lui che le pagava l’affitto dell’appartamento a Basilea, ma che esige la metà
almeno di quanto incassa ogni mese. Poi di mezzo c’è l’ipoteca sulla villa, una spesa
inizialmente spropositata. La villa; il terreno che era di lei, ereditato a vent’anni da una
vecchia zia. Cinquemila metri, bosco, vigneto, un posto incantevole che oggi come oggi
non ha prezzo. La villa era intestata a lei, Rosaria, ma nel contratto, così m’è sembrato
d’indovinare da certi suoi discorsi, dovevano esserci delle clausole, delle condizioni. «È
mia, sì, a patto che io continui a rendere. Anche in questo ci sono delle scadenze!», così
le è scappato di dire, una volta. E allora, finalmente, sia pure in confuso ho capito la
stizza che la prendeva quando l’uno o l’altro dei clienti non si faceva più vedere o anche
solo rimandava l’incontro d’una settimana.
Passo dopo passo, tra un flash-back e un nuovo incontro, entriamo nella storia con informazioni centellinate ma foriere di nuovi dubbi. Era davvero sua
la lussuosa villa “Ai castagni” (eponima del racconto) o era di Karl, sorta di
padrone-protettore che ivi organizzava incontri di uomini misteriosi e facoltosi? Squali della finanza in cerca di un’orgia o appuntamenti per loschi traffici?
E poi, Rosaria è stata uccisa o è morta naturalmente? E quel distinto signore
tedesco di nome Karl che a Basilea vuole acquistare il ritratto di Rosaria è lo
stesso misterioso amante-sfruttatore di Rosaria? Il pregio del racconto è quello
di avvincere il lettore con una trama da giallo che risulta però opera aperta, un
nodo che spetta al lettore-detective di sciogliere; certo è che se la lussuosa villa è
collocata in quel di Contra, in nessun modo quello di Bonalumi può dirsi “racconto di paese”, tutto giocato com’è sulla Svizzera che ha scordato le sue radici
montane. L’escursione di Bonalumi è topografica, quella memoriale è delegata al
personaggio, interna alla finzione semipoliziesca ed essenzialmente sincronica.
Il “paese”, insomma, non c’è più.
5. Plinio Martini, I funerali di zia Domenica
Tutt’altra china è quella scelta dal racconto di Martini. Il quale è narrato in terza persona e ha per protagonista Marco, trasparente portavoce dell’autore, del
quale condivide l’esperienza valligiana di un Ticino povero e arcaico, con la sua
etica severa impersonata da zia Domenica, protagonista del Requiem, il romanzo di cui offre nei Funerali di zia Domenica la primizia e il nucleo. “Racconto di
paese” in senso proprio, la prosa intreccia narrazione e memoria nel perimetro
del paesello in val Bavona, Sonlerto, dove (ragazzo) vide arrivare da Locarno
la figlia quindicenne di un lontano parente, Giovanna, vivendo con lei la prima fiamma amorosa. Un innamoramento ostacolato nel suo sperato sviluppo
dalla vigile e sessuofoba zia; la quale ora, dalla bara, finisce per rinnovare il suo
ruolo di interditrice, impedendo l’incontro amoroso tra i due diventati adulti,
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Pietro Gibellini
nuovamente vicini per assistere alle esequie. Al tragitto spaziale, tra Sonlerto e
Locarno, si sovrappone l’andirivieni della memoria fra un nunc e un tunc che retrocede anche oltre la fiamma dell’amore adolescenziale, come vediamo nell’attacco del racconto:
Nella grande cucina di zia Domenica, Marco aveva ritrovato l’atmosfera di quando a sei
anni lo trascinavano alle veglie dei morti. Allora la salma del defunto, composta sulla barella comunale e ricoperta di un lenzuolo in attesa che il falegname finisse d’inchiodare la
cassa, era posata in mezzo a una stanza da cui era stato tolto il povero mobilio, in modo
che tutt’intorno potessero disporsi i parenti i vicini di casa e gli amici; gli adulti seduti su
seggiole prese in prestito e ordinate contro le pareti, sotto le foto di famiglia e i ricordi
della prima comunione; i ragazzi accucciati su sgabelli a pochi palmi dal morto. Quello
spazio esiguo, riscaldato da tanti corpi, graveolente degli odori che i contadini portano
dai campi e dalle stalle, non era sufficiente per la gente convenuta, e pertanto erano
occupati anche i corridoi e le scale, di donne soprattutto, che magari si erano portate da
casa il cuscino da aggiustarsi sotto il sedere in un angolo di scalino; e dal suo posto tra
gli altri ragazzi, Marco, che all’entrare aveva inutilmente pregato chi l’accompagnava di
metterlo altrove, lontano dal cadavere, le invidiava.
Nel continuo vai-e-vieni fra descrizione e ricordo, che è anche soprassalto
emotivo, in linea con l’etimo che associa la memoria al cuore, sua sede segreta,
tornano le frasi latine della liturgia, la minaccia contro il peccato più grave, quello del sesso, nell’ottica risentita di Marco adulto, che crede di essersi svincolato
da quel mondo, ma che viene ancora una volta frustrato, ché zia Domenica cala
nella fossa, ma l’explicit del racconto suggerisce che l’incontro con Giovanna resta virtuale, tacitamente immaginato, limitato al tocco del braccio, a uno scarto
prossemico dagli altri:
Giovanna lo aspettava fuori, e la prese per un braccio, tremante ma non rigida, per scostarla dagli altri e indirizzarla verso la campagna soprastante. Si fermarono, lei si lasciò
guardare senza dir nulla; era diversa di come la ricordava, il volto teso e dimagrito, gli
occhi più pensosi, forse più bella; poi si voltarono entrambi a guardare il camposanto
che era ormai vuoto: l’ultimo gruppetto di persone stava avviandosi all’uscita, lasciando
alle spalle quattro ragazzi intorno ai becchini che riempivano la fossa.
6. Giovanni Orelli, Anche l’inferno è nei cromosomi?
E il diavolo? (Da quaresime lontane)
Simile e diverso è l’atteggiamento di Giovanni Orelli nei confronti della educazione religiosa tradizionale, simile il giudizio fortemente critico, diverso il tono
emotivo, più portato all’umorismo che al risentimento. Anche qui valga come
esempio testuale l’esordio:
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Pane e coltello: un poeta fra quattro narratori
C’era una volta la prima comunione, il nostro primo incontro con Gesù. C’era l’esame. Il
prete, perché gli zucconi ci dessero sotto, dava i punti: cinque, dieci, venti, fino a cento
punti se la domanda era molto difficile. Ma si poteva anche tornare indietro. L’Albino,
che a tre giorni dalla classifica finale era a quota 762, perse in un colpo mille punti e andò
sottozero. Gli aveva chiesto chi ti ha creato, e lui: la zia Mafalda. Una risposta così era
una grave offesa a Dio che ci aveva creati. Che ci aveva creati per? Asini, per conoscerlo
amarlo servirlo; e goderlo per sempre in paradiso.
Il racconto in prima persona è affidato a un trasparente sosia dell’autore,
migrato dal nativo villaggio alpestre nella città del boom economico. Il dialogo
con i figli, che conduce alla scuola di danza e alla palestra di judo, lo induce a
un continuo confronto con la sua infanzia; il tutto giocato con ironia che non
risparmia se stesso adulto e le sue perplessità. La forma interrogativa del titolo, così come l’indicazione del sottotitolo (Da quaresime lontane) che, aggiunto
all’incipit favolistico («C’era una volta»), indica che la modesta distanza temporale tra l’allora e l’adesso corrisponde a una smisurata distanza antropologica
tra il mondo contadino cui l’autore si sente legato e la realtà borghese in cui si
trova spaesato e mentalmente esule. La sua sorridente critica si esercita dunque
sui valori o disvalori di una odierna società schiava del denaro e dell’apparire
mondano così come colpisce l’antica educazione penitenziale e repressiva, abbandonata con lo spostamento in città e l’evoluzione del suo pensiero, ma di
cui l’io-narrante serba tracce indelebili. Sì, perché se aspra era la critica mossa
all’oppressione e all’iniquità del paese antico, anche nella Svizzera delle banche
e del vetro-cemento il narratore si sente spaesato: eccolo in bonaria frizione con
i figli e la moglie più savia e realista; eccolo avverso ai riti e ai ritmi della classe
borghese, alle signore supponenti e ignoranti impermeabili al sorriso; eccolo
smarrito di fronte alle certezze pedagogiche di una maestra di danza omofoba.
Fra il retaggio di una formazione soppiantata da un pensiero immanentista, il
persistere di interrogazioni supreme: il titolo, anche per questo, appare eloquente, chiedendosi dove stia l’inferno e sulla sua possibile sede nei cromosomi: inferno e genealogia sono termini che caratterizzano anche la saga familiare nella
doppia rivisitazione di Bianconi e Martinoni (Albero genealogico, Il paradiso e
l’inferno) e che alimentavano nel giovane Plinio Martini un terrore e un conseguente risentimento assai diversi dall’umorismo satirico di Giovanni. Analoga
e diversa, rispetto all’amico Martini, è anche l’opzione sperimentale dello stile:
più gaddiano in Plinio, giocato com’è su intarsi plurilingui con il latino e su enumerazioni lessicali, più bachtiniano ante litteram in Giovanni, giocato invece su
una focalizzazione cangiante, su una polifonia assorbita nel monologo autoriale.
7. Giorgio Orelli, Autunno a Rosagarda
Ed eccoci finalmente ad Autunno a Rosagarda, al “racconto di paese” di Giorgio
Orelli. Inutile, anzi impossibile riassumerlo, poiché l’intento di mostrarne la
sottesa natura poetica che lo caratterizza e lo differenzia dagli altri quattro scritti
69
Pietro Gibellini
esige una lettura integrale del testo, rallentata e iterata. Rammentiamone tutt’al
più le sequenze: che sembrano poesie virtuali, o, mi si passi il bisticcio, sinopie di sinopie, spiracoli sul mondo esterno e interno dell’autore. L’io-narrante,
chiara proiezione di Giorgio (anche se l’unica volta in cui la sorella lo nomina
lo chiama Francesco) è tornato al paese. Spacca la legna in presenza del padre,
che ha l’aria di un vecchio sceriffo in pensione. Il dialogo tra i due è faticoso;
cominciano le intermittences du coeur. Ben altro il rapporto con la madre: di
complice sintonia anche nei silenzi, nel fraseggio dei puri gesti. Poi lo sguardo si
estende ad altre figure del paesello, parenti, conoscenti: la cagionevole zia Santa
e la zia Romilda che gli portava l’uovo fresco, la vecchia Letizia che sta perdendo la vista, il probo e forte Pasquale, Medardo con la figlia mascolina, il roccioso
Gustavo dei Sassi, e soprattutto Alessio, («giovane e argutissimo cugino»‚ mi
segnala Lucia, figlia dello scrittore), formidabile cacciatore già con il tirasassi e
ora con il flobert. La sequenza finale è un ritorno nell’orto di casa: un uccello
si posa sul melo, la madre glielo addita, lui imbraccia il fucile come allora, ma
dentro non si sente più cacciatore, esule per sempre da quel piccolo mondo
antico; mentre punta l’arma, arriva, liberatorio, lo sparo del più rapido Alessio.
Il racconto finisce con i due che sparano a vuoto su uccelli che si allontanano
svolazzando nella bruma serale, «finché non ci vediamo più».
Il timbro poetico della scrittura di Orelli, giocata fra delicatezze liriche e
voluti abbassamenti tonali, potremmo trovarlo nella musicalità del dettato, vistosa nel fitto uso di soluzioni eufoniche, dai troncamenti («dar fastidio», «far
bello», «fender legni», «far la torta», «strappar erba») agli abbondanti apostrofi
(«Innz’ieri») o all’epentesi desueta («in Isvizzera»). Spuntano qua e là nomi di
scrittori («Lucrezio», «Giuseppe Zoppi»), citazioni riconoscibili («la vigna di
Renzo», «ed è subito sera») ma anche criptiche (ricordando «l’anno della valanga» a Bedretto Giorgio allude all’evento trattato nel romanzo omonimo del
cugino bedrettese Giovanni, L’anno della valanga, 1965). La «faccia larga» di zia
Romilda «in cui non c’è pericolo di conoscere la M tra gli occhi» si spiega con il
passo di Dante che in Purgatorio legge nei volti scarniti dei golosi la parola omo
che incorpora le o delle occhiaie negli spazi della m come tra naso e arcate dei
sopraccigli («Parean l’occhiaie anella sanza gemme: / chi nel viso de li uomini
legge “omo” / ben avria quivi conosciuta l’emme», XIII, 30-32). Non evoca forse i pregiudizi su Rosso Malpelo la moglie di Medardo, una «di quelle rosse che
si può ben dire che neanche il diavolo le conosce»? La vista di una pianta non
gli richiama forse «la rima betulla-fanciulla»? Sono i lustrini che occhieggiano
in un grigio che vuol presentarsi nelle vesti semplici di una scrittura dimessa, in
sordina: che si finge grigia, ed è perlacea.
Di qui i contatti del racconto con la scrittura poetica di Giorgio, globalmente
considerata. Chi ignora ad esempio la funzione di basso-continuo che hanno i
colori nelle poesie di Giorgio, che titolò Né bianco né viola la sua raccolta d’esordio? La tavolozza di Autunno a Rosagarda ce ne offre una gamma assai ricca:
ecco il «rosso cupo» della rosa solitaria, la mela «d’un rosso quasi innaturale»,
«Alessio, rosso come le mele», la «rossa melissa nell’orto di Pasquale», i «luma-
70
Pane e coltello: un poeta fra quattro narratori
coni rossi che fanno schifo», il «rossastro» dei caprioli: ecco il «verdino» della
vecchia poltrona, la siepe «che resta verde, forse d’agrifoglio»: il «legno scurito,
quasi vellutato» della vecchia casa con «un tetto di piode nerastre, spruzzate
di muffa verde»: e poi la «terra scura su cui piovono i petali del melo», e Zia
Romilda «rotonda, violetta», e ancora: qualche «uccello di un’altra razza, più
scuro o più chiaro»: la «polverina bianca», le «càmole bianchicce», la «gazosa
bianchiccia», «le venature pallide» degli stecchi di legno «che quasi rincresce
di bruciarli». Dal rosso al violetto lo spettro solare trascolora, fin al bianco e al
nero, con preferenza per la loro contaminazione, quel grigio adatto al tono dimesso del quotidiano ma lampeggiante di preziosi riflessi (Beatrice vestiva panni
di tinta umile ma il suo viso gareggiava con il color di perla): al «larice ingrigito»
del legno risponde il «grigio del soffitto» (non scrive «grigio soffitto», si badi, in
linea con il linguaggio poetico post-simbolista che inverte il ruolo fra sostanza e
accidente, promuovendo a sostantivo l’aggettivo e abbassando il nome a epiteto:
così, i gialli fiori di tarassaco sono per Orelli «il giallo dei fiori del diavolo»). Del
resto non «luccica» come un gioiello il rotolo di fil di ferro con cui Francesco
ripara il manico della scure?
Altrettanto vistoso è il ricco bestiario che popola i versi orelliani. Ebbene,
nelle poche pagine del racconto troviamo un vero giardino zoologico popolato
da ballerine, camole, camosci, caprioli, cervi, chiocciole, corvi, cesene, cutrettole, francolini, galli, lumache e lumaconi, marmotte, scoiattoli, stornelli, topi,
tordi, uccelli non identificati, vacche, viscarde.
Vero è che, a dispetto di quanto appena scritto, Giorgio intendeva con il suo
Autunno presentarsi come narratore, mettendo la sordina alle pulsioni liriche
e cercando di volare rasoterra, anche con gli episodi umoristici non privi di
scurrilità (la signora di città «crede di cagar più in alto del culo», e al patrizio
che l’ha rimbrottato il ragazzo risponde: «lei è un signore della merda con su il
cappello»). Ma se lo stile di questa prova puntava verso il sermo humilis, come
l’uccello che si posa sul melo rischiando la vita, l’impulso a innalzarsi prevale,
come nell’immagine ornitologica che chiude questo giorno d’Autunno.
Limitiamoci dunque a queste due generiche affinità fra la prosa di Giorgio
e la sua scrittura in versi, rinunciamo a confronti intertestuali più circoscritti
e circostanziati, e consideriamo invece ciò che accomuna e ciò che distingue
gli sguardi dei cinque scrittori di Pane e coltello, agganciandoci ai tre terminichiodo sopra menzionati: Memoria, Passeggiata, Risentimento.
La memoria di Bianconi, guidata dalle sue letture critiche e soprattutto dai
documenti epistolari di casa, risale di alcune generazioni lungo i due rami familiari accomunati dall’emigrazione, i Bianconi e i Rusconi; l’esame di coscienza si
manifesta essenzialmente nella chiusa, nell’agnizione di una stanchezza ereditata
dalle penose fatiche dei suoi lari; nel racconto di Bonalumi, schiacciato sul presente, la memoria del vecchio “paese” è assente, così come i conti con se stesso
li fa solo l’“incosciente” protagonista che non è in alcun modo autobiografico;
in Martini la memoria è giocata invece sul vissuto del protagonista para-autobiografico, fra il ricordo del mancato incontro amoroso di Marco e Giovanna ado-
71
Pietro Gibellini
lescenti nel paese di zia Domenica e il loro ritrovarsi da adulti in quel “paese”
che non è più loro ma in cui ancora vige la legge severa della zia morta, mentre
l’autore oggettiva nel racconto in terza persona la propria memoria del villaggio
rurale; la memoria di Giovanni, nel suo monologo marcatamente autobiografico, affiora nel continuo confronto fra la sua infanzia e quella dei suoi ragazzi, tra
la sua giovinezza alpestre e la sua maturità urbana: non manca peraltro un cenno
al suo «albero genealogico» (espressione bianconiana) che a un certo punto ha
gettato, con lui, un ramo diverso. La memoria di Giorgio affiora a sprazzi, per
delicate intermittenze del cuore, e la distanza tra il mondo passato e presente,
fra il sé di ieri, è giocata per allusioni: dalla sostanziale incomunicabilità con il
padre alla finale consapevolezza di non poter essere più cacciatore. La modalità
degli intarsi memoriali e riflessivi al tessuto narrativo lo avvicina al cugino più
che a Bianconi e Martini (Bonalumi è fuori campo), fatta salva la diversità non
solo di scrittura ma di taglio mentale: socio-politico e filosofico-esistenziale in
Giovanni, più emotivo ed estetico in Giorgio. Non è, quest’ultimo, un requisito
prevalente della scrittura di vocazione lirica? Vero è che la parola morte circola
a Rosagarda, dall’iniziale cenno alla «morte che vive qui intorno» al dialogo
mentale con il prete che riportiamo sotto; né manca l’evocazione del funerale,
così centrale nella narrazione di Martini: ma se Plinio preme, volente o nolente,
il pedale del Dies irae, leggero è il tocco di Giorgio che rievoca le esequie della
zia Romilda, la divisione delle suppellettili tra gli eredi:
Girava tra noi nipoti un qualcosa di calmo e affettuoso che in certi momenti doveva
essere una specie di pietà di noi, della morta, del suo uomo che aveva fatto il cameriere
in Inghilterra e a Bugliasco era l’unico favorevole al voto alle donne, e pietà anche dei
lenzuoli sepolti nei cassettoni.
Anche con Bianconi il confronto con una parola-oggetto serve a differenziare più che ad accomunare: la «fotografiuccia» della nonna che innestava la
pietosa saga corale riesumata da Bianconi, in Giorgio è quella che ha al centro
se stesso ragazzo: «un ragazzino che ha cominciato a pettinare i capelli all’indietro, così magro da sembrare portato lì dal vento come l’achenio d’un soffione».
Anche questa declinazione della soggettività risponde a urgenze liriche.
E la Passeggiata? Fermo nel suo studio davanti alle lettere ingiallite, Bianconi segue le piste degli emigrati in California e in Australia. Nella sua storia d’invenzione Bonalumi disegna una triangolazione fra la villa di Contra, la Provenza
e Basilea. Più breve, ma tutt’altro che turistica, è negli altri tre la passeggiata
reale o mentale tra il paese nativo e la vicina città (non importa se i luoghi sono
menzionati o taciuti): il tragitto di Martini tra Locarno e Sonlerto (non lontano
dalla sua Cavergno), quello tra Bedretto e Lugano di Giovanni, e dovremmo
dire tra Airolo e Bellinzona di Giorgio. Dovremmo, perché nella sua prosa in
verità Giorgio non ci porta a passeggio se non a Rosagarda, tra casa e cortile:
lo sguardo attuale o memoriale si concede pochi passi fuori casa, per l’incontro
volante tra la madre e Letizia e l’occhiata al melo dell’orto del vicino dove si è
72
Pane e coltello: un poeta fra quattro narratori
posata una viscarda. Una piena circoscrizione spaziale, e una temporalità che
non esce dai confini del villaggio, se non per avvertire che il buon vecchio sarà
operato all’ospedale di Faido e ricordare quando a Bugliasco i parenti si divisero
le lenzuola. L’eco della città è portata solo da due forestieri: la turista di Lugano,
il cacciatore di Bellinzona. Il viaggio nel ricordo, insomma, non è tra luogo e
luogo, ma tutto a Rosagarda, anzi tutto dentro di sé, tra il sé di oggi e di ieri.
Anche questo mi pare un tratto caratterizzante un’ottica fortemente soggettiva,
una introspezione operata girando lo sguardo su cose e persone vicine, insomma
una posizione potenzialmente lirica.
Terzo e ultimo filtro del nostro confronto, il Risentimento. Contro chi? Bianconi, rievocando con accorta empatia le fatiche delle povere donne lascia trapelare qua e là un moto di fastidio per il turista tedesco che fotografa la contadina
come una curiosità pittoresca («che Dio gliene renda il giusto merito»), verso
i pensatori dubbiosi che la donna avesse un’anima, verso gli stessi montanari
poveri eppur serviti da donne doppiamente povere. In Bonalumi il personaggio,
artista “incosciente” dunque mal integrato nel sistema borghese, manifesta la
sua diffidenza verso la polizia, la sua avversione per gli uomini d’affari sospetti
pescecani che ruotano attorno a Rosaria e a Karl, al rancore per questo sadico
faccendiere che mantiene o sfrutta la donna. In Martini il risentimento verso
un’educazione oppressiva e repressiva è manifesto, tanto più che quel passato
remoto e rimosso riesce ancora a condizionare il presente. In Giovanni il risentimento si converte in lucida critica, attenuata dall’umorismo: contro le paure
indotte dall’educazione clericale, ma anche contro il classismo disumanizzante
della società di oggi. Tuttavia l’irritazione politica si risolve in una memoria autobiografica: come spiegare ai figli la scritta «Nixon boia» senza ricordare le
rane decapitate, con una pietas verso gli animali che affiora in tante sue pagine?
Nel racconto di Giorgio le tracce di una virtuale protesta sono assai velate: l’antipatia per chi invade il Ticino da insensibile turista, vistosa negli altri
scrittori, si avverte in due pennellate divertite; l’isterica signora di Lugano che
stava percuotendo un ragazzo e che Pasquale sistema a dovere; il patrizio bellinzonese venuto per cacciare e al quale una vacca danneggia la Volkswagen; un
saccente forestiero cui un monello risponde per le rime. Viene insomma risolta
con aneddoti umoristici quella rivincita cui pure accenna la sottile introspezione
dell’autore, nell’introdurli:
C’è qualcosa di cui, in questi ultimi tempi, parliamo più spesso, con un piacere nuovo,
striato d’amaro ma sacrosanto. Si tratta di torti vendicati in modo insolito, memorabile,
torti di chicchessia, nei quali si prolungano torti antichi e recenti subiti da mia madre.
Se strizza l’occhio all’Albero di Bianconi, Giorgio ne cambia registro; suona
il clavicembalo, non l’organo.
Della povertà d’altri tempi, poco o nulla si dice; si evince tutt’al più dalla tradizione culinaria che prevede non solo viscarde da mangiare col puré, ma pure
corvi (lo chiede per sé il curato, per farne un buon brodo) nonché scoiattoli,
73
Pietro Gibellini
«qualcuno con ancora la nocciola in bocca» (sic, anzi sigh). Dalla California,
mèta dell’emigrazione riesumata da Bianconi, giunge solo la telefonata di una
vecchia compagna di scuola che passerà l’estate «nel nostro Ticino così bello e
pulito» e vuol rivedere Francesco.
Quanto all’aspetto mortificante e quaresimale di quel cattolicesimo, bersagliato più o meno acidamente da Martini e da Giovanni, non troviamo in Giorgio che spiracoli, la sinopia positiva del curato di Bugliasco («un di quei preti
che non saranno gran che come cultura ma almeno non gli salta in testa di dire
nella predica che San Giuseppe non chiedeva mai aumenti di salario») e una
riflessione più dubitativa che polemica:
Ha ragione il prete, noi non li vediamo ma loro, i morti, ci vedono; raccomandiamoci ai
morti. Come dire che i vivi sono loro, e i morti noi. Non è così, signor curato?
Non manca però il lato positivo della vecchia educazione religiosa, che aiutava a sopportare con rassegnazione miseria e tribolazioni dell’aldiquà per uno
sperato risarcimento ultraterreno: una funzione riconosciuta dal Martini del
Fondo del sacco, non ancora convertito al sarcasmo polemico del Requiem. La
vecchia Letizia, «che non potrebbe meritare di più il suo nome», così commenta
la sua progressiva cecità:
«I miei occhi se ne vanno», dice, «per fortuna a poco a poco. Ma ho paura che a Natale
non ci vedo più del tutto. Mah, finché possiamo girare non lamentiamoci».
Anche il male di vivere, che gli altri quattro scrittori esprimono con gradazioni che vanno dal malinconico al drammatico e intendono in chiave psicologica, politica o filosofica, nel racconto di Giorgio fa capolino in stille sparse
con il contagocce; l’amaro è temperato dall’arguzia umoristica: il padre del protagonista canticchia «Eri tu che mangiavi quell’anitra» parodiando Eri tu che
macchiavi quell’anima; Francesco e zia Santa rinnovano una battuta collaudata
esorcizzante:
Il bel tempo ha tirato fuori anche zia Santa, che ha sempre avuto poca salute ma intanto
viaggia sui settanta, col suo canarino. Sicuro di farla sorridere, le dico in francese: «Tu vas
bien?» «I vèi a biàm», risponde con prontezza (che vuol dire: «vado in briciole», di fieno).
Gocce, sì, ma talora pesanti e tossiche come il mercurio che lo zio si è portato
dall’Inghilterra. Del suo rapporto con il padre dice Francesco:
Ci siamo detti talmente poco, che, se continua così, avremo gran bisogno di un’altra vita
per conoscerci.
E quando riesce ad aggiustare il manico della scura, sotto lo sguardo compiaciuto del padre con cui litigava per vincere a carte, osserva:
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Pane e coltello: un poeta fra quattro narratori
Quando s’accorge dell’operazione mio padre sembra veramente sollevato: e anch’io, a
dir la verità, sto meglio, come chi, nell’intimo, si rallegra di essersi smussato, di perdere
a un giuoco che in fin del conto ha soltanto dei vinti.
E cosa prova nello spaccare la legna?
Ma sì, spacco questa benedetta legna con una certa rabbia, o meglio disperazione, la
stessa calma disperazione che mi permette di strappar erba per ore e ore tra ciottolo e
ciottolo davanti a casa, con uno zelo troppo nuovo per evitar di spiegarmelo con questa
morte che vive qui intorno.
Insomma, anche in Autunno a Rosagarda troviamo i nuclei concettuali e immaginativi di quelle Due Svizzere in conflitto cui accennavo, di quella dialettica
tra paese e città, tra passato contadino e presente borghese: ma toccati con lievi
mani, da un poeta cui interessa essenzialmente un sentimental journey dentro
se stesso. Risentimento no, semmai ri-sentimento, rinnovo di un sentimento,
da verificare nel suo persistere o nel suo mutare: a Rosagarda non c’è per lui un
approdo voluto dal nòstos, Giorgio alias Francesco è un Wanderer come l’amato
Goethe dell’Italienische Reise che viaggia verso il paese dove fioriscono i limoni
per trovare se stesso. Rosagarda, toponimo autentico di un fazzoletto di terra
presso Prato Leventina, dà titolo al racconto anche per la sua carica verbale
e visiva; reca in sé il nome della rosa ed evoca lo sguardo del poeta: quel fiore
solitario che guarda lo scrittore nel cuore del racconto, e lo distoglie dalla fatica:
Quando c’era da trasportare qualcosa di pesante davo una mano anch’io, ma piuttosto
che andare continuamente per quelle scalette di legno su e giù, rotto in due, me ne sarei
rimasto lì a guardare l’orto di zia Romilda, dove una rosa, sola, d’un rosso cupo, si può
dire che era lei a guardare me, a riempirmi di silenzio.
Sembra un particolare cursorio, senonché, mentre il furgone sta per partire
con il carico di lenzuola e mobili, l’attenzione torna su quella rosa:
E stava per partire, quando l’Ester, la cugina in diagonale, gli ha gridato di fermarsi un
momento. È corsa nell’orto dov’era quell’unica rosa, l’ha colta in fretta, e allungandosi,
lei così piccola, più che poteva sopra la sponda di dietro del camion, l’ha infilata tra due
materassi.
Così Autunno a Rosagarda brilla come fiore lirico nel panorama di fatiche
fermate in Pane e coltello: e svela, sotto i panni del narratore, la natura inevitabilmente poetica della sua vocazione.
Nota bibliografica. A parte Pane e coltello, gli altri scritti sono stati menzionati abbreviatamente: qui, in ordine alfabetico, i rinvii bibliografici completi. Piero Bianconi, Albero genealogico: cronache di emigranti, Pantarei, Lugano 1969; Giovanni Bonalumi, Gli ostaggi, Val-
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Pietro Gibellini
lecchi, Firenze 1954; Pietro Gibellini, Due Svizzere in conflitto: un «filo» nella prosa ticinese
recente, in “Otto/Novecento”, III (1979), 3-4, pp. 300-317; Plinio Martini, Il fondo del sacco,
Casagrande, Bellinzona 1970; Id., Requiem per zia Domenica, Il formichiere, Milano 1976;
Renato Martinoni, Il paradiso e l’inferno. Storie di emigrazione alpina, Salvioni, Bellinzona
2011; Giorgio Orelli, Accertamenti verbali, Bompiani, Milano 1978; Id., Il suono dei sospiri:
sul Petrarca volgare, Einaudi, Torino 1990; Id., Né bianco né viola, Collana di Lugano, Lugano
1944; Id., Sinopie, Mondadori, Milano 1977; Id., Spiracoli, ivi, 1989; Giovanni Orelli, La
festa del ringraziamento, Mondadori, Milano 1972; Id., L’anno della valanga, ivi, 1965.
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GILBERTO LONARDI
Su Orelli che traduce otto versi di Lucrezio
1. Mi appoggerò anzitutto alla citazione lucreziana che ci viene incontro subito,
nel Collo dell’anitra, 2001. La precedono solo due versi dalla Commedia. Subito
dopo, la poesia con cui si apre il libro. Si intitola, un poco alla Sereni, Sulla salita
di Ravecchia. Trascuro purtroppo la sentenza di Kierkegaard che l’accompagna
(sul comico).
Eccolo che scende, Giorgio Orelli, sulla salita di Ravecchia, dalla mitica bici:
e sappiamo che è spesso questo privilegiato quanto frugale mezzo di spostamento e di incontro, fuori da ogni malinconia della “corsia ta”, come usa nelle
città grandi, che offre al ciclista-poeta l’incontro con la screziata, infinita serie
di sorprese che il mondo svela a chi sappia, nel mondo, passeggiarci dentro.
Con la perenne − aggiungo subito − dialogica disposizione allo spettacolo delle
cose da parte di un, mettiamo, altro promeneur: Robert Walser. Pregiatissimo
infatti dall’autore del recentissimo Quasi un abbecedario;1 vedi a W come Walser
Robert: «Io sono walseriano per la pelle». Un punto di crescente riferimento.
A mio parere ineludibile per chi non si accontenti di formule-prigione anche
troppo correnti, se non soffocanti, a proposito della collocazione di Giorgio.
In Sulla salita di Ravecchia il ciclista-poeta è a colloquio con uno sconosciuto
che presto risulta essere un testimone di Geova, uno svizzero-tedesco. Ma intanto ecco un assaggio del colore di comicità surreale e metafisica delle battute
che si scambiano il testimone e l’Orelli: «la fine del mondo è vicina e tutti i capri
− fa presente il nostro testimone – e tutti i capri / saranno separati dai pecori,
lei sa?»2 Al colloquio si mescola in più momenti il contrappunto di altra musica,
anch’essa dell’inaspettato. Minimi messaggi da un’altra orbita. È il contrappunto che offre notoriamente, a Orelli, l’infanzia, già per esempio in Sinopie, con le
sue mini-epifanie in gioco e in movimento, sia esso o no assumibile «nel cerchio
familiare»: «sotto il cavalcavia dove nonni e bambini [il poeta allude pure a se
stesso, nonno con nipotini] si fermano a fare cucù». E poi ecco l’allegro incomprensibile eppure «chiaro chiarissimo», un tratto anche questo dello spettacolo
del mondo: un ragazzo fa di corsa la suddetta salita e poi, giunto al piano, cammina senza fretta; e non diversamente «sembra chiaro chiarissimo perché / d’un
tratto una bambina sia andata fuori di casa / con un cuscino del letto sul capo
sebbene non piova».
Tutto si fa comunque chiarissimo quando si accerti la scomparsa del centro,
di una qualsivoglia gerarchia del mondo. E quando a questo, con quanto porta
con sé, scriveva il sopra ricordato Walser, di singolare, di inatteso e di fantastico, si vada incontro accogliendolo: fraternamente.3 «La vita», ha detto lo stesso
77
Gilberto Lonardi
Walser, “mi fa amare tutte le apparenze che mi getta davanti».4 Apparenze: il
mondo nel suo vitale, casuale e continuo apparire. Una riemersione di neoplatonismo? la creazione perennemente in atto di sant’Agostino? Forse, ma qui
senza garanzie ontologiche. E al piano-terra o quasi. Insomma, non l’essere ma
appunto l’apparire. Perché, non certo per un Mario Luzi, amico di Giorgio, ma
sì per Walser e direi pure per Orelli, appena dietro le apparenze c’è, o potrebbe
poi esserci (la questione resta drammaticamente sospesa), il nulla5… Ma intanto
quelle apparenze si sgranano una dopo l’altra e fanno variamente lo spettacolo: e
qui dovrei chiamare in causa un altro autore di Orelli, Pessoa, che lui, a leggere
la paginetta che gli dedica nel sopra ricordato, prezioso Quasi un abbecedario,
deve sentire abbastanza prossimo a Walser: «Saggio è colui che si contenta dello
spettacolo del mondo».
2. Potremmo guardare oltre questi versi della Salita di Ravecchia. Orelli va spesso incontro con la sua bici euristica e pre-capitalista e perciò pure anti-capitalista – e la bicicletta appare e riappare di continuo anche nei bellissimi racconti
di Un giorno della vita, ne traccia i tempi e ne circoscrive gli spazi – va spesso,
dicevo, all’incontro con quelle mini-epifanie che dicevo: il male non abbandona
il mondo, il mondo si fa, sì, sempre più grigio e orribile, e grigissimo diventa
pure per come lo sfigurano sempre più i suoi abitanti: ma non lo è più se il ciclista si ferma, scende o no dalla bici, disposto comunque a cogliere e ad accogliere
le proposte del caso, i vari accenti e timbri del vivente contrappunto minimale
che dicevo. Dove tutto e tutti appaiono «in fuga, afferrati ad un lembo / della
vita»: e qui cito da versi anticipatori, cioè dalla chiusa di Nel dopopioggia, vedi
L’ora del tempo, 1962.
La varietà casuale dei minimi spettacoli di cui sopra – un altro e splendido campione, Ragni, l’ho letto da poco, per esempio, nell’Orlo della vita, alla
cui edizione lavora Pietro De Marchi − va ospitata fraternamente: ma, quasi
sempre, questo avviene senza pathos. Con un minimo, soprattutto − e il dato è
importante −, di illazioni simboliche; e penso ancora a Walser, al cui radicalismo Orelli si avvicina da un certo punto in poi con grande interesse, ma escluso
ogni monotematismo ossessivo.6 L’impressione è che specialmente l’Orelli che
in poesia matura i suoi frutti dal ’70 circa in poi non dimentichi la giovane donna di villaggio del Werther goethiano, che, come poi Silvia leopardiana, mentre
«percorre felice e serena il breve cerchio della sua esistenza < e > riesce a vivere
da un giorno all’altro, […] quando vede cadere le foglie pensa soltanto che è
venuto l’inverno». Anche lei, niente deduzioni “ulteriori”. Forse Giorgio, ma
certamente Robert Walser avrà tenuto conto della giovane che il protagonista
del romanzo ammira nelle pagine d’avvio. E, comunque, specie l’Orelli “di mezzo” e poi ancora più l’ultimo si avvicina molto, per esempio, al walseriano Jacob
von Gunten, che respira soltanto «nelle regioni inferiori»: sicché la salvezza è
nel guardare agli avvenimenti minuscoli, alla vita sparpagliata e senza centro. Al
casuale: e «quello che è casuale», si legge nei Fratelli Tanner, «è sempre ciò che
vale di più».7
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Su Orelli che traduce otto versi di Lucrezio
3. Ma vengo agli otto versi di Lucrezio che Orelli traduce in apertura del Collo
dell’anitra. Parlano del suo collo e dei suoi colori suscitati dalla luce, nel sole.
Vedi il De rerum natura, II, 798-805. Diceva bene Solmi, che il tradurre nasce
da un moto d’invidia.
C’è una traccia luminosa della fortuna di questi versi, almeno tra La notte di
Parini e La Pentecoste manzoniana («Come la luce rapida / piove di cosa in cosa /
e i color varii suscita / ovunque si riposa…»; ma vedi pure Virgilio per i «varii
[…] colores…»); e c’è poi una fortuna lucreziana novecentesca e di primo 2000.
Su quella e su questa non mi soffermo. E neanche avrò modo di interessarmi
ad altro Lucrezio tradotto da Orelli:8 a parte cenni anche significativi qua e là,
fanno quattro in tutto, che io sappia, i suoi assaggi lucreziani, ricorrendo sempre
alla quiete un poco estatica del verso lungo, a sua volta sempre più, si sa, ritrovabile dentro il suo libro poetico; un verso lungo nostalgico dell’esametro. Ma
tanto basti per fare intravedere un’attenzione non episodica a quel grandissimo,
che gli sarà piaciuto per la tranquilla quanto mobile esattezza dello sguardo e
per la sua capacità di sorpresa: per esempio la sorpresa inaspettata, dentro il
contesto “scientifico”, dell’indugio sul micro, qui sul variare cromatico del collo
dell’anitra, ma anche la sorpresa della madre che cerca il vitellino che le hanno
ucciso, o il costruirsi dell’universo dal caos primigenio, o il riso e la meraviglia
dei primi uomini di fronte alla novità del mondo. Tutti momenti lucreziani che
Orelli ha mirabilmente tradotto.
Ma leggo gli otto versi lucreziani e poi la traduzione di Orelli:
Qualis enim caecis poterit esse color tenebris?
Lumine quin ipso mutatur propterea quod
recta aut obliqua percussus luce refulget;
pluma columbarum quo pacto in sole videtur,
quae sita cervices circum collumque coronat,
namque alias fit uti claro sit rubra pyropo,
interdum quodam sensu fit uti videatur
inter caeruleum viridis miscere zmaragdos.
E ora i sette versi lunghi del traduttore − «phrases au long cou», come Orelli
ricorda, anno 1958, a proposito di Chopin secondo Proust −, più un senario
finale:
Quale colore permettono le cieche tenebre?
Già nella luce stessa trasmuta un colore
se rifulge perché lo percuote obliqua o diritta;
così cambiano al sole le piume dei colombi
che di torno alla nuca coronano il collo,
e infatti talvolta sono rosse di fulgido piropo
e paiono talaltra mischiare all’azzurro il colore
di verdi smeraldi.
79
Gilberto Lonardi
Non la mimesi esametrica cerca il traduttore, anche se almeno un paio di
versi, il terzo e il quinto, abbozzano il profilo del verso lucreziano, offrendo
pure la misura breve per il piede finale (vedi per esempio il terzo: «Séri/fùlgeper/chélo per/cuòteo/blìquaodi/rìtta»); ma piuttosto, quando possibile, vivono
per un battito dattilico: vedi allora il primo verso, importante proprio in vista
dell’atmosfera generale che dicevo, fatto di un ottonario sdrucciolo + un quinario sdrucciolo, e così ne viene un bel grappolo di non sei per la verità ma di
cinque dattili, forzando però sul quarto: «Quàle co/lòreper/méttono//lécieche/
tènebre?» E vedi anzi, in generale, l’immissione di lemmi proparossitoni: a parte
quelli che ricalcano senza problemi Lucrezio, tipo tènebre per tenebris, ecco
perméttono per poterit, e soprattutto càmbiano per mutatur, corònano per coronat, fùlgido per claro, pàiono per videatur… Il quinto verso è poi forse il più
interessante, così ispessito dalle velari. E questo mi fa pensare che anche qui
la partitura timbrica, carissima al critico Orelli come al poeta, sia al massimo
rispettata dal traduttore rispetto all’originale.
Un rispetto che si estende per quanto è possibile a Catullo, e qui dico en
passant il mio entusiasmo per la versione del carme VIII catulliano; e oso anzi
leggerne, come posso, qualche verso, nel dialetto scoppiettante di Locarno:
«Pòro Catűll, piàntala da fa ’l matt / e mètt che chel che nai l’è nai al babi […]
Ciao, baštrűca [per Vale puella]9 − al Catűll ormai tegn dűr / ut cerca mia…»
E poi, chiudendo: «Dišgraziada! Ti vedi adess che vita? / […] ch’i disarà / “l’è
da chel lì”, basàll, cagnàgh i làbar. / Ma ti, Catűll, mòla mia ’l mazz, tegn dűr»,
1-2, 12-13, 15, 17-19 (il dialetto va qui incontro allegramente − e sembra, come
splendidamente altrove in Orelli, in presa diretta − al latino, mimandone a volte
la timbrica come l’italiano non potrebbe con altrettanta naturalezza, vedi solo
basàll per basiabis, tegn dűr per obdura/obdurat/obdura).10
Ma torno al quinto verso lucreziano. Come leggerlo? Secondo pronuncia
scolastica o secondo dizione “classica”? Certo è che quel verso è stracolmo di
velari, di /K/ − «quae sita kervikes kirkum kollumque Koronat». E Orelli: «ke
di/ tòrno/ àlla/ nùkako/rònanoil/ kòllo»: anche qui una cadenza esametrica e in
più, ad aumentare il pedale delle /K/, non, per cervices o kervikes che sia, la tutta
palatale italica *cervice, ma la nuca.
4. Però non basta fermarsi qui. La scelta, il rilievo voluto per questi versi, si
spiegheranno a vari livelli: anche per esempio come omaggio alla varia fenomenologia delle bestiole, così le chiama Orelli, in poesia e in prosa. Folto, si sa,
il suo bestiario, dalla martora indimenticabile a un’indimenticabile francolina,
vedila in Il fanciullo del paradiso − «dov’è fieno / di bosco e giace tiepida / la
francolina senza pigolìo»: si nasconde e tace, protegge sé e la cova −, sulla linea
di Pascoli e soprattutto di Montale (c’è per esempio un picchio sotto la mira
poetica di entrambi) e comunque da luoghi della grande poesia dove le bestiole,
aggiungerebbe, non nascono morte, come invece, per esempio, l’augellino che
tace in una lontana versione di Tomaso Gnoli da Goethe.11 Meno genericamente si spiegherà la scelta di quel Lucrezio per quanto Orelli che traduce lavora
80
Su Orelli che traduce otto versi di Lucrezio
dentro il Lucrezio gran virtuoso a sua volta da gran virtuoso, che pure è un suo
segno − più esibito in critica, più castigato in lirica –.
Ma, chiediamoci, un virtuoso applicato, infine, a che cosa? Nel nostro caso
dobbiamo andare oltre l’anitra e il suo collo; chiediamoci a che cosa alluda quel
collo, quel trasmutare dei suoi colori. Quel loro mobilissimo, iridato accostarsi,
in una successione di attimi. Orelli qui canta qualcosa che gli sta molto a cuore.
Appunto il trasmutare dell’effimero; la «bellezza cangiante», poteva insegnargli
Hopkins, mediato magari da una splendida traduzione di Montale; i «color varii» manzoniani mobilmente suscitati dalla luce: dal rosso del piropo all’azzurro
al verde dello smeraldo. Quel mobilissimo trasmutare cromatico è sottolineato,
direi, da questo Orelli. Lucrezio ha mutatur – eppure poteva permettersi un
trans-mutat, v. infatti De r.n. 2, 488 −; Orelli ha lui trasmuta.
Ma certo non si tratta solo di piacere dell’iride. In realtà, potremmo, da questa epigrafe lucreziana, affacciarci – ed è lo stesso Orelli, nella prima bandella
interna del Collo dell’anitra, a metterci sulla strada – a non poca parte del Libro
poetico orelliano nel suo farsi. E guardare ai molti modi del mostrarsi di questo
aspetto saliente.
Si pensi anche − andrò per assaggi − alla orelliana pratica cangiante delle lingue, per una elveticità così profonda, e così sempre più libera, da tradursi in una
sorta di radice quadrata della scrittura poetica – altro che «linea lombarda» −:
dall’italiano colto alla macchia, isolata e un tantino, diciamolo, superflua, dell’anglo-italiano dei jeans buttati lì − chiamati al verso dal brillìo delle molte /ì/ toniche
e postoniche che gli stanno intorno − traducendo il carme VIII di Catullo, al dialetto e anzi ai dialetti (vedi, in fondo al Collo dell’anitra, questa orelliana cromatica
nota “a collo d’anitra” a In riva al Nilo: sono «in dialetto più o meno bellinzonese
L’űšpedà da Zűrigh, In riva al Nilo, E adess? Nel dialetto di Prato Leventina Zalèk.
In quello di Locarno, la versione catulliana», p. 112). E poi, da lì, al tedesco e al
francese. E tutto questo, ma poi accentuato, fin da L’ora del tempo. Lì si legge, per
esempio, un goethianamente perfetto Epigramma veneziano di Giorgio, quasi un
prosieguo, il caso non è l’unico, dell’attenzione del traduttore a Goethe, per chi
voglia almeno assaggiare un altro esempio del rapido variare di colore del collo
che sappiamo: «“El va drito, po ’l volta, po ’l va drito, / po ’l volta…” E quando
tace, / l’angelo spettinato par m’additi / oltre le calli il Campo / da cui si svolta
nell’eterna pace». Torna la degustazione delle /ì/ quando si tratti di un dialetto –
vedi più sopra per il dialetto di Locarno −; torna come non di rado in Orelli il gioco velare/palatale, tace : pace, calli-campo-cui, con lo svariare di volta-volta-svolta.
O vedi «À quatre heures du matin…», nel Collo dell’anitra: francese più italiano
più veneziano…; con ritornante timbrica pirotecnica, anche qui, e anche qui con
un importante effetto di presa diretta sul parlato. Una pentecoste dei linguaggi,
una gioia pentecostale della Lingua, prima ancora che delle lingue.
Ma sono anche in un rapidissimo trasmutare la fuga, il moto veloce dei rimbalzi nell’Orelli lettore della poesia altrui: per un esempio fra i tantissimi, vedi le
pagine da lui dedicate al suo Frammento della martora, là dove si cita in stretto
seguito dalla Commedia, poi suo padre parodiante Verdi cangiando macchiavi
81
Gilberto Lonardi
in mangiavi e l’anima in anitra («Eri tu che mangiavi quell’anitra»), poi altro
passo della Commedia, poi Montale, poi Carducci: il tutto con l’appetito, come
lui ama definirsi anzitutto come critico, dell’«uccello di passo», ma anche con la
lentezza ghiottona di chi alla festa della lingua e dei linguaggi non vuol perdersi
nulla. Con la pertinenza che sappiamo (quel suo infallibile orecchio cui accennava Andrea Zanzotto).
E poi e infine, altro livello, il più in evidenza a guardarlo da una specola walseriana e in crescente estensione negli ultimi quattro decenni: quel trasmutare
anche dell’umano, e molto vi conta il casuale che dicevo: figure e figurette che
appaiono e scompaiono – in fuga. E lo spettacolo si dà con un suo particolare
mistero – Orelli insiste abbastanza su questa parola − quando, direbbe sempre
Giorgio, sono gli «angeli del trambusto inevitabile», i bambini, a offrirsi al lettore. Siamo al «cerchio familiare» di Orelli. Un tratto molto suo, con esiti alti.
E che torna a offrirsi nella sezione ottava del Collo dell’anitra. Meravigliosa per
come vi si attua, vincente, la scommessa di ottenere tanto con niente. Fuori,
lo ripeto, da ogni gerarchia e da ogni lettura simbolica, a far tornare i conti,
quest’ultima, dell’io e del mondo −. Mentre, con Orelli, i conti restano sospesi, a
dirci di un fondo-sfondo insieme non pacifico, ma non esposto mai, o quasi mai.
5. Ma è tempo che mi affidi a un’altra citazione, per capire qualcosa di più del
campo orelliano del trasmutare. E della mobile varietà di figure e gesti colori
parole, cui guarda Orelli, con lo sguardo veloce, a volte cinematografico, ma
tutto tranne che indifferente, del ciclista: un apparire dal mobile cromatismo
che l’affettività non conduce però mai all’aneddotico, tanto è ironica, controllata, mentre e soprattutto uno sfondo di gravitas si avverte spesso che c’è, anche
quando non compare – appare con forza, però, a chiudere, e la collocazione non
è certo casuale, il Collo dell’anitra, vedi Le forsizie del Brudelholz: qui la citazione in testa alla lirica è dal molto frequentato Gottfried Benn; e per quel fondo
grave ricordo anche solo un titolo benniano: Lo smalto del nulla −.
La citazione che annunciavo poco fa è però da qualcun altro, è da Gilbert
Keith Chesterton, e tenendone conto potremo riconoscere come il percorso
fondamentale di Orelli, tra poesia e anche i racconti, cui sto guardando, sia un
percorso che non ha certo fatto da solo. Partiva, Chesterton, più di un secolo
fa da Robert Browning: da lui come rappresentante supremo di «una letteratura caratterizzata dell’apoteosi dell’insignificante». Forse Orelli chiederebbe
peraltro di completarlo e di correggerlo, questo passo: l’insignificanza è solo
apparente, visto che poi il “grado zero” si coniuga comunque al vitale, cui non
rinuncia: quel vitale che forse solo è, per un attimo, afferrabile nella fuga, nel
casuale, nel piccolo, fino appunto all’insignificante.
6. Scegliendo quasi a caso – ma faccio torto alla varietà delle occasioni: sono
molto diverse, in Orelli, le declinazioni del casuale e del quasi-niente − allego
ora dei versi proprio costruiti coi mattoncini dell’insignificante. Ma non dimentico che, comunque, come sia Walser sia Pessoa piacciono a Orelli per come, da
82
Su Orelli che traduce otto versi di Lucrezio
quel niente o dal piccolo, ha tratto l’uno «un mondo profondo e intimo», l’altro
un “farsi più fitto” del mistero. Dalla sezione Estive, in Il collo dell’anitra:
A sinistra un leghista attempato
alla moglie: «Li metto nella borsa
gli occhiali?» Lei: «Diocristo nella sacca!»
A destra una nonna baffuta che non si spoglia mai
e picchia il nipote dicendo «è solo un acconto»; e lui:
«Vacca!», e giulivo tira fuori la lingua,
si accovaccia nell’ombra della sdraio a scavare nel naso.
Siamo nel regime-zero dell’insignificante e perfino del disgustoso. Pur con
una sua misteriosa vitalità. Trarne partito per rappresentarne in versi e a più voci
dialoganti – e il dialogo conta moltissimo nel poeta come nel narratore − lo spettacolo, vuole dire accogliere comunque quella scena, pur serbando la distanza;
e, intanto, giocare, «creando con poco», o «con niente», alla Walser − e viene
anche in mente, certo, Flaubert, o anche, poi, la sedia in primo piano di van
Gogh, o Morandi e altro ancora −, sulla mobilità del ritmo, badando a stampi
nobili, in contrasto con la “materia” addirittura, qui e non qui solo, deietta; ma
senza insistere. L’avvio è decasillabico e manzoniano – «A sinistra un leghista
attempato»; «a sinistra risponde uno squillo» − e si continua ricordando il Coro
del Conte di Carmagnola, ma smangiandolo, o come se la sua stessa ordinata
euritmia sprofondasse, vedi «A destra una nonna…»
Succedono poi due endecasillabi; poi tutti versi lunghi, però di diversa misura –: vorrei dire che è l’effimero dell’accozzaglia familiare che detta il garbuglio
metrico, anche lui nel casuale. Lo si fisserà, allora, salvandolo per un attimo
dall’insignificanza e dal triviale, quel minimum in fuga, secondo una partitura
timbrica che chieda la sua parte all’udito, questo senso principe dell’Orelli poeta e lettore. E qui ecco allora la dorsale spessa e aggressiva delle velari, ancora le
velari del traduttore di Lucrezio: oCCHiali, piCCHia, aCConto, e infine vaCCa.
Ma qui raddoppiate; si unisca sCavare, ultimo verso, accanto alla palatale, /cc/,
doppia anch’essa, di aCCovaCCia: dove trionfano insieme la doppia velare e la
doppia palatale.
Non proseguo, non sfiderò la gloriosa unicità dell’Orelli lettore per verba.
Ma se parlavo di livelli, di certo è questo, che qua e là ho toccato, il livello per
eccellenza caro a Giorgio: quello della gamma, assaporata lentamente, in micro,
poesia dopo poesia, verso dopo verso, parola con parole − e così la chiama
ricordandosi di certi amati francesi, Mallarmé in testa, quando parlano della
timbrica poetica −: la gamma cangiante dei suoni. Tocca all’occhio cogliere la
mobile gamma cromatica di un collo d’anitra nella luce. Spetta all’udito cogliere
e gustare il mobile, iridato lavoro sonoro, timbrico, della lettera, in un’àisthesis −
il percepire col senso, sensibile − incessante, eppure, in Orelli, senza estetismo,
nella lingua dei poeti. Meglio: nell’offrirsi dello spettacolo quasi infinito della
lingua poetica. O delle lingue o della Lingua senz’altro.
83
Gilberto Lonardi
7. Concludo. «Bello e fecondo», diceva Walser, nella Passeggiata, il fenomeno
degli accostamenti in fuga che offre il mondo: «una fuga non meno seria che
affascinante».12 Credo che anche Orelli creda nella fecondità della perenne fuga
di accostamenti che si offrono sulla superficie delle cose. Penso qui per esempio
a una lirica tutta fatta di accostamenti, e quello conclusivo chiama in causa a
sorpresa la vitalità del geco, come appare in un’altra poesia del Collo dell’anitra:
vedi A un amico siciliano, con leggerezza. Un pulsare, nella sua casualità, della
vita, che infine spazza via tante cose, a cominciare da certa letteratura. Tra Sicilia
e Roma Termini il poeta si è goduto il «policromo trambusto» di «alte somale»…; e «quella farfalla (un’altra?) che alacre dispensa / il suo biancore / nel
teatro greco»; e la «ragazza dagli svelti astragali / mentre tende al compagno /
l’indice su cui tanto / indugia una smarrita coccinella». Altro minimum: la «smarrita coccinella». Che offre intanto all’udito, alla timbrica della lirica un’altra basica opposizione di suono, tra la rotante e la liquida, tra /RR/ e LL/. E più sopra
c’era faRfaLLa, c’erano aLtRa, aLacRe… Ma eccoci alla chiusa, e anche qui
una nostalgia dell’esametro, ivi inclusi tre dattili: «Meglio la / vita che / pulsa /
nella / gola del / geco». Meglio di che? Meglio, Orelli è un giudice infallibile, dei
versi per Tindari di Quasimodo, evocati all’inizio di questo A un amico siciliano.
Meglio il «policromo / trambusto» che si è visto e che investe − un fugato veloce −
l’intera lirica, dalle somale al geco.
Meglio il vitale. Tanto più se colto «nelle regioni inferiori», ai bordi dell’esistere; dove anche trascolora, nella viva luce, il collo dell’anitra lucreziana. Quanto all’essere, lo si lasci all’epoché, al silenzio.
A cura di Y. Bernasconi, Casagrande, Bellinzona 2014.
Quanto alle increspature del comico, ben dentro pure la poesia di Orelli, si potrebbe
trarre profitto dai suoi rinvii a Kiekegaard sopra nominato, come a Buster Keaton.
3
R. Walser: «A chi passeggia si accompagna sempre alcunché di singolare, di fantastico
[…] e saluta con un cordiale benvenuto tutti gli incontri inattesi, fraternizza con essi…», La
passeggiata. Racconto, Adelphi, Milano 1976, p. 69.
4
Così Simon, v. R. Walser, I fratelli Tanner, Adelphi, Milano 1977, p. 72. Quanto al fantastico, vedi per esempio, nel Collo dell’anitra, il sogno che ha come protagonista il ciabattino
Duilio della Casa, con quell’avvio onirico-manzoniano-montaliano, «Scendevo senza fretta
gli scalini…»
5
Su Luzi, sulla sua lode continua della «creazione incessante», v. ora S. Verdino, Introduzione a M. Luzi, Poesie ultime e ritrovate, a cura di S. Verdino, Garzanti, Milano 2014, pp. 1-2.
6
Mi dice ora, novembre 2014, Mimma Orelli, la moglie di Giorgio, confermando una
mia impressione di massima, che una vera conoscenza di Walser comincia non prima degli
anni settanta circa. Che sono poi gli anni della vera presenza italiana di Walser (dopo di che, o
piuttosto in parallelo, Orelli si sarà rivolto a testi walseriani anche, o solo, leggibili in tedesco;
e anche, ci fa sapere lui stesso, al Walser poeta).
7
R. Walser, I fratelli Tanner, p. 204. E intanto, osserva Roberto Calasso, «del simbolo
Walser non può che sorridere», in Id., Jakob von Gunten: un diario, con un saggio di R. Calasso, Adelphi, Milano 1992, p. 172.
1
2
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Su Orelli che traduce otto versi di Lucrezio
8
Tre episodi lucreziani. Sei litografie di Italo Valenti, Scheiwiller, Milano 1991. Da una
glossa di Orelli si apprende che, se ho bene inteso, almeno uno degli “esperimenti” di traduzione lucreziana, quello da De rerum natura V, 432-48 (dal Caos al primo organizzarsi
dell’universo), poi ritoccato, risale al 1952.
9
Quattro anni prima ipotizzava per il «Vale puella» un «Ciao beleza»: cioè in Verso la
poesia di Catullo, vivacissima prefazione a Gaio Valerio Catullo, Carmi, traduzione e postfazione di C. Saggio, Dadò, Locarno 1997, p. 12: «Al di qua, annotava, di Amore mio, addio
(Ceronetti), Addio fanciulla (Cetrangolo)». Quale scarto!
10
Perché «ogni lingua ha le sue risorse estetiche irraggiungibili»: Quasi un abbecedario, p. 28.
11
Penso a quanto scrive Orelli dell’augellino di Tomaso Gnoli, nella sua versione goethiana, 1932, di Hälfte des Lebens: «Certo che pace: tace fa arrossire anche l’augellino [“Sopra tutte le alture, / pace! […] Nella foresta l’augellino tace”], non per nulla al singolare. Non devo
spiegare perché questo augellino ci fa un effetto come se fosse nato morto, mentre, poniamo,
l’uccellino che s’arrampica a spirale su per l’olmo in una lirica di Montale ci tiene tanto desti.
Solo perché l’augellino è aulico, vestito della festa? Non credo»: G. Orelli, Tradurre poesia,
in “Cooperazione”, 15 dicembre 1977, p. 9. Come il Frammento della martora, così anche Il
fanciullo del paradiso si legge in L’ora del tempo, ma già era in Nel cerchio familiare, 1960.
12
«La natura e la vita umana mi appaiono come tutta una fuga non meno seria che affascinante di accostamenti, fenomeno che ritengo sia da giudicare bello e fecondo»; v. La
passeggiata, p. 95.
85
ALICE SPINELLI
“Attraversando” Valeri. Aemulatio
e (co-)intertestualità nel Goethe di Orelli
1.1 Il lavoro sulla parola altrui. Per un’analisi intertestuale
delle traduzioni di Orelli dal Goethe lirico
Nel trattare una delle molte declinazioni in cui si è dispiegato l’instancabile “lavoro sulla parola” di Giorgio Orelli, ovvero la traduzione poetica (in particolare, le sue versioni dal Goethe lirico), il presente contributo tenterà di raccogliere e interpretare qualche indizio sugli “strumenti del mestiere” a cui ha fatto
ricorso il poeta-traduttore. Potranno mancare, nell’officina di un così geniale
artista (e orgoglioso artigiano) della parola, le parole d’altri, depositi vivi di una
storia letteraria meditata sempre con vigile scrupolo e appassionata devozione?
Crediamo di no; e su questo presupposto, che intende valorizzare la parola letteraria nella sua bachtiniana dialogicità, vorremmo fondare una campionatura
esemplificativa delle trame intertestuali che si lasciano intravvedere in controluce nelle traduzioni goethiane di Orelli.1
Si darà qui dunque spazio a un procedimento filologico-ermeneutico teso a
valutare i rapporti di dipendenza e interrelazione contrastiva tra le versioni orelliane e le precedenti traduzioni dal Goethe lirico di Diego Valeri.2 Non si tratterà – ça va sans dire – di compilare positivisticamente una lista di fonti o di debiti
testuali, né di sminuire la competenza di prima mano e l’inventività ricreativa di
Orelli. Se però la ricostruzione del circuito intertestuale attivo in ogni opera di
letteratura è prassi da tempo avallata dai più svariati indirizzi esegetici, non si
vede perché non la si possa o non la si debba applicare anche agli studi sulle traduzioni d’autore, nel momento in cui queste, finalmente affrancate da ogni taccia di ancillare utilitarismo, hanno assunto per la critica uno status paragonabile
a quello delle produzioni originali. Anzi, poiché la traduzione di per sé nasce
da un’ispirazione di secondo grado, e deve adempiere quanto più efficacemente
possibile all’obbligo di vicariato che la impegna, a maggior ragione sarà lecito
dubitare del mito della stesura di getto, del furor creativo. Molto più realisticamente si dovrà credere a una ricerca faticosa e certosina, che per il poeta traduttore non può non contemplare, accanto all’“appropriazione” intima del testo
di partenza nelle sue infinite sfumature e alla tesaurizzazione di un patrimonio
identitario privato e collettivo, un confronto maieutico con i suoi compagni di
fatiche. Ne ha del resto dato la più emblematica testimonianza lo stesso Orelli,
il quale, in un saggio pressoché contemporaneo alla silloge mondadoriana delle
sue traduzioni da Goethe, prima di cimentarsi in proprio nell’impresa di tradurre la celeberrima Hälfte des Lebens di Hölderlin si è premurato di censire e
87
Alice Spinelli
analizzare con ogni cura una serie nutrita di versioni preesistenti.3 Mi permetto
dunque di leggere in questa prova dell’Orelli critico e poeta-traduttore un’implicita autorizzazione, se non proprio un incoraggiamento, al lavoro che mi accingo a presentare, convinta che una migliore comprensione del modus vertendi
orelliano non possa prescindere dall’individuazione degli apporti per così dire
“esogeni”. Tanto più se i singoli punti di contatto vengono messi a fuoco nella
più globale consapevolezza della diversità tra le varie filosofie e tecniche traduttive interagenti; una diversità che tali tangenze anzi, se assunte a discriminanti
pietre di paragone, possono contribuire a misurare.
1.2. Orelli e i traduttori di Goethe: un dialogo
Negli Appunti informativi premessi all’edizione 1974 delle sue traduzioni goe­
thiane4 (non verrà coinvolta nel discorso, in questa sede, l’assai più esigua princeps),5 è del resto lo stesso Orelli a mettere la pulce nell’orecchio, a suggerire
cioè in modo nemmeno troppo implicito qualche mirato scavo in senso comparativo-intertestuale. Orelli confessa infatti di aver intrapreso l’opera, negli anni
quaranta, senza vera cognizione delle traduzioni italiane pregresse,6 ma di aver
sentito poi subentrare l’esigenza di un più meticoloso vaglio della tradizione.
Come fisiologico per un poeta che andava scoprendo una propria voce sempre
più limpida e definita, deve aver cominciato ad agire, in un secondo momento,
il pungolo dell’agonismo “orizzontale”, tra pari, da sommare a quella competitio
“verticale”, con un originale vincolante ma al contempo mai inerzialmente restituibile, che è insita nell’atto stesso del tradurre poesia.7
Uno scrutinio esaustivo delle rotte intertestuali ricostruibili nel Goethe di
Orelli dovrebbe pertanto passare scrupolosamente in rassegna la non sparuta
schiera dei letterati italofoni affannatisi a rendere nel loro idioma nativo le liriche di Goethe.8 In un lavoro dai ben definiti confini come questo, ho tuttavia
scelto di privilegiare Diego Valeri come unico riferimento comparativo: non
solo in forza della sua indiscutibile autorevolezza intellettuale, ossia dell’alta
considerazione di cui godeva – come studioso, traduttore e poeta in proprio –
presso l’élite letteraria del nostro Novecento, ma anche perché con lui Orelli
intreccia il dialogo a distanza più stimolante e controverso, tra distanziamento
esplicito e ben mimetizzate riprese. La trattazione che segue prenderà dunque
in esame tre specimina testuali, mostrando di volta in volta i punti di contatto e
di divaricazione tra le traduzioni di uno stesso pre-testo lirico goethiano offerte
rispettivamente da Valeri e Orelli. Pur senza ambire alla generalizzazione di
risultati che necessiterebbero di verifiche a più largo raggio, si tenterà poi di
ricondurre i dati raccolti a una ratio coerente che, oltre a meglio descrivere l’approccio traduttivo di Orelli e le dinamiche ricorrenti del suo incontro/scontro
con Valeri, possa fornire qualche elemento utile all’interpretazione complessiva
della poetica orelliana.
88
“Attraversando” Valeri. Il Goethe di Giorgio Orelli
2. Orelli “attraversa” Valeri: tre esempi di analisi contrastiva
2.1. Meeres Stille
È lo stesso Orelli a rivelare di aver tratto stimolo a cimentarsi con l’ardua Meeres
Stille goethiana dal giudizio piuttosto severo che aveva espresso il Fubini sulla
traduzione datane da Diego Valeri.9 Non a caso, lo studioso Stefano Barelli ha
strutturato in chiave oppositiva il raffronto tra le due versioni.10 L’analisi che ora
propongo di questo primo campione testuale tiene naturalmente ampio conto
del minuzioso esame comparativo condotto dal Barelli, nonché di altre voci di
spicco della bibliografia disponibile in materia (gli studi di Mengaldo11 e De
Marchi12 su tutti), ma inserisce tali osservazioni in un quadro interpretativo che
ambisce ad apportare qualche – spero non del tutto irrilevante – novità critica.
Meeres Stille
Tiefe Stille herrscht im Wasser,
ohne Regung ruht das Meer,
und bekümmert sieht der Schiffer
glatte Fläche ringsumher.
Keine Luft von keiner Seite!
Todesstille fürchterlich!
In der ungeheuren Weite
Reget keine Welle sich.
Valeri (V)
Orelli (O2)
Bonaccia
Mare calmo
Pace fonda dentro l’acque,
senza moto il mare sta.
Scruta inquieto il navigante
quella liscia immensità.
Grande pace tiene l’acque,
posa il mare senza un’onda,
e vede inquieto il navigante
tutto il liscio che lo circonda.
Tace il vento; una mortale
calma stende il suo sopor.
Non un’onda nell’uguale
lontanissimo squallor.
Da nessuna parte un fiato.
Quiete di morte che spaventa.
Nello spazio interminato
non si muove neanche un’onda.
Nell’opprimente concisione della lirica goethiana, l’uniformità del ritmo
trocaico, replicato identico su due quartine di Vierheber (sostanzialmente, tetrametri) a rima alternatamente femminile e maschile, vuole rendere, «col rallentamento stupefatto e l’immobilità mortuaria che ne derivano»,13 una «calma
terrifica, alle soglie del nulla».14 Con plastica iconicità prosodica, Goethe asse-
89
Alice Spinelli
conda e potenzia infatti il senso di asfissiante sperdimento che l’immagine-tema
(una nave bloccata senza vento in alto mare) intende trasmettere. Si realizza
insomma nel source-text, con particolare evidenza, quell’alleanza tra significante e significato che, in quanto scaturita da un intreccio indissolubile di fattori
idiosincratici o almeno idiolinguistici, è assai difficile ripristinare senza perdite
o strappi in un diverso sistema linguistico-culturale.
Deciso a tamponare l’aporia, Valeri opta per la puntuale «mimesi metrica»,15
anche a costo di disattendere le aspettative del lettore italofono, abituato alla
naturale varietas accentuativa dei versi romanzi. Nella tradizione poetica tedesca, infatti, la codificazione seicentesca classicheggiante di Martin Opitz già
irreggimentava le diverse configurazioni ritmico-prosodiche entro un predefinito novero di possibilità combinatorie – in conformità a un “genio” linguistico,
quello tedesco, di per sé improntato, nell’esecuzione fonica, a più regolari cadenze. Goethe dunque, insistendo percussivamente sulla stessa cellula ritmica,
estremizzava a scopo evocativo un cursus “marziale” – scandito dall’inesorabile
succedersi di arsi e tesi – comunque ben presente, almeno in potenza, nel repertorio di forme canoniche più o meno intuitivamente accessibile a un suo conterraneo. Al contrario, un orecchio educato alla mossa musicalità del Petrarca o
del Tasso, o comunque uso a patterns regolati dall’isosillabismo (e non, come in
tedesco, dal numero fisso degli ictus grammaticali, le Hebungen), non può non
percepire, negli ottonari a schema rigidamente trocaico (1a - 3a - 5a - 7a) del
Valeri, un’inflessione un po’ cantilenante.16
La rima tronca dei versi pari aggrava poi, nella traduzione valeriana, quell’aria da «canzonetta settecentesca» già lamentata dal Fubini: l’osservanza filologica del metro di partenza sembra andare a detrimento di una meglio acclimatata naturalezza d’espressione. Con la sua robusta ossitonia, il tedesco – come
il francese – si presta infatti a un contemperato amalgama di rime femminili e
maschili molto più agevolmente dell’italiano, assoggettato invece alla “tirannia”
delle parole piane. Se vuole rimpinguare lo sparuto thesaurus delle forme tronche, un poeta del sì deve dunque ricorrere all’apocope sistematica (ecco così, in
Valeri, i troncamenti omofonici – fra l’altro, tra due parole allitteranti in /s/ –
sopor : squallor, vv. 6 e 8); un espediente, quello dell’apocope in rima, che a un
conoscitore medio della letteratura italiana rammenta quasi automaticamente i
modi balzellanti di un “poetese” arcadico-rococò prima e ottocentesco poi, e
suona perciò un po’ di maniera.
L’effetto di smarrita gravitas ottenuto da Goethe con l’assillante indistinzione del ductus ritmico rischia dunque di deragliare nel suo antipodo, ossia in
metastasiana levità melica, se lo si persegue imbracciando gli stessi strumenti
dell’originale in un contesto storico-letterario ad essi statutariamente refrattario.
Diversa è la poetica traduttiva adottata da Orelli, che paradossalmente ricerca l’equivalenza sostanziale (certo, quell’equivalenza mai perfetta che è ideale
conativo, “asintotico”, molto più che obiettivo concretamente attingibile dal
traduttore) per via di un più deciso distacco dal modello formale. Eteronomia
dei fini, ma (relativa) autonomia dei mezzi, per sintetizzare in uno slogan quello
90
“Attraversando” Valeri. Il Goethe di Giorgio Orelli
che sembra essere l’atteggiamento traduttivo qui messo in pratica dal Nostro.
Come apertamente dichiarato ancora una volta da lui stesso, Orelli preferisce
interrompere «il fluire degli ottonari con deliberate inflessioni della voce».17 Intercalando alle misure ottosillabiche trocaiche (vv. 1, 2, 5, 7, 8)18 dei novenari
un po’ zoppicanti, tra loro diseguali ed eterodossi quanto a distribuzione degli
accenti (di 2a, 4a, 8a il v. 3; di 1a, 3a e 8a il v. 4; di 1a, 4a e 8a il v. 6), il poeta-traduttore prosaicizza la dizione, precludendone ogni deriva verso una cantabilità
meccanica. I momenti di brusco scompenso ritmico, comunque accortamente
controbilanciati dalla compresenza di misure sovrapponibili alle tedesche, restituiscono così alle frasi nude, sottratte al “narcotizzante” martellare del battito, tutto il loro peso semantico. La statica indeterminatezza dell’orizzonte, con
lo sgomento cosmico che determina, può allora incutere vera soggezione; una
troppo prevedibile litanicità rischierebbe viceversa di smorzarne le implicazioni
romanticamente “sublimi” e perturbanti.
Sempre in quest’ottica di movimentazione ragionativa e anticanzonettistica
delle due quartine, oltre che nel solco di un usus novecentesco ormai consolidato, Orelli surroga il predefinito telaio rimico del Goethe con un più libero
rincorrersi di echi;19 mentre decadono del tutto quelle uscite tronche un po’
polverose che Valeri aveva voluto conservare in estrema ottemperanza all’architettura ritmica dell’originale.
A conferma di come la «dominante di Valeri traduttore» sia la «struttura
metrica in tutte le sue componenti, a partire dalla rima, con veri e propri tours de
force»20 che talvolta sacrificano alla specularità omometrica una resa conforme
di altri aspetti del testo-base, si noti poi la «netta e simmetrica bipartizione»21
delle strofe, senza riscontro nel modello tedesco. La radicale ristrutturazione
dell’impianto sintattico istituisce anzi un rapporto chiastico, di rovesciamento
complementare, con le modalità enunciative di volta in volta adottate nell’originale. Al v. 1, con la soppressione del predicato herrscht, Valeri dà vita a una
frase nominale, così come, circolarmente, ai vv. 7-8 (dove è reget […] sich a non
trovare un preciso equivalente morfologico). Per converso, Goethe sospendeva al centro della lirica due esclamazioni nominali – quasi a farle rimbombare,
lapidarie e absolutae, in quell’atmosfera di esasperante immobilità e luttuoso
silenzio che mirava a ricreare (Keine Luft von keiner Seite! / Todesstille fürchterlich!, vv. 5-6). Ebbene, Valeri risponde con la giustapposizione asindetica di due
coordinate, entrambe rette da una più pacifica e legante sintassi verbale, e con
in sovrappiù l’enjambement ad oliare la transizione interversale (Tace il vento;
una mortale/ calma stende il suo sopor, vv. 5-6).
Orelli calca invece costantemente le mosse del subtesto goethiano: conserva
all’incipit il verbo,22 reso «mediante un’inconsueta accezione del verbo “tenere”»;23 nel verso di chiusa, traspone letteralmente reget sich con si muove (facendo logicamente precedere il sintagma dal non, laddove la negazione, in tedesco,
è incorporata nell’indefinito keine); rispetta la sintassi nominale e l’irrelata autosufficienza dei vv. 5-6 dell’originale (benché al v. 6 la resa del semplice aggettivo
fürchterlich con la perifrasi relativa che spaventa apra la strada all’ipotassi verba-
91
Alice Spinelli
le). Nella prima quartina, inoltre, preserva la congiunzione (und v. 3 → e v. 3),
principale responsabile, in quanto sillaba in anacrusi, della dilatazione ipermetra dell’ottonario trocaico in novenario non canonico24 (e presumibilmente ripudiata da Valeri proprio per il disturbo prosodico che avrebbe recato). In tal
modo, osserva Barelli, il traduttore tutela «la sovrapposizione di unità metrica
e sintattica» pensata da Goethe per la sua prima strofa; «ne risulta, in termini
musicali, un “largo” decisamente in contrasto con la rapidità ritmica della versione di Valeri».25
A levigare la superficie di O2 provvede poi una sensibilità materica tutta
orelliana, quella stessa propensione ad auscultare i più reconditi accordi sonori
(a partire dalle relazioni tra subunità minime e per se asemantiche, i fonemi) che
guida gli “accertamenti verbali” del critico. Ed è infatti in virtù di una navigata
consapevolezza metaletteraria che Orelli decide di esordire con un’assonanza
intrasintagmatica (grAnde pAce, v. 1) utile a «conservare un’efficace dominanza
fonica grazie a due forti accenti sulle A (in tedesco sulle I)».26
Tiriamo ora le somme di questa prima analisi differenziale. Orelli sceglie di
offrire una traduzione per certi versi in linea col gusto contemporaneo, assimilabile, per sprezzatura espressiva e destrutturazione ritmica, al milieu poetico
secondonovecentesco. Va incontro al destinatario, per fare nostra la nota immagine di Schleiermacher, nel momento stesso in cui rifoggia un classico della
lirica tedesca secondo parametri (parzialmente) consoni al codice letterario vigente; così che la potenza pittorica e lo spessore metafisico di Meeres Stille non
perdano, in un processo di traslazione che è lato sensu culturale prima e più che
linguistico, la loro incisività primigenia.
Eppure, la sua non è un’attualizzazione acritica, ma una geniale soluzione
di compromesso. Per dirla in termini crociani, occorreva che la voce di Goethe
risuonasse dentro la sua voce; il testo d’approdo non doveva essere sostitutivo
tout court, ma piuttosto rappresentativo dell’originale. Di qui la necessità di non
obliterare le zone di collisione tra il proprio idioletto e le prerogative dell’antigrafo; di non conformarsi in toto all’orizzonte d’attesa del pubblico, ma di
stimolarne una ricezione critica, conscia dell’ineliminabilità di un certo grado di
Verfremdung (o straniamento).
Di qui, dunque, il sistema metrico ibrido. Con la sua serie disarticolata di
ottonari perfetti, Orelli rimanda non solo alla concreta parole del Goethe lirico,
ma a una langue “altra”: marca così la non piena colmabilità del décalage culturale, la storicità di un componimento che non è e non deve essere percepito
come creazione indigena di un letterato coevo. E tuttavia, i più moderni versi
irregolari, oltre a scongiurare quel fuorviante declassamento della poesia a filastrocca di cui si è detto,27 recano il segno del suo stesso passaggio, sanciscono
(bachtinianamente) la “bivocità” di un testo che non è né l’originale né un suo
originale.
L’elegante tradizionalismo di Valeri rischia viceversa di non problematizzare
a sufficienza il revival del classico – almeno sub specie orelliana, stando non solo
alle inferenze testuali, ma anche alle esplicite prese di posizione critiche e auto-
92
“Attraversando” Valeri. Il Goethe di Giorgio Orelli
riflessive che siamo andati via via citando. Anziché rinnovarsi nell’immanente
tensione tra permanenza e riassorbimento della sua nativa alterità, la poesia del
Goethe viene ricompresa pressoché senza cedimenti al di qua di una frontiera
che a un Novecento “svezzato” da Ungaretti e Montale – solo per citare due
dei nomi più emblematici e influenti – non può non apparire ampiamente sorpassata. È forse questo, al di là delle singole divergenze di resa, lo scarto fondamentale tra la poetica traduttiva del Valeri, fedele a una grammatica stilistica
deliberatamente rétro, e quella di Orelli, deciso a far coesistere, in stridente
controcanto, i più instabili istituti di una modernità militante con le reliquie di
un’eredità attivamente rimeditata.28
La presa di distanza di Orelli dal predecessore è in effetti innegabile, realizzata nei fatti oltre che rivendicata ex professo.29 Ma è davvero incompatibilità su
tutta la linea? In verità, insistendo univocamente sulle note in contrappunto si
corre il pericolo di offuscare significative consonanze.
Innanzitutto, l’unica non-rima nell’ordito metrico del Valeri, l’assonanza acque : navigante30 dei vv. 1 : 3, si ripresenta identica nella traduzione di Orelli; il
quale per di più indulge alla stessa arcaizzante elisione dell’articolo determinativo davanti a sostantivo plurale (l’acque, v. 1 O2 = V). Al v. 3 O2 ritorna, quasi
sullo stesso piede (non fosse per lo slittamento prodotto dalla congiunzione e),
l’inquieto del Valeri (dal bekümmert tedesco, che avrebbe ammesso altrettanto
legittimamente rese quali “preoccupato”, “ansioso”, “turbato” ecc.); in ambedue
i traduttori, posposto al verbo (scruta al v. 3, in Valeri, il più neutro vede al v. 3,
in Orelli), inversamente che in Goethe, dove il participio attributivo precede il
predicato (und bekümmert sieht […], v. 3).
È di altro ordine, tuttavia, la convergenza più suggestiva. Come già evidenziato da Barelli nel suo studio comparativo, al v. 4 «Orelli sostantivizza l’aggettivo glatte (il liscio), rinunciando a trasporre l’intero sintagma glatte Fläche, mentre Valeri, più liberamente e con indubbia reminiscenza leopardiana, traduce
Fläche con immensità».31 Al v. 7, è invece Orelli a parafrasare il celebre Infinito,
replicando al goethiano ungeheuren Weite32 con uno spazio interminato dal copyright inconfondibile.33 Seppur sotto differente specie lessicale e diversamente
dislocate, ben riconoscibili tessere del fortunato idillio leopardiano s’insinuano
dunque sia nella versione di Valeri che in quella di Orelli. Vero è che «era forse
inevitabile, in una poesia in cui il mare e il concetto di immensità si trovavano
congiunti».34 Tuttavia, appurato che Orelli ben conosceva la versione valeriana
(al punto da esserne stato contrastivamente ispirato), e stanti le tangenze testuali
appena individuate, non sarà forse un azzardo pensare che l’interferenza memoriale foriera del suo recupero leopardiano sia stata mediata dal precedente
di Valeri. La versione di quest’ultimo, impreziosita da un sovradeterminante
immensità (come detto, per il più referenziale Fläche) di cui un poeta dall’intertestualità fine e scaltrita come Orelli ha senza dubbio còlto la densità allusiva,
potrebbe in altri termini aver agito da catalizzatore in praesentia di un’«intermittence du cœur» leopardiana che già l’isotopia dell’indeterminato e una Stimmung intrisa di sopraffatta trepidazione certamente propiziavano.
93
Alice Spinelli
2.2. Heidenröslein
Fissati i presupposti della ricerca e tracciato un primo schizzo in controluce dei
rispettivi profili di Valeri e Orelli traduttori, procedo ora più speditamente nella
disamina di altri casi esemplari.
Va in primo luogo chiarito che la verosimile influenza della silloge valeriana a
livello macrostrutturale non ha rivoluzionato i criteri di ordinamento già vigenti
nell’edizione Mantovani. Ovvero: si può ragionevolmente supporre che Orelli
abbia aggiunto in O2 alcune traduzioni su impulso di una lettura agonistica della
raccolta di Valeri. La suddivisione delle liriche in sezioni compatte per “genere”,
temi o tono alla quale quest’ultima si attiene (in filologico ossequio all’Ausgabe
letzter Hand)35 non l’ha convinto tuttavia a scompaginare la seriazione cronologica adottata nel 1957 e coerentemente riproposta nel 1974.
Ciò non toglie che ad apertura dell’edizione mondadoriana si ponga, come
in Valeri, la giovanile Heidenröslein; una ballata dalle agili movenze popolareggianti, ma dal non altrettanto spensierato simbolismo, che il Goethe del periodo strasburghese aveva spacciato a Herder (forse davvero muovendo da una
fonte orale) per uno di quei Volkslieder tanto fervidamente collezionati dal più
anziano sodale, e di cui solo in seguito si attribuì espressamente la paternità.36
A quanto dichiara Orelli, la versione di Heidenröslein compare in O2 per una
sorta di omaggio a Caproni;37 in effetti, il testo ben s’intona con i freschi accenti
ballatistici, da simulato folklore popolare, tipici della poesia caproniana. L’allusione a Caproni non esclude tuttavia un ricettivo “sfruttamento” della versione
di Valeri, che sembra anzi aver lasciato qualche non trascurabile impronta nel
lavoro traduttivo di Orelli.
Come per Meeres Stille, trascrivo prima l’originale tedesco e a seguire, l’una
di fronte all’altra, le sue derivazioni italiane per mano di Valeri e Orelli. Anche
in questo caso, l’itinerario interpretativo seguirà a tratti la falsariga di precedenti
studi, allo scopo però di rifunzionalizzare in una prospettiva inedita le notazioni
mutuate dalla bibliografia corrente.
Heidenröslein
Sah ein Knab ein Röslein stehn,
Röslein auf der Heiden,
war so jung und morgenschön,
lief er schnell, es nah zu sehn,
sahs mit vielen Freuden.
Röslein, Röslein, Röslein rot
Röslein auf der Heiden.
Knabe sprach: Ich breche dich,
Röslein auf der Heiden!
Röslein sprach: Ich steche dich,
dass du ewig denkst an mich,
94
5
10
“Attraversando” Valeri. Il Goethe di Giorgio Orelli
und ich wills nicht leiden.
Röslein, Röslein, Röslein rot
Röslein auf der Heiden.
Und der wilde Knabe brach
’s Röslein auf der Heiden;
Röslein wehrte sich und stach,
half ihm doch kein Weh und Ach,
musst es eben leiden.
Röslein, Röslein, Röslein rot,
Röslein auf der Heiden.
15
20
Valeri (V)
Orelli (O2)
Rosellina di bosco
Rosellina di macchia
Vide un bimbo una rosetta,
rosetta di bosco,
mattutina e giovinetta.
Alla bella accorse in fretta
e la prese a contemplar. Rosa rosa rosa rossa,
rosetta di bosco.
Vide un bimbo una rosa,
rosellina di macchia,
così fresca e mattutina:
corse in fretta, e l’ha vicina,
con gran gioia l’adocchiò. Rosa, rosa, rosa rossa,
rosellina di macchia.
Disse: «Cogliere ti vo’,
rosetta di bosco!»
E la rosa a lui: «Però
non vogl’io: ti pungerò,
né mai più potrai scordar
questa rosa rosa rossa,
rosetta di bosco!»
Il selvaggio se la prese, La rosa di bosco.
La rosetta si difese,
punse e pianse, ma le offese
non poté però evitar.
Rosa rosa rosa rossa, rosetta di bosco!
5
10
15
20
Disse il bimbo: Ti colgo,
rosellina di macchia!
E la rosa: non lo voglio, io ti pungo che per sempre
dovrai pensare a me.
Rosa, rosa, rosa rossa,
rosellina di macchia!
E il bimbo ignaro prese
la rosellina di macchia;
la rosa si difese,
punse, gridò, ma invano:
lo dovette sopportar.
Rosa, rosa, rosa rossa, rosellina di macchia.
5
10
15
20
Come c’era da aspettarsi, Valeri si impegna in una decalcomania metrica quanto più possibile aderente alla matrice. Ne scaturisce «uno schema strofico rigoroso, quasi perfettamente sovrapponibile all’originale, fondato sull’alternanza di
senari e ottonari rimati (rimano tra loro il primo, terzo e quarto v. di ogni strofe;
il quinto v. determina una rima strofica, sempre ottenuta mediante un troncamento)».38 A ben vedere, Valeri è qui più realista del re: conia rime tutte ineccepibili.
Per sovrimprimere al suo Lied una patina più genuinamente popolaresca, Goethe
95
Alice Spinelli
sciorinava invece senza timore delle unreine Reime, con più o meno lieve escursione timbrica (stEhn: morgenschÖn : sEhn vv. 1 : 3 : 4; FrEUden : lEIden : lEIden
vv. 5 : 12 : 19, rima strofica).
Nota ancora Barelli che «alla musicalità orecchiabile della versione di Valeri
fa da contrappunto quella più complessa, benché sempre assai agile, di Orelli».39 I versi plasmati da quest’ultimo – in una libera mistura di settenari e ottonari – non sono infatti imbrigliati in un’armatura rimica costrittiva. Fatto salvo il
vincolo dell’uscita tronca al quinto verso di ogni strofa, i legami fonici sono per
così dire “facoltativi”, e talora più lassi della rima perfetta.40
Sul piano lessicale e sintattico, la “popolarità” del Valeri è in realtà fittizia e
libresca, ricreata in vitro sulla scorta di un frasario poetico avito. Basti pensare alla
dispositio anastrofica e alla forma abbreviata del modale in cogliere ti vo’ (v. 8); o
alla nuova inversione dell’ordo verborum naturalis in vogl’io (v. 11), dove anche
l’elisione del verbo congiura al sapore librettistico, quasi da melodramma verdiano, del segmento strofico.41 Orelli aspira invece alla «creazione di un linguaggio
poetico all’insegna della colloquialità popolaresca»,42 e a tal fine immette nella sua
traduzione degli spaccati di un’oralità sgrammaticata e perciò tanto più credibile.
È il caso della consecutio temporum anacolutica sgranata tra i vv. 4 e 5 (corse in
fretta, e l’ha vicina, / con gran gioia l’adocchiò),43 dove il subitaneo e reversibile
passaggio dal perfetto al presente narrativo genera un «notevole effetto di spontaneità e dinamismo».44 Altrettanto icastico l’impiego, al v. 11 in Orelli, del che
polifunzionale,45 quel «“che” passe-partout tipico della sintassi popolare e perfettamente coerente con le scelte del poeta ticinese»46 (io ti pungo che per sempre/
dovrai pensare a me, vv. 11-12). Quella di Orelli è un’esibita ribellione contro le
affettazioni di un’astratta “superlingua” letteraria: tanto che il voglio non marcato
del v. 10 è da lui stesso assunto a bandiera dell’insubordinazione, in un’abiura di
modi stanchi e antiquati che trova proprio nel famigerato vogl’io del Valeri il suo
simbolico bersaglio – quasi l’ingombrante totem da abbattere.47
Eppure, questo stesso luogo da Orelli addotto a cartina al tornasole di una
più fresca nouvelle vague espressiva è al contempo spia del parziale accoglimento di iniziative del Valeri. Ai vv. 10-12, l’archetipo tedesco articolava infatti in
due momenti consecutivi (e coordinati da und, v. 12) la risposta della rosa allo
Knabe intenzionato a coglierla: alla minaccia di una “memorabile” puntura (Ich
steche dich, / dass du ewig denkst an mich, vv. 10-11) seguiva il piccato rifiuto
a tollerare il dispetto (und ich wills nicht leiden, “e non voglio sopportarlo”,
v. 12). Il v. 12 si correlava così, saldando il cerchio narrativo con la simmetria
complementare di un subritornello contrappuntistico, al v. 19, suo omologo
(anch’esso quinto verso della strofa, con rima identica leiden: Musst es eben leiden, “dovette proprio sopportarlo”). Valeri inverte le due fasi, aprendo la battuta con un secco Però / non vogl’io (vv. 10-11) e posponendogli l’avvertimento
della rosa, deterrente nei fatti vano (ti pungerò, / né mai più potrai scordar […],
vv. 11-12). La risistemazione dei componenti frastici e soprattutto l’uso assoluto
del modale (wills reggeva in Goethe leiden, mentre vogl’io non trova qui un
suo complemento infinitivo) aboliscono la rispondenza “in rondò” col v. 19. La
96
“Attraversando” Valeri. Il Goethe di Giorgio Orelli
resa orelliana condivide tutte queste alterazioni strutturali (Non lo voglio, / io ti
pungo che per sempre/ dovrai pensare a me, vv. 10-12): una curiosa coincidenza
maturata per via del tutto indipendente? Difficile da immaginare.
Pare più economico supporre che la traduzione valeriana sia servita qua e là,
se non proprio da canovaccio per la rielaborazione di Orelli, almeno da filtro
non del tutto trasparente: tanto più che dalla lezione del Valeri sembra residuare,
in O2, anche qualche trouvaille ritmica. Beninteso, ciò non mette in discussione
lo scarto di principio tra la concezione metrica “conservatrice” di Valeri e quella
di Orelli, molto meno ligia a istituti secolari ormai pericolanti. Non è però di
scarso interesse che Orelli abbia deciso di sopperire alla rima strofica imperfetta
di Goethe (si ricordi: Freuden : leiden : leiden, vv. 5 : 12 : 19) con un’anomala
“rima ritmica” tra parole tronche (adocchiò, v. 5; me, v. 12; sopportar, v. 19). Anche nella traduzione di Valeri ricorrono nelle stesse sedi delle terminazioni ossitone, pur se, in più obbediente ripresa dell’originale, «con il surplus […] della
rima strofica»48 (contemplar : scordar : evitar, vv. 5 : 12 : 19). In sostanza, Orelli
rinuncia, a differenza di Valeri, all’omofonia piena; ma è probabile che proprio
da lui abbia ricavato l’idea di una corrispondenza tra forme tronche, senz’altro
adatta a evocare i ritmi squillanti e briosi di una ballata popolare. Va detto che
la scelta, in relazione al Lied goethiano, era tutt’altro che “telefonata”: la rima
femminile avrebbe più coerentemente dovuto dirigere verso esiti parossitoni,
in comodo accordo con le dominanti consuetudini intonazionali dell’italiano.
Si aggiunga poi che in un caso, al v. 19, l’ossitonia è ottenuta da Orelli tramite
l’apocope della desinenza infinitivale di prima coniugazione (sopportAR), come
di regola nella terna di V, coagulata attorno ad una facile rima grammaticale
(contemplAR, scordAR, evitAR).
Infine, qualche nota lessicale di rincalzo. Alla luce delle intersezioni accertate, non pare più fortuito il fatto che «entrambi i poeti concordino nel tradurre
morgenschön, che letteralmente richiederebbe una forma perifrastica, con mattutina, supponendovi inclusa l’idea di bellezza».49 Né senza peso indiziario sarà,
giacché comune alle due versioni, «il forzato spostamento semantico […] nella
traduzione del termine che designa il protagonista maschile: Knabe in tedesco
copre in effetti un’area di significati che comprende tanto il bambino quanto il
ragazzo. Nessun vocabolo italiano consentiva di conservare questa ambiguità
tanto efficace nel testo di Goethe: Valeri e Orelli traducono entrambi bimbo,
con inevitabile sottrazione di potenzialità semantiche legate al tema della schermaglia amorosa e al τόπος del carpe diem».50
2.3. Nähe des Geliebten
Passo ora all’ultimo specimen testuale che ho scelto di trattare in questo contributo. Se per ricostruire il rapporto dialettico instaurato col Valeri nelle traduzioni orelliane di Meeres Stille e Heidenröslein abbiamo potuto giovarci, per così
dire, di ghiotti assist serviti da Orelli stesso (bastava leggere con accortezza i suoi
97
Alice Spinelli
Appunti informativi per trovare una prima chiave d’accesso alla dichiarata correlazione intertestuale), nel caso di Nähe des Geliebten occorrerà invece affidarsi
in toto a meno espliciti, ma non meno sintomatici, indizi testuali.
Innanzitutto il titolo scelto da Orelli per la sua traduzione, Presenza dell’amata, spiazza già sulle prime chi mastichi un po’ di tedesco. Nell’intestazione
goethiana, il determinante des Geliebten è infatti un sintagma genitivale che la
grammatica autorizza ad interpretare esclusivamente o come maschile o come
neutro: “(presenza, vicinanza) dell’amato”, dunque.51 L’apparente stranezza della dicitura al maschile – considerata (sia detto con un sorriso) l’intonsa fama di
tombeur de femmes del Goethe uomo e soprattutto poeta – è presto spiegata: lo
squisito Lied nasce come cover di un testo scritto da Friederike Brun – poetessa
allora di qualche rinomanza – e messo in musica dal compositore berlinese Carl
Friedrich Zelter. Incantato dalla melodia, ma evidentemente non dalle parole,
Goethe aveva deciso di accompagnare alla partitura dello Zelter lyrics di propria
fattura, massicciamente rimaneggiando il prototipo (invero un po’ scolastico)
della Brun.52
È possibile che Orelli, non conoscendo la preistoria di Nähe des Geliebten,
l’abbia annoverata tra le tante liriche d’amore dell’autore francofortese, e abbia
pertanto fatto coincidere con quest’ultimo, senza troppo elucubrare, l’io poetante.53 Ma se non si è interrogato troppo sulle ragioni di quel genitivo maschile
(o neutro), forse è stato anche per il conforto che gli veniva dalla versione di
Valeri, non a caso parimenti intitolata Presenza dell’amata. Sebbene non le si
possa attribuire la valenza probatoria che l’ecdotica assegnerebbe a un errore
congiuntivo, l’identità del titolo, a fortiori per la “licenza” che la femminilizzazione sottintende, davvero suscita qualche sospetto d’interdipendenza.54
Prima di demandare a un fascio organico di rilievi testuali il compito di verificare la legittimità di tale sospetto, converrà però leggere per intero i testi su
cui verterà il discorso.
Nähe des Geliebten
Ich denke dein, wenn mir der Sonne Schimmer
vom Meere strahlt;
ich denke dein, wenn sich des Mondes Flimmer
in Quellen malt.
Ich sehe dich, wenn auf dem fernen Wege
der Staub sich hebt;
in tiefer Nacht, wenn auf dem schmalen Stege
der Wandrer bebt.
Ich höre dich, wenn dort mit dumpfem Rauschen
die Welle steigt.
Im stillen Haine geh ich oft zu lauschen,
wenn alles schweigt.
98
5
10
“Attraversando” Valeri. Il Goethe di Giorgio Orelli
Ich bin bei dir, du seist auch noch so ferne,
du bist mir nah!
Die Sonne sinkt, bald leuchten mir die Sterne,
o wärst du da!
15
Valeri (V)
Orelli (O2)
Presenza dell’amata
Presenza dell’amata
Io penso a te se, raggiante dal mare,
il sol mi batte in fronte;
io penso a te se un barlume lunare
si specchia nella fonte.
Io penso a te se la brace del sole
mi sfavilla dal mare;
penso a te se in sorgive si riverbera
il chiarore lunare.
Vedo te se la polvere si leva
da lungi a nembi folti;
se a notte fonda il viandante trema
varcando aerei ponti.
Odo te se con murmure sommesso
laggiù si gonfia il flutto;
nel cheto bosco sto in ascolto spesso,
allor che tace il tutto.
Sono con te, con me sei tu, se bene
lungi tu sia così!
Si cala il sole, brilleran le stelle
tosto. Oh fossi tu qui!
5
10
15
Vedo te se lontano sulla strada
la polvere si leva;
e a notte fonda, se sul ponticello
il viandante trema.
Odo te se laggiù con rumorìo
sordo sale il frangente.
Spesso nel quieto bosco vado e spio,
quando tutto è silenzio.
Io son con te; benché tu sia così
lontana, sei con me.
Cade il sole, or mi brillano le stelle.
Ah, se tu fossi qui!
5
10
15
Basterà mettere puntualmente a confronto le corrispettive rese di qualche
stesso locus goethiano per trarre ennesima e risolutiva conferma dell’opposizione di fondo tra i due atteggiamenti traduttivi.
All’inizio della seconda strofa, ad esempio, Valeri enfatizza il poco marcato auf dem fernen Wege del v. 5, trasformandolo in un da lungi a nembi folti
(v. 6) che non solo abroga l’asciutta denotatività spaziale del tedesco (auf dem
[…] Wege, “sulla strada”) per intromettere un’apocrifa (e piuttosto convenzionale) specificazione intensificativa (a nembi folti), ma opta anche, nella resa
di ferne, per l’aulicismo lungi, evidentemente aspirando a una classicheggiante
sostenutezza tonale. Al contrario Orelli, oltre a scansare qualsiasi tentazione
interpolatoria, fa ricorso al sinonimo più quotidiano (lontano sulla strada, v. 5);
e la medesima allotropia si ripropone nell’ultima quartina (du seist auch noch so
ferne, v. 13 → se bene / lungi tu sia così, vv. 13-14 V ≠ benché tu sia così / lontana,
vv. 13-14 O2).55
Implica un’analoga polarità diafasica – tra arcaizzante elevatezza di registro
e più ordinaria colloquialità – l’allofonia consonantica nella coppia cheto (v. 11
V) ~ quieto (v. 11 O2), per il tedesco stillen (v. 11).
99
Alice Spinelli
Ancora riconnotante è infine l’interpretazione valeriana di un altro sintagma
locativo, in parallelismo rimato con l’auf dem fernen Wege (v. 5) di cui si è appena detto. Al v. 7 G, auf dem schmalen Stege (“sul ponte stretto”) è indicazione
scevra di sovrasignificati evocativi. Per converso, la sobria referenzialità goethiana tende a rarefarsi in un’atmosfera nobilmente immaginifica nella traduzione
di Valeri (varcando aerei ponti, v. 8). Con la diminutivizzazione del costrutto
tedesco, Orelli si assesta invece su toni di più dimessa confidenzialità (sul ponticello, v. 7).
Se questi rilievi congiunti possono valere da experimentum crucis in grado di
discriminare con nettezza tra l’uno e l’altro atteggiamento traduttivo, ribadendo
la destituzione orelliana dell’anticheggiante “letterarietà”56 di Valeri, essi non
detengono però un significato filologicamente separativo: non esimono cioè dal
setacciare le due versioni alla ricerca di raccordi e dipendenze genetiche. I contatti sembrano qui anzi – al di là del già non irrilevante titolo condiviso – ingenti
e persuasivi, perché non si limitano a sparse chiazze di superficie, ma ineriscono
al pattern metrico-formale stesso delle due traduzioni, e quindi alla loro “grammatica profonda”.
Il Lied goethiano si articola in quartine rette da sinergiche alternanze: i fünfhebige Jamben (pentametri giambici) di collocazione dispari sono intervallati, in
sede pari, da Zweiheber con ritmo analogamente ascendente (tesi – arsi – tesi –
arsi); le misure isometriche sono allacciate dalla rima, di nuovo con avvicendamento di uscite femminili e maschili: ne risulta uno schema iterato AbAb, con A
pentametro giambico piano e b dimetro giambico tronco.
A differenza che nella traduzione di Meeres Stille e nella maggioranza delle
sue versioni goethiane, Valeri non persevera qui in una restituzione epidermicamente esatta del ritmo originale, ma lavora a una più morbida equivalenza culturale, che seleziona all’interno della tradizione lirica italiana una forma metrica
latamente affine a quella goethiana. Elabora così quattro quartine di endecasillabi e settenari a rima alternata. Per giunta, discostandosi in ciò di nuovo dalle
altre due prove sopra analizzate, Valeri supplisce talvolta alla rima perfetta con
più o meno ricche assonanze e accanto alla corrispondenza piuttosto sostanziosa folti : ponti (vv. 6 : 8) avalla legami più deboli, come leva : trema (vv. 5 : 7) e
soprattutto bene : stelle (vv. 13 : 15).
Un Valeri metricamente meno “fondamentalista”, dunque; intento a una più
discreta evocazione del soffuso clima lirico e della musicalità cangiante del modello goethiano, anziché deciso a copiarne religiosamente le fattezze. Ed è questa incarnazione più modernamente “empatica” del Valeri traduttore che Orelli
può avvertire come a lui più congeniale, e che può perciò agire più a fondo sui
suoi stessi meccanismi di resa. Anche in O2 compaiono infatti quartine di endecasillabi e settenari. E la forma prescelta dai due traduttori italiani incide sensibilmente sul rapporto metro-sintassi e sugli equilibri strofici stabiliti da Goethe:
mentre per i versi dispari la misura endecasillabica collima suppergiù con quella
tedesca, i settenari pari espandono notevolmente i corrispettivi Zweiheber, a
cui meglio si attaglierebbero, a rigore, dei quinari. Probabilmente anche per
100
“Attraversando” Valeri. Il Goethe di Giorgio Orelli
via di quest’amplificazione mensurale i due traduttori si trovano talvolta ad introdurre ex novo dettagli qualificativi, o a redistribuire il materiale poetico tra
i due versi di ogni coppia: per rimpolpare il secondo membro, vi fanno slittare
degli elementi collocati da Goethe nel primo, così ingenerando enjambements
eccedenti rispetto al testo tedesco (dove melos e logos combaciano pressoché
senza eccezioni).57
Non soltanto lo scheletro strutturale di O2 – inteso come astratto concetto
architettonico – sembra tuttavia discendere dalla traduzione di Valeri (oppure,
più prudentemente, trovarsi con questa in indicativa sintonia).58 A rinsaldare
il nodo intertestuale provvede la trasmigrazione dall’una all’altra versione di
forme e sintagmi puntuali, spesso situati in rima, ossia nella posizione più caratterizzante e memorabile del verso. Anche in questi casi, riesce difficile pensare a
sviluppi indipendenti, tanto più in quanto questi loci paralleli non risultano da
trasposizioni interlineari – per così dire obbligate, imposte dalla lettera dell’antigrafo –, ma trascelgono concordemente una soluzione possibile tra più alternative adiafore, o addirittura prevedono un certo grado di riformulazione del
dettato goethiano. Ecco elencate le coincidenze rimiche tra i due testi:
• mare : lunare, vv. 1 : 3 V = vv. 2 : 4 O2, dove lunare implica la condensazione
in aggettivo relazionale del genitivo di specificazione des Mondes ‘della luna’
(v. 3);
• (la polvere) si leva : (il viandante) trema, vv. 5 : 7 V = vv. 6 : 8 O2, con un’uguaglianza che non si ferma ai rimanti, ma coinvolge gli interi segmenti frastici
(emistichi in Valeri, versi completi in Orelli);
• così : qui, vv. 14 : 16 V = vv. 13 : 16 O2, secondo due piani ritmico-sintattici
diversi, ma entrambi comportanti la scissione di così – mediante iperbato o
enjambement – dall’elemento che intensifica (so ferne, v. 13 → lungi tu sia
così, v. 14 V; così / lontana, vv. 13-14 O2).
Non pare infine da tacere il fatto che in entrambe le versioni si respiri, direbbe Orelli, un “ozono”59 pascoliano. Se Valeri incastona nella sua traduzione un
tassello estratto tale e quale da Primi poemetti (murmure sommesso, v. 9),60 così
instaurando col Pascoli un legame intertestuale sintagmatico, nel dettato orelliano le risonanze coinvolgono piuttosto l’asse paradigmatico della costruzione
poetica: non affiorano cioè in superficie ben documentabili innesti testuali, ma
alcuni stilemi e moduli espressivi effondono, per così dire, un’aura pascoliana,
o comunque mettono a frutto le più celebrate innovazioni tecniche di Myricae e
dei Canti di Castelvecchio. In rima con spio (v. 11), ecco in Orelli rumorìo (v. 9),
sostantivo che, seppur di per sé mai attestato nell’opera omnia del Pascoli, sfuma in quel suffisso attenuativo -ìo che la critica61 ha giustamente annoverato tra
le cifre più caratteristiche del suo impressionismo linguistico.62 Per il sintagma
la brace del sole del v. 1 O2 (dal goethiano der Sonne Schimmer, “il bagliore del
sole”), Mengaldo ha evidenziato a buon diritto la memoria sottotraccia di «un
costrutto postsimbolistico con inversione di determinante e determinato (e si
101
Alice Spinelli
veda, ad esempio, Ungaretti: “Un fiore di pallida brace”)»;63 e tuttavia, sia pure
mutatis mutandis, sembrano almeno echeggiare in lontananza locuzioni propriamente simbolistiche, e tipiche in particolare dell’evocativo pittoricismo pascoliano, come un nero di nubi, un’alba di perla,64 ecc.
Certo, il concomitante (seppur tipologicamente difforme) richiamo al Pascoli di Valeri e Orelli non è qui stringente come ci è parso, nel caso di Meeres
Stille, l’accordo leopardiano; non gli si può attribuire un’incontrovertibile forza dimostrativa. Puntualizzato che non si esclude la poligenesi delle rispettive,
più o meno cogenti correlazioni pascoliane, non parrebbe comunque illecito
congetturare – dato il precedente del più sicuro leopardismo e accertata ormai
l’intensità e la produttività dello scambio tra i due traduttori – che di nuovo per
intercessione del Valeri si sia innescato in Orelli un “effetto domino” di reminiscenze interculturali originalmente rivitalizzate.65 E se anche queste memorie
letterarie in certo modo confluenti non apparissero troppo degne di nota, se
pure cioè si volesse interpretarle come fortuite coincidenze anziché ricondurle
a un fenomeno che si potrebbe tentativamente definire di “co-intertestualità”, o
“intertestualità mediata”; ebbene, credo che tuttavia gli altri elementi apportati,
che un’analisi più distesa potrebbe integrare ulteriormente, dimostrino come
l’Orelli traduttore di Goethe abbia “attraversato” Valeri – intendendo il verbo
in un’accezione simile a quella che gli assegnava Montale nel riferirsi al rapporto di Gozzano (e, sotto mentite spoglie, suo proprio) con d’Annunzio. Un
rapporto di contrastata aemulatio, nel quale il distanziamento a tratti polemico
e infine il cosciente superamento del modello non esclude – e anzi presuppone –
una frequentazione ravvicinata, capace di carpire e metabolizzare escamotages
stilistici e soluzioni linguistiche o strutturali già sperimentate dal predecessore
e ritenute funzionali, con i dovuti accorgimenti, a un pur ben distinto progetto
poetico.
3. Palinsesti orelliani: quando il classico “vive ancora”
Questa breve rassegna analitica ci ha permesso di incontrare il macrofenomeno
dell’intertestualità a diversi livelli e nelle manifestazioni più varie. Innanzitutto,
inevitabilmente relazionale è l’atto stesso del tradurre, poiché sorge e viene recepito in continua tensione dialettica (in praesentia, nel caso del testo a fronte)
con l’originale alloglotto. Non è però solo il basso continuo della voce goethiana
ad accompagnare le versioni di Orelli come loro stessa condizione d’esistenza.
La penna del poeta-traduttore assorbe le tracce del passaggio di colleghi-rivali
come Valeri (o almeno, «il più bel fior ne coglie»), e le fonde con altre memorie
attinte dalla propria biblioteca personale, o motu proprio (come nel caso della
reminiscenza montaliana innestata nella traduzione di Nähe des Geliebten), o col
presumibile tramite del precedente traduttore (in un procedimento reticolare di
risalita ad fontes “per links successivi” che abbiamo definito qui, constatando
l’accordo Orelli-Valeri nel vario richiamo a Leopardi e Pascoli, “co-intertestua-
102
“Attraversando” Valeri. Il Goethe di Giorgio Orelli
lità” o “intertestualità mediata”). Le versioni goethiane di Orelli convogliano
e armonizzano dunque più voci, livellando distanze linguistiche e anacronismi
storico-letterari nel revival interculturale di un testo espanso in profondità e
capace di rifrangersi in un dotto caleidoscopio di evocazioni incrociate.
Tale plurivocità addomesticata, reincanalata entro l’alveo della propria
espressione poetica, è in linea d’altronde con la docta contaminatio che sostanzia
molte poesie originali di Orelli, e che non è mai classificabile come citazionismo
esibizionistico o horror vacui fine a se stesso. Stralci dei suoi “autori del cuore”
(Dante su tutti, ma anche Leopardi e Pascoli, per citare due poeti che abbiamo
visto intrufolarsi nelle traduzioni analizzate) s’impigliano tra i suoi versi o assurgono a titolo di componimenti e intere raccolte,66 traendo aggetto dallo straniamento linguistico-stilistico, ma allo stesso tempo colorando di nuove sfumature
il proprio Fortleben, il proprio “vivere ancora”, prerogativa di un classico che,
con Calvino, «non ha mai finito di dire quel che ha da dire».67 Questa densità
memoriale positivamente “vischiosa” e mai succube rispecchia un’idea viva e vivificante della letteratura come possesso identitario collettivo e fruibile; un’idea
umanistica, comunitaria ed espansiva, che vede nell’interazione (anche agonistica) tra le voci non una minaccia, ma un valore aggiunto.
Allo stesso modo, Orelli non si pèrita a introdurre nel suo laboratorio traduttivo materiali di varia provenienza, per immergerli – opportunamente risagomati –
nel crogiolo di testi che, in quanto traduttivi, sono già costituzionalmente eterogenei, nati dal connubio di universi linguistici e poetici in proficuo attrito.
In fondo, alla base di quest’apertura polifonica si può scorgere quella stessa
idea di “socialità” che permea la sua visione del mondo, e conseguentemente
la sua scrittura. Ostile a ogni ripiegamento autoreferenziale, Orelli non fugge
mai «via dalla pazza folla», nella turris eburnea del poeta laureato, ma trova
proprio nella parola scambiata e condivisa la scintilla che anima molti suoi versi;
nell’accavallarsi delle voci, l’alimento di un dialogo coesteso alla vita, in ogni sua
dimensione.
Riprendo e approfondisco qui un discorso critico avviato anni fa, nella tesi di diploma
discussa all’Istituto Universitario di Studi Superiori (IUSS) di Pavia nell’ottobre 2012 sotto
il titolo Variazioni a più voci. Giorgio Orelli traduttore del Goethe lirico: dinamiche intra- e
intertestuali. Ai direttori di quel lavoro, la prof.ssa Maria Antonietta Grignani e il prof. Pietro
De Marchi, spetta la mia più sincera gratitudine: il loro costante incoraggiamento e la loro
meticolosa supervisione mi hanno permesso di chiarire e sviluppare molti degli spunti qui
raccolti. Non posso inoltre passare sotto silenzio il contributo come sempre attento e generoso della prof.ssa Silvia Isella, mia mentore degli anni pavesi e a tutt’oggi mio irrinunciabile
punto di riferimento (non solo) scientifico. Resta comunque inteso che eventuali mende e
inesattezze contenute in queste pagine sono di mia esclusiva responsabilità.
Le riflessioni qui proposte vanno lette inoltre in ideale continuità con un mio breve articolo al quale mi permetto di rimandare (Giorgio Orelli traduttore di Goethe lirico: dinamiche
intra- e intratestuali, in “Versants”, 60 [2013], 2, pp. 117-127). In gran parte diverso, o quan1
103
Alice Spinelli
tomeno più circoscritto, sarà però in questo caso il focus analitico: se quella prima pubblicazione si prefiggeva di contestualizzare a grandi linee la pluridecennale attività traduttoria
intrapresa da Orelli sul corpus lirico di Goethe per poi ricostruirne le direttrici variantistiche
in diacronia e accennare a qualche punto di contatto con le versioni goethiane di Diego Valeri, esclusivamente quest’ultima rotta d’indagine, come presto si dirà, sarà qui percorsa e scandagliata più nel dettaglio – sebbene giocoforza sulla base di singoli sondaggi rappresentativi.
Rivolgo infine il mio più vivo ringraziamento al prof. Massimo Danzi, organizzatore del
convegno Giorgio Orelli e il “lavoro” sulla parola, tenutosi a Bellinzona tra il 13 e il 15 novembre 2014, per avermi invitata a presentare una versione abbreviata di questo studio in
un’occasione così speciale, che ha riunito nell’omaggio e nel ricordo tanti illustri amici di un
indimenticato maestro.
2
J.W. Goethe, Cinquanta poesie, tradotte da D. Valeri, Sansoni, Firenze 1954 (d’ora in
poi V).
3
Cfr. G. Orelli, Su alcune versioni d’una poesia di Hölderlin, in “Studi Urbinati”, XLV
(1971), 1-2 [= Studi in onore di Leone Traverso], tomo II, pp. 727-747.
4
J.W. Goethe, Poesie, a cura di G. Orelli, Mondadori, Milano 1974 (d’ora in poi, quando necessario, O2).
5
Id., Poesie scelte, tradotte da G. Orelli, Mantovani, Milano 1957 (O1).
6
Cfr. G. Orelli, Appunti informativi, in O2, pp. 15-23: 18: «Quando cominciai a tradurre Goethe, quasi trent’anni fa, ignoravo del tutto le versioni altrui».
7
Prosegue Orelli ibidem, accennando a qualche inevitabile difformità qualitativa tra i
vari “pezzi” del florilegio: «Alle versioni “felici” non potevano non affiancarsi quelle diligenti
ed alcuni esercizi molto a freddo, dove la “gara” è pure col traduttore che mi ha preceduto»
(corsivo mio).
8
Alcuni potenziali termini di confronto sono espressamente nominati da Orelli stesso, sempre prodigo di annotazioni critiche e autoriflessive. Nel discutere una crux testualeesegetica di Harzreise im Winter (und mit den Sperlingen / haben längst die Reichen / in ihre
Sümpfe sich gesenkt, vv. 21-23), Orelli dà ad esempio qualche ragguaglio circa altre traduzioni
dell’inno a lui note: «Conobbi alcune versioni italiane (del Tecchi, se non m’inganno, di Oreste Ferrari, che venne a morire qui, a Bellinzona): nessuno aveva detto, o avuto il coraggio
di dire, “i ricchi”, optando con evidente smorzatura semantica per “fasto” e simili; fino a
Giuliano Baioni, che non esita (si vedano le sue versioni degli Inni, Torino 1967» (G. Orelli,
Appunti informativi, p. 22).
9
Cfr. ibi, p. 19: «Ho in mente le osservazioni del Fubini (v. Critica e Poesia, Bari 1966)
sulla versione di Meeres Stille fatta da Diego Valeri, e devo dire che da esse sono stato mosso
a provarmi a mia volta con questo breve componimento, come già documenta la scelta del
titolo Mare calmo in luogo di Bonaccia. Giustamente afferma per esempio il Fubini che “il
sistema di accenti e suoni dell’italiano mal riesce a rendere accenti e suoni tedeschi, sì che
chiuse tronche come ‘mare sta’, ‘immensità’, ‘il suo sopor’ danno alcunché di secco al discorso e possono farci pensare a un Goethe, il Goethe di questa cosmica poesia!, costretto dentro
i limiti di una canzonetta settecentesca”».
10
Cfr. S. Barelli, Note sulla traduzione poetica. A proposito delle traduzioni di alcune
liriche di Goethe, in “Cenobio”, XLVII (1998), 1, pp. 13-21.
11
In particolare cfr. P.V. Mengaldo, Giorgio Orelli traduttore di Goethe, in Goethe traduttore e tradotto, Atti del XXVIII convegno sulla traduzione, Il Poligrafo, Padova 2003,
pp. 245-253 (Edizioni del Premio Monselice nn. 28-30), e Id., Diego Valeri traduttore di lirici
francesi e tedeschi, in Diego Valeri e il Novecento, Atti del convegno di studi nel 30° anniversario della morte del poeta (Piove di Sacco 25-26 novembre 2006), a cura di G. Manghetti,
presentazione di P.V. Mengaldo, Esedra, Padova 2007, pp. 87-94.
12
Un’indagine sulle versioni orelliane da Goethe non può prescindere da P. De Marchi,
La fedeltà alla poesia. Sul Goethe di Giorgio Orelli, in Id., Dove portano le parole. Sulla poesia
di Giorgio Orelli e altro Novecento, Manni, Lecce 2002, pp. 92-110 (e dello stesso autore, Ut
poësis translatio. Sul “quaderno di traduzioni” di Giorgio Orelli, in ibi, pp. 111-136).
13
P.V. Mengaldo, Giorgio Orelli traduttore di Goethe, p. 250.
104
“Attraversando” Valeri. Il Goethe di Giorgio Orelli
Id., Diego Valeri traduttore di lirici francesi e tedeschi, p. 92.
Ibidem.
16
Preme precisare che si fa qui esclusivo riferimento alla (ricercata) monotonia prosodica
delle misure versali; perché sarebbe ingeneroso liquidare come insufficiente tout court la versione del Valeri, la quale anzi si distingue, ad esempio, per la perizia nel calcolo dei rapporti
fonematici. Come già intuiva il Leopardi fautore del vago e dell’indefinito, un effetto acusticamente “espansivo” scaturisce dal nesso nasale + dentale, la cui propagazione nella seconda
strofa è disciplinata – chissà se casualmente – dal pareggio chiastico tra variante sorda e
variante sonora (veNTo v. 5; steNDe v. 6; oNDa v. 7; loNTanissimo v. 8; nella prima strofa, foNDa v. 1 e navigaNTe v. 3). L’allitterazione tra Mare e Moto, al v. 2, regge poi brillantemente il
confronto con Goethe, che giustappone Regung e Ruht, v. 2; mentre alcune sonorità-cardine
della stringa sintagmatica beKÜmmerT SiehT, v. 3 riaffiorano, con raffinati incastri, nell’equivalente ScrUTa inQUieTo, v. 3.
17
Cfr. G. Orelli, Appunti informativi, p. 20.
18
Sempre che nel verso esplicitario non si muove neanche un’onda sia «da leggere alla settentrionale neanche bisillabo» (P.V. Mengaldo, Giorgio Orelli traduttore di Goethe, p. 250).
19
Collabora con la corrispondenza perfetta fiato : interminato ai vv. 5 : 7, e con l’accavallarsi di rima identica – quasi in epanadiplosi, tra secondo e ultimo verso – e rima inclusiva nel
reticolo interstrofico onda v. 2 : circonda v. 4 : onda v. 8, la quasi consonanza spaventa : onda
dei vv. 6 : 8, screziata soltanto dall’avvicendarsi, alla dentale sorda /t/, della sua omologa sulla
serie sonora, la /d/. Sull’assonanza acque : navigante dei vv. 1 : 3 torneremo più oltre.
20
P.V. Mengaldo, Diego Valeri traduttore di lirici francesi e tedeschi, p. 89.
21
S. Barelli, Note sulla traduzione poetica, p. 17.
22
Benché lo stesso Orelli ci faccia sapere che, «dietro a Valeri, aveva sulle prime aggirato
herrscht […]» (G. Orelli, Appunti informativi, p. 20).
23
S. Barelli, Note sulla traduzione poetica, p. 18.
24
A dire il vero, una lettura in episinalefe dei vv. 2-3 di Orelli (posa il mare senza un’onda,/
e vede inquieto il navigante […]) permetterebbe qui di ortopedizzare la misura; ma l’acrobazia non pare necessaria né pertinente, se è vero che, come qui si sostiene, la scompaginazione
orelliana dell’intransigente ordine metrico di Meeres Stille ha tutta l’aria di essere programmatica.
25
S. Barelli, Note sulla traduzione poetica, p. 18.
26
Ibidem. La glossa più articolata ed esaustiva si deve però, come di frequente, all’intelligenza (auto)critica del coltissimo Orelli: «“Tiefe Stille” con le sue i rende bene la “profondeur
de la surface” (Bachelard), facendo pensare a certi esiti danteschi (penso adesso a “Fitti nel
limo dicon: Tristi fummo” Inf. VII, 121). Con “Grande pace” si compie un salto vocalico
“fondamentale”, che reca tuttavia un “peso” notevole (si pensi al dantesco “parve carca” Inf.
VIII, 27)» (G. Orelli, Appunti informativi, p. 20). Grande ha inoltre il vantaggio di contenere
quel nesso “dilatante” -ND- già ampiamente sfruttato da Valeri (cfr. supra, n. 16) e riproposto da Orelli in rima (oNDa v. 2 : circoNDa v. 4: oNDa v. 8). Sempre nell’attacco, inoltre,
l’irriproducibilità fonetica di herrscht – «che rumoreggia bene accanto a Wasser ma non può
agevolmente rendersi in italiano (i noti verbi dell’Onda dannunziana qui non servono» – non
basta a far desistere il poeta-traduttore dalla ricerca di una ben orchestrata evocatività acustica: ecco così spiegato il verbo tiene, «bisillabo semanticamente adatto che ha un’utile e finale»
(ibidem).
27
Si tenga anche presente che l’ottonario è probabilmente il metro principe della tradizione popolare italiana: spadroneggia nelle nenie per bambini tanto quanto nelle strofe da
osteria.
28
Ciò detto, alle traduzioni goethiane di Valeri non si può negare una pregevole statura
artistica, che ha meritato loro, oltre a quello di Mengaldo, l’apprezzamento di un germanista
del rango di Cases (cfr. C. Cases, Diego Valeri traduttore di poesia tedesca, in Omaggio a Diego
Valeri, Atti del convegno Internazionale promosso dall’Associazione degli Scrittori Veneti,
dalla Fondazione Giorgio Cini, dall’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti (Venezia 26-27
novembre 1977), a cura di U. Fasolo, Olschki, Firenze 1979, pp. 76-91). D’altronde, non è
14
15
105
Alice Spinelli
certo compito di quest’intervento stilare una classifica di merito (che come tutte le valutazioni estetiche rimarrebbe del resto opinabile) tra i due traduttori presi in esame; molto più
modestamente, se ne vuole indagare l’effettivo rapporto, mostrando quindi in questo caso da
quale punto di vista Orelli abbia potuto ritenere insoddisfacente la proposta del collega, e sia
perciò stato spinto a contrapporle un’alternativa. Si vedrà però subito che la relazione tra i
due è molto meno conflittuale di quanto superficialmente si sarebbe indotti a concludere.
29
Nonché messa in chiaro già dalla scelta del titolo (cfr. supra, n. 9), in cui Barelli individua «il primo elemento di divaricazione semantica […]: Meeres Stille è reso da Valeri con
Bonaccia (un’accezione autorizzata dai dizionari) e da Orelli con Mare calmo, formula più
generica ma anche più ricca di implicazioni simboliche: è anche probabile che Orelli abbia
così inteso eliminare l’accezione di positività racchiusa nella radice “bon-”, che contrasta con
lo sviluppo della lirica (si pensi ad esempio al v. 5, dove Stille ritorna in unione con Todes-)»:
S. Barelli, Note sulla traduzione poetica, p. 17.
30
Dove navigante richiama alla mente il famoso incipit di Purgatorio, VIII: «Era già l’ora che
volge il disio/ ai navicanti e ’ntenerisce il core / lo dì c’han detto ai dolci amici addio», vv. 1-3.
31
S. Barelli, Note sulla traduzione poetica, p. 18.
32
Sciolto da Valeri con una doppia connotazione attributiva e con la marcatura assiologica implicita in squallor (nell’uguale / lontanissimo squallor, vv. 7-8; si noti inoltre l’enjambement “dilatante”).
33
D’altro canto, il leopardismo è in Orelli studiato e dichiarato: «Stupirà forse “interminato” per ungeheuren, ma dopo Leopardi mi par lecito scostare da sé un aggettivo pittoresco per
usarne uno che contenga uno spavento più metafisico» (G. Orelli, Appunti informativi, p. 20).
34
S. Barelli, Note sulla traduzione poetica, p. 18.
35
Le Cinquanta poesie di Goethe scelte e tradotte da Diego Valeri si distribuiscono nei
seguenti comparti: Canzonette; Ballate; Elegie romane; Epigrammi veneziani; Poesie varie; Spigolature; Tempi dell’anno e del giorno; Divano occidentale-orientale.
36
Per una più dettagliata descrizione della genesi e delle vicende editoriali di Heidenröslein rimando, frammezzo alla sovrabbondante strumentazione bibliografica a disposizione, almeno a J. Boyd, Notes to Goethe’s poems, Blackwell, Oxford 1966-1967, pp. 21
ss.; si vedano anche i cappelli di commento alla poesia nelle edizioni critiche tedesche delle
opere goethiane, in particolare nelle Gesamtausgaben cosiddette “Frankfurter” e “Hamburger” (rispettivamente: J.W. Goethe, Gedichte 1756-1799, hrsg. von K. Eibl, in Id., Sämtliche
Werke. Briefe, Tagebücher und Gespräche, Deutscher Klassiker Verlag, Frankfurt am Main
1985, pp. 820 ss.; Id., Gedichte und Epen I, textkritisch durchgesehen und kommentiert von
E. Trunz, in Goethes Werke, hrsg. von E. Trunz, Verlag Christian Wegner, Hamburg 1948,
pp. 490 ss.).
37
«E così posso ora regalare a Giorgio Caproni – cui rincresceva che non l’avessi tradotta
(fino al ’57, anno della pubblicazione delle mie prime versioni goethiane) – la notissima e
senza dubbio deliziosa Heidenröslein»: G. Orelli, Appunti informativi, pp. 18-19.
38
S. Barelli, Note sulla traduzione poetica, p. 15.
39
Ibidem.
40
Ma comunque ingegnosi: si pensi in Orelli alla quasi-rima colgo : voglio dei vv. 8 : 10,
con assonanza piena e scambio metatetico tra <lg> e <gli>.
41
Altrove Valeri raggiunge però risultati di più persuasiva immediatezza: si veda la dislocazione “a destra” dei vv. 15-16, con tematizzazione del sintagma oggetto e sua anticipazione
in catafora pronominale (il selvaggio se la prese, la rosa di bosco).
42
S. Barelli, Note sulla traduzione poetica, p. 17.
43
La forma adocchiò riusciva probabilmente gradita ad Orelli anche in ragione della sua
facies fonetica, che permetteva di creare una rispondenza “chioccia” con la parola-refrain
macchia.
44
S. Barelli, Note sulla traduzione poetica, p. 16.
45
Congruo equivalente del generico dass modale-consecutivo a cui faceva ricorso Goethe
(ich steche dich, / dass du ewig denkst an mich, vv. 10-11).
46
S. Barelli, Note sulla traduzione poetica, p. 16.
106
“Attraversando” Valeri. Il Goethe di Giorgio Orelli
47
Subito prima di annunciare la traduzione di Heidenröslein (cfr. supra, n. 37), e dopo
aver fatto riferimento alle versioni nate “a gara” con altre già comparse (cfr. supra, n. 7), Orelli
esemplifica: «Basta un vogl’io degli anni Trenta per eccitare, con un io voglio, un impulso a
tradurre fondamentalmente diverso, secondante un gusto diverso» (G. Orelli, Appunti informativi, p. 18). Anche se la princeps Sansoni delle Cinquanta poesie è del 1954, non degli anni
trenta, e benché nel v. 10 O2 si legga lo voglio e non io voglio (che ribalterebbe esattamente
il deprecato vogl’io), l’allusione a questo passo di Rosellina di macchia come contraltare alle
corrispettive pose “manieristiche” del Valeri pare qui manifesta. Se l’interpretazione è corretta, se ne ricava allora la conferma di un’altra traduzione – oltre a quella già vagliata di Meeres
Stille – sorta in aperta (seppur rispettosa) polemica con lo scrittore padovano. Si tratterà di
vedere anche qui se lo scontro è davvero frontale e irriducibile, o se non viene piuttosto riassorbito in una più sfaccettata dinamica di assimilazione e superamento.
48
S. Barelli, Note sulla traduzione poetica, p. 15.
49
Ibi, p. 16.
50
Ibidem. Nel commentare la traduzione di Orelli, Mengaldo esprimeva qualche riserva
sull’“infantilizzazione” lessicale del protagonista, ma soprattutto sulla traduzione (in effetti
un po’ deviante) del v. 15: «Io ad esempio non capisco bene perché, traducendo il Heidenröslein (Rosellina di macchia), egli abbia reso “der wilde [selvaggio] Knabe” con “il bimbo
ignaro” (e forse anche “bimbo” si può discutere)»: P.V. Mengaldo, Giorgio Orelli traduttore
di Goethe, p. 250. Si muove qui più rasente all’originale Valeri, che cassa però del tutto il
sostantivo (il selvaggio, v. 15).
51
O tutt’al più, con un processo di astrazione generica che l’ambiguità referenziale del
neutro tedesco ammette, “dell’oggetto amato”; ma non certo “dell’amata” sic et simpliciter.
52
Goethe in persona racconta l’episodio in una lettera a Frau Unger datata 13 giugno
1796: «Seine Melodie des Liedes: Ich denke dein, hatte einen unglaublichen Reiz für mich,
und ich konnte nicht unterlassen selbst das Lied dazu zu dichten, das in dem Schillersten
Musenalmanach steht» (“la sua [di Zelter] melodia del Lied Ich denke dein esercitava su di
me un incredibile fascino, e non ho potuto fare a meno di comporre su di essa una mia propria poesia, che si trova nel Musenalmanach di Schiller”; cito da J. Boyd, Notes to Goethe’s
poems, p. 44). Il suo rifacimento ha poi a sua volta conosciuto numerose Vertonungen, alcune
delle quali di firma illustre (ad es. Beethoven, 1805; Schubert, 1821).
53
La poesia è comunque sedimentata in profondità nella sua capace e sempre fruttifera
memoria, tanto che l’incipit Ich denke dein s’infiltra – triplicato – nella prima poesia “con i
nipoti” del Collo dell’anitra (sezione VIII): Ich denke dein se il treno, scosso un branco […], v.
1; Ich denke dein / quando mi torna a mente l’elicottero […], vv. 4-5; Ich denke dein / mentre
un velivolo riga di bianca […], vv. 9-10.
54
Senza contare che la traduzione di Nähe con presenza non è affatto un’opzione obbligata: si presterebbero altrettanto bene (e anzi richiamerebbero più letteralmente il sostantivo
tedesco) forme come “prossimità”, “vicinanza” e sinonimi.
55
Contribuiscono a innalzare la trasposizione valeriana a quote di più ricercato lirismo un
preziosismo fonografico (la scrizione analitica della congiunzione concessiva se bene, v. 13 V)
e la dispositio iperbatica dei componenti sintattici. Si noti en passant che entrambi i traduttori
inarcano il verso-frase goethiano, sia pure esponendo in contre-rejet due diversi elementi (se
bene v. 13 V, così v. 13 O2). D’altronde, l’introduzione di frequenti enjambements è un tributo
che quasi tutti i traduttori-poeti italiani regolarmente pagano al linguaggio poetico nazionale,
e trova qui tra l’altro una sua logica giustificazione strutturale (se ne riparlerà infra, p. 101).
56
L’«elevato tasso di letterarietà delle traduzioni (in particolare poetiche)» (F. Fortini,
Lezioni sulla traduzione, a cura e con un saggio introduttivo di M.V. Tirinato, premessa di L.
Lenzini, Quodlibet, Macerata 2011, p. 83) non è del resto caratteristica esclusiva di Valeri. Al
contrario, Mengaldo, che si diffonde a enumerarne modalità e sfaccettature (con inequivocabili addentellati montaliani) nelle versioni di Solmi, lo ritiene un aspetto congenito all’atto
stesso del tradurre: «quale che sia la precisa colorazione del fatto (aulicismo, lessico più risentito, lessico con una precisa intertestualità letteraria), noi cogliamo qui qualcosa che, al di là
del caso individuale che pur rende il fenomeno particolarmente istruttivo, mi pare tipico del
107
Alice Spinelli
tradurre poetico in generale. Intendo l’inevitabile risultato di “far mente locale”, di illuminare di una luce più forte, impreziosendoli, taluni dettagli, sempre in forza dell’intellettualizzare
sopra il rigo […] e forse – ancora una volta – compenso di quanto altrettanto inevitabilmente
va perduto d’intensità e ricchezza fonico-formale»: P.V. Mengaldo, Aspetti delle versioni
poetiche di Solmi, in Id., La tradizione del Novecento. Nuova serie, Vallecchi, Firenze 1987, pp.
345-356.
57
Forse questa può essere, se non la motivazione principale, almeno una credibile concausa dell’inarcatura creata sia da Valeri che da Orelli tra i vv. 13 e 14.
58
Non stupirà certo, né vale a inficiare quanto osservato, il fatto che Orelli scardini ancor più decisamente di Valeri il sistema rimico originario. Nella sua traduzione, non solo
corrispondenze foniche di vario tipo possono fare le veci della rima perfetta (come nel fine
binomio frangente : silenzio, vv. 10 : 12, con assonanza tonica e pseudoconsonanza tra i nessi
nasale + occlusiva dentale /t/ e nasale + affricata dentale /ts/), ma alcuni versi in pendant
possono mancare del tutto della saldatura sonora (vv. 1 - 3: sole - riverbera; vv. 5-7: strada ponticello). Nell’ultima quartina, il principio-base dell’alternanza ritmica lascia in Orelli il
posto a un imperfetto schema incrociato: rimano tra loro gli estremi della strofa (così : qui, vv.
13 : 16), mentre i due versi interni sono allacciati l’uno all’altro da una più tenue assonanza
tonica (me : stelle, vv. 14-15).
59
Ha fatto riferimento alla personale riadibizione orelliana, in senso letterario, del tecnicismo biochimico anche A. Zanzotto, La poesia e gli studi critici di Orelli [intervista a cura
di C. Mésoniat], in Id., Aure e disincanti del Novecento letterario, vol. 2 di Id., Scritti sulla
letteratura, a cura di G.M. Villalta, Mondadori, Milano 2001, p. 214.
60
Cfr. Pascoli, Il desinare (in quarta posizione nel poemetto La sementa), II, v. 7: «L’olio
cantò con murmure sommesso» (corsivo mio).
61
Per un’accurata descrizione della lingua di Pascoli, si rinvia almeno ai fondamentali
studi di G. Contini, Il linguaggio di Pascoli, in Id., Varianti e altra linguistica, Einaudi, Torino
1970, pp. 219-245, e G.L. Beccaria, L’autonomia del significante: figure del ritmo e della sintassi. Dante, Pascoli, D’Annunzio, Einaudi, Torino 1989.
62
I riscontri potrebbero moltiplicarsi ad libitum; basti qui ricordare, a titolo esemplificativo, lo Scalpitìo che dà il titolo, in Myricae, al terzo componimento della sezione Dall’alba al
tramonto; l’onomatopeico bubbolìo nell’incipit di Temporale (Myricae, In campagna, XII); in
eccentrica rima plurilingue (con la traslitterazione greca di un verso uccellino), il tintinnìo di
Nozze, v. 9 (ancora da Myricae), etc.
63
P.V. Mengaldo, Giorgio Orelli traduttore di Goethe, p. 251.
64
Traggo entrambe le occorrenze dal celebre Assiuolo (v. 6 e v. 2; da Myricae, In campagna, XI). Giova ribadire che l’attinenza di simili contesti all’uso orelliano risiede qui più in
una somiglianza “di atmosfera” che nel concreto compimento di un calco stilistico. Dal punto
di vista morfologico-retorico andrebbero fatti anzi i dovuti distinguo. Il traducente orelliano
la brace del sole è marcato da un procedimento d’intensificazione metonimica: con una sorta di spostamento semantico dalla “causa” all’“effetto”, nonché per via di una più corposa
materializzazione del dato sensoriale, il “bagliore”, lo “splendore” del sole si trasforma in
“brace”. Pascoli, diversamente, sostantivizzava una determinazione cromatica (un nero di
nubi), o comunque astraeva da una qualificazione attributiva la sua referenza “sostanziale”,
elevandola a complemento di specificazione (un’alba di perla).
65
Ma è indiscutibilmente di propria iniziativa che Orelli trapunge la sua versione di echi
montaliani: risalta in particolare, nell’ultima strofa, un modulo irraggiato verbum de verbo
dalle Occasioni (benché tu sia così / lontana, sei con me, vv. 13-14; cfr. l’incipit del quarto
Mottetto: Lontano, ero con te quando tuo padre / entrò nell’ombra e ti lasciò il suo addio).
66
Sulla scorta delle fini analisi di Pietro De Marchi, ricordiamo che nella poesia di Orelli,
rispetto a quello di Petrarca (di cui pure lo studioso mostra l’azione forse più sotterranea e dissimulata, ma non meno determinante), «il nome di Dante è molto più presente, sin dalla soglia: si
pensi alla sua antologia personale del 1962, dal titolo evidentemente dantesco, L’ora del tempo,
ma si pensi anche a citazioni o utilizzazioni di Dante il luoghi esposti di testi di quello stesso
volume o di Sinopie (1977) come in incipit quali “Se fai come il vecchio sartore” o “In quella
108
“Attraversando” Valeri. Il Goethe di Giorgio Orelli
parte dell’anno non più giovinetto”» (P. De Marchi, Petrarca nella poesia di Giorgio Orelli e di
altri poeti della Svizzera italiana, in Petrarca nella letteratura italiana del Novecento, Atti del convegno (Roma, Università “La Sapienza”, 4-6 ottobre 2001), a cura di A. Cortellessa, Bulzoni,
Roma 2004, p. 256). Regesta e commenta inoltre i dantismi di Orelli G. Lonardi, Accertamenti
sul Dante di Giorgio Orelli, in “Cenobio”, XXXII (1983), 4, pp. 291-301.
67
I. Calvino, Perché leggere i classici, Mondadori, Milano 1991, p. 13. D’altronde, un’analoga concezione del classico è stata espressa apertis verbis da Orelli stesso proprio a riguardo del suo Goethe: «Dunque, oscillanti anche noi tra la “eterna quiete della compiutezza e
l’eterno moto dell’infinità” (Strich), cerchiamo qui, memori anche di quel che disse Cecov
sugli scrittori “vivi” e su quelli “morti”, il classico come lebendig, vivo, come espressione
adeguata – banale, diremmo con Gide – di ciò che vive e continua ad essere efficace, was lebt
und fortwirkt grazie alla perfetta coincidenza (continuo a saccheggiare il Goethe critico) del
“contenuto della propria vita” col “contenuto poetico”, ossia con la scrittura»: G. Orelli,
Appunti informativi, pp. 12-13.
109
MASSIMO DANZI
Orelli lettore: genealogia e figure
di un “metodo”
Intervenendo sull’attività di “lettore” di Giorgio Orelli vorrei preliminarmente
osservare due fatti. Il primo è che, sull’arco della sua lunga stagione di “lavoro”
(dagli esordi poetici di Né bianco né viola, 1944, ai saggi de La qualità del senso,
2013), gli scritti critici rappresentano almeno la metà dell’opera, che pur conta,
accanto alla poesia, prose e traduzioni. Se aggiunti i saggi inediti, tra i quali
quelli sul Fiore che Ottavio Besomi illustrerà tra poco, la rilevanza di questo settore appare, del resto, anche più notevole. Il secondo punto tocca la specificità
del discorso critico di Orelli e la stretta dimensione testuale e linguistica delle
sue analisi. Su questo aspetto, con un’indagine delle ascendenze e prestando
orecchio a una “genealogia” che muove per vie forse meno ovvie se non proprio
eterodosse, verte il presente intervento.
Siano esse dedicate a testi in prosa o in poesia (come è più frequente in Orelli), subito risulta evidente che le sue “letture” procedono così strette al piano
fonico-ritmico del testo da configurarsi come un vero “corpo a corpo” con il
linguaggio dell’autore analizzato. Un tale approccio al testo non risponde tanto,
come si potrebbe pensare, a una esigenza di specializzazione del discorso critico
quanto, e ben oltre, a un interesse per quella che Orelli ha chiamato la «qualità
del senso» di un testo poetico e investe dunque, senz’altro, l’ambito di una riflessione linguistica più ampia. È quello di Orelli un pensiero linguistico in atto,
che può a volte rimanere implicito nei suoi parametri ma è sempre concepito in
modo da saldare fortemente il linguaggio della poesia al linguaggio naturale. Su
questo punto, del rapporto della poesia con le risorse del linguaggio naturale,
tornerò più avanti trattando di due linguisti che, insieme a Roman Jakobson,
hanno contato per Orelli nel campo della linguistica latamente postsaussuriana:
e cioè Edward Sapir e Jurij Tynjanov. Ma fin da ora, credo si debba ritenere l’ipotesi che una critica così “armata” quale dimostrano i suoi Accertamenti
configuri un vero e proprio «cammino verso il linguaggio», se per esso si intenda – come l’ha inteso Heidegger – «il processo di un pensiero che rifletta sul
linguaggio».1 In questo cammino, l’attenzione del critico cade su ciò che, per
lui, più definisce la poesia: cioè la tessitura verbale, l’“orchestrazione” fonica
del testo e insomma la sua dimensione ritmica. Siamo nell’ambito che Agosti, il
“lettore” in assoluto più simpatetico e vicino a Orelli, ha chiamato (ormai quarant’anni fa) dei «messaggi formali» della poesia, sottolineando l’importanza di
quel contenuto informativo non immediatamente semantico che, affidato alla
struttura fonetico-grammaticale-sintattica e, di conseguenza, ritmica del testo,2
111
Massimo Danzi
va al di là del suo significato razionale, qual è quello che ogni lettore non troppo
digiuno coglie a una prima lettura. In questa dialettica tra “suono” e “senso”,
tra “forma” e “contenuto” esplicito delle parole (Valéry parlava anche di forme
e pensée), diversamente apprezzabile e apprezzata nel Novecento, si gioca lo
spazio dell’interpretazione testuale che è stata di Orelli.
Si intersecano nella sua riflessione due linee complementari: quella rappresentata dalla scuola francese di Mallarmé e Valéry, cui ho appena alluso, e l’altra,
italiana, e subito europea (alla prima non estranea), del magistero di Gianfranco
Contini. Nel solco di Mallarmé, è poi stato particolarmente il poeta e critico
Paul Valéry, cui Agosti come Orelli si rifanno (spesso arretrando al maestro),
a insistere sull’opposizione tra idée e poésie e sull’insufficienza di una lettura
limitata al solo “contenuto” razionale di questa («le sens littéral d’un poème
n’est pas et n’accomplit pas toute sa fin»).3 L’idea di Valéry che «la pensée n’est
qu’accessoire en poésie, et que le principal d’une œuvre en vers, que l’emploi
même du vers proclame, c’est le tout, la puissance résultante des effets composés de tous les attributs du langage»,4 si accompagna al rilievo costantemente
accordato alla dimensione formale del testo, che il critico non esita a proporre
come il suo “contenuto” principale.5 Il poeta che lavora con materiali verbali
– osserva in Théorie poétique et esthétique – non può non essere, in definitiva,
«obligé de spéculer sur le son et le sens à la fois».6 Diversamente calibrato nelle
pagine di Variété e dei Cahiers, il tema del rapporto tra forma e contenuto è
all’origine di quell’«alliance intime du son et du sens qui est la caractéristique de
l’expression en poésie».7 Ora, la relazione che, nella costruzione del senso di un
testo poetico, si dà tra contenuti immediatamente semantici e messaggi formali,
o abbiamo detto tra il piano delle idee e le ragioni del linguaggio, è precisamente
uno dei punti capitali su cui Orelli riflette costantemente nel momento in cui
avvicina i testi dei poeti, come dicono i diversi volumi dei suoi Accertamenti
distesi su un arco più che trentennale (1978-2013).
Merita tornare brevemente sui due punti da cui sono partito per una rapida
puntualizzazione. Non rara è, nel secolo trascorso, lo ha osservato Mengaldo,
«una figura di poeta in cui il mestiere lirico si dirama in una più complessa attività militante»9 e per il quale la poesia si distenda e completi sul versante critico
e del traduttore. Tra i nomi più vicini a Orelli, i primi che vengono alla mente
sono ovviamente Ungaretti, Montale, Luzi, Sereni o Zanzotto, coi quali il poeta
leventinese ha intensamente dialogato, tornando a più riprese nei suoi saggi.
Ma a singolarizzare Orelli rispetto a quegli esempi, è – oltre alla rilevanza che
l’esercizio critico ha in lui – l’esclusiva modalità di “lettura” che esso ha assunto
e che si realizza nei termini del corpo a corpo che abbiamo detto. Lo sottolinea
l’autore stesso, quando chiarisce in una pagina del suo ultimo intervento critico
le differenze con il “metodo” di Luciano Anceschi:
Del resto io ero giovanissimo e Anceschi con me è stato molto generoso, così come con
Erba e altri amici di quel periodo. Certo se proviamo a descrivere e dare un senso al
suo lavoro di critico, la prospettiva cambia. Lui era più un teorico che non un critico nel
senso che intendo io, cioè di vero e proprio lettore di testi poetici.9
112
Orelli lettore: genealogia e figure di un “metodo”
Così descritto, e all’interno di una predilezione per la poesia evidente fin
nel numero degli “accertamenti” che le sono dedicati (uno solo è sulla prosa di
Manzoni), l’esercizio del “lettore” appare un unicum nel panorama letterario
non solo italiano novecentesco e contemporaneo.10 In esso si giocano alcuni
fatti importanti a cominciare dalla concezione che Orelli ha di prosa e poesia,
il cui “statuto” pacificamente acquisito gli può produrre qualche inquitudine.
Una “lettura” prevalentemente attenta alla «testura sonora» (così a proposito
di Montale)11 e dunque al rapporto tra suono e senso pone inevitabilmente al
centro l’organizzazione fonico-ritmica del testo, rispetto alla quale la specificità
dei “generi” tradizionalmente accolta può passare in secondo piano. Che siano
in poesia o in prosa, i testi (e con essi l’attenzione del “lettore”) conteranno per
quella che che Valéry chiama «l’orchestration verbale», la quale risponde – ci
dice Orelli – all’impulso che il poeta ha di aderire, con il massimo di precisione possibile, a ciò che ha urgenza di dire. Da questo punto di vista, non solo
la distanza tra i generi si riduce ma è lo stesso linguaggio che impone al poeta
le proprie iniziative, come già Pascoli sembra avvertire osservando che, se «la
poesia consiste nella visione di un particolare inavvertito, fuori e dentro di noi»,
il poeta è comunque colui che «non persuade, ma è persuaso» o quando Eliot
sottolinea, a proposito di Dante (pensando certo al De vulgari eloquentia) come
«nessuno, nemmeno Virgilio, sia stato un più attento studioso dell’arte della
poesia» e osserva che «la pratica di Dante […] sembra insegnare che il poeta dovrebbe essere servo più che padrone della propria lingua»: brani che sembrano
precorrere quella formula di «passivité créatrice», in cui Bonnefoy fissa il processo creativo e sulla quale Orelli si è fermato nei suoi Accertamenti montaliani.
12
Mi permetto di generalizzare solo perché il poeta ha lasciato su questo punto
molte osservazioni, rinviando (dopo l’uscita dell’edizione italiana degli scritti
linguistici), in particolare a brani di Martin Heidegger.13 Ma il dialogo è altrettanto con Mallarmé e Valéry, per il quale la poesia è quella «intime contrainte
à l’impulsion et à l’action rythmée (qui) transforme profondément toutes les
valeurs du texte qui nous l’impose».14
Nell’Orelli poeta, prosa e poesia coesistono naturalmente fin da Sinopie
(1977) e più in generale è stata riconosciuta, in lui, l’importanza dei “transiti”
tra piano della poesia e quello dei racconti.15 Ma lo stesso accade nella coscienza
del “lettore”, che misurandosi con prose e versi di un autore può coglierne quella che (trattando di Montale) chiama la «differenza di temperatura» tra testi16 o,
invece, fare sua, provocatoriamente, una affermazione di Mallarmé, che sembra
annulare ogni specificità di “genere”: «dans le genre appelé prose, il y a des vers
quelque fois admirables, de tous rythmes. Mais, en vérité, il n’y a pas de prose:
il y a de l’alphabet et puis des vers plus ou moins serrés, plus ou moins diffus.
Toutes les fois qu’il y a effort de style, il y a versification».17 Sul rapporto prosapoesia, Valéry la pensava diversamente avendo cura di tenere distinti i due registri e, fin dal 1923, un formalista caro a Orelli come Tynjanov (su cui torneremo
in fine di articolo) aveva dato importanti osservazioni proprio in ordine alla
questione del ritmo, osservando che «non si dà riconoscimento del ritmo al di
113
Massimo Danzi
fuori del materiale [di cui è fatto il discorso]».18 Il discorso porterebbe necessariamente a una pagina di Agosti, che trattando della poesia di Bernard Noël
osserva tra l’altro come «la poésie, à la différence de la prose, mise sur un langage en soi et non sur le contenus que normalement il est chargé de représenter
et de transmettre».19 Ma le citazioni fatte bastano, per ora, a segnalare la libertà
di Orelli nel valutare il lavoro della “lettera” (Mallarmé parlava di alphabet) in
contesti, solo apparentemente simili, di prosa e poesia. Nel suo lavoro di lettore,
lo stesso Orelli si è dichiarato spiritosamente lungi da ogni troppo rigido «esprit
de méthode» («l’esprit de méthode non farà ai miei danni troppe conquiste» si
legge in Accertamenti verbali del 1978) e invece piuttosto simile all’«uccello di
passo» e come lui portato ad «aprire la bocca secondo il boccone».20 Ma sarebbe ingenuo seguire, su questo punto, le dichiarazioni di un “lettore” in cui fine
educazione e libertà di percorsi non contraddicono affatto all’esistenza di un
metodo di lettura. Orelli si è a più riprese servito – come ricordavo – dell’immagine montaliana dell’«uccello di passo» per tracciare a matita leggera un suo
cattivante ritratto di poeta, che come quello si ciba dei frutti che incontra sulle
sue rotte. È immagine, che si trova in Dora Markus e nella Farfalla di Dinard di
Montale ed è stata richiamata da Lonardi a proposito dei montalismi di Orelli;
ma essa vale, credo, altrettanto per il critico-lettore, del quale illumina quella
che Lonardi ha definito «l’agilità di metodo e di voce».21
Dei suoi esordi di “lettore”, avvenuti (per dire in fretta) tra la stilistica di
Vossler, e soprattutto di Spitzer, e la filologia di Contini (di cui ricorda da qualche
parte un corso friborghese sulla Stilkritik), resiste e si accentua nell’Orelli maturo,
incline ad assecondare (come poeta) e a riconoscere (come “lettore”) il «lavoro
della lettera», l’attenzione per una «testualità che è sempre movimento verbale».22
Attraverso questo “lavoro” si prolunga – come scrive a proposito dello scultore
Giovanni Genucchi – l’«anima dell’artista» e si fa riconoscibile la sua «personalità» di autore. È questo il lavoro del poeta: è quel «travail du travail», di cui parla
in una pagina famosa Valéry a proposito del suo Cimetière marin.23
L’elementare quadro tracciato può tuttavia declinarsi lungo una via diversa
da quella percorsa da chi è intervenuto finora sugli scritti critici di Orelli,24 nel
tentativo di affrontare una varietà di “accertamenti” che ha poi preso colore dai
singoli poeti indagati: Dante, Petrarca, Leopardi, Foscolo e Montale tra tutti. Scegliendo una strada diversa, vorrei privilegiare alcuni paradigmi del suo discorso
critico osservando preliminarmente come il poeta si sia, in generale, tenuto lontano da tentazioni teoriche. Potrebbe trattarsi di un approccio “genealogico”, se
non avessi il timore che questo coincidesse con una ricostruzione di discendenze
lineari da esperienze e maestri, che pure, come si è visto, Orelli ha avuto, ma che
non bastano a illuminare le modalità del “lettore”. Vorrei invece optare per altro
che valorizzi meno la continuità e le origini di un metodo e più quegli elementi
“individui”, discreti e qualche volta addirittura subliminali della sua scrittura critica, che ne singolarizzano la fisionomia. Una “genealogia”, certo: ma non votata a
ritrovare le “origini” di un discorso, quanto piuttosto sensibile – come vuole Foucault a proposito di Nietzsche – a quelle «petites vérités sans apparance», a quegli
114
Orelli lettore: genealogia e figure di un “metodo”
elementi che paiono «n’avoir point d’histoire» a cui si affida alltrettanto la vicenda
del Soggetto e la sua ricchezza discreta.25 Per Stefano Agosti, che quel paradigma
ha recepito e finemente applicato in un saggio su Petrarca, un modo addirittura
di cogliere quanto «permane nascosto, occultato o anche represso dall’esercizio
ordinario del sapere normativo».26 Le “figure” che dunque menziono nel titolo saranno quelle immagini, non escluso anch’esse parzialmente subliminali, che ricorrono con frequenza nel discorso critico di Orelli e che, pur affidate a un registro
evasivo o familiare, rivelano – ad un ascolto non corrivo – un’ideale genealogia del
“lettore”. Ma andiamo con ordine.
Scrive Orelli che un poeta è sempre «figlio di qualcuno»: ne scrive citando
una conferenza di Gide sull’«influence en littérature», che è bene ricuperare
perché (a parte l’alta considerazione del critico per l’autore francese), in essa
si esprime l’idea che l’influence contribuisce a rivelare all’artista la sua stessa
personalità. Ecco un brano: «Sa puissance [de l’influence] vient de ceci qu’elle
n’a fait que me révéler quelque partie de moi inconnue à moi-même; elle n’a été
pour moi qu’une explication – oui, qu’une explication de moi-même».27 L’aggancio con l’Orelli “critico”, interessato a cogliere la particolare “maniera” di
un poeta, il proprium della sua poesia è immediato, se si pensa alla particolare
funzione di “filtro” riconosciuta alla poesia di Montale nella “lettura” di Dante («le nostre letture di Dante, diciamo da ramarro a ramarro, erano letture
postmontaliane»)28 o invece a quella a Pascoli per Montale: «A noi è accaduto,
attraverso Montale, non tanto di veder attenuarsi – entro limiti naturalistici di
mera percezione – il merito del linguaggio pascoliano, quanto di isolare, per
meglio apprezzarlo, ciò contro cui più si spunta l’accusa […] di velleitarismo
cosmologico e bozzettismo».29 Ma il criterio di un “influsso” che rivela l’anima
di un artista vale altrettanto per pittori e scultori di cui Orelli nota (è il caso di
Massimo Cavalli) che «perseguono un’indagine che è chiarimento di sé, dei propri motivi esistenziali, e riduzione, per così dire, all’osso di ciò che costituisce
l’oggetto della loro ansia conoscitiva».30 Mentre il tema degli influssi «o altro che
i poeti prendono da altri poeti» non ha smesso di interessare i lettori, ritornando
anzi alla ribalta con sfumature patemiche non sempre sostenute da analisi in vitro,31 in Orelli esso si misura nel vivo del linguaggio. L’interesse dei suoi “accertamenti” sta proprio nel costante tentativo di avvicinare la personalità stilistica
di un autore (e il termine serba, a mio avviso, qualcosa delle approximations di
Valéry), misurandola sulla base del differenziale tra cotesto di partenza e testo
d’arrivo.32 Ma come si traduce questa tensione, questa dialogicità tra testi nel
“lettore”? Leggo negli Accertamenti verbali: «Ritmico-timbrica è essenzialmente
la memoria che i poeti hanno di sé e di altri poeti. Di tale memoria, quando si
tratti di riprese (consapevoli o inconsce poco importa) in profondità, con una
nuova densità, si può dire che è già un’esegesi. Il discorso poetico ne è informato molto più di quanto comunemente si creda: anche e soprattuto a questo
pensiamo quando si dice che un poeta è figlio di qualcuno».33 E dieci anni dopo,
ritornando su un poeta molto frequentato ma su cui ha scritto poco, il Foscolo,
annota:
115
Massimo Danzi
Circa l’intertestualità (se ne parla da pochi anni in più di un’accezione), mi pare che in
poesia serva soprattutto l’accertamento di una intertestualità ritmica e timbrica: quella
per esempio che mostra quanto Dante abbia “salato il sangue” […] a Petrarca. Nell’intertestualità tocchiamo come un poeta “è figlio di qualcuno e non figlio di nessuno o
peggio”.34
Ovvio che una tale conclusione valga, prima che per gli altri, per Orelli stesso, che in varie occasioni ha riflettuto sulla sua poesia. Ricorderò solo l’Autolettura del noto Frammento della martora, che chiude l’Abbecedario richiamato
sopra e dove il metodo è lo stesso: «Sono anch’io per mia fortuna “figlio di
qualcuno”, in letteratura gli influssi sono (è nota questa affermazione di Gide)
necessari. Ma c’è influsso e influsso: probabile che le mie siano per lo più rimemorazioni ritmico-timbriche».35
Le citazioni fatte circoscrivono la sostanza di ciò che interessa a questo colto
“lettore”: l’“auscultazione” della lettera del testo, per un verso, e l’anamnesi
linguistica che da quell’“auscultazione” deriva. Sono momenti strettamente
connessi dell’operare del poeta-critico, che nell’ultimo libro si applica volentieri
l’etichetta (continiana) di «operaio della critica verbale»,36 con la quale si accede
al “metodo” delle sue letture. Vorrei farlo attraverso tre “figure” (non so come
meglio chiamarle) operanti dell’Orelli critico, che facilitano il percorso tra testi
anche lontani nel tempo: quella della “lettura lenta”, una seconda relativa alla
“lessicalizzazione” di alcuni concetti critici fondativi del suo discorso e un’ultima, che ci introduce al dialogo che Orelli ha avuto con critici e “lettori” sulla
nozione per lui capitale fra tutte di “ritmo” del testo poetico e dove riprendo il
tema del rapporto tra lingua della poesia e linguaggio naturale.
Veniamo alla prima. Chi conosca gli Accertamenti verbali del ’78, o i successivi dedicati a Montale, Foscolo o Petrarca pubblicati tra il 1984 e il 1991, sa
che l’“auscultazione” del testo, la sua attenzione agli elementi minimi di senso
(sillaba, morfema, fonema, lettera ecc.), si realizza entro un quadro più ampio
che li riscatta e che possiamo definire fonico-ritmico. Tale riscatto solo può darsi
però (così il critico, che la rivendica) attraverso una lettura “lenta” del testo e
anzi, con aggettivo continiano, “minuziosa”. Con valenza tecnica, riferito alla
“lettera” del testo e ai suoi elementi minimi di significato, “minuzioso” compare
per la prima volta nel Saggio di un commento alle correzioni del Petrarca volgare
(1943), in cui trattando del «sistema d’equilibrio dinamico» che configurano
le varianti petrarchesche Contini indica nel «lettore minuzioso» l’unico lettore
veramente consono al Petrarca.37 Non mi fermo su questa formula, che meriterebbe di essere commentata adeguatamente collocandola accanto ad altre, che
qualcosa hanno cercato di dire sul “lettore” adeguato di ogni tempo: basti richiamare qui la formulazione di «suffisant lecteur» con cui Montaigne offre una
sorta di patto di collaborazione intepretativa al suo lettore (Essais, I 24) o quella
che Valéry ha dato, scrivendo di Virgilio, di «lecteur assez intérieur» (Oeuvres,
I 214) o ancora il senso che la definizione di «lettore idoneo» ha ritrovato in
Vittorio Sereni, dopo l’impiego che per sé ne aveva fatto Giorgio Seferis.38 Ma
torniamo alla “lettura”.
116
Orelli lettore: genealogia e figure di un “metodo”
Un tale approccio, fatto di lentezza e attenzione alla “lettera”, e in particolare
agli aspetti fonico-ritmici del testo, nutre particolarmente il saggio petrarchesco
del 1990, dove le affermazioni di teoria del testo (mai numerose, come detto, in
Orelli) diminuiscono ulteriormente favorendo la misura compatta dei saggi lì riuniti. Orelli si concentra su due aspetti principali: 1. la memoria che di Dante
agisce in Petrarca e, di conseguenza, 2. la riformulazione del rapporto tra i due
autori, in termini diversi dall’opposizione che, con pedagogica semplificazione,
Contini aveva proposto parlando di polarità di «espressività e di assoluto». «Non
posso», nota Orelli in quel saggio, «aprire il Canzoniere senza toccarvi la viva
presenza di Dante, il merito del suo linguaggio così trasmutabile, il collo d’anitra
della sua espressività».39 Tralascio quest’ultima immagine, destinata a fissarsi nel
titolo dell’ultima raccolta del poeta (Il collo dell’anitra, 2011) perché su essa Matteo Pedroni ha scritto cose molto giuste evidenziandone la portata euristica per la
poesia di Orelli.40 Semmai, l’immagine conferma, mi pare, come i suoi titoli passino, più in generale, attraverso una lunga incubazione dimostrandosi uno dei luoghi di massimo spessore semantico.41 Questa “lentezza” è forse una caratteristica
dell’uomo più in generale, ma qui interessa come “paradigma” del suo discorso
critico, che la elogia o, al contrario, stigmatizza la “fretta” del lettore: insomma,
nella “lettura” di un testo, come per la «pulzelletta» delle rime dantesche, «la sua
sentenzia non richiede fretta». È questa una prima “figura” iscritta in profondità
nell’opera di Orelli e tale da risultare – come direbbe Foucault – «n’avoir point
d’histoire». Pure si tratta di una modalità decisiva per il critico.
Fin dal 1966, a proposito del pittore e amico Massimo Cavalli, Orelli osservava: «Scrisse il grandissimo Klee circa trent’anni fa: “Nulla può essere fatto in
fretta […] e se mai verrà il tempo del capolavoro, tanto meglio allora. Noi dobbiamo continuare a cercare”».42 Lentezza, dunque, in evidente relazione con il
“lavoro” e la ricerca dell’artista: «dobbiamo continuare a cercare». Ma perché
e, soprattutto, cosa dà spessore di “metodo” a questa “categoria” critica? Il
libro su Petrarca, ove la “lentezza” si lega alle modalità di una «critica verbale»
attenta alla lettera del testo e ai suoi elementi minimi di significato – fonemi (per
Jakobson) sememi (per Greimas) –, offre una prima risposta. Ma c’è anche altro,
che preme sottolineare perché appartiene al non detto del poeta. Ed è il ruolo
che ricopre la “lettura lenta”. La lentezza nella lettura è infatti modalità fondativa di ogni discorso sulla memoria dei poeti, perché permette una “memorizzazione” del testo più approfondita. Orelli non lo dice, ma qui agisce a sua volta la
memoria di una lettera in cui Petrarca discute con Boccaccio della lettura lenta
e meditata che è la sua e delle ricadute che questa ha, più in generale, sul lettore.
La riporto brevemente, interpolandone i “nodi” fondamentali con l’originale
latino e la candido dunque a paradigma di un concetto che sembrerebbe altrimenti “non avere storia” (miei i corsivi):
una cosa voglio dirti, che a me fin a oggi era ignota e ora mi meraviglia e stupisce. Quando
[…] scriviamo qualcosa di nuovo, spesso erriamo in ciò che più ci è familiare e che proprio
mentre scriviamo c’inganna; mentre siamo più sicuri in ciò che più lentamente impariamo
117
Massimo Danzi
[«que lentius sunt mandata memorie»] […]. Questo avviene anche in altre cose […]. Io ho
letto una volta sola Ennio, Plauto, Felice Capella, Apuleio, e li ho letti in fretta [«legi raptim»], soffermandomi in essi come in un territorio altrui. Così scorrendo, molte cose vidi,
poche notai, pochissime ritenni, e come roba comune le riposi in luogo aperto, come a dire
nell’atrio della memoria [«memorie vestibulo»]; sicché ogni volta che mi capitò di udirle e
riferirle, subito mi accorsi che non erano mie e ricordai di chi erano; appartengono a altri
[…]. Ho letto Virgilio, Orazio, Boezio, Cicerone, non una volta ma mille, né li ho scorsi
ma meditati e studiati con cura [«nec cucurri sed incubui et totis ingeniis nisibus immoratus
sum»]. Li divorai la mattina per digerirli la sera, li inghiottii da giovane per ruminarli da
vecchio.43 Ed essi entrarono in me con tanta familiarità, e non solo nella memoria ma nel
sangue [«non modo memorie sed medullis»] mi penetrarono e s’immedesimarono col mio
ingegno, che se anche in avvenire più non li leggessi, resterebbero in me, avendo gettate le
radici nella parte più intima dell’anima mia.
Naturalmente, l’idea che senza una lettura meditata non ci sia memorizzazione è teologica e medievale; ma qui importa che Petrarca la faccia sua trasferendola, in certo senso, nella nostra modernità. Se ora assumiamo il punto di vista
dell’«operaio della critica verbale», pare evidente che senza il rapporto fondativo tra lettura lenta e memorizzazione del testo venga meno per Orelli la stessa
possibilità dell’anamnesi critica. È anche in questo senso va inteso il giudizio di
Contini che nel poeta Orelli agisce una «posizione di memoria»: nel senso cioè
in cui, per il poeta come per il “lettore”, la memoria, e particolarmente la memoria fonico-ritmica del testo, costituisce un dato fondativo su cui costruire.44
Ma andiamo con ordine. Nel 1978, i primi Accertamenti verbali sono esercizî
di «critica verbale», nel senso che l’aggettivo aveva dato Mallarmé (che parla
di «poète verbal») e aveva ripreso Valéry (che parla di «matériel verbal»). Ma
tra questa tradizione e il critico la giuntura è rappresentata ancora una volta
da Contini, che nel ’65, in occasione del VII centenario della nascita di Dante,
abbozza ai Lincei un suo profilo dei compiti che attendono il «moderno dantista». La «critica verbale» ha qui il suo atto fondativo. Degli obiettivi che Contini
propone di «convogliare con altri interventi di varia morfologia […] sotto l’etichetta di critica verbale», l’ultimo suona: «nuove ed esasperate auscultazioni
della lettera […] magari analisi dei valori fonosimbolici» del testo.45 La formula,
che ricorda – mi pare – senz’altro Mallarmé («j’envisage […] la lecture comme
une pratique desespérée»: La musique et le lettres) ha una storia che occorrerebbe fare, e che dal noto Esercizio d’interpretazione sopra un sonetto di Dante (del
1947) arriva alla Postilla aggiunta nel 1976 ristampando quel vecchio saggio nel
volume intitolato Un’idea di Dante. Senza entrare nel dettaglio, la dimensione
della verbalità che nel 1947 appariva rimossa affiora decisa nel 1976. Sempre nel
saggio del 1965, l’affermazione di Contini che «l’esegesi, quella buona si svolge
tutta sopra un solido fondamento verbale» pare offrire a Orelli un’autorevole
legittimazione in un ambito in cui si muoveva da tempo, mentre la centralità
accordata ai valori fonici assecondava certamente anche il suo temperamento di
poeta. Sarebbe opportuno, ma non posso farlo qui, ricostruire le fasi di questa
esplicitazione continiana dei valori fonico-timbrici, che (retaggio classico a par-
118
Orelli lettore: genealogia e figure di un “metodo”
te) passa per l’apprezzamento di un critico come Alfredo Gargiulo, e particolarmente delle analisi contenute in Suono e poesia (1908), negli Scritti di estetica
(1952), e dei lavori leopardiani di Angelo Monteverdi, la cui Scomposizione del
canto «A se stesso» è uno splendido esempio in quello stesso 1965.46 L’attenzione
che si esplicita in Contini precorre la stagione degli anni settanta, con gli studi
che qui posso solo ricordare (molto diversi tra loro) di Gian Luigi Beccaria,
da una parte,47 e direi Stefano Agosti e Iván Fónagy dall’altra: avvertito che, se
comune è in questi la compromissione dell’interprete col piano “analitico” (non
di Beccaria né di Orelli) più forte è in Agosti, rispetto al linguista ungherese,
l’autonomia riconosciuta ai valori formali.48 Soprattutto in quest’ultimo ambito,
la concezione linguistica che del testo ha Fónagy pare vicina a Orelli, quando
osserva che «le poète […] travaille avec ls plus petites unités semantiques, utilisant un réseau verbal aux mailles les plus serrées, pour saisir dans son filet des
détails qui échappent au language ordinaire, ou qui ne peuvent s’y exprimer de
manière adéquate».49 Lascio comunque per ora da parte l’istruttivo dialogo che
Orelli ha avuto con questo linguista, limitandomi a dire la sua diversa posizione
rispetto ai più vicini critici italiani. Mentre per Agosti, che coniuga modelli psicanalitici e letterari, «la creazione […] sospinge contenuti razionali – o dominati
razionalmente – verso l’irrazionalità segreta e veramente biologica delle forme»�
che dunque “parlano” autonomanente attraverso il piano del significante, Orelli50 sembra operare con maggior ritegno nel considerare tale piano succedaneo
o autonomo rispetto a quello immediatamente semantico. Più forte è la riserva
verso il concetto di “autonomia” del significante elaborato da Beccaria, che investendo l’idea stessa di “fonosimbolismo” pare a Orelli presupporre una «scelta intenzionale (o che postfactum si rivela funzionale)» da parte del poeta.51 Fondamentalmente estraneo a un accesso psicoanalitico del testo (materia che già
sollevava la diffidenza di Contini),52 Orelli considera il testo un insieme di valori
linguistici sufficiente da indagare con (quasi) esclusiva attenzione alla lettera e
ai suoi elementi minimi di significato. In ciò, è più vicino alla misura di Segre,
che nella ristampa del suo Lingua stile e società (1974) osserva: «Sono sempre
più convinto che una lunga consuetudine con l’analisi linguistica concreta sia
l’indispensabile condizione per qualsiasi teorizzazione o proposta di modelli.
Continuo a pensare che la lingua costituisca il più articolato complesso di indizi
sulle situazioni socio-culturali del passato».
I nomi fatti, e le tradizioni che sottendono, imporrebbero di essere completati almeno con le posizioni di certa critica francese più vicina a Orelli, in questi
primi anni settanta. Con Segre, Starobinski condivide le riserve sulla critica sociologica,53 e nella prefazione (1970) alle Études de style di Spitzer esprime una
posizione che non solo è fondamentalmente quella della cosidetta “École de
Genève”, ormai toccata dal clima strutturalista, ma pare far suo, con misura, il
rigetto di Valéry per ogni “istituzionalizzazione” del dato letterario in termini
di “storia della letteratura”. Così Starobinski: «Pourquoi ne pas admettre que
l’oeuvre aboutie, séparée de son placenta psycologique et sociale, reste
néanmoins porteuse, dans sa forme achevée, de tout ce qui a contribué affecti-
119
Massimo Danzi
vement à sa genèse?»54 Anche qui, più misurata è la posizione di Orelli, che nel
saggio su Foscolo osserva: «Non credo che sia possibile leggere, interpretare il
testo escludendo il contesto, la porzione di storia che vi si può riconoscere. Da
qui a credere che la storia ci schiuda i segreti della poesia ce ne corre».55
Ho esasperato a bella posta, semplificando, alcune posizioni vive negli anni
settanta, in particolar modo quella tra scienza del linguaggio e psicanalisi. Che
le strade, tuttavia, non divergessero troppo in questi anni e l’opposizione fosse
meno radicale di quel che sembra dice una serie di fenomeni linguistici e sintattici tenuti in conto un po’ da tutte le scuole come consustanziali al testo poetico.
Ricordandone qui qualcuno, entro nella parte finale del mio intervento dedicata
a una pur rapida caratterizzazione del discorso critico di Orelli. Tra gli elementi
fondativi del testo poetico è, per le prospettive che apre, il fenomeno dell’anagrammatismo, preso frequentemente in conto da Orelli per Dante come per
Pascoli o altri autori. Sappiamo, lo rivela Starobinski nel 1971, come Saussure
alle prese con lo studio di anagrammi paragrammi ippogrammi nei testi antichi se ne incuriosisse al punto da scrivere al Pascoli per misurare la coscienza
che di quei fatti aveva il poeta italiano e grande latinista. E come questi, dopo
una prima lettera di risposta, opponesse un diffidente silenzio alle iniziative del
linguista ginevrino.56 Agosti, da parte sua, ha aggiunto altro che importa arricchendo notevolmente il quadro: per un verso ha ricordato come quello studio
sull’anagrammatismo in Saussure sollecitasse altrettanto le attenzioni di Jacques
Lacan;57 per un altro ha candidato a modello dell’interesse continiano per la
“lettera” come fondamento di anamnesi stilistica, che abbiamo visto dichiararsi
nel 1965, il saggio di Proust su Flaubert (A propos du «style» de Flaubert, in volume nel 1927) con queste parole, che debbono essere citate: «Il grande testo di
Proust su Flaubert, che dalla critica della lettera quale risulta investita nelle varie categorie grammaticali, passa alle figure dello stile e da queste alla visione del
mondo, poteva ben essere considerato dal giovane studioso, il testo esemplare,
il testo critico per eccellenza».58 Le cose sono insomma nuovamente complesse
e i fili si intrecciano più di quanto era prevedibile. Basti in questa sede averne
accennato.
Mi fermo un attimo, per sottolineare ciò che oggi può passare per ovvio e tra
’50 e ’60 lo era, invece, meno. L’atteggiamento cioè che è stato di Orelli e il suo
bisogno di esprimersi sulla poesia, segnale di un “fare” che, nei termini che
abbiamo visto, si accompagna a una lucida e armata “coscienza del fare”. Non
era questo, nell’Italia del dopoguerra e immediatamente dopo, un tratto diffussimo nel mondo della poesia. Più di trent’anni fa, Alfredo Giuliani, esponente
del Gruppo 63 nonché curatore dei Novissimi, intervenne ricordandolo su “la
Repubblica”, in un articolo provocatorio in cui stroncava le riflessioni di Eliot
sulla poesia.59 La stroncatura celava certo un malessere nei confronti di un “poeta-critico” giudicato ingombrante; ma anche conteneva questa considerazione
ancora valida: «Faccio notare», scriveva Giuliani parlando degli anni cinquantasessanta, «che in quell’epoca prestrutturalista, presemiologica, ottusamente “re-
120
Orelli lettore: genealogia e figure di un “metodo”
alistica”, del mestiere, da noi non parlava pressoché nessuno. A sentire i critici
e gli stessi poeti, sembrava che la poesia discendesse direttamente dalla Grazia
(e non c’e niente di più falso)». Pur tardi, e in un clima tutt’altro, quelle parole
alludevano a una temperie precisa e avevano un bersaglio preciso. Negli anni
cinquanta, ancora era viva infatti in Italia la condanna di Croce (per il quale
Baudelaire rimaneva l’ultimo poeta accettabile) degli esponenti della moderna
poesia e riflessione francese, primi fra tutti Mallarmé e Valéry:
La teoria di poesia e critica di cui prendo a discorrere è stata proposta e professata da
meri letterati, a capo dei quali sta, rivelatore e maestro, quel Mallarmé che lascia sempre
in dubbio chi lo considera se egli fosse un illuso o un “poseur” non esente da consapevole o inconsapevole cerretanismo; né maggior vigore mentale aveva l’onesto Paul Valéry,
discepolo di lui e maestro della nuova generazione, del quale la banalità della stampa
parigina, o internazionalmente snobistica, ha imposto di ascoltare a bocca aperta le poverissime, e spesso stortissime e spropositatissime, sentenze pseudofilosofiche.60
Tale era il quadro, per molti a quell’altezza ancora di riferimento, che ci permette di meglio intendere la novità del discorso critico che, sulla fine degli anni
sessanta, Orelli avvia nei termini del corpo a corpo che abbiamo detto e, per il
quale, complice la mediazione di Contini, i capisaldi sono proprio Mallarmé e
Valéry. Di ciò resta più di una traccia nelle scelte linguistiche del suo discorso
critico, che ora vorrei discutere brevemente in ordine alle “immagini” cui si
affida la ricostruzione di questa modesta “genealogia”.
Comincerò (ed è il punto 2) con la parte che mi pare abbia Valéry e pochi
esempi basteranno. Quando Orelli ne La qualità del senso parla di sé come di un
«operaio della critica verbale» ha certo presente il maestro di Filologia e critica
dantesca («maestri e operai della critica verbale»),61 al cui magistero filologico quella formula, come la stessa concezione “artigianale” dell’opera, conviene
perfettamente. Ma l’una e l’altra non si spiegano, credo, senza arretrare ulteriormente a Valéry, che definisce il poeta come il «véritable ouvrier d’un bel ouvrage» e interpreta la poesia «come un lavoro perennemente mobile e non finibile».62 Ben oltre una certa astrattezza della sua riflessione, il linguaggio di Valéry
ci documenta l’importanza di questa dimensione artigianale nella terminologia
che impiega. Le molte osservazioni sparse nelle sue pagine sul «travail du poète»
e la rivendicazione di quel «travail» come «exercice de l’esprit longuement soutenu» contro coloro che ritengono che «les poètes doivent composer comme
l’on respire»,63 costituiscono un nucleo generativo che incoraggia (insieme all’idea di “lentezza”, che abbiamo visto) la concezione artigianale che Orelli ha
della poesia. Quel «travail» anche avverte del tentativo di sostituire i vecchi concetti di “ispirazione” o “furore poetico” che avevano, secondo Alfredo Giuliani,
tenuto a lungo la scena.64 «Travail», «labeur», «fabrication de l’oeuvre», «faire
du poète» sono schegge di una concezione più ampia dell’opera, che affiora
quando Valéry afferma di leggere nel termine «poétique» niente altro che «la
notion toute simple de faire […]. Le faire, le poïein» di cui si occuperà nei suoi
121
Massimo Danzi
scritti.65 Una tale visione è anche di Orelli, che tuttavia accettandola procede
per la via di concrete verifiche testuali, quale – è noto – non si diede invece
mai né in Mallarmé né in Valéry («Je n’entrerais pas dans l’examen du travail
conscient, et de la question de l’analyse en actes. Je n’ai voulu que donner une
idée tres sommaire du domaine de l’invention poétique»)66 e che come detto
lo singolarizza nel panorama poetico contemporaneo. Una memoria che agisce
prima e parallelamente anche in Contini, quando richiama i dantisti al compito
di «nuove ed esasperate auscultazioni della lettera» con la formula mallarmeana
che abbiamo detto.
In quell’«uccello di passo» che è Orelli, la frequente sovrapposizione delle
memorie segnala d’altra parte i percorsi che nutrono la coscienza del critico.
Così alla riflessione dei francesi, qui ridotti a due soli nomi, si sovrappone l’ombra lunga di Dante, poeta che Eliot indicava nel 1950 senz’altro come il «più
scrupoloso, accurato e consapevole professionista del mestiere».67 Pur smorzate
nel tono, molte “figure” del discorso critico orelliano appaiono infatti procedere da Dante, la cui riflessione linguistica e retorica diviene in lui, col tempo,
sempre più importante. Evidente è il caso del termine fabricatio, che nel De
vulgari eloquentia designa l’artigianato della canzone antica68 e Orelli utilizza
per la costruzione verbale della poesia, in qualche modo sovrapponendola a
un termine frequente in Valéry: «je ne crains pas le mot fabrication car poésie
signifie fabrication».69 Ma anche altre “figure”, che per il registro familiare potrebbero sfuggirci, vengono da lì: le «parole ben pettinate» sono i «vocabula
pexa» del De vulgari eloquentia (Dve, II vii 2, 4, 6 e 7), i «vocaboli ben levigati»
sono i «vocabula dolata» (II vii 5) e infine l’immagine della «fascina» di versi,
di rime o d’altro che Orelli impiega spesso («una fascina di versi», «una fascina
di siffatte memorizzazioni», «dalla fascina di Quasi sereno [di Angelo Barile]
togliamo…» ecc.) rinvia senz’altro, anche, al «fascis» dantesco di Dve, II viii
1 e 9. Meno noto, senza per questo pensare di esaurire il discorso, che Orelli
ritrovasse il concetto di fabricatio, fuori di Dante e Valéry, anche nelle riflessioni
poetiche per esempio dell’amato Gottfried Benn, che di contro all’“ispirazione”
rivendicava il “fare” del poeta: «una poesia sorge, in genere, molto di rado»,
scriveva, «una poesia viene “fabbricata”» («wird gemacht» nell’originale).70
L’idea dell’opera di poesia come «lavoro perennemente mobile e non finibile»,
che ho ricordato, introduce alla questione, che è uno dei corollari che ne discendono, del linguaggio inteso nella sua mobilità creativa: un concetto che, in Orelli,
affiora di continuo e salda ulteriormente le sue «letture» alla tradizione che abbiamo ricordata del pensiero linguistico di Martin Heidegger. È dagli scritti linguistici di Heidegger, precisamente da quelli di In cammino verso il linguaggio (Milano,
Adelphi, 1973), che prende origine la riflessione, che leggo in Quasi un abbecedario: «L’attenzione alla lettera del testo presuppone che si consideri il linguaggio
non tanto come un prodotto morto quanto come un produrre dico ricordando
Humboldt».71 Ora l’idea di un linguaggio non come “prodotto morto” bensì
come un organismo vivo (“un produrre”), investe tutta l’attività poetica di Orelli
122
Orelli lettore: genealogia e figure di un “metodo”
e si ritrova in numerose varianti: da quella di «sistole e diastole» (a definire il particolare ritmo poetico petrarchesco) a quella di «sillabe oniricamente-poeticamente
inquiete, pronte a spostarsi […] dal nome di persona al toponimo» (utilizzata
per Iride di Montale) ad altra di «Petrarca [che] come Dante, ama sfruttare la
produttività di certi lessemi, riprendendone i radicali, spostando fonemi, sillabe,
ispessendo e assottigliando» o di Pascoli, che «s’afferra soprattutto a poche parole produttive, ne muta l’ordine, ne parafrasa i fonemi, ricorre a metatesi ed altre
dislocazioni, replicazioni; s’apprende alle “radici” della parola, quasi ripercorrendone la storia verso le origini».72 Tutte queste immagini riconducono alla convinzione che Orelli trova espressa in Petrarca e altrove, per la quale il “lavoro” del
poeta altro non sia – alla fine – che uno «spostare sillabe tutta la vita»: «Quotiens
syllabas contorsimus, quotiens verba transtulimus», dice di sé nella famosa lettera
al fratello di Fam. X 3.73 Un concetto la cui formulazione moderna più esplicita
spetta comunque a un poeta francese del Seicento, che Agosti ha citato e fatto suo
scrivendo proprio sulla poesia di Orelli, in questi termini mirabili:
Il grande Malherbe confidava un giorno a Racan: Se i nostri versi vivranno dopo noi,
tutta la gloria che ne potremo sperare è che di noi si dirà che siamo stati due eccellenti
manipolatori di sillabe (“arangeurs de syllabes”) e che abbiamo avuto un grande potere
sulle parole per essere riusciti a collocarle così adeguatamente al loro posto; e altresì
che siamo stati entrambi assolutamente pazzi per avere trascorso la più gran parte della
nostra vita in un esercizio così poco utile al pubblico e a noi stessi, invece di impiegare
quel tempo a spassarcela, o a pensare alla sistemazione della nostra fortuna.74
Una tale idea del “lavoro” poetico e della poesia, se ottiene di déshabiller
la vecchia Signora dei panni “idealisti” che denunciava Giuliani anche riporta
il discorso sul piano della testualità e delle relazioni fonico-ritmiche di cui è
fatta la poesia, non per nulla da Mallarmé definita «une orchestration qui reste
verbale» e da Valéry «une sorte de propagation d’effet de résonance».75 Quale
sia poi il grado di coscienza del poeta nell’associare le parole e quale invece la
parte del caso, certo inversamente proporzionale al “mestiere” che ha il poeta,
è dato qui non necessario alla discussione e che porterebbe lontano dal nostro
tema. Basti ricordare che per Mallarmé «Le hazard n’entame pas un vers»76 e
che per Valéry «une intime contrainte à l’impulsion et l’action rythmée transforme profondément toutes les valeurs du texte qui nous l’impose».77 L’esercizio di
sorvegliatissima «critica verbale» perseguito da Orelli nei suoi Accertamenti non
dice in fondo cose molto diverse.
Ma torniamo un momento, prima di concludere, al tema del rapporto che
la lingua della poesia ha col linguaggio naturale, sul quale Orelli ha riflettuto
spesso nelle sue “letture” facendone uno snodo fondamentale nell’operare del
poeta. Che il linguaggio della poesia sia “altro” rispetto a quello della normale
comunicazione hanno avvertito e argomentato sufficientemente in molti, prima
delle note “funzioni” linguistiche proposte da Jakobson. Gli Accertamenti orelliani non scendono sotto una pagina di Parini, per il quale la poesia non è solo
123
Massimo Danzi
«una foggia di parlare diversa dal linguaggio comune» ma altresì «un linguaggio
diverso da quello della prosa».78 Analoghe, ma infinitamente più ricche le osservazioni sulla poesia che può offrire il Leopardi dello Zibaldone, in fasi anche
molto diverse della sua attività poetica, là dove per esempio mostra l’alta coscienza della distanza che per lui intercorre tra poesia e prosa. Ma è ovviamente
nel Novecento che ritroviamo concezioni a lui più familiari. E se, anche in ciò,
Valéry chiude in certo modo una riflessione che da Baudelaire procede attraverso il simbolismo francese, bisognerà ricordare, accanto a lui, due grandi linguisti
richiamati spesso, su questo punto, negli Accertamenti: l’americano (d’origine
lituana) Edward Sapir e il russo Roman Jakobson. Del secondo dirò qualcosa
concludendo sul concetto di “ritmo” in Orelli. Sapir invece si impone con Il linguaggio (1921), libro tradotto in italiano da Einaudi nel 1969 e subito posseduto
da Orelli, come il linguista più importante per questa riflessione. Tutto il capitolo IX su Letteratura e lingua verte sul rapporto del poeta con la propria lingua
“naturale”. Basti qualche citazione: «le caratteristiche fondamentali dello stile,
in tanto in quanto lo stile è un problema tecnico della costruzione e collocazione
delle parole, sono offerte dalla lingua stessa, con la stessa inevitabilità, con cui
l’effetto acustico generale del verso è dato dai suoni e dagli accenti naturali della
lingua». Ancora: «Non è affatto probabile che uno stile veramente grande possa
decisamente opporsi alle strutture formali di fondo della lingua. Esso non solo
incorpora quelle strutture, ma costruisce sulla base di esse». O infine: «È strano
vedere quanto tempo è stato necessario alle letterature europee per imparare
che lo stile non è un assoluto […], ma semplicemente la lingua stessa, che scorre
nei suoi solchi naturali, e con un accento individuale sufficiente a permettere
alla personalità dell’artista di essere sentita come una presenza e non come un
gioco acrobatico».79 Il critico e il poeta hanno d’altra parte molto presente l’idea
che la poesia sfrutti le risorse naturali del linguaggio. Ciò accade quando Orelli
riprende, a proposito di Dante, la formulazione continiana di «epigrammi naturali»80 o invece osserva come Petrarca non faccia altro che «utilizzare le risorse
estetiche innate del proprio linguaggio»81 o come, ancora, la lingua del Pascoli,
nella sua «povertà», «esiga un scarto (o “infrazione” o “disordine”) minimo,
rispetto all’ordine naturale», e così via.82 La cosa tocca discretamente anche il
poeta, che asseconda più che non paia le «risorse estetiche innate» del linguaggio. Basterà il rinvio a due testi di Spiracoli (1991) come L’ha di la Rita e Angor,
impetus, mors, che sfruttano l’oralità dialettale (rispettivamente del contado di
Bellinzona e dell’Alta Leventina), trascorrendo con assoluta naturalezza dal piano della quotidianità a quello della poesia.83 Per altro verso, questo rapporto tra
linguaggio naturale e lingua della poesia, che inerva i testi del poeta, illumina
il lavoro della memoria anche fuori da quell’ambito privilegiato, con la stessa
attenzione al fattore fonico-ritmico che per Orelli è capitale in poesia. L’episodio spesso ricordato di suo padre, che amante dell’opera rimemora a suo modo
celebri brani verdiani (il celebre «Eri tu che macchiavi quell’anima» del Ballo in
maschera che diviene «Eri tu che mangiavi quell’anitra»), mostra che analoghe
dinamiche verbali si danno (come Orelli direbbe) anche presso il “popolo”:
124
Orelli lettore: genealogia e figure di un “metodo”
dinamiche che torcono altrettanto parodicamente il collo all’eloquenza della
vecchia lingua aulica. Di casi come questo, di “usucapione” parodica di brani
celebri a parte populi testimoniano, con toni divertiti, le pagine del narratore e,
a volte, anche del critico.
Il processo di ricombinazione di pochi e spesso fondamentali nessi morfofonematici che un poeta attiva nei suoi testi è l’angolo di visuale da cui Orelli
rilegge, nei modi della «critica verbale», la cosidetta “povertà” linguistica di
Pascoli. Una “povertà” naturalmente solo apparente per un poeta che fa delle
figure di ricomposizione (anagrammi, paragrammi, isoritmie, palindromi ecc.)
una via prediletta verso l’essenzialità cui aspira. Ma una tale arte del linguaggio, un tale senso di “economia” linguistica non conduce solo alla “povertà”
del Pascoli, permette anche di leggere, in un percorso che ogni volta riattiva la
memoria fonico-timbrica del testo, la poesia di Dante, Petrarca o Montale. Pascoli è però da questo punto di vista un eccellente banco di prova. Leggo negli
Accertamenti verbali:
Si insiste per solito sulla ricchezza e precisione e determinatezza del linguaggio pascoliano. Qui invece vorrei attirare l’attenzione sulla sua “povertà”, sulla particolare natura
della sua esattezza […]: il poeta, come ho già detto, s’afferra soprattutto a poche parole
produttive, ne muta l’ordine sillabico, ne parafrasi i fonemi, ricorre a metatesi e altre dislocazioni, replicazioni, ecc; s’apprende alle “radici” della parola, quasi ripercorrendone
la storia verso le origini.84
Non procede per altra via l’apprezzamento che Orelli mostra per uno scrittore come Robert Walser, il cui «pregio fondamentale» gli pare «la creazione
con niente di un mondo profondo e intimo». Walser, ci dice Orelli, sa fare «mit
wenigem viel», secondo la formula che Goethe spiritosamente applica alla fidanzata in un epigramma veneziano. «Ottenere molto con poco», scrive Orelli nell’Abbecedario, «è uno dei grandi desideri dell’artista: Goethe dice: “das
heisst, dünkt, mit wenigem viel”». 85
Questa delibata “economicità” linguistica che Orelli insegue nei suoi autori mostrando la “produttività” liberata dal linguaggio speciale della poesia ha un punto di convergenza necessario nel fattore, giudicato capitale fra tutti, del “ritmo”
poetico, luogo che sussume le alchimie verbali del poeta e in cui si gioca la consistenza stessa dell’“io” del poeta, che ad esso affida la riconoscibilità di sé come
autore.86 Valga un esempio tra i tanti, tratto dalla “lettura” che Orelli ha dato di
una lirica del poeta Angelo Barile, nella quale a un certo punto osserva: «Come
è stato detto per qualche poeta celeberrimo, qui il ritmo è la sostanza stessa della
poesia».87 A questa, che è la “vera” misura di sé, un poeta accede per la via della
«parola esatta, insostituibile», che è – ci dicono ancora gli Accertamenti verbali
– «quella di volta in volta sintagmaticamente motivabile al massimo».88 A questo
mira il “lavoro” del poeta e «questa verità di espressione costringe a esatto conto
a esatta misura».89
125
Massimo Danzi
Se ora, partendo da siffatte premesse, dovessi indicare quello che è per Orelli
il fattore capitale del linguaggio poetico, e per me la conclusione di questo percorso, non farà meraviglia che indichi senz’altro l’attenzione al “ritmo” poetico
del testo. Tutto quanto ho detto, e quanto potrei ancora trarre in merito ai valori
formali del testo degli Accertamenti è per un verso costantemente ricondotto da
Orelli sul piano ritmico-timbrico-sintattico e, per un altro, appare “cifra” di un
metodo che lo singolarizza a fronte di “poeti-critici” come Montale, Luzi, Sereni o Solmi. Non si tratta, ovviamente, di ritmo inteso come insieme di regole
prosodiche, di ictus accentuativi, tra materiale verbale (la parola) e dimensione
prosodica (il verso). Queste, a giudicare del “ritmo” poetico non bastano, come
già aveva notato il Gargiulo dialogando con Vossler nel 1908 («L’accento può
soltanto agire sul suono»).90 Né serve a cogliere il ritmo la distinzione tradizionale di accenti principali e secondari in un verso, che ci dice Orelli «i poeti nel
loro lavoro più creativo non hanno mai rispettato più che tanto».91 Si tratterà
piuttosto di un ritmo che nasce da quell’«alliance intime du son et du sens» in
cui Valéry vede «la caractéristique essentielle de l’expression en poésie» e che i
“formalisti” russi (tra tutti, per Orelli, il Tynjanov de Il problema del linguaggio
poetico [1923]) propongono con particolare attenzione come fattore costruttivo
del verso. Ben oltre, o al di là della parola o dei suoi fonemi sillabici, il ritmo si
affida, per Orelli, ai nessi morfofonematici in azione nel testo e alla capacità che
ha il “lettore” di riconoscerli. Una stessa “memoria” presiede dunque al “lavoro” del lettore e a quello del poeta, che conduce al giudizio («giudizio di valore», per Orelli fondamentale e mai pretermesso) e, con esso, al riconoscimento
della «qualità del testo». Si tratta di una memoria essenzialmente timbrica, come
ci avvertiva fin dai suoi primi Accertamenti:
Ritmico-timbrica è essenzialmente la memoria che i poeti hanno di sé e di altri poeti.
Di tale memoria, quando si tratti di riprese (consapevoli o inconsce poco importa) in
profondità, con una nuova densità, si può dire che è già un’esegesi. Il discorso poetico
ne è informato molto più di quanto comunemente si creda: anche e soprattutto a questo
pensiamo quando diciamo che un poeta è figlio di qualcuno.92
Con questo coincide finalmente la sua idea di “ritmo” poetico, che si impone
al poeta in una con le ragioni del linguaggio lungo tutto il percorso del testo,
dall’intuizione primamente trasferita sulla pagina a quel «travail du travail» che
sono, nel linguaggio di Valéry, le correzioni che un autore apporta al testo perfezionandolo. Su questo punto delle “correzioni” di un autore, capitale per chi
«considerando la poesia nel suo fare, l’interpreta come un lavoro perennemente
mobile e non finibile» (così Contini nel ricordato Saggio di un commento sopra
le correzioni del Petrarca volgare), Orelli ha discusso col maestro andando, alla
fine, per una sua strada: insistendo cioè sulle ragioni che all’operare del poeta
impongono la “partitura sonora” del testo e le reciproche relazione degli elementi che la formano.
126
Orelli lettore: genealogia e figure di un “metodo”
Non posso non notare – scrive nel saggio petrarchesco – che né Contini per le varianti
leopardiane, né Isella per quelle pariniane, si curano nel loro eccellente lavoro di dar
gran peso al significante in quanto suono, che spesso determina la scelta della parola
esatta, in quanto asseconda le esigenze dell’orchestrazione verbale, del ritmo inteso in
senso propiamente semiotico. Talché non so se abbia sempre senso parlare di “sistema”
(stilistico) d’un poeta escludendo lo studio attento della Lautsprache, della partitura sonora: la “ragione immanente” (Contini) alle correzioni dei poeti, da Petrarca a Char, non
sembra per solito così nascosta da non poter esser colta dai nostri orecchi.93
L’indicazione è importante perché cela una differenza in merito al “contesto” entro il quale valutare il processo correttorio di un autore e che Contini
mira a inserire nel “sistema” di un autore. Un’unica volta, mi pare, ad indicare
l’ambito interessato dalle correzioni apportate da Montale a una sua poesia,
Contini assume il termine di “insieme”, col quale Montale illustrava i ritocchi
all’amico Boby Bazlen: «La norma», scriveva Contini in Ultimi esercizî a proposito dell’Elegia di Pico Farnese, «è di miglioramenti locali, da giudicare però
nel “sistema” o più frugalmente detto nell’“insieme”».94 Resta il problema dei
confini da dare al “sistema” o all’“insieme”, del “perimetro” insomma in cui si
iscrivono le correzioni. Orelli preferisce la nozione, meno rigida, di “insieme”
e tende a spiegare le correzioni di un autore in primo luogo sulla base delle reciproche relazioni foniche che nel testo si stabiliscono tra le parole: la «finalità
esegetica generale» in cui Contini le iscrive – osserva – «non potrà che ricevere luce da un’attenzione minuziosa al suono della voce poetica».95 In secondo
luogo, l’analisi delle correzioni si iscrive per lui nell’«insieme empiricamente
sufficiente»: sia esso «il componimento che si sta scrivendo» sia una sua unità
minore. «Propongo di studiare la variante – si legge nel Foscolo del 1992 – per
entro l’insieme morfo-fonematico (sufficiente), nella trama di relazioni foniche
che vi si stabiliscono: parlo dunque di “insieme”, nozione evidentemente meno
rigida di “sistema”».96 Questo interesse per l’aspetto fonico nello studio dell’elaborazione di un testo ha ascendenze insospettate, se un filologo classico come
Pasquali (all’origine, come è noto, del moderno interesse scientifico per le “varianti d’autore” in Storia della tradizione e critica del testo [1934]) lo richiama
per un autore volgare come Boccaccio.97 Mi limito a segnalare il fatto, perché
le sue osservazioni coincidono sostanziamente con gli interessi di Orelli, partecipando di una stessa sensibilità per il significante allora non così ovvia in un
classicista. Ma qui anche mi fermo.
Siamo infatti arrivati, con le correzioni di Petrarca, Char o Montale al termine di un discorso che ci riporta alla questione del “ritmo” in poesia e alla particolare “memoria” che è dei poeti. Non lascerò, per concludere, di ricordare che
l’idea di ritmo come «varia corrispondenza di accento e struttura morfofonematica del verso» che Orelli ha mirabilmente espresso in una “lettura” montaliana,98 procede e va oltre quella che Valéry aveva chiamato la «substance sonore»
del testo. E che quel «travail du travail» che Petrarca è il primo “moderno” a
testimoniare nel vivo del «codice degli abbozzi» vaticano, serve, nell’ottica di
Orelli, a capire e spiegare anche quanto fanno poi Boccaccio, Ariosto, Tasso,
127
Massimo Danzi
Parini, Leopardi o Foscolo componendo o, successivamente, correggendosi.
Come già per il “lettore”, anche per chi indaga il perfezionarsi del testo, l’approssimazione alla parola esatta finisce per coincidere con le istanze dell’orecchio ben attrezzato. In questo, di nuovo, Orelli pare dare ragione a Valéry, per
il quale la poesia è stata tutta la vita l’arte di «contraindre le langage à intéresser
immédiatement l’oreille».
1
M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, a cura di A. Caracciolo, Mursia, Milano
1973, p. 201.
2
S. Agosti, Il testo poetico. Teoria e pratiche d’analisi, Rizzoli, Milano 1972.
3
P. Valéry, Œuvres, Édition établie et annotée par J. Hytier, Gallimard, Paris 1957, vol.
I, p. 1292-1293.
4
Ibi, p. 216.
5
Ibi, p. 1456: «LITTERATURE: ce qui est la “forme” pour quiconque, est le “fonds”
pour moi».
6
Ibi, p. 1328.
7
«S’il est un vrai poète il sacrifiera presque toujours à la forme (qui après tout, est la fin
et l’acte même, avec ses nécessités organiques) cette pensée qui ne peut se fondre en poème si
elle exige pour s’exprimer qu’on use de mots ou de tours étrangers au ton poétique. Une alliance intime du son et du sens, qui est la caractéristique essentielle de l’expression en poésie,
ne peut s’obtenir qu’aux dépenses de quelque chose – qui n’est autre que a pensée»: ibi, p.
455.
8
P.V. Mengaldo, La tradizione del Novecento. Seconda serie, Einaudi, Torino 20032, p. 35.
9
G. Orelli, Quasi un abbecedario, a cura di Y. Bernasconi, Casagrande, Bellinzona 2014,
p. 14 (mio il corsivo).
10
E la proporzione cresce, se aggiungiamo i saggi non raccolti in volume, segnalati dalla
Bibliografia di Giorgio Orelli, a cura di P. Montorfani, con la collaborazione di Y. Bernasconi,
Edizioni Cenobio, Lugano 2014.
11
G. Orelli, Accertamenti montaliani, il Mulino, Bologna 1984, p. 91.
12
Si vedano rispettivamente G. Pascoli, Il fanciullino, a cura e con un saggio di G. Agamben, Feltrinelli, Milano 1991, pp. 50 e 56; T.S. Eliot, Cosa significa Dante per me (1950), in
Id., Scritti su Dante, a cura di R. Sanesi, Bompiani, Milano 1994, p. 77 e G. Orelli, Accertamenti montaliani, p. 69.
13
Si veda, a proposito del rappporto tra Petrarca e Dante, G. Orelli, Il suono dei sospiri.
Sul Petrarca volgare, Einaudi, Torino 1990, p 139: «Chiaro che approdi come questo, più che
l’influsso di Dante, dimostrano che la cosiddetta creazione poetica molto deve all’iniziativa
del linguaggio, in quanto linguaggio, il quale dispone (dice Heidegger) d’un io poetante pronto a secondarne le “ragioni fisiche”». E il nesso tra Pascoli e il filosofo tedesco è assicurato
proprio dall’edizione del Fanciullino di un filosofo heideggeriano come Agamben, qui citata
alla nota 12.
14
P. Valéry, Œuvres, vol. I, p. 450.
15
Si veda, di chi scrive, Esegesi d’autore e memoria di sé: Giorgio Orelli tra prosa e poesia,
in “Autografo”, n.s., VI (1989), 18, pp. 3-20.
16
G. Orelli, Accertamenti montaliani, p. 92.
17
S. Mallarmé, Réponse à des enquêtes sur l’évolution littéraire, in Œuvres complètes,
Texte établi et annoté par H. Mondor et G.-J. Aubry, Gallimard, Paris 1945, p. 867, cit. in G.
Orelli, Accertamenti verbali, Bompiani, Milano 1978, p. 174.
18
J. Tynjanov, Il ritmo come fattore costruttivo del verso, in Id., Il problema del linguaggio
poetico, Mondadori, Milano 1968, specialmente pp. 42-54: la cit. alla p. 51.
19
S. Agosti, La chute des temps et le sans-fin du discours, in Forme del testo. Linguistica
semiologia psicoanalisi, Cisalpino Editore, Milano 2004, p. 126.
128
Orelli lettore: genealogia e figure di un “metodo”
Per le due citazioni, si veda G. Orelli, Accertamenti verbali, pp. 7 e 8.
G. Lonardi, Accertamenti sul Dante di Orelli, in “Cenobio”, XXXIII (1983), 4, p. 292 n.
3. Ricordo appena questo passo di Orelli, successivo al saggio di Lonardi perché presente in pagine del ’92: «sono sempre stato un uccello di passo pronto a prendere quel che più mi serviva,
o sembrava nutrirmi. Lì ho insistito. Ho letto certe cose con una “voglienza” intensissima» (G.
Orelli, Foscolo e la danzatrice. Un episodio delle Grazie, Pratiche Editrice, Parma 1992, p. 69).
22
Id., Accertamenti montaliani, p. 64.
23
P. Valéry, Au sujet du Cimetière marin, in Œuvres, vol. I, p. 1500.
24
Dopo gli interventi di Contini, Pozzi, Raimondi e Zanzotto riuniti in Giorgio Orelli poeta e critico a cura di C. Mésoniat, RTSI, Lugano 1980, sono ora riuniti anche quelli dovuti ad
Agosti, Segre e Raimondi in Testi e interventi di e su Giorgio Orelli, a cura di F. Beltraminelli,
Liceo Cantonale di Bellinzona-Casagrande, Bellinzona 2015 (“Lezioni bellinzonesi” 8), cui si
aggiungeranno le osservazioni sugli scritti petrarcheschi di Ezio Raimondi e su quelli montaliani di Stefano Agosti, ibi, rispettivamente pp. 111-21 e 93-101. Altre osservazioni in merito
a Petrarca in P. De Marchi, Petrarca nella poesia di Giorgio Orelli e di altri poeti della Svizzera
italiana, in Un’altra storia. Petrarca nel Novecento italiano, Atti del convegno (Roma 4-6 ottobre 2001), a cura di A. Cortellessa, Bulzoni, Roma 2004, pp. 245-260 e quelle su Dante di G.
Güntert, La Lectura Dantis turicensis di Giorgio Orelli Inferno XXIX, in “Bloc Notes”, 64
(2014), maggio, pp. 71-82 (numero dedicato a Giorgio Orelli, a cura di J.-J. Marchand), dov’è
anche il saggio di A. Roncaccia, Orelli critico. La forza e il metodo della memoria verbale, pp.
141-149.
25
Così Michel Foucault in Nietzsche, la généalogie, l’histoire, in Hommage à Jean Hyppolite, ed. S. Bachelard et alii, PUF, Paris 1971, pp. 145-171, di cui riporto questo breve passo,
da p. 145: «De là, pour la généalogie, une indispensable retenue: répérer la singularité des
évènements, hors de toute finalité monotone, les guetter là où on les attends le moins et dans
ce qui passe pour n’avoir point d’histoire […] pour retrouver les différentes scènes où ils ont
joué des rôles différents; définir même le point de leur lacune, le moment où ils n’ont pas eu
lieu».
26
Si veda S. Agosti, Petrarca e la modernità letteraria, in Id., Forme del testo, p. 15.
27
A. Gide, De l’influence en littérature, Petite Collection de l’Hermitage, Paris 1900, p. 20.
28
G. Orelli, Accertamenti verbali, p. 179.
29
Ibi, p. 179.
30
Id., Presentazione di Cavalli, Ferrari, Paolucci, Selmoni (Bellinzona, Sala Patriziale, 18
aprile-5 maggio 1962), Salvioni, Bellinzona 1962.
31
Penso, per esempio, ai saggi di Harold Bloom sul problema dell’“influenza”: The
Anxiety of Influence. A Theory of Poetry del 1973 e il successivo The Anatomy of Influence del
2011.
32
G. Orelli, Il suono dei sospiri, p. 128 n. 5, dove fa sua la speciale terminologia del
linguista Petöfi, che per evitare ogni ambiguità differenziava «co-testo d’impiego» (contesto
verbale) da contesto «situazionale».
33
Id., Accertamenti verbali, p. 28.
34
Id., Foscolo e la danzatrice, p. 66.
35
Id., Quasi un abbecedario, p. 69.
36
Id., La qualità del senso. Dante, Ariosto e Leopardi, Casagrande, Bellinzona 2012, pp. 9
e 13.
37
«Petrarca non ne ammette veramente altri»: cfr. G. Contini, Saggio di un commento
sulle correzioni del Petraca volgare, in Id., Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi
(1938-1968), Einaudi, Torino 1970, p. 17. Credo che, come spesso in Contini, l’aggettivo
qualcosa debba «aux opérations incertaines et minutieuses» che per Valéry sono quelle del
critico: Œuvres, vol. I, p. 1369.
38
V. Sereni, Letture preliminari, Liviana, Padova 1976, pp. 37-38, che appunto ritrovava
la formula in Seferis. Su ciò, si veda G. Cordibella, Ce vice impuni, la lecture. Passioni e ritrosie di un critico lettore, in Ead., Di fronte al romanzo. Contaminazioni nella poesia di Vittorio
Sereni, Pendragon, Bologna 2004, pp. 105-109.
20
21
129
Massimo Danzi
G. Orelli, Il suono dei sospiri, p. 9.
M. Pedroni, Un accertamento inedito di Giorgio Orelli, in “Bloc Notes”, 64 (2014),
maggio, pp. 125-140.
41
Basti qualche esempio; La qualità del senso, prima di giungere a titolo nel 2012, è sintagma vivo nel libro su Petrarca (1990), dove definisce il particolare rapporto suono-senso
che regola il testo poetico (pp. 34, 70 e 126). Né è senza significato l’allusione, nel titolo, a Le
sens de la qualité di Marcel Raymond (1948), quando si pensi che il noto esponente dell’“École de Genève” (autore di De Baudelaire au surréalisme, 1933) è il prefatore degli Choix de
poèmes orelliani, nel 1973. La questione del “senso” abita più in generale l’École de Genève,
se ancora di recente J. Starobinski ha intitolato un suo libro Les approches du sens (2013). C’è
insomma in Orelli, come Contini aveva visto a proposito di Sinopie, una lenta gestazione di
concetti e figure, che a un certo punto affiorano allusivamente nel titolo, con rilievo concettuale o di genere.
42
Pitture murali di Franco (sic!) Cavalli, in “Corriere del Ticino”, 1° aprile 1966.
43
Splendidamente il Leopardi, nello Zibaldone: «�����������������������������������������
Uno de’ maggiori frutti che io mi propongo e spero da’ miei versi, è che essi riscaldino la mia vecchiezza col calore della mia gioventù;
è di assaporarli in quella età, e provar qualche reliquia de’ miei sentimenti passati, messa quivi
entro, per conservarla e darle durata, quasi in deposito; è di commuover me stesso in rileggerli,
come spesso mi accade, e meglio che in leggere poesie d’altri» (Pisa, 15 Apr. 1828).
44
«Questa [dell’Orelli poeta] è una posizione di memoria, nel senso in cui una corrente
della filologia moderna ha cercato di definirla come costitutiva della poesia classica»: cito da
G. Contini, G. Pozzi, E. Raimondi, A. Zanzotto, Giorgio Orelli poeta e critico, p. 23.
45
G. Contini, Filologia ed esegesi dantesca, in Varianti e altra linguistica, p. 410.
46
Il nome di Gargiulo (pensando certo agli Scritti di estetica, Le Monnier, Firenze 1952)
è fatto con lode da Contini nell’intervista a Ludovica Ripa di Meana (1989) e affiora poi, per
esempio, in Foscolo e la danzatrice, pp. 66-67. Negli Scritti si possono leggere osservazioni
come queste: «il suono in quanto suono non resta estraneo all’espressione» (p. 174), «I suoni,
io credo, traggono da ogni specie di associazione il loro senso» (p. 176) o «le ragioni musicali
e fonetiche […] nella poesia richiedono quasi un’attenzione a parte» (p. 179), ecc.
47
G.L. Beccaria, L’autonomia del significante. Figure del ritmo e della sintassi Dante,
Pascoli, D’Annunzio, Einaudi, Torino 1975.
48
S. Agosti, Il testo poetico; I. Fónagy, Les bases pulsionnelles de la fonation apparso in
“Revue française de psychanalyse”, 34 (1970), 1, e 35 (1971), 4.
49
I. Fónagy, Le langage poétique: forme et fonction, in Problèmes de langage, Gallimard,
Paris 1966, p. 105 (ricordato in G. Orelli, Accertamenti montaliani, p. 55). Per il dialogo con
Fónagy sulle traduzioni da Goethe, si veda G. Orelli, Fónagy e un verso di Goethe, in I linguaggi della voce. Omaggio a Iván Fónagy, a cura di L. Santone, Biblink Editori, Roma 2010, pp.
47-52 (devo la segnalazione all’amica Enrica Galazzi). Altre osservazioni sul linguista, in Id., La
lettera della luminosità e della traffittura, in “Il piccolo Hans”, III (1976), 12, pp. 140-152.
50
S. Agosti, Il testo poetico, p. 43.
51
Così, in G. Orelli, Accertamenti montaliani, p. 19. Il concetto è ribadito poi, per es., in
Id., Foscolo e la danzatrice, p. 69.
52
Ma si veda questo passo di Contini, a proposito del procedimento cosciente o no delle
allusioni poetiche, in Filologia ed esegesi dantesca, p. 423: «Sarebbe un omaggio tanto più
intenso se movesse da sotto il limite della coscienza: poiché l’indagine della struttura deve
prescindere da un mito neoclassico, il presunto paradiso della solarità cosciente in letteratura;
la limitazione dei casi di flagrante intenzionalità […] restringerebbe fortemente e arbitrariamente il canone, dal momento che i procesi associativi, assimilitavi, dissimilativi hanno una
velocità, come nei riflessi del guidatore, che si sottrae alla coscienza, mentre la loro consistenza è obbiettivamente provata dalla ripetizione e costanza delle relazioni».
53
L. Spitzer, Études de style. Précédée de L. Spitzer et la lecture stylistique de J. Starobinski, traduit de l’anglais et de l’allemand par E. Kaufholz, A. Coulon, M. Foucault, Gallimard, Paris 1970, p. 37: «����������������������������������������������������������������
Au moment où il tente de déchiffrer la “parole aliénée” des institutions et des relations sociales, le critique sociologique est menacé de perdre le pouvoir
39
40
130
Orelli lettore: genealogia e figure di un “metodo”
d’interpréter une parole humaine: face à une réalité si difficilement écoutable, nous le voyons
souvent parler à la place».
54
Ibi, p. 38. Si ricorderanno le posizioni di Valéry in merito alla non pertinenza della
biografia e della storia della letteratura per lo studio della poesia: «J’estime – c’est là un de
mes paradoxes, – que la connaissance de la biographie des poètes est une conaissance inutile,
si elle n’est nuisible, à l’usage que l’on doit faire de leurs ouvrages […]. Et si je dis que la
curiosité biographique peut-être nuisible, c’est qu’elle procure trop souvent l’occasion, le
prétexte, le moyen de ne pas affronter l’étude organique et précise d’une poésie»; e ancora:
«les prétendus renseignements de l’histoire littéraire ne touchent donc presque pas à l’arcane
[Orelli: «i segreti»] de la génération des poèmes» (P. Valéry, Œuvres, vol. I, pp. 428 e 483).
55
G. Orelli, Foscolo e la danzatrice, pp. 75-76.
56
J. Starobinski, Les mots sous les mots. Les anagrammes de Ferdinand de Saussure, Gallimard, Paris 1971. Il fatto è ricordato in G. Orelli, Per una lirica del Pascoli ed è apparso in
“Strumenti critici” (1974), 21-22, pp. 283-290 (poi in Id., Accertamenti verbali, p. 129).
57
S. Agosti, Lacan e la parola letteraria, in Forme del testo, p. 214.
58
Id., Contini e l’esperienza della verbalità, in ibi, p. 239.
59
A. Giuliani, Eliot nella terra desolata. Quasi una stroncatura, in “la Republica“, 18
settembre 1988.
60
In “Critica“, II (1946), poi in Letture di poeti e riflessioni sulla teoria e la critica della
poesia, Laterza, Bari 1950, pp. 284-285.
61
G. Orelli, La qualità del senso, pp. 9 e 13 e rispettivamente G. Contini, Varianti e altra
linguistica, p. 410.
62
Così Contini, in apertura del Saggio di un commento sulle correzioni del Petrarca volgare, in Id., Varianti e altra linguistica, p. 6. Questo uno dei passi di Valéry, che lo giustifica:
«������������������������������������������������������������������������������������������
L’exercice de la poésie laborieuse m’a accoutumé à considérer tout discours et toute écriture, comme un état d’un travail qui peut presque toujours être repris et modifié; et ce travail
même comme ayant une valeur propre, généralement très supérieure à celle que le vulgaire
attache seulement au produit. […] Une œuvre n’est jamais nécessairement finie, car celui
qui la faite ne s’est jamais accompli, et la puissance et l’agilité qu’il en a tirées, lui confèrent
précisément le don de l’améliorer» (P. Valéry, Œuvres, vol. I, p. 1451).
63
Ibi, p. 1390: «�����������������������������������������������������������������������
Souvent on reproche au poète les recherches et les réflexions, la méditation de ses moyens; mais qui songerait à reprocher au musicien les années qu’il consacre à
étudier le contrepoint et l’orchestration? Pourquoi veut-on que la poésie exige moins de préparation, moins d’artifice, moins de calcul, que la musique? Peut-on reprocher à un peintre
ses études d’anatomie, de dessin et de perspectives? […] Quant aux poètes, ils semblent
qu’ils doivent composer comme l’on respire […]. Ce n’est là qu’une erreur, qui n’est pas très
ancienne et qui dérive d’une confusion entre la facilité immédiate qui nous livrent les produits de l’instant […] avec cette autre facilité qui ne s’acquiert que par un exercice de l’esprit
longuement soutenu».
64
Osservazioni sul concetto di inspiration in ibi, pp. 1335, 1337, 1342 e 1375-1378, dove
appare quasi sempre opposto al faire del poeta.
65
Ibi, p. 1342.
66
Ibi, p. 1415.
67
T.S. Eliot, Scritti su Dante, p. 77.
68
Di «fabricatio verborum armonizzatorum» tratta Dante in Dve II viii, 5 e la formula
coniuga valore verbale delle sillabe e andamento ritmico. E si penserà anche a un termine
come «fabbro» e simili, nella Commedia: «fu miglior fabbro del parlar materno».
69
P. Valéry, Œuvres, vol. I, p. 1614.
70
G. Benn, Problemi della lirica, in “Aut-Aut”, 9 (1952), pp. 199. L’articolo è ricordato
da Orelli in vari saggi.
71
G. Orelli, Quasi un abbecedario, pp. 71-72. Heidegger cita e discute la posizione di
Humboldt, che ricuperata per il nucleo che importa suonava: «Il linguaggio, inteso nella sua
vera essenza, è realtà in continuo e perenne divenire […]. Il linguaggio non è un’opera (ergon),
ma una attività (energeia)», in M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, pp. 193-194.
131
Massimo Danzi
72
Cito nell’ordine da G. Orelli, Il suono dei sospiri, p. 93, Accertamenti montaliani, p. 71,
Accertamenti verbali, pp. 69 e 136.
73
Da cui Orelli a proposito di un sonetto di Petrarca: «Spero di mostrare con esempi abbastanza convincenti […] come il Petrarca spostasse sillabe per tutta la vita»: Id., Accertamenti
verbali, p. 53. Ma il tema ritorna anche altrove: cfr. per es. Id., Il suono dei sospiri, p. 4.
74
S. Agosti, Nel cuore del linguaggio: Spiracoli di Giorgio Orelli, in Id., Poesia italiana
contemporanea, Bompiani, Milano 1995, p. 81, che giudica queste parole «fra le più traumaticamente centrali che siano state pronunciate sul progetto poetico e sull’esistenza che se ne
fa depositaria».
75
S. Mallarmé, Cris des vers, in OC, p. 361; P. Valéry, Œuvres, vol. I, p. 207.
76
«Le hazard n’entame pas un vers, c’est la grande chose […], dans le poëme, les mots
– qui déjà sont assez eux pour ne plus recevoir d’impression du dehors – se reflètent les uns
sur les autres jusqu’à paraître ne plus avoir leur couleur, mais n’être que les transitions d’une
gamme»: lettera a François Coppée del 1° dicembre 1866, in Œuvres complètes, I. Édition
présentée, établie et annotée par B. Marchal, Gallimard, Paris 1998, p. 709.
77
P. Valéry, Cantiques spirituels, in Variété: Œuvres, vol. I, p. 450.
78
G. Parini, Discorso sulla Poesia (1760), che leggo in Id., Prose II. Lettere e scritti vari,
Edizione critica a cura di G. Barbarisi e P. Bartesaghi, Edizioni Universitarie di Lettere Economia Diritto, Milano 2005, p. 154.
79
E. Sapir, Il linguaggio, Einaudi, Torino 1969: tutte le citazioni da p. 223.
80
G. Contini, Un’interpretazione di Dante, in Id., Varianti e altra linguistica, p. 392 (originariamente in “Paragone-Lettere”, ottobre 1965).
81
G. Orelli, Accertamenti verbali, pp. 185 e 57.
82
Ibi, p. 138.
83
Si vedano le ottime osservazioni di Pietro Benzoni in La poesia della Svizzera italiana, a
cura di G.P. Giudicetti e C. Maeder, Tipografia Menghini, Poschiavo 2014, pp. 99-100.
84
G. Orelli, Accertamenti verbali, p. 136.
85
Id., Quasi un abbecedario, p. 61. Il rinvio è ai Venetianische Epigramme, XXVIII 1-3:
«Che ragazza desidero avere ? / Mi chiedete. Io l’ho, come la vorrei: / a me pare che sia con
poco molto» («das heisst, dünkt mich, mit wenigem viel»: J.W. Goethe, Poesie, a cura di G.
Orelli, Mondadori, Milano 1974, p. 99).
86
Così Stefano Agosti introducendo le Poesie di Zanzotto, Mondadori, Milano 1973, p. IX.
87
G. Orelli, Accertamenti verbali, p. 165.
88
Ibi, p. 30.
89
Id., La qualità del senso, p. 69.
90
A. Gargiulo, Suono e poesia, in Scritti di estetica, Le Monnier, Firenze 1952, p. 176.
91
G. Orelli, Accertamenti verbali, pp. 22-23. Non diversamente parla l’analisi che Ungaretti fa dello spartito fonico-rimico di A Silvia, su cui ha attirato l’attenzione S. Agosti,
Modelli psicanalitici e teorici del testo, Feltrinelli, Milano 1987, pp. 21-22.
92
G. Orelli, Accertamenti verbali, p. 28.
93
Id., Il suono dei sospiri, pp. 105-106.
94
G. Contini, «Occorrono troppe vite per farne una» [1981], in Ultimi esercizî ed elzeviri
(1968-1987), Einaudi, Torino 1988, p. 274.
95
G. Orelli, Correzioni leopardiane. La sera del dì di festa [1988], in Testi e interventi di
e su Giorgio Orelli, p. 47.
96
G. Orelli, Foscolo e la danzatrice, p. 70.
97
G. Pasquali, Edizioni originali e varianti d’autore, in Storia della tradizione e critica del
testo, Sansoni, Firenze 1974, p. 427, ove a proposito delle novelle di Boccaccio si legge: «Anche qui le ragioni dei mutamenti non sono sempre razionali: certe successioni di suoni dovevano suscitare in un artista così musicale come il Boccaccio particolari sensazioni, dovevano,
a dir così, suonare più grasse ai suoi orecchi». Ma naturalmente si pensa anche alle “letture”
di Giuseppe De Robertis e Fubini.
98
G. Orelli, Accertamenti verbali, p. 111.
132
CHRISTIAN GENETELLI
Per il critico e per il poeta
Giorgio Orelli lettore di Leopardi
1. Con Giacomo Leopardi, per un poeta del Novecento, siamo nell’ordine
degli incontri inevitabili; meno necessario che questo incontro stimoli insieme
sul fronte della scrittura creativa e su quello della scrittura critica. In Giorgio
Orelli le cose vanno così, e precocemente. Partirò, per motivi innanzitutto di
chiarezza espositiva, dal critico per approdare al poeta, ma ben consapevole che
i due tavoli sono in realtà uno solo, e che (soprattutto) sarà opportuno vigilare
costantemente sui tempi del lavoro orelliano, sincronizzando le due esperienze,
e considerando le diverse stagioni, lo svolgimento, del critico come del poeta.
2. Sul principio
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degli anni cinquanta (1950-1955), si palesa una prima serie coerente di letture critiche orelliane: sono consegnate in larga misura, ma non esclusivamente, all’“Educatore della Svizzera italiana”, un bimestrale stampato a Bellinzona dalla «Società “Amici dell’Educazione del Popolo” fondata da Stefano
Franscini». Altre trovano invece accoglienza in sedi diverse, per lo più quotidiani locali, ma con aperture verso periodici italiani come “Paragone. Letteratura”
o “La Fiera Letteraria”, già ospitali anche con l’Orelli poeta e prosatore. Gli
autori fatti oggetto di indagine o di «lettura», per usare la designazione principe
nei titoli orelliani, rispecchiano anche l’esperienza che il giovane professore veniva maturando nella scuola. Si va da Foscolo (il più presente) a Dante, Ariosto,
Parini, Alfieri, Manzoni, Leopardi. I testi o «bocconi» eletti si possono dire sempre conformi ai menu scolastici. Non manca la contemporaneità, quella contemporaneità su cui il poeta esordiente di Né bianco né viola si era d’altronde
prioritariamente e con ogni evidenza sintonizzato: per fare qualche nome non
neutro, Montale, già dominante, Vincenzo Cardarelli, Sandro Penna.1
In un intervento del 1951, Prime osservazioni sull’insegnamento dell’italiano
nella scuola superiore, Orelli afferma di privilegiare, nella sua pratica, ai consueti panorami storico-letterari l’esecuzione «attenta» e diretta «dei testi più
rappresentativi», tesa sempre a cogliervi lo specifico letterario: il suo occhio è
sin d’ora indirizzato edonisticamente sul dettaglio, se è vero (come confessa lui
stesso, saldando subito il poeta e il critico) «che imbroccare un bel verso e capire veramente il verso di un poeta è fra le più grandi consolazioni della nostra
vita». Anche lo studio delle varianti, dentro questo quadro, finisce per ottenere
un sorprendente (almeno per i tempi) diritto di cittadinanza: si dà insomma un
aggiornamento nella critica per certi versi analogo, o parallelo, a quello operato
dal poeta per i suoi primi modelli di riferimento. «A scuola», continua dunque
133
Christian Genetelli
Orelli ragionando sullo studio delle varianti, «ci limitiamo a farlo su alcuni componimenti, del Petrarca e del Leopardi, che sono stati oggetto di un’indagine
così approfondita in questi ultimi anni».2 Il richiamo orienta, va da sé, in direzione continiana: Saggio d’un commento alle correzioni del Petrarca volgare, 1943
(Sansoni, Firenze), e Implicazioni leopardiane, 1947 (in “Letteratura”, 33): testi
fondativi della «critica delle varianti». Ma non bisogna dimenticare (e non solo
per l’aspetto variantistico) il nome di Giuseppe De Robertis, com’è ben noto autore dello studio-innesco per le Implicazioni di Contini, intitolato Sull’autografo
del canto «A Silvia», 1946 (in “Letteratura”, 31), e del successivo Biglietto per
Gianfranco Contini, 1947 (in “Letteratura”, 34), steso in amichevole risposta alle
stesse Implicazioni. De Robertis, per l’Orelli di questi anni, è (direi) la presenza
critica più costante, certamente il nome più citato, quasi sempre consentendo:
per la sua antologia Poeti lirici moderni e contemporanei, per i suoi lavori su
Foscolo, Ariosto, Parini, Alfieri, Leopardi (incluso, ovviamente, il commento ai
Canti). Nel «saper leggere» derobertisiano, Orelli trova un modello conveniente
alla delibazione della parola, una critica lenta, e sensibile, quanto sensibile ai valori di lingua e di stile, al fattore tecnico, benché non incline al tecnicismo; una
critica che conduce nei paraggi del «segreto dell’arte di uno scrittore, a respirare
nella sua aria»;3 una critica, ancora, non aliena dal giudizio di gusto e di valore,
sempre vivo anche in Orelli, il cui applauso entusiasta per questo o per quel
verso non verrà mai meno, neppure nei tempi (futuri) della più prosciugata, tagliente e armata «critica verbale». «Certo è che noi», scrive Orelli nel 1949, «pur
nutrendoci dell’opera del Croce, chiediamo più spesso aiuto, quando si tratta di
affrontare (leggere) una poesia (oggetto), al Contini, al De Robertis – per nominare due critici che a noi pare ci conducano più veracemente per mano».4 Con
Contini e De Robertis siamo, saremmo, già entrati anche in orbita leopardiana,
ma prima di lasciarcene doverosamente attrarre (da programma) concediamoci
ancora qualche celere, e si spera funzionale, considerazione più generale.
In questa prima maniera della critica orelliana, il discorso sul testo (già unico interlocutore) ha una sicura varietà e mobilità, toccando aspetti di volta in
volta lessicali, semantici, sintattici, tematici, metrici, al servizio di una esecuzione per quanto possibile complessiva della partitura, e dove trovano regolarmente spazio osservazioni che vanno verso l’uomo, verso cioè la disposizione
sentimentale del poeta, verso gli «“alti” e “bassi”» del suo sentimento.5 Quante
volte, poniamo, la parola «ansia» dentro queste pagine critiche di inizio anni
cinquanta: «ansia», «ansietà» o «angoscia», spesso con gli attributi di «metafisica» o «esistenziale» (così, in luoghi diversi, a proposito di Manzoni, Montale,
Foscolo, Luzi); né manca, nuovo esempio, la registrazione della «malinconia»,
come in questo passo (del 1952) sul ventiseiesimo dell’Inferno (si sente tra l’altro
nell’Orelli critico che parla di Dante – la constatazione è qui un po’ laterale, ma
rimane valida in ogni momento – una sorta di accensione linguistica e metaforica, come se Dante lo mettesse in ogni occasione nelle migliori condizioni espressive: Dante è sempre stato il suo iodio, con potere euforizzante). Ecco dunque
la citazione: «Ma tutta l’“orazion picciola” è mirabile: poche parole, striate da
134
Giorgio Orelli lettore di Leopardi
una “malinconia” che è bene di tutti gli uomini, quando, anche prima del tempo
di “calar le vele e raccoglier le sartie”, poco o molto contemplino la vita, la vita
che passa, la vita che – per tornare al Leopardi – “debb’esser viva, cioè vera vita,
o la morte la supera incomparabilmente di pregio”».6 È passo, come ognuno
vede, per noi non neutro. Una prima annotazione, intanto, si potrebbe spendere intorno al verbo “striare” («striate da una “malinconia”»), molto frequente,
ora e poi, nella prosa critica orelliana, e non privo di riscontri nei suoi versi
coevi: «Oh giorno, freddo volto che rapido ti sfai, / striato appena della nostra
nostalgia!» È un distico, questo, tolto dalla Poesia del gennaio, componimento
che va in tipografia proprio nel 1953, dentro la raccolta (su cui tornerò) Poesie,
la sola nella carriera orelliana a essere portatrice di un titolo di grado zero. Non
va invece oltre lo stadio della pubblicazione in rivista (ma rimaniamo al 1953)
Di camelia in camelia, dove si legge dell’«organino di un bimbo solingo / striato al petto dalla meraviglia / del sole».7 La seconda annotazione concerne, si
capisce, Leopardi. «La vita debb’esser viva, cioè vera vita, o la morte la supera
incomparabilmente di pregio»: si tratta della chiusa, sentenziosa, di una prosa
leopardiana, il Dialogo di un Fisico e di un Metafisico. Orelli la riprenderà, alla
lettera, per incastonarla (distribuita su tre versi) nella Trota, lirica con cui deciderà di aprire Sinopie, anche mostrando così fin dalla soglia del nuovo libro
(come ha ben visto Pietro De Marchi) l’accorciamento in atto delle «distanze»,
appunto, «tra poesia e prosa».8 Prudente peraltro l’Orelli poeta si rivelerà con
simili incastonamenti o richiami leopardiani dichiarati, espliciti (ben più generoso invece con Dante e con altri), indizio invero già piuttosto nitido della non
facile maneggevolezza di una voce al tempo stesso delicata e profonda (dico delicata per l’altezza e profonda per le implicazioni di senso).9 Tra i pochi, dunque,
che accompagnano questo della Trota, segnalo qui la chiusa di Don Giovanni
(sempre in Sinopie): «“Oh Elvira, Elvira”» (è il patetico di Consalvo, v. 119,
canto crivellato dalla reiterazione onomastica); o le parole depositate all’interno
di una delle poesie che, in Spiracoli, formerà il Quadernetto del mare (V, I ciottoli
ben levigati rilevano il gaietto): «Penso il ragazzo che ha scritto lucido insetto /
sorpreso in aria a due passi da qui». Il «ragazzo» è il Leopardi, diciottenne ed
elegiaco, delle Rimembranze (vv. 15-16): un Leopardi in versi, ma di un testo del
tutto minore, mai mandato a stampa dall’autore: certo, di nuovo, non di un testo
fra quelli battuti (come vedremo) dall’Orelli critico.10
Già, l’Orelli critico, è bene tornare a lui. Negli interventi degli anni cinquanta da cui ho preso le mosse sono ancora rari, numerati i momenti in cui i suoni
conquistano la ribalta del discorso, e si animano sulla pagina quasi al modo
delle penne cavalcantiane. Del tipo: «[…] la rima “condanna” – “panna”, con
quelle n che si tendono come fili ad alta tensione» (per Montale, Arremba su
la strinata proda), oppure: «[…] e chi stia attento ai valori fonici (tutte quelle
i incalzanti precipitose, e l’u del secco fruga) si ritrova nella mente l’immagine
dell’uomo-liuto» (per Dante, Inferno XXX, v. 70: «La rigida giustizia che mi
fruga»).11 Questo sguardo sul testo e osservazioni di questa natura diventeranno
dominanti, e più tardi pressoché esclusive, quando (come ben sappiamo) nella
135
Christian Genetelli
critica di Orelli si darà, inizio anni settanta, la svolta in direzione «verbale», la
sua seconda maniera: si ridurrà allora per lui, in modo progressivo, il campo (se
è possibile denominarlo così) del criticabile.
Dentro tale svolta, che coincide con una ripresa dell’attività critica dopo un
più che decennale rallentamento, l’autorizzazione trovata e cercata in Contini
riveste un ruolo notoriamente fondamentale. L’immagine, ricorrente in Orelli,
dell’uccello di passo pronto ad assalire e a far suo non altro che ciò che davvero
gli serve e lo nutre, è valida insomma per il poeta ma anche per il critico.12 Basterà allora appena ricordare, rientrando rapidamente sul Contini «verbale», il
pluricitato saggio del 1965 Filologia ed esegesi dantesca (dal 1970 in Varianti e altra linguistica); senza tuttavia trascurare il fatto che tra i testi continiani in questo
senso determinanti ce n’è anche uno dove lo specifico leopardiano ha un peso
indubbio: è la Memoria di Angelo Monteverdi, confluita nel 1972 all’interno del
volume Altri esercizî (1942-1971). Orelli non esita a evocarla a più riprese e a dichiararla «per me importantissima».13 In quella sua Memoria, Contini loda «con
inusitato trasporto» l’analisi timbrica effettuata da Monteverdi su Imitazione
di Leopardi e ne produce, da pari suo, alcune «addizioni», infine la estende ad
altri componimenti, fra i quali si distingue L’infinito. Sulla splendida Imitazione
leopardiana, Orelli (quanto a lui) si cimenterà qualche anno più tardi, nel 1990,
in quella che potrebbe essere definita la sua “Memoria di Gianfranco Contini”,
producendo copiose addizioni alle «addizioni» del maestro (con forte insistenza
su Petrarca), e consolidando così il profilo anche agonistico, spesso spiccatamente agonistico, della sua critica.14
Nell’intero percorso leopardiano dell’Orelli studioso, Imitazione rappresenta peraltro l’unica lieve deviazione da un canone di testi non peregrino, anzi più
che collaudato, diciamo pure scolastico: né la cosa sorprende, dato il carattere
(per ciò che riguarda i valori) sostanzialmente confermativo della critica di Orelli (anche se la conferma giunge ormai per strade nuove, «verbali»). Quale dunque il Leopardi fatto oggetto di riflessione particolare o di esame frontale? Non
il Leopardi prosatore, non il Leopardi pensatore, sì il Leopardi poeta, il poeta
dei Canti, e con chiara predominanza di quello in senso lato idillico (mai invece
in gioco, poniamo, un poemetto come i Paralipomeni della Batracomiomachia).
Ecco il nudo catalogo delle presenze, in parentesi la data di pubblicazione: Appunti per leggere «Il sabato del villaggio» (1978); Connessioni leopardiane (1987),
in prevalenza sulle varianti di A Silvia; Nodi quasi di parole (1987), sulla Ginestra
(il componimento meno allineato del gruppo, e di cui dirò più in là); Correzioni
leopardiane (1989), sulle varianti della Sera del dì di festa; e ancora, naturalmente, L’infinito, la poesia di Leopardi trapanata con più tenacia da Orelli. Si parte
da lontano, da un articolo apparso su un quotidiano locale (“Popolo e Libertà”) nel 1951, Punto medio dell’«Infinito», poi ristampato, con titolo Noterella
all’«Infinito» rimaneggiamenti e integrazioni, in “Paragone. Letteratura”, nel
1954; si giunge (1997), nella nuova stagione, a Per leggere «L’infinito» di Leopardi, rilavorato e ampliato da ultimo per il volume del 2012, La qualità del senso
(ma è una lettura, questa, che ha il proprio incunabolo in quattro pagine, 80-83,
136
Giorgio Orelli lettore di Leopardi
delle precedenti Connessioni leopardiane, e il proprio movente primo in quella
poco fa ricordata mezza pagina di Contini dedicata appunto all’Infinito nella sua
Memoria di Angelo Monteverdi).15
Sostiamo un istante in compagnia di questi contributi sul famosissimo idillio, cominciando con un’osservazione su quello, breve, risalente al 1951. Ben
informato, Orelli dà conto di una (per la verità nell’assieme non imperdibile)
discussione esegetico-grammaticale intorno all’Infinito avvenuta in quei mesi,
tra giornali e riviste, con il concorso di studiosi come Antonio Baldini (il promotore o istigatore), Francesco Flora, Riccardo Bacchelli, Giuseppe Ungaretti
e Piero Bigongiari. Prende partito, Orelli, per la posizione di quest’ultimo, l’unico (dice) che abbia saputo mettere l’accento sul «punto medio, o sostanziale»
del componimento, ossia la concretezza, la realtà di «“questo infinito corposo”,
“infinito che nel pensiero si avvia ad essere immensità e mare”». Proprio a suffragio di ciò, convoca anche la testimonianza per lui preziosa di una conferenza
bellinzonese di Ungaretti, in cui il poeta lesse L’infinito, «stupendamente rendendo il “peso” e la “lunghezza” di quegli “interminati Spazi”, di quei “sovrumani silenzi“, di quella “profondissima quiete”». «Ricordo benissimo», continua Orelli, «il suo insistere sulle a di interminati Spazi, tanto che la seconda
sillaba di Spazi usciva dalle sue labbra straordinariamente fievole, appena un
ronzìo, una “nebbia luminosissima” (per ricordare il “metafisico” Foscolo)».16
La lettura-esecuzione di Ungaretti, la poesia che si fa voce, è insomma destinata
a incidersi per sempre nella mente, tanto ben disposta ai suoni, di quel giovane
ascoltatore: «indimenticabile» la dice Orelli, e indimenticata sarà, se è vero che
la sua memoria affiora regolarmente nel tempo, ed è ancora viva, cinquant’anni
più tardi, nel momento della stesura (come detto, 1997) dell’impegnativo Per
leggere «L’infinito» di Leopardi, quando i suoni ormai sono diventati i signori
incontrastati della sua critica.17
Questo studio, dunque, presenta un ampio e sistematico esame degli elementi
fonici dell’idillio, a partire dal «triangolo vocalico fondamentale», u a i (automatica, per chiunque, scatta l’associazione alla poesia di Sinopie, Nel mezzo del giorno:
«[…] Che ur a in?, dalla u alla i / quasi come in Virgilio o nel Folengo […]»).
Orelli, proseguendo, passa a illustrare fatti relativi al ritmo, in dialogo con Mario
Fubini, lo stimato autore di Metrica e poesia, frequentato fin dagli anni cinquanta come studioso di cose foscoliane (e che si tratti di dialogo non estemporaneo
ma radicato è confermato anche da questa testimonianza: «Alla lettura lenta mi
hanno spinto soprattutto i saggi di Fubini e di Binni. Con Fubini ho cominciato
ad entrare veramente nel testo, nel tessuto della poesia foscoliana […]»);18 più a
lungo, Orelli si sofferma su alcune parole (inclusi i celebri dimostrativi), precisamente su certi gruppi di suoni che albergano in esse, per mostrarne la recursivitàconnessione dentro e fuori L’infinito, ossia (per il fuori) in altro Leopardi e nella
«grande poesia italiana». È evidente che in una indagine siffatta non c’è spazio per
considerazioni sui nessi del componimento con le articolazioni del pensiero e della cultura leopardiani, né sulla sua posizione all’interno del libro dei Canti o all’interno della storia, mobilissima, di Leopardi. Per Orelli la materia è data: si tratta
137
Christian Genetelli
di vedere, descrivere, come è stata lavorata. (Da qui, credo, anche il particolare
fascino che su di lui ha esercitato il mestiere del tradurre; e così pure l’attenzione
tempestiva e immancabile al processo variantistico).
Lo studio del 1997, come sappiamo, viene ripreso, riscritto e ampliato per la
ristampa (2012) nel libretto La qualità del senso. Non muta la sostanza; è però
rivisitata la struttura (che cede qualcosa in nitore, in limpidezza, nonostante la
nuova scansione in dodici paragrafi); soprattutto si constata una dilatazione,
rilevante, del discorso. Questa dilatazione è principalmente dovuta alla moltiplicazione delle citazioni di passi di altri poeti, e diciamo pure in modo quasi
esclusivo di Petrarca e di Dante (già peraltro trionfanti nella versione 1997).
Sono, in più di un caso, citazioni-excursus che hanno la funzione di dimostrare
come con la stessa parola o uno stesso nucleo di suoni i grandi poeti lavorino in
definitiva in modo analogo, si diano «la mano attraverso i secoli». Nel suo punto
d’arrivo, portata al suo limite, la «critica verbale» di Orelli si orienta così sempre
più dal sintagma al paradigma; parla di convergenze, relazioni, concatenazioni,
e non di differenze, di scarti, di dislivelli, restringendo di conseguenza la sua
volontà di caratterizzare l’individuo, di caratterizzare il singolo oggetto. Anche
la violenta luce frontale proiettata sul dettaglio concorre, a ben vedere, a un tale
approdo: ed è a sua volta sintomatica di uno sguardo ormai certo meno interessato al quadro che ha davanti a sé che non alle risorse generali del linguaggio.
Altrimenti detto: è sempre più il poeta, con la sua poetica sincrona, a fare critica.
Ci sono «esiti», sostiene del resto Orelli (non senza ardimento), «inevitabili per
un accorto poeta italiano, per un “classico”».19
(La dinamica additata poco sopra, sia consentita questa breve coda dentro
parentesi, mi pare mostri l’opportunità di cominciare a segnare qualche distinzione anche all’interno della stessa «critica verbale» di Orelli, abitualmente
considerata come se fosse un tutt’uno, senza una sua storia interna. Ma uno
sviluppo c’è: basti paragonare taluni prodotti degli anni settanta con altri degli
anni novanta e seguenti. Prendiamo, non è che un accenno ma di pertinenza
leopardiana, gli Appunti per leggere «Il sabato del villaggio» (1978): l’indagine
sul dato formale è ancora piuttosto articolata, non monodirezionale, è tagliata
sulla sagoma del testo in esame, toccando più livelli; impianto ed esecuzione
dello studio ambiscono così da un lato a restituire una fisionomia complessiva
del componimento, dall’altro a porre l’accento principale sullo «stile individuale» dell’autore; e diverso, più aperto, è naturalmente anche il respiro generale
dell’argomentazione. Insomma, negli elenchi e smontaggi analitici di questi Appunti sembrerebbe persistere la suggestione, e la temperie, di lavori come Scomposizione del canto «A se stesso», di Angelo Monteverdi, o magari di quell’altra
scomposizione-ricomposizione compiuta da D’Arco Silvio Avalle sulla montaliana A Liuba che parte. In tempi successivi, la gamma degli strumenti contenuti
nella sempre più personale cassetta degli attrezzi orelliana si riduce ulteriormente: si fanno largo quelli ad altissima precisione, veicolo sì di una maggiore specializzazione, applicata beninteso alla sfera dei suoni, ma anche di una maggiore
univocità e rigidezza d’impiego).20
138
Giorgio Orelli lettore di Leopardi
3. Dirò ora, è venuto il momento, della poesia di Giorgio Orelli e di alcune memorie leopardiane che vi sono racchiuse. Non posso infatti né voglio vagheggiare l’esaustività: sarò di necessità selettivo, puntando all’individuazione di zone e
casi rappresentativi. Rare sono le tessere nude, scoperte, evidenti, un po’ come
del resto avviene, lo abbiamo visto, per i brani incastonati. Due sveltissimi esempi, in omaggio alla concretezza: la «memoria acerba» della Trottola, nell’Ora
del tempo (e già nelle Poesie del 1953), «Ma se trabocca una memoria acerba»,
riecheggia il sintagma explicitario delle Ricordanze; e i ragni dell’omonima ed
estrema poesia (entrerà nell’Orlo della vita), in quanto «strani compagni della
mia vecchiaia» sono in arguto dialogo con la «speranza»-Silvia, «cara compagna
dell’età mia nova» in A Silvia, v. 54.21 Il secondo esempio garantisce già in sé della durata della presenza, d’altronde tutto fuorché inattesa di fronte a un autore
come Leopardi (e alla consuetudine con lui dell’Orelli critico). Ma l’intensità è
variabile. Anzi, per la verità non molto alta, date le premesse: con un’eccezione
però, che subito devo porre in modo perentorio al centro dell’attenzione.
Dunque: la più fitta, densa emergenza di Leopardi nella poesia orelliana a
me sembra sia da collocare all’altezza della seconda raccolta, intendo le Poesie,
Edizioni della Meridiana, 1953; più puntualmente ancora, transennerei il perimetro della sezione di apertura («Parte prima») di quel libro. Siamo, ricordo e
sottolineo, in concomitanza, o a contatto, con quel bagno primordiale e verticale nei classici italiani, fine anni quaranta inizio anni cinquanta, che ha fruttato
la prima serie degli interventi critici di Orelli: un bagno che consegna allora
anche un altro lascito. È ben noto, e non va tuttavia taciuto, che questa generosa raccolta del 1953 sarà smantellata dall’autore, e che solo un terzo dei suoi
sessanta componimenti avrà vita futura dentro l’autoantologia L’ora del tempo:
la diaspora renderà forse meno frequenti le tracce leopardiane (per la riduzione
dei testi e per la loro ridistribuzione), ma non per ciò meno percepibili in alcune
delle liriche sopravvissute.
C’è allora (venendo a una sommaria e preliminare caratterizzazione), in
questo perimetro definito delle Poesie, una presenza pronunciata dell’io lirico
(quasi assente invece, o molto schermato, nell’esordio fortemente influenzato
dai contemporanei di Né bianco né viola): un io che si conosce e riconosce a
contatto con i luoghi dell’origine (uomini e natura), dove anche può affiorare e
intrecciarsi la memoria di un’infanzia e di una giovinezza passate, ma non lontane. Situazioni in sé potenzialmente affini a quelle del Leopardi idillico, di cui infatti in più di un’occasione luccicano le filigrane prestigiose. Qualche campione.
Prendiamo, per cominciare, la posizione-condizione dell’io in Passato è un
giorno senza nuvole:
Passato è un giorno senza nuvole
che chiamava verde di foglie.
Alle bètule uccise
bruciavano le ferite come specchi.
Ora la notte, al canto
139
Christian Genetelli
dei soldati, è dimentica.
Il giorno in me riarde
quand’essi tacciono
e il villaggio si riempie
dei pietosi guaìti delle volpi.22
Da un lato l’io, turbato e separato, «doloroso, in veglia», dentro cui il giorno
«riarde» (siamo, è chiaro, alla leopardiana Sera del dì di festa; con un attacco
però da Quiete dopo la tempesta, «Passata è la tempesta»); dall’altro, «la notte»,
percorsa da un «canto», che poi tace: «ed alla tarda notte», così si chiude infatti
quella Sera di Recanati, «un canto che s’udia per li sentieri / lontanando morire
a poco a poco, / già similmente mi stringeva il core» (e poco prima, vv. 25 e ss.:
«[…] odo non lunge il solitario canto / dell’artigian […] / e fieramente mi si
stringe il core», ecc.). «Dimentica», peraltro, la «notte» di Orelli, come il «tu»
leopardiano: «Tu dormi, che t’accolse agevol sonno / nelle tue chete stanze; e
non ti morde / cura nessuna; e già non sai nè pensi / quanta piaga m’apristi in
mezzo al petto» (vv. 7-10). Certo qui, in Orelli, non c’è lo scatto di Leopardi verso il filosofico-universale («a pensar come tutto al mondo passa, / e quasi orma
non lascia», ecc.; vv. 29 e ss.), troppo eloquente per una poetica novecentesca
post-montaliana; c’è allora in quel «giorno che in me riarde» una più discreta
ma tenace e sensibilissima partecipazione, in sintonia con i «pietosi guaìti delle
volpi», al destino delle «bètule uccise», a cui (appunto) «bruciavano le ferite
come specchi».23
O prendiamo, altro caso, Campolungo, lirica che con questo titolo toponomasticamente determinato passa nell’Ora del tempo: è sostanziale riscrittura rispetto a Montagna delle Poesie 1953: ma Leopardi vi persiste, anzi si consolida
e ramifica:
Per una costa già cara ai fagiani
giungo dove non ronzano i beati,
su un gran piano venato d’acque appena
rotte, dai margini qua e là
fioriti di piumini come neve.
Una nebbia s’insinua, allontana le vette.
Un’ansia mi caccia.
Mi fermo d’improvviso tra i calcestri
biancheggianti del passo, davanti
a uccelli dal collo di pietra.
Allo sparo
gallinette si levano, dileguano
nella nebbia che ora punge la memoria.24
Situazione, diciamo, da Vita solitaria al Campolungo. Ecco Leopardi, vv. 23
e ss.: «Talor m’assido in solitaria parte, / sovra un rialto, / al margine d’un lago /
140
Giorgio Orelli lettore di Leopardi
di taciturne piante incoronato. / […] / ed erba o foglia non si crolla al vento, /
e non onda incresparsi, e non cicala / strider, nè batter penna augello in ramo, /
nè farfalla ronzar, nè voce o moto / da presso nè da lungi odi nè vedi». Subentra
poi subito, anche in Leopardi (ma per vie e con modalità diverse), una stessa
e pungente memoria, quella dell’età giovanile («Era quel dolce / e irrevocabil
tempo / allor che s’apre / al guardo giovanil questa infelice / scena del mondo,
e gli sorride in vista / di paradiso», ecc.; vv. 44 e ss.). Taccio di triangolazioni
più sottili («la gallinella», ad esempio, è anche nella Vita solitaria, sul principio,
v. 3), non però del verso che in Orelli di fatto sancisce la dissoluzione dell’idillio:
«Un’ansia mi caccia». Già, l’ansia: la ricorderete anche nel critico più o meno
coevo. A me quest’«ansia» riporta ad altro Leopardi, quello del Canto notturno
di un pastore errante dell’Asia, dove il pastore (vv. 113-121) si rivolge alla propria
greggia che siede «all’ombra, sovra l’erbe», «queta e contenta»: «Ed io», prosegue, «pur seggo sovra l’erbe, all’ombra, / e un fastidio m’ingombra / la mente,
ed uno spron quasi mi punge / sì che, sedendo, più che mai son lunge / da trovar
pace o loco».25
A proposito di divaricazioni-convergenze fra uomini e animali, mi pare da
richiamare la notissima Sera a Bedretto, su cui Giovanni Orelli ha scritto pagine
assai acute e partecipi:
Salva la Dama asciutta. Viene il Matto.
Gridano i giocatori di tarocchi.
Dalle mani che pesano
cade avido il Mondo,
scivola innocua la Morte.
Le capre, giunte quasi sulla soglia
dell’osteria,
si guardano lunatiche e pietose
negli occhi,
si provano la fronte
con urti sordi.26
Dentro, nella stanza popolata dagli uomini, c’è il pensare la morte, o l’orizzonte consapevole della morte, parola-suggello della prima strofe. «Le capre»,
«le fortunate belve» stanno invece fuori, «sulla soglia», che è come una distanza,
anche strofica, che le protegge da quella consapevolezza: dico «fortunate belve»
pensando, beninteso, al Bruto minore leopardiano, dove per loro («Di colpa
ignare e de’ lor proprii danni») la morte è, appunto, il «non previsto passo».
Ma il contatto testuale stringente arriva subito dopo (ed è, oltre che lessicale,
figlio di memoria fonico-ritmica): «[…] Ma se spezzar la fronte / ne’ rudi tronchi […]», dice Leopardi, vv. 64-65, delle «belve»; e Orelli, sempre settenario +
quinario, con altre affinità: «si provano la fronte / con urti sordi».
Torniamo in area idillico-memoriale e avviciniamo la bellissima A una bambina tornata al suo mare.
141
Christian Genetelli
Ti dirò, Grazia, che
posso pensare a capre,
a sere scivolate lungo schiene
curve di vacche ai pascoli.
Da quanto tempo è chiusa
la stanza dove ho inciso il mio nome
senza superbia,
scritto i miei primi versi. Fermi i groppi
del soffitto, che un tempo erano occhi.
Morte le vecchie zie.
Ma i ruscelli hanno agli orli
del loro canto il più giovane verde.
E raggio insieme a raggio
del sole posso sentire posarmi
in quest’ora sul corpo, e non mi lagno
se come un vecchio dentro ne risuono.
Volentieri perdòno
al vento e in un esiguo prato
m’arresto a ricordare
te che immersa nell’erba mi gridavi:
«Guarda, nuoto nel mare».27
Ricordanze di un’infanzia finita, si potrebbe etichettare il pezzo: con ciò
evocando due grandi testi-matrice, le leopardiane Ricordanze, ovviamente, e la
loro fascinosa ritrascrizione novecentesca, intendo Montale, Fine dell’infanzia.
L’intarsio-intreccio montaliano è costante, anche fra i testi già letti: qui è attivo
in modo sottile, e mi sembra in più luoghi. Ma stiamo a Orelli-Leopardi: con
Orelli che, fra altro, ricorda «la stanza» dove, nell’età innocente, ha «scritto i
suoi primi versi», similmente al giovane recanatese delle Ricordanze, «assiso»,
lui, «sul conscio letto», «alla fioca lucerna poetando» (vv. 113-118); «i groppi /
del soffitto, che un tempo erano occhi» hanno avuto, per il «caro immaginar»
orelliano, funzione analoga ai «figurati armenti» delle volte di casa Leopardi
(vv. 61 e ss.). Orelli però poi svolta rispetto all’illustre modello («Ma i ruscelli
hanno agli orli / del loro canto il più giovane verde» ecc.), la sua rimembranza
non è «acerba»: «non mi lagno / se come un vecchio dentro ne risuono». Leopardi, al contrario, se ne lagna, e ciò in particolare nella canzone Alla sua Donna
(vv. 34-41): «Per le valli, ove suona / del faticoso agricoltore il canto, / ed io
seggo e mi lagno / del giovanil error che m’abbandona; / e per li poggi, ov’io
rimembro e piagno / i perduti desiri, e la perduta / speme de’ giorni miei; di te
pensando, / a palpitar mi sveglio […]» (meno riccamente implicato stavolta il
Canto notturno, v. 127 e dintorni: «O greggia mia, nè di ciò sol mi lagno»). Così
Orelli «volentieri» perdona «al vento» (e qui sta una memoria montaliana a cui
tuttavia accennerò solo in nota), e torna a Leopardi, all’Infinito, con quella finale
celebrazione dell’immaginazione fanciullesca, dove la corda elegiaca è però sapientemente dosata, trattenuta, e vibra il giusto: «in un esiguo prato / m’arresto
a ricordare / te che immersa nell’erba mi gridavi: / “Guarda, nuoto nel mare”».28
142
Giorgio Orelli lettore di Leopardi
Non manca all’appello Il sabato del villaggio, con il suo invito-esortazione
(vv. 43-51) al «garzoncello scherzoso» a godere «cotesta età fiorita» («Godi,
fanciullo mio»), che «è come un giorno d’allegrezza pieno, / giorno chiaro, sereno», e con affettuosa reticenza conclusiva sul domani («Altro dirti non vo’»:
ecc.). Se ne legga, in tale prospettiva, la rivisitazione desublimata (e di nuovo
filtrata da Montale: «non spezzate la vostra catena!») in Per un componimento
di Mario Villa:
S’è svegliato alla sera il Carnevale
quando la pioggia è cessata.
Più facile nel buio è per te credere
che sia sereno, e canti coi compagni
ritrovati.
Fate allegri mattina, rimanete
stretti così nell’alba,
non spezzate la vostra catena!
E quando i tuoi compagni sono muti,
tu non pensare alla chiave di casa
che nelle tasche cerca la tua mano.
Domani forse tu la perderai.29
Da Sinopie in poi, gli affioramenti leopardiani si fanno nel complesso meno
frequenti; ma soprattutto si denota un’accresciuta (e non solo con Leopardi) disinvoltura e libertà nell’alludere e nel convocare (in zona Poesie 1953, come appena visto, il contatto invece era certo stato un po’ più, per così dire, organico;
spesso determinante sull’intera parabola del testo). E allora, senza allontanarci
dal Sabato del villaggio, nella Sera di San Giuseppe di Sinopie, che cade di sabato
(«questo sabato / del Padre Putativo»), ecco arrivare, «per fortuna», la nonna:
«Col palloncino rosso e un fascio / di fiori gialli che altro non erano / che le forsizie di cui lessi in Benn». Sì, Benn, ma a portarle collabora la «donzelletta» recanatese, che viene «col suo fascio dell’erba; e reca in mano / un mazzolin di rose e di
viole» (vv. 1-4). Ancora forse echi schermati del Sabato del villaggio, ma più marcatamente della Quiete dopo la tempesta, restituisce dal canto suo Strofe di marzo.30
Già riferito più sopra (cfr. p. 135), quanto a Sinopie, degli incastonamenti leopardiani nella liminare Trota e in Don Giovanni, si può anche scivolare verso l’attacco
di un «cardo», il quarto, di Spiracoli: Povera vedova ricca va dove il cane la tira,
dove adesso nel gioco entra l’amata e studiata Imitazione: «povera foglia frale /
dove vai tu?» (vv. 2-3). Non proprio una prima, invero, questa dell’emergenza di
Imitazione, se pare di coglierne il volo fragile e delicato (nonché, appunto, ben più
organico) già nel Calicanto, componimento delle Poesie 1953 poi migrato nell’Ora
del tempo: «[…] Tu esci / segui una foglia, ch’esita, / come da te staccata, e fa il
suo viaggio / verso una bruna collina» ecc.31 Un verbo silviesco, con interiezione e
finale punto esclamativo («Ahi come, / come passata sei / cara compagna dell’età
143
Christian Genetelli
mia nova / mia lacrimata speme!»; A Silvia, vv. 52-55) è prestato, in Spiracoli, alla
poesia (ben contigua a un Funerale in campagna) Ah dopo tanti bianchi il lillà,
dove la memoria si posa su «Carlotta che m’hai guidato leggera / nei primi tanghi
su piste ai margini / del bosco», e che «leggera / sei passata di là!» Al Passero solitario (v. 35: «e mira ed è mirata […]») strizza l’occhio la bimba, un’altra Grazia,
di Verrà verrà (nel Collo dell’anitra), «che ignora ed è ignorata»; e magari di nuovo
al Passero («tu pensoso in disparte il tutto miri; / non compagni, non voli, / non ti
cal d’allegria, schivi gli spassi; / canti, e così trapassi / dell’anno e di tua vita il più
bel fiore»; vv. 12-16), non senza parodia, andrà accostato il tu-mosca, solitario, a
cui l’io si rivolge minaccioso in chiusura di Una visita, poesia che suggella Spiracoli: «(Unica mosca visibile nella stanza che invade la sera, / tu non ronzi ma non
fai compagnia, / tu troppo insisti su quel dorso labile / di mano, troppo nera / su
quella fronte. Non avrai nido / ma sei senza ritegno, perciò brandisco un ridicolo /
acchiappamosche e ti uccido)».
Un’ultima prospezione ci porta, noblesse oblige, alla Ginestra. Se, come afferma Orelli, L’infinito è «un ciottolo levigato dai millenni», si potrà continuare
dicendo che la grandiosa Ginestra ha nuove sporgenze, nuove ruvidezze, nuove
ricchezze. Pure una energia (suoni inclusi) e un vigore sintattico sconosciuti e
attraenti, basti pensare a certe sue tirate monoperiodali. Un Leopardi multiforme, anche tematicamente, fra punte polemico-satiriche, accensioni liriche, zone
filosofico-ragionative, sospensioni idilliche. Un Leopardi insomma più o diversamente servibile per la poesia dell’Orelli maturo. D’altronde, Orelli ha parlato
della Ginestra come di un «pilastro» della poesia moderna.32 Queste allora, a
titolo di assaggio, un paio di sue possibili manifestazioni in Spiracoli.
La prima è nella coda, urticante, del «cardo» «contra aliquos ciellinos» (così
il poeta nelle Note di autocommento) e ne mostra la fruibilità sul fronte del
mordace.
Chi siete, che con zelo di claque fate festa
al nuovo vescovo in questa chiesetta montana
dove nessuno vi ha mai visti e al momento
di scambiarsi guardandosi il segno della pace
non vi sognate di dare l’usata stretta di mano
a quelli che vi stanno così vicini da quasi urtarvi
e vi baciate e strabaciate soltanto tra voi?
Tanto si cresce in servitù funesta?33
La chiusa appuntita del componimento orelliano sembra infatti riecheggiare
quel passo della Ginestra in cui Leopardi si scaglia contro il proprio secolo, il
«secol superbo e sciocco»: «Libertà vai sognando, e servo a un tempo / vuoi di
novo il pensiero, / sol per cui risorgemmo / della barbarie in parte, e per cui
solo / si cresce in civiltà […]» (vv. 72-76). Il «Tanto si cresce in servitù funesta?»
orelliano (l’indignatio tollera e persino fomenta l’impennata eloquente) ne sarebbe così un amaro e polemico ricalco.
144
Giorgio Orelli lettore di Leopardi
Secondo caso, per noi con valore di commiato. Ci sono molte capre, oltre che
molte domeniche, nella poesia di Giorgio Orelli. Qui, ora, le capre interessano
in quanto potenziali portatrici di leopardiana Ginestra. Orelli critico ha infatti
scritto, acutamente, che la capra della Ginestra, la quale «dopo il disfacimento»
(non «solo geologico») giunge «a pascere su quelle rive» («onde su quelle or
pasce / la capra», ecc.: vv. 226 e ss.), «è forse la creatura più simbolica di tutta la
moderna poesia italiana».34 Invitato, assieme ad altri scrittori, a contribuire con
una sua lirica al volume Poeti del mondo per Giacomo Leopardi, edito nel 2001
dal Centro Nazionale di Studi Leopardiani, Orelli sceglie di inviarne una già
stampata in Spiracoli, dal titolo A Giovanna (che aspetta), di nuovo sulle capre.
Non angeli, non diavoli, e nulla
di frivolo per quelle pasture ritrovate
fuori d’ogni consueta transumanza:
capre senza pastore, ma il padrone
gli ha spruzzato le corna di giallo alla radice.
Dice che sono ghiotte di oleastri
Lucrezio. Qui su rocce a strapiombo
sopraggiunge lo scuro drappello
(l’ultimo nato in mezzo)
fra ginepri e mirtilli all’ombra
d’alberi cari e ghiandaie, astori e compagni
inquietissimi. Brucano in gruppo
con brevi distrazioni, e di nuovo in fila indiana
proseguono sull’orlo dei precipizi. Ma prima,
staccatasi un attimo, una,
come una finta ancella che si riposi altrove,
mi saluta.35
Dal molto che si potrebbe e dovrebbe dire su questa intensa poesia (la vita
che resiste, la vita che si rinnova), estraggo una sola osservazione, o poco più,
che spero tuttavia chiave bastevole per incoraggiare, anche, alla ricerca di altri
segnali leopardiani. Quelle «capre», dunque, sappiamo essere «senza pastore»,
ma avere un «padrone»: un «padrone» che, «alla radice», «gli ha spruzzato»,
segno di riconoscimento, «le corna di giallo»: «giallo», il colore cioè delle nostre
ginestre.36 E proprio lì, in «il padrone» c’è tutto, anagrammato, LEOPARDI.
D’altronde, questo «gruppo» di «capre» che, «in social catena», giunge «Qui su
rocce a strapiombo» non può che essere in rapporto filiale con chi così ha aperto
il proprio «canto»: «Qui sull’arida schiena» (e taccio d’altro: dei suoni, della parentesi che doppiamente protegge «l’ultimo nato», nel centro fisico della poesia,
e prima è in parallelo nel titolo ecc.). Sì, perché ci ha ricordato una volta Orelli
che tutti siamo figli di qualcuno, anche i poeti, naturalmente, e anche una capra,
forse del Tremorgio.
145
Christian Genetelli
1
Le coordinate puntuali di questi interventi sono naturalmente iscritte nella preziosa e
tempestiva Bibliografia di Giorgio Orelli, a cura di P. Montorfani con la collaborazione di Y.
Bernasconi, Edizioni Cenobio, Lugano 2014, pp. 9-14.
2
G. Orelli, Prime osservazioni sull’insegnamento dell’italiano nella scuola superiore, in
“L’educatore della Svizzera italiana”, XCIII (1951), settembre-ottobre, pp. 73-75.
3
Così, appunto, G. De Robertis, Saggio sul Leopardi, Nuova edizione accresciuta, Vallecchi, Firenze 1946, p. 123. Il passo (significativo) prosegue, in polemica con «i voli pazzi
della critica grandemente ispirata», chiedendosi: «Ma chi gusta più oggi questa maniera tanto
più certa e onesta e umana d’accostarsi a un’opera d’arte? Tutto va in fretta oggi. Noi, per non
cadere in tale errore, terremo un discorso calmo, col più possibile di prove e d’argomenti».
4
G. Orelli, «Dove vai? – Porto pesci», in “Gazzetta Ticinese”, 27 giugno 1949, p. 1.
Quanto al nutrimento indubbio offerto da Croce, basterà leggere l’entrata in materia delle già
ricordate Prime osservazioni sull’insegnamento dell’italiano, p. 73.
5
La citazione, una tra le non poche sfruttabili, proviene da G. Orelli, Letture di poeti.
Poesie d’oggi, in “L’educatore della Svizzera italiana”, XCV (1953), maggio-giugno, p. 37 (il
riferimento è a Cardarelli).
6
G. Orelli, Letture dantesche II. Ulisse (v. 85 e seg.), in “L’educatore della Svizzera
italiana”, XCIV (1952), settembre-ottobre, pp. 67-68.
7
Per Di camelia in camelia, cfr. Due poesie di Giorgio Orelli, in “Svizzera italiana”, XIII
(1953), agosto, p. 28. La Poesia del gennaio supererà a fatica la cruna dell’Ora del tempo
(Mondadori, Milano 1962): per farlo sarà infatti quasi completamente riscritta, anche accogliendo (nell’ultimo tratto) materiali della pure abbandonata Finestra (cfr. G. Orelli, L’ora
del tempo, edizione e commento a cura di Y. Bernasconi. Tesi di dottorato presentata all’Università di Friburgo, 2012, pp. 53, 127-128): il distico sospiroso ed esclamativo citato a testo è
fra le parti lasciate cadere.
8
P. De Marchi, Il fiore di Mallarmé e Xuan Loc. La poesia di Giorgio Orelli da «L’ora
del tempo» a «Sinopie», in Id., Dove portano le parole. Sulla poesia di Giorgio Orelli e altro
Novecento, Manni, Lecce 2002, p. 71.
9
Importanti, su un più ampio orizzonte, le riflessioni di G. Lonardi, Leopardismo. Tre
saggi sugli usi di Leopardi dall’Otto al Novecento, Sansoni, Firenze 19902 (ad esempio alle pp.
73-75).
10
La memoria del passo in questione delle Rimembranze è attiva anche, e in uno stesso
giro cronologico, nel saggista: cfr. G. Orelli, Connessioni leopardiane, in “Strumenti critici”,
n.s., II (1987), p. 83 («Per dire invece una cosa afferrata poco fa come l’insetto d’un componimento del giovanissimo Leopardi […]»); e per questa poesia orelliana, cfr. ancora qui,
più avanti, n. 32. Mentre sull’altro versante creativo, quello della prosa, si potrà registrare
l’immissione (sempre corsivata) di un lacerto leopardiano, dal Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez, nel racconto Serale, quando il protagonista Piero parla «di quelle
coccole rosse e fresche che Cristoforo Colombo, un bel giorno, vide galleggiare sul mare» (G.
Orelli, Un giorno della vita, Lerici, Milano 1960, p. 46). Infine, per quanto riguarda Elvira
e altra onomastica femminile leopardiana, una viva attenzione di Orelli per l’argomento sarà
documentata in suoi lavori degli anni settanta e ottanta (cfr. La lettera della luminosità e della
trafittura, in “Il piccolo Hans. Rivista di analisi materialistica”, III (1976), 12, pp. 140-152:
144-146; e Connessioni leopardiane, pp. 73-96: 75-77), dove sono riprese, discusse, integrate
osservazioni di E. Peruzzi, Saggio di lettura leopardiana, in “Vox Romanica”, XV (1956), pp.
94-163, e di S. Agosti, Il testo poetico. Teoria e pratiche d’analisi, Rizzoli, Milano 1972. Inutile insistere ora, perché dato tanto vistoso quanto risaputo, sulla cura particolare riservata
all’onomastica dall’Orelli poeta, anche con esibizioni anagrammatiche («Clelia» «l’elica», ad
esempio, o «Leonardo» «oleandro», per non dire che di due nomi eletti a titolo in Spiracoli:
Clelia, A Leonardo Boff).
11
Il rinvio, nell’ordine, va a G. Orelli, Letture di poeti, p. 34, e Id., La miseria del maestro Adamo, in “Popolo e Libertà”, 24 novembre 1951, p. 3 (poi, accresciuto, Id., Letture
dantesche I. Adamo e Sinone, in “L’educatore della Svizzera italiana”, XCIV (1952), gennaiofebbraio, pp. 7-10: 8).
146
Giorgio Orelli lettore di Leopardi
12
Per il critico in rapporto a Contini, cfr. infatti G. Orelli, Dopo la lezione [conversazione con L. Saetti], in Id., Foscolo e la danzatrice. Un episodio delle «Grazie», Pratiche Editrice,
Parma 1992, p. 69: «Non devo arrossire, mi pare, se dico che conosco poco il Contini ecdotico, se dico che sono sempre stato un uccello di passo pronto a prendere quel che più mi
serviva, o sembrava nutrirmi. Lì ho insistito».
13
G. Orelli, Per leggere «L’infinito» di Leopardi, in «Feconde venner le carte». Studi in
onore di Ottavio Besomi, a cura di T. Crivelli, con una bibliografia degli scritti a cura di C.
Caruso, Casagrande, Bellinzona 1997, vol. II, p. 478. La citazione successiva proviene ancora
da Id., Dopo la lezione, p. 69.
14
Cfr. G. Orelli, «Altre cose, altra realtà, altra verità», in “Filologia e Critica” (Su / per
Gianfranco Contini), XV (1990), pp. 325-346: 325-332. Concorda sull’agonismo O. Besomi,
Il lavoro sulla parola d’altri: gli inediti del «Fiore», in questi Atti, a p. 225.
15
La Bibliografia documenta anche l’assiduità con cui Orelli, a partire già dagli anni quaranta, ha divulgato e collaudato queste sue letture leopardiane attraverso conferenze, nelle
sedi più diverse, e interventi radiofonici. Fra gli studi non programmaticamente leopardiani,
ma con una parte di qualche rilievo a lui dedicata, si potranno ancora annoverare, è ovvio, i
due già messi a contributo: La lettera della luminosità e della trafittura (1976) e «Altre cose,
altra realtà, altra verità» (1990). Resta da osservare, a livello più complessivo, che nei lavori
di Orelli incentrati su altri autori i versi di Leopardi non risultano tra i più spesso chiamati
in causa, tra i più spesso allegati per mostrare come i grandi poeti hanno operato: in testa al
drappello c’è Dante, poi Petrarca; seguono, con largo distacco, Tasso e Ariosto. Leopardi è
forse appena in quinta posizione, o in quei dintorni.
16
G. Orelli, Punto medio dell’«Infinito», in “Popolo e Libertà”, 26 maggio 1951, p. 3;
e cfr. poi Id., Noterella all’«Infinito», in “Paragone. Letteratura”, 56 (1954), pp. 80-82: 80.
La conferenza di Ungaretti si era tenuta alla Scuola di Commercio il 20 settembre 1950 (si
inseriva in un tour ticinese del poeta che, su invito dei locali Circoli di Cultura presieduti da
Giuseppe Zoppi, parlò anche a Locarno, Lugano, Mendrisio e Chiasso). Un entusiasta cronista (“Popolo e Libertà”, 21 settembre 1950, p. 3) descrive anche il dopo-lezione bellinzonese:
«Con grande soddisfazione personale potemmo seguirlo [Ungaretti] insieme col prof. Tarabori, il poeta Orelli e altri, fin nell’albergo dove, tra un boccone e l’altro della cena, era ben
lieto di continuare una conversazione letteraria e poetica, nella quale l’autorità della sua parola portava sempre il giudizio definitivo». Queste, infine, le coordinate degli articoli coinvolti
nel primitivo dibattito: A. Baldini, Questa e quella, in “Corriere della Sera”, 7 febbraio 1950;
F. Flora, La «tanta parte» e gli «interminati spazi», in “Letterature moderne”, I (1950), pp.
102-103; Id., Concordanza grammaticale, in “Letterature moderne”, I (1950), pp. 240-242; R.
Bacchelli, Sugli aggettivi determinativi dell’«Infinito», in “Letterature moderne”, I (1950),
pp. 235-239; G. Ungaretti, Secondo discorso su Leopardi, in “Paragone. Letteratura”, 10
(1950), pp. 3-35; P. Bigongiari, Valore dell’«Infinito», in “Paragone. Letteratura”, 14 (1951),
pp. 29-37. Ai nomi fatti da Orelli, si aggiunga quello di V. Arangio-Ruiz, La siepe dell’«Infinito», in “Letterature moderne”, I (1950), pp. 99-102.
17
Cfr. G. Orelli, Per leggere «L’infinito» di Leopardi, p. 485; reiterato e persino intensificato nel successivo Per leggere «L’infinito», in Id., La qualità del senso. Dante, Ariosto e
Leopardi, Casagrande, Bellinzona 2012, pp. 66-96: 73 e 85.
18
G. Orelli, Dopo la lezione, p. 74. Di Walter Binni, presenza certo più sorprendente
di quella “stilistica” di Fubini, Orelli cita di séguito il volume Foscolo e la critica (La Nuova
Italia, Firenze 1957); ma nel settore che qui più ci concerne va senza dubbio salutata, per
apertura e indipendenza di giudizio, la sua pronta e ammirativa lettura della Nuova poetica
leopardiana (Sansoni, Firenze 1947): «Si veda […] il saggio spesso acuto e convincente del
Binni […]» (G. Orelli, Prime osservazioni sull’insegnamento dell’italiano, p. 74; e cfr. pure
Id., Cinque nuove poesie di Vincenzo Cardarelli, in “L’educatore della Svizzera italiana”, XCII
(1950), maggio-giugno, pp. 42-43: 42).
19
Così in Giorgio Orelli, la passione per Leopardi, intervista a cura di B. Boccaletti, in
“Giornale del Popolo”, 16 luglio 1998, p. 24. Ma cfr. anche, ad esempio, G. Orelli, Per
leggere «L’infinito», p. 69: «Siffatto simbolismo potrebbe dirsi inevitabile, inevitabilmente
147
Christian Genetelli
prodotto dalla “giusta” insistenza fonica imposta dall’urgenza stessa del senso» (e, similmente, pp. 73, 85, 88); o ancora e già, nel precedente Correzioni leopardiane, in “Il piccolo
Hans. Rivista di analisi materialistica”, XVI (1989), 62, p. 224: «Ma non si dimentichi che ciò
non documenta tanto l’attaccamento intertestuale dell’ingegno seguace quanto l’inevitabilità
d’approdi di chi fa vera letteratura in lingua italiana»; ecc.
20
Gli Appunti per leggere «Il sabato del villaggio» sono raccolti in G. Orelli, Accertamenti verbali, Bompiani, Milano 1978, pp. 107-127 (il primo libro del critico). Do, per mera
completezza, anche le indicazioni bibliografiche dei due studi citati a testo: A. Monteverdi,
Scomposizione del canto «A se stesso», in Id., Frammenti critici leopardiani, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1967, pp. 123-136; D’A.S. Avalle, «A Liuba che parte», in Id., Tre
saggi su Montale, Einaudi, Torino 1970, pp. 91-99 (già in Id., La critica delle strutture formali
in Italia III., in “Strumenti critici”, II (1968), pp. 304-342: 312-319). Un’ultima postilla in
questo solco: per quanto muova da presupposti rinnovati, lo stesso studio introduttivo degli
Accertamenti verbali (Ritmi, timbri, il disegno del pensiero, pp. 7-32) non è certo del tutto
insensibile a Ritmo e metro, suo omologo nella fubiniana, e già ricordata, Metrica e poesia.
Lezioni sulle forme metriche italiane. I. Dal Duecento al Petrarca, seconda edizione riveduta
e corretta, Feltrinelli, Milano 1970, pp. 13-78 (I. ed. 1962). Ha una fine osservazione sulla
diacronia della «critica verbale» orelliana O. Besomi, Il lavoro sulla parola d’altri: gli inediti
del «Fiore», p. 229.
21
Non ha mancato di notarlo Pietro De Marchi: cfr. Giorgio Orelli. L’orlo della vita, a
cura di P. De Marchi e P. Montorfani, in “Poesia”, XXVII (2014), gennaio, p. 32.
22
G. Orelli, Poesie, Edizioni della Meridiana, Milano 1953, p. 17; la lirica non è riproposta nell’Ora del tempo. Avverto sin d’ora che citerò di norma da quest’ultimo libro nei casi
in cui (si capisce) il componimento vi è approdato, riservandomi in ogni modo di indicare, se
significative per il nostro discorso, le lezioni precedenti di Poesie 1953.
23
A proposito di eloquenza smorzata, ecco che cosa scrive ad esempio Orelli di un verso
tradotto con un po’ troppa perfezione ed enfasi (il traduttore è Bassani, il tradotto Char): «a
un bell’endecasillabo come “Oh, non morite troppo presto, amici” (Ne mourez pas trop vite,
amis), avremmo preferito un più contenuto: “Non morite troppo presto, amici” (e si potrebbe optare per un manzoniano “troppo in fretta”), ch’è un verso enarmonico e più consono
al resto del componimento» (G. Orelli, rec. a Poesia straniera del Novecento, in “Paragone.
Letteratura”, 116 (1959), p. 100). E qualche anno prima, proprio nel 1953, parlando della
montaliana Casa dei doganieri (G. Orelli, Letture di poeti, p. 35): «Gli ultimi due versi sono
tanto più commoventi perché apparentemente pacati. “Tu non ricordi la casa di questa Mia
sera” è frase intensamente patetica proprio perché il pathos si raggruma in “questa Mia sera”
come nella sostanza più dolente dell’anima. (Pensate, per meglio intenderci, a una clausola
tutt’altro che indegna di Leopardi, ma insomma un poco eloquente, come quella, notissima,
del Passero: “Ahi pentirommi, e spesso, Ma sconsolato volgerommi indietro”)».
24
G. Orelli, L’ora del tempo, Mondadori, Milano 1962, p. 21. Di séguito la lezione di
Poesie (p. 35): «Giungo dove non ronzano i beati, / in questa ganna di pieno silenzio. / Le
gallinette stanno immobili / con i loro colli di pietra / e la marmotta uscita al primo sole /
non teme d’essere uccisa / nè fischierà. / Nessuno annulli la montagna, / ora, leggera e come
costruita / con le carte da gioco dell’infanzia».
25
Anche l’Orelli traduttore di Goethe, nella versione di Ganymed uscita nel 1957 (cfr.
J.W. Goethe, Poesie scelte, tradotte da G. Orelli, Edizioni Mantovani, Milano, p. 9) attinge
a questa lassa del Canto notturno, per poi rielaborare in altra direzione, con minori ipoteche, nel 1974 (cfr. J.W. Goethe, Poesie, a cura di G. Orelli, Mondadori, Milano, p. 31): lo
osserva A. Spinelli, Giorgio Orelli traduttore di Goethe lirico: dinamiche intra e inter-testuali,
in “Versants. Rivista svizzera delle letterature romanze”, 60 (2013), 2, p. 121 e n. Più in generale, nelle traduzioni goethiane, benché le traduzioni di Orelli non siano fatte oggetto di
considerazione specifica in questo mio studio, la quota di sintagmi o tessere leopardiane si
rivela più alta che nelle poesie originali, forse anche come segnale di una sorta di solidarietà
cronologica con il testo di partenza (e del resto Luciano Erba parlava della traduzione come
di «una grande operazione di riciclaggio di materiali forniti dalla tradizione»: cfr. P. De Mar-
148
Giorgio Orelli lettore di Leopardi
chi,
Ut poësis translatio. Sul «quaderno di traduzioni», in Id., Dove portano le parole, p. 114).
Quanto, infine, alla Vita solitaria, è «canto» che incide pure altrove, come nel contiguo (a
Campolungo) Carnevale a Prato Leventina (G. Orelli, L’ora del tempo, p. 20; più distanziato
in Poesie, p. 23), dove «le lepri / sui prati sono corse / invisibili, restano dell’orgia / silenziosa i
discreti disegni». (Leopardi: «O cara luna, al cui tranquillo raggio / danzan le lepri nelle selve;
e duolsi / alla mattina il cacciator, che trova / l’orme intricate e false, e dai covili / error vario
lo svia […]»; vv. 70-74). E sempre in Carnevale a Prato Leventina (è domenica, «la Domenica
Disfatta») si percepiscono nell’io palpiti da Sera del dì di festa: «I ragazzi nascosti nei vecchi /
che hanno teste pesanti e lievi gobbe / entrano taciturni nelle case / dopocena: salutano con
gesti / rassegnati. – Li seguo di lontano / mentre affondano dolci nella neve». Ma anche qui
lo “stringimento” di cuore non è spiattellato, è trattenuto, non dichiarato.
26
G. Orelli, L’ora del tempo, p. 19 (in Poesie, p. 19). Per gli interventi di Giovanni Orelli
sulla poesia, cfr. Id., Svizzera italiana, Editrice La Scuola, Brescia 1986, p. 198; Lettura di
«Sera a Bedretto», in Giorgio Orelli. I giorni della vita, a cura di P. De Marchi, con la collaborazione di S. Soldini, Casa Croci Mendrisio, Mendrisio 2011, pp. 15-18; Postilla per «Sera
a Bedretto» di Giorgio Orelli, in “Bloc Notes”, 64 (2014), pp. 121-123. Sulla prima strofe,
all’insegna dell’immancabile Montale (qui il «nominalistico» di Keepsake), cfr. anche Poeti
italiani del Novecento, a cura di P.V. Mengaldo, Mondadori, Milano 1978, p. 818.
27
G. Orelli, L’ora del tempo, pp. 24-25 (in Poesie, p. 31).
28
L’accostamento finale all’Infinito è anche nel ricordato commento di Bernasconi all’Ora
del tempo (p. 31). Senza con ciò volermi addentrare nel campo vastissimo e privilegiato del
montalismo di Orelli (anche perché ne tratta in questo volume uno specialista come Niccolò
Scaffai), dico almeno che quel singolare «Volentieri perdòno / al vento» si spiega a mio avviso con la grande chiusa di Fine dell’infanzia, in cui proprio «un vento» sancisce il passaggio
all’età adulta: «Certo guardammo muti nell’attesa / del minuto violento; / poi nella finta
calma / sopra l’acque scavate / dové mettersi un vento». E, ancora, gli orelliani «groppi / del
soffitto, che un tempo erano occhi», mentre ora sono «fermi», sono certo in famiglia con «le
nubi» dell’«età verginale» di Montale, non «cifre o sigle / ma le belle sorelle che si guardano
viaggiare» (Fine dell’infanzia, vv. 70-71).
29
G. Orelli, L’ora del tempo, p. 27 (in Poesie, p. 43). A rovescio, in qualche misura, le
cose vanno invece in Sul disegno di una bambina (Poesie, p. 25; non entrerà nell’Ora del tempo): la trama, pur rasserenata rispetto al primo dei modelli, è data da Montale, tra Arremba
su la strinata proda e Poesie per Camillo Sbarbaro II. Epigramma; ma l’uccello che «di te non
si dorrà», è lampeggiamento verbale del Passero solitario (vv. 45-48): «Tu, solingo augellin
[…] / […] / certo del tuo costume / non ti dorrai». Ecco ora, nella sua integralità, il testo di
Orelli: «Lievi montagne vivono / e la tua barca va, senz’uomo, / con l’anima dei primi fiori
colti / e il biglietto-ricordo. // Se un uccello l’ha scorta, non temere: / di te non si dorrà che
l’hai destato, / ma seguirà la barca, sopra l’acque / vere come il tuo sguardo, all’altra riva».
30
Lo ha mostrato la lettura di F. Medici, Appunti su «Strofe di marzo», in Per Giorgio
Orelli, a cura di P. De Marchi e P. Di Stefano, Casagrande, Bellinzona 2001, pp. 121-128.
31
E cfr. pure la «rosa» («La passa rosa») che «va» in Torcello, sempre nell’Ora del tempo,
e sempre proveniente dalle Poesie, dov’è l’ultimo degli Epigrammi veneziani (e ultimo testo
della raccolta).
32
Ad esempio in una conferenza luganese del 7 giugno 1988 intitolata Di dolcissimo odor
mandi un profumo, su cui si possono vedere i resoconti giornalistici di P. Di Stefano (Il dolce
odore dei suoni, in “Corriere del Ticino”, 8 giugno 1988, p. 14) e di M. Camponovo (Nei «falchi» di Montale l’epifania della vita, in “Giornale del Popolo”, 9 giugno 1988, p. 24). L’infinito
è definito «ciottolo levigato dai millenni» in G. Orelli, Per leggere «L’infinito» di Leopardi,
p. 476. Osservo, a margine ma non troppo, come dei «ciottoli ben levigati» stiano nell’incipit
della quinta poesia del Quadernetto del mare (in Spiracoli), quella in cui (cfr. sopra p. 135)
si trova poi incastonato, in corsivo, un verso delle Rimembranze («Penso il ragazzo che ha
scritto lucido insetto / sorpreso in aria a due passi da qui»).
33
G. Orelli, Spiracoli, Mondadori, Milano 1989, p. 23 (è il nono testo della serie). L’autocommento si legge a p. 105.
149
Christian Genetelli
Id., Letture di poeti, pp. 33-34.
Id., Spiracoli, p. 77; e Poeti del mondo per Giacomo Leopardi, prefazione di F. Foschi,
introduzione di M. Luzi, a cura di G. Singh, Centro Nazionale di Studi Leopardiani, Recanati
2001, p. 152.
36
E cfr. anche, in proposito, una poesia della serie Con Mimma del Collo dell’anitra:
«Non conosco l’azzurro / tuo preferito / che hai visto solo in Egitto / e il nostro esiguo cielo /
di rado ti rammenta // e nemmeno, fra tanti, il tuo giallo: / non forsizia o mimosa, ma se mai /
ginestra […]».
34
35
150
NICCOLÒ SCAFFAI
Un’altra fedeltà: Orelli e Montale
1. «A Eugenio Montale / dal suo fedele / Giorgio Orelli / Milano, aprile ’77»:
la dedica si legge sull’esemplare di Sinopie conservato tra i libri di Montale, nel
fondo a lui intestato presso la Biblioteca Sormani di Milano. È una traccia minima ma significativa, perché colloca la relazione di Orelli con il più anziano “maestro” all’insegna di una fedeltà discreta e insieme allusiva. “Fedeltà” è infatti un
campo semantico centrale nella poesia del Montale maggiore – quello più caro
a Orelli e più influente per la sua generazione – specialmente tra Occasioni (il
«gorgo / di fedeltà, immortale» del secondo mottetto; «la fedeltà che non muta»
in Tempi di Bellosguardo, II) e Bufera (il «latrato / di fedeltà» dell’Arca; e poi,
quasi a sigillare il “canzoniere” del Montale tragico, la «fede che fu combattuta»
testimoniata dal segno dell’«iride», in Piccolo testamento).
D’altra parte, il richiamo alla fedeltà può implicare il dialogo tra Montale
e un altro maestro di Orelli, il Contini di Una lunga fedeltà (Einaudi, Torino
1974). Orelli stesso ha testimoniato quanto il poeta di Mottetti e Finisterre e
il filologo romanzo fossero legati nella memoria del suo apprendistato: «All’università capitava che Contini levasse di tasca inediti del grande poeta e me li
facesse leggere. Ebbi più d’una “mamma”, più d’una “nutrice”, ma in Montale
sentivo rivivere l’oggetto con un che d’elettrico che non trovavo in nessun altro
poeta contemporaneo».1 Dal canto suo Montale, scrivendo delle Poesie scelte di
Goethe in una Lettura del 1957, ne lodava il traduttore Giorgio Orelli, definendolo «poeta tra i migliori della nuova generazione» (riferendosi, beninteso, non
«ai soli poeti ticinesi»).2
Per entrambi – Contini e Orelli – la fedeltà a Montale è stata un’inclinazione
non solo critico-letteraria o filologica, ma anche personale (per il primo) e soprattutto poetica (per il secondo). Cercherò qui appunto di illustrare le forme e i
modi in cui la lettura di Montale può aver inciso sulla poesia di Orelli, lasciando
tracce più o meno marcate di un’influenza abbastanza costante nel tempo: dalla
prima stagione di Né bianco né viola (1944), plaquette uscita nella medesima
“Collana di Lugano” di Pino Bernasconi in cui, un anno prima, era apparsa
Finisterre; al consuntivo dell’autoantologia L’ora del tempo (1962); fino a Sinopie e, in forme ormai autonome e peculiari, ai libri successivi, passando anche
attraverso la critica verbale esercitata negli Accertamenti montaliani (1984) e nei
molti interventi critici dedicati a Montale nel corso dei decenni.3
2. «In Montale sentivo rivivere l’oggetto», ha scritto Orelli. E proprio la “vita”
dell’oggetto nella poesia orelliana è quanto si richiama più fortemente al ma-
151
Niccolò Scaffai
gistero montaliano. Come già per il poeta delle Occasioni, infatti, in Orelli gli
oggetti nominati valgono non tanto o non solo come proiezione di un io turbato, che riversa nel simbolo la partecipazione a uno stato emotivo; quanto come
elemento di una realtà effettivamente esperita, riconosciuta e resa esprimibile in
poesia anche attraverso l’esempio di Montale. La verbalizzazione dell’oggetto
è forse l’aspetto più generale ma anche più decisivo dell’influenza montaliana
sul primo Orelli; un’influenza che non si misura solo in base alle pur numerose
tessere intertestuali prelevate dai versi di Montale, ma che ha una portata stilistica più generale (intendendo per “stile” anche un atteggiamento conoscitivo
che qualifica il nesso tra oggetto e parola). Quest’atteggiamento consiste nel
percepire l’unità significativa dei fenomeni con l’io, senza subordinare simbolisticamente gli uni all’altro ma coordinandoli e accostandoli come per metonimia. Anzi, è stato notato che il soggetto orelliano non soltanto osserva quelle
presenze oggettive, ma è come se ne fosse osservato di rimando; ciò obbliga,
specialmente nei versi più maturi, a rinegoziare la posizione dell’io lirico rispetto alle cose.4 In questo risiede peraltro una fondamentale differenza rispetto a
Pascoli, che pure senza dubbio rappresenta un punto di riferimento di Orelli,
quanto a lessico e situazioni d’ambiente, nonché un oggetto privilegiato di «rimemorazione inconscia»;5 si deve però tener presente che il pascolismo di Orelli
è «sostanzialmente filtrato attraverso Montale»,6 dal quale parte il suo percorso
di attraversamento à rebours della tradizione, fino a Dante e Petrarca.
Il trattamento dell’oggetto da parte del primo Orelli si basa su un processo
di surdeterminazione,7 simile alla tecnica di certi Mottetti, come «Il saliscendi
bianco e nero…» («Già profuma il sambuco fitto su / lo sterrato; il piovasco si
dilegua»), a cui accostare, ne L’ora del tempo, versi e immagini come:
La cote è nel suo corno.
Il pollaio s’appoggia al suo sambuco
(Nel cerchio familiare)
Neve rappresa ai cigli delle case,
nell’orto il sambuco in gramaglie.
(Prima dell’anno nuovo)
In questi esempi, il contatto è accreditato anche dall’identità di un referente
come la pianta del sambuco, che ricorre in diversi luoghi dell’opera di Orelli,8
almeno fino ai versi di A Lucia, poco oltre i tre anni (in Sinopie) dove viene quasi tematizzato («“Questo odore è del sambuco.” “Del san cosa?”»): passaggio
emblematico per cogliere l’evoluzione tra il giovane Orelli e il poeta maturo che
rielabora i propri motivi.
A sua volta, la surdeterminazione dell’oggetto fa sistema, nel primo Orelli,
con un altro elemento decisivo della poetica montaliana, il modulo epifanico
attraverso cui si realizza la conoscenza intuitiva o piuttosto il presentimento
euforico avvertito dal soggetto. I versi di Lo stagno (confluiti in L’ora del tem-
152
Un’altra fedeltà: Orelli e Montale
po) sembrano tra i meglio implicati nella dinamica dell’occasione di ascendenza
montaliana:
Se torna il tempo della primavera,
come un compianto sale dallo stagno
dove incupisce nel suo verde il pino
e un sole silvestre s’avvera.
Il mio cielo! che a un tratto il picchio fruga;
spare dirotto: n’esulta il turchino.
Oh non schivare di specchiarti, cara.
Qui, peraltro, non solo la struttura concettuale ma anche quella retoricasintattica aderisce alle formulazioni montaliane: per esempio nell’uso della frase
condizionale, con sfumatura per lo più temporale, la cui «variabilità di posizione […] è uno tra i fenomeni più tipici dello stile montaliano».9 Frequente e
marcato nell’Opera in versi (l’occorrenza più emblematica è forse nel nono mottetto: «Il ramarro, se scocca / sotto la grande fersa / dalle stoppie»), lo stilema
sintattico è adottato volentieri da Orelli; oltre che Lo stagno, si può citare A un
giovane poeta cacciatore (ancora in L’ora del tempo), dove le due frasi condizionali si succedono giustapposte, senza l’adempimento di una principale, rimandata (si considerino i punti finali di sospensione) e di fatto assente – un tratto
anche questo che deriva da una forma sintattica montaliana, quella che consiste
appunto nel ritardare o eludere la reggente (come, nella Bufera e nell’Anguilla,
testo emblematico caro e presente a Orelli):
Ma se lo scoiattolo muore
con la nocciuola in bocca e lo raggiunge
nel folto del mattino un sole
come appena risorto, accendendolo
un attimo che durerà non meno d’un rimorso
(non un filo di sangue, e quel trambusto
per cui ti volgi invano, e, di là, nella radura,
quelle palate, non d’uccelli); se quella che ti passa accanto
nel silenzio che succede allo sparo,
non sai di chi nel calanco,
pernice troppo pesa, ferita,
che precipita sì che tu la vedi
scendere vicinissima in un vuoto
concesso dalle pietre, zampettare, tacere…
Risonanze montaliane, nei versi citati da Lo stagno, producono infine la sequenza trimembre di frasi brevi «a un tratto il picchio fruga; / spare dirotto:
n’esulta il turchino», da confrontare ad esempio, anche per la forma verbale
(«spare»), con il finale dell’osso breve «Il canneto rispunta i suoi cimelli…»: «e
però tutto divaga / dal suo solco, dirupa, spare in bruma»; così pure l’interiezio-
153
Niccolò Scaffai
ne («Oh non schivare di specchiarti, cara»), anche questa frequente in Montale
(negli Ossi: «oh da un segnale di pace lieve», «oh alide ali dell’aria», «oh troppo
noto / delirio, Arsenio, d’immobilità…», «Oh sommersa!: tu dispari» ecc.; nelle
Occasioni: «Oh l’orizzonte in fuga», «Oh la pigra illusione», «Oh il gocciolìo
che scende a rilento» ecc.; nella Bufera: «Oh ch’io non oda / nulla di te», «Oh
resta chiusa e libera», «Oh la piagata / promavera» ecc.; e ancora, più raramente, fino a Satura e ai Diari), se non altro come residuo d’intonazione primonovecentesca, fra crepuscolari, liguri e vociani.
Mentre in A un giovane poeta cacciatore è l’uso della parentesi, che racchiude
l’evento accessorio di una percezione distante ma connessa per analogia al qui e
ora dell’istanza, ad apparire ancora montaliano: più che con il celebre mottetto
degli sciacalli – «(a Modena, tra i portici, / un servo gallonato trascinava / due
sciacalli al guinzaglio)» –, un parallelo tipologico (non tematico) può esser fatto
qui con la seconda strofa della poesia La bufera:
(i suoni di cristallo nel tuo nido
notturno ti sorprendono, dell’oro
che s’è spento sui mogani, sul taglio
dei libri rilegati, brucia ancora
una grana di zucchero nel guscio
delle tue palpebre).
In certi casi, la poesia di Orelli dà per acquisito il passaggio dell’occasione su
un versante negativo, come accade in Finisterre (la zona dell’opera montaliana
che, insieme ai Mottetti, più ha contato per il poeta ticinese), dove il modulo
epifanico resiste ma privato del risvolto euforico;10 si osserva una dinamica del
genere nell’orelliana Scolopendra (L’ora del tempo):
E niente c’è di nuovo
se non l’erba che fumiga strepita,
la scolopendra dal roseo ventre
ch’agita folle i piedi nell’azzurro. (vv. 7-10)
3. Se è vero che Orelli ha appreso da Montale, meglio che da altri, la percezione lirica degli oggetti, è vero anche che quella percezione avviene attraverso
la nominazione: di qui il senso e l’importanza che acquistano, nel sistema di
Orelli, gli accertamenti verbali, necessari alla comprensione della sua poetica,
forse più ancora che all’analisi di alcuni dei testi considerati. Tra i poeti della
sua generazione, Orelli è il più sensibile e ricettivo rispetto ai campi semantici
frequentati da Montale, specialmente a quelli che più contribuiscono all’estensione del dicibile lirico verso il tecnicismo e in genere verso il post-grammaticale
(grazie all’influenza corroborante del gusto pascoliano, per quanto riguarda
l’esatta designazione dei referenti). Entrano così, nel vocabolario orelliano, i
termini tecnici come acetilene (Nel cerchio familiare, in L’ora del tempo), forse
154
Un’altra fedeltà: Orelli e Montale
autorizzato da Arsenio («dai gozzi sparsi palpita / l’acetilene»); le molte voci di
un bestiario “araldico” dai toni ancora montaliani (peraltro, proprio a Gli uccelli e altri animali nella poesia di Eugenio Montale, Orelli dedicò un intervento
per la trasmissione Gli animali nella letteratura italiana, alla Radio della Svizzera
italiana, il 24 novembre 1963): martora, nocciolaia, scoiattolo, tasso, pernice,
picchio e soprattutto la «scolopendra folle» che quasi cita la «cavolaia folle» da
L’estate montaliana;11 certe voci emblematiche e preziose come «madreperla»,
«élitre», «volo tremulo». Per non dire del conio montaliano «dopopioggia» (da
Delta), promosso da Orelli a titolo di Nel dopopioggia, poesia confluita ne L’ora
del tempo.12
La radice del montalismo di Orelli affonda già, come si accennava, nel suo
esordio poetico. In Né bianco né viola, infatti, il segno di Montale è forte fin dai
versi di Affresco, che assumono movenze ricalcate soprattutto sulle poesie degli
Ossi: «Basta questo sorriso di fanciullo», «Domani i ragazzetti soneranno /
così le raganelle» sono versi da accostare tanto all’incipit di Riviere («Bastano
pochi tocchi d’erbaspada»), per il modulo sintattico e per una disposizione
esistenziale in levare caratteristica del primo Montale; quanto a «Ripenso il tuo
sorriso…», ai «ragazzi» dei Limoni e alla «musica innocente» dei fanciulli di
Caffè a Rapallo.
Ma la prima traccia di allusività vera e propria riguarda Finisterre, il libro più
vicino per cronologia e geografia a Né bianco né viola: nella plaquette del giovane
Orelli, i versi di Salice alludono a Montale attraverso la memoria incipitaria, che
mette in relazione l’attacco della poesia («Ora che la tempesta t’ha travolto») con
quello dell’Arca montaliana: «La tempesta di primavera ha sconvolto l’ombrello
del salice», sovrapposto a quello della vicina A mia madre («Ora che il coro delle
coturnici»).13 È significativo, intanto, che Orelli attinga da una delle poesie di Finisterre meno implicate nel “canzoniere” per la donna assente e incentrata piuttosto sul tema larico, nelle corde del poeta ticinese. Mentre Sereni, e altri poeti
della terza generazione, percepirono in Montale il “romanzo”, «l’eco di parole
davvero pronunciate»14 (anche come reazione sia alle imposizioni crociane tutte
orientate sulla “poesia”, sia alla distanza ermetica tra letteratura ed esperienza),
il primo Orelli sembra cercare in Montale le parole e la “sintassi” concettuale
per designare un mondo che precede o al massimo sfiora la Storia. Così, infatti,
la metafora della tempesta – che in Montale è riferibile tanto agli eventi bellici
quanto alla dimensione del lutto personale – viene da Orelli depotenziata e in
sostanza ridotta alla lettera. In compenso, Salice di Orelli ha uno svolgimento
autonomo dai temi e dai toni dell’Arca: si veda ad esempio la figura accennata
negli ultimi versi («È una bagnante isterica che guarda / la tua giovin miseria»),
già personaggio di quella galleria aneddotica che caratterizza la poesia matura
di Orelli. L’arca è peraltro citata da Orelli critico sia nelle sue Letture foscoliane;
sia nell’articolo Aderenza di Montale (1975), in cui la poesia è avvicinata a Terra,
vale! del D’Annunzio alcyonio; sia infine nell’autolettura conclusiva di Quasi
un abbecedario, dove Orelli suggerisce come il «muso aguzzo» del suo celebre
Frammento della martora possa venire dai «musi aguzzi» della «bellissima lirica»
155
Niccolò Scaffai
di Montale. Ma la memoria dell’incipit dell’Arca riemerge anche in una forma
più complessa: non come allusione imitativa, cioè, ma come attiva emulazione
del modello. È quanto si osserva nei versi di Nel cerchio familiare:
Una luce funerea, spenta,
raggela le conifere
dalla scorza che dura oltre la morte,
e tutto è fermo in questa conca
scavata con dolcezza dal tempo:
nel cerchio familiare
da cui non ha senso scampare.
Entro un silenzio così conosciuto
i morti sono più vivi dei vivi:
da linde camere odorose di canfora
scendono per le botole in stufe
rivestite di legno, aggiustano i propri ritratti,
tornano nella stalla a rivedere i capi
di pura razza bruna.
Ma,
senza ferri da talpe, senza ombrelli
per impigliarvi rondini;
non cauti, non dimentichi in rincorse,
dietro quale carillon ve ne andate,
ragazzi per i prati intirizziti?
La cote è nel suo corno
il pollaio s’appoggia al suo sambuco.
I falangi stanno a lungo intricati
sui muri della chiesa.
La fontana con l’acqua si tiene compagnia.
Ed io, restituito
a un più discreto amore della vita…
La poesia mostra più di un contatto tematico e lessicale con la lirica di Finisterre (né mancano anche possibili interferenze con altri testi tra Occasioni e
Bufera, e perfino con la prosa montaliana).15 Ma davvero decisiva pare soprattutto l’influenza dell’Arca; nei versi di Orelli si ritrovano infatti il tema larico e
l’ambientazione domestica a suo modo pascoliana (Il giorno dei morti, in Myricae, che ha agito anche su Montale, o La tovaglia, nei Canti di Castelvecchio)
della grande lirica di Finisterre: il radunare la memoria dei morti entro un «cerchio familiare» corrisponde al «tondo di riflessi» che «accentra i volti ossuti»
nell’Arca; e ancora, «i morti più vivi dei vivi» di Orelli sono da confrontare con
i morti «calati, vivi, nel trabocchetto» della poesia di Montale («trabocchetti»
che, peraltro, anticipano le «botole» di Nel cerchio familiare). Notevole, infine,
156
Un’altra fedeltà: Orelli e Montale
un indizio lessicale come l’uso del verbo “impigliare”: «s’è impigliato nell’orto il
vello d’oro» (Montale), «per impigliarvi rondini» (Orelli).16
In generale, la qualità dei riscontri tra Finisterre e L’ora del tempo è un segno di
come, nell’Orelli maturo, la traccia illustre del modello sia ormai libera dall’ossequio ancora percepibile in Né bianco né viola. A dire il vero, già in quella
prima plaquette, il montalismo non si risolveva solo in un’appropriazione di emblemi (l’alto volo del falco, la banderuola), manifestandosi anche in una più studiata assimilazione di forme strofiche e sintattiche, come base per l’elaborazione
dell’esperienza emotiva e conoscitiva dentro le strutture ellittiche e analogiche
della poesia novecentesca. Ad agire è soprattutto il modello dei Mottetti, sia per
la bipartizione del testo in due brevi strofe distinte anche sul piano prospettico;
sia, come in parte si è detto, per l’uso della parentetica, che fissa una circostanza
realistica accessoria e contigua rispetto alla situazione lirica principale, per lo
più in finale di testo. Così, ad esempio, in Perché si ricomponga ogni silenzio:
(Sul vecchio ballatoio,
la donna dai capelli di lichene
che sa della cornice più scherzosa
delle pannocchie?);
o ancora in D’un altro giorno più vicino di ieri:
(È sera, e ancora l’attimo distilla
le gocce sulla mola inesauribile
del ramingo arrotino)
dove si rileva, proprio nella figura dell’arrotino, un altro “fantasma” montaliano (ancora da Finisterre, in Giorno e notte). Il precedente, per quest’uso della
parentesi, può essere riconosciuto – stavolta sì – nel mottetto «La speranza di
pure rivederti…», che per ragioni analoghe impressionò i poeti della terza generazione, poco più anziani di Orelli. Né, del resto, l’uso resta confinato alle prime
raccolte; l’esempio più flagrante e più allusivamente montaliano si trova anzi
nella poesia di Spiracoli intitolata Per la madre di mia moglie:
(a Parigi
i negri si toglievano dai ricci
i chicchi scivolati dalle tende
del Marché)
dove anche l’intertestualità di rinforzo sembra provenire dalle Occasioni, precisamente da Buffalo, ambientata appunto a Parigi, in cui un «negro / sonnecchiava in un fascio luminoso». Nei paraggi delle prime Occasioni riporta poi anche
Sera a Bedretto («Salva la Dama asciutta. Viene il Matto / Gridano i giocatori di
157
Niccolò Scaffai
tarocchi»), nel cui incipit più di un lettore ha avvertito l’eco del Montale “nominalistico” di Keepsake.17
La parentesi non è il solo tratto della mise en page montaliana che sembra
aver lasciato traccia: anche per i tre punti che precedono il primo verso di Frammento della martora può essere pertinente il rimando ai Mottetti («Addii, fischi
nel buio…», «Il ramarro, se scocca…» o, diversamente «… ma così sia. Un suono
di cornetta…»), che promuovono la lacuna testuale a stilema in cui si esprime la
poetica ellittica dell’occasione.
4. La modalità di assimilazione più tipica di Orelli passa attraverso la scomposizione dei sintagmi montaliani, i cui elementi vengono poi riaggregati con
minore o maggiore tasso di allusività, ma sempre esibendo con tecnica squisita
la memoria straniata del modello. Accadeva con L’arca ricontestualizzata nei
versi di Nel cerchio familiare; accade ancora, per esempio, in Colgo questo paese
(L’ora del tempo):18
Colgo questo paese che s’inalbera,
stretto fra gli orti dove latte luccicano
frenetiche, e dirocca dentro i monti.
Giunge un vento, da vette eccita breve
argenteo pulviscolo (vv. 1-5).
Qui la memoria principale proviene dalla seconda strofa del primo mottetto:
«Paese di ferrame e alberature / a selva nella polvere del vespro» («Lo sai: debbo
riperderti e non posso…»), incrociata però con altri luoghi eminenti dell’Opera in
versi (per esempio l’incipit di Mediterraneo V: «Giunge a volte repente…») e spinta verso l’iper-montalismo dagli sdruccioli in punta di verso. Ma un’eco del medesimo testo attraversa anche un’altra poesia vicina in L’ora del tempo, cioè Il lago:
Orsola ha fabbricato il suo paese
di ferro arrugginito sulla riva
dove gli alberi stirano le tenaci radici
e baccelli di morte primavere
non si sfanno (vv. 2-6).
Esempi come questo, per i quali parlerei di disseminazione del modello, rappresentano quasi l’applicazione pratica della fenomenologia dell’accertamento
verbale; del resto, nel capitolo Su alcuni mottetti dei suoi Accertamenti montaliani, Orelli si sofferma, tra gli altri, anche sui versi di «Lo sai: debbo riperderti e
non posso…» rielaborati in L’ora del tempo.
Proprio sul filo del confronto tra un Orelli critico montaliano e uno poeta
montalista, occorre fermarsi al capitolo degli Accertamenti intitolato «L’anguilla»;19 Orelli vi analizza, da par suo, la trama fonica all’inizio de I limoni, che si
158
Un’altra fedeltà: Orelli e Montale
snoda tra sintagmi e vocaboli come pozzanghere mezzo seccate, ragazzi, viuzze,
gazzarre, azzurro:
Io per me, amo le strade che riescono agli erbosi
fossi dove in poZZanghere
meZZo seccate agguantano i ragaZZi
qualche sparuta anguilla:
le viuZZe che seguono i ciglioni,
discendono tra i ciuffi delle canne
e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.
Meglio se le gaZZarre degli uccelli
si spengono inghiottite dall’aZZurro:
più chiaro si ascolta il susurro
dei rami amici nell’aria che quasi non si muove,
e i sensi di quest’odore
che non sa staccarsi da terra
e piove in petto una dolcezza inquieta (vv. 4-17).
Non occorre trovare ricombinati tutti questi elementi per riconoscere, in
certi passi di Orelli, l’eco montaliana de I limoni: si sente, fin dal titolo, in Dove i
ragazzi ammazzano il gennaio (L’ora del tempo); si avverte forse ancora, in lontananza, in Sinopie, nei primi versi di A un amico («Perché la vacca / quella di pura
razza bruna / svittese e quella / pezzata»);20 si fa più chiara in Spiracoli, nella
«gran gazzarra» delle ghiandaie («Alter klang» II). Torna infine, forte come e
più che all’inizio, in Il collo dell’anitra: «una vasta pozzanghera s’attizza al sole.
Là, verso il centro del campo, pochi ragazzini si contendono il pallone nuovo»
(Ha smesso di piovere a dirotto…). Questo a riprova del fatto che l’emanciparsi
di Orelli dalla poetica montaliana non implica una rinuncia al dialogo e in certi
casi all’emulazione verbale; anche nelle ultime raccolte le tracce montaliane, certo meno sistematiche, sono comunque molto riconoscibili (a volerle scorgere)
e niente affatto inerti: di qui il senso della “fedeltà” che Orelli stesso dichiarava
nella dedica sull’esemplare di Sinopie e che basta a respingere l’invito a sbarazzarsi di Montale quando si leggono le poesie maggiori di Orelli.21
5. Certo, all’altezza di L’ora del tempo, i legami sono ancora molto più forti.
Oltre ai luoghi già segnalati, ne vanno ricordati alcuni altri, tipologicamente
rilevanti. Marcata ad esempio è la presenza di moduli prolettici e di elencazioni
ellittiche, che possono ispirarsi ai versi montaliani; l’elencazione, in particolare,
è funzionale alla poetica dell’oggetto assorbita dal primo Orelli. Agli esempi già
ricordati (Sera a Bedretto, Nel cerchio familiare), si può aggiungere qui, sempre
da L’ora del tempo, Lettera da Bellinzona:
Una fascina d’anni, una collina.
E il castello più alto.
159
Niccolò Scaffai
Tutto il grigio all’altezza dei colombi,
tutto il verde che scorre fino al grigio…
Ma oggi, senza desiderio, avendoti
come un’icone dentro il portafogli,
con incredibile piacere seguo
la verde traiettoria d’una stella filante,
scoccata dalla mano d’un ragazzo
fermo a metà dell’albero
della cuccagna, pago
di starsene così. L’aria rosata
che si raccoglie nella sua camicia,
il vespro a poco a poco
l’ha versata su tutta la collina (vv. 1-15).
Meno generiche sono certe clausole ritmico-sintattiche: per esempio, quella
formata dall’avverbio “quasi”, seguito da una negazione che entra in una sequenza quadrisillabica: come «In quest’alba che quasi non odora» (L’ora esatta,
in L’ora del tempo), da accostare ad analoghe clausole montaliane negli Ossi di
seppia, quali «nell’aria che quasi non si muove», o «che quasi non dà suono».
Montaliana è anche la clausola, specialmente a fine strofa, formata da una preposizione relativa seguita da un costituente verbale trisillabico,22 come in «Godi
se il vento…»: «nel fantasma che ti salva». Se ne trovano vari esempi in L’ora del
tempo: «Ogni sera c’è un vecchio che si sporge», «se ancora non c’è verde che le
accolga», «Non spaventare il figlio che maturi».
Un caso in cui si “festeggia” (adotto un verbo caro a Orelli critico) il riuso
del lessico montaliano, in un contesto tematicamente estraneo ma sintatticamente aderente alla fonte, è la poesia Per Agostino (in L’ora del tempo), i primi
versi della quale riecheggiano l’incipit di Su una lettera non scritta (in Finisterre):
Per un formicolìo d’albe, per pochi
fili su cui s’impigli
il fiocco della vita e s’incollani
in ore e in anni, oggi i delfini a coppie
capriolano coi figli?
(Su una lettera non scritta, vv. 1-5, corsivi miei)
Per noi silenziosi
e freddi nelle mani che toccano
le canne del fucile chiamerà
la luna il tasso fuori della tana?
Ora sono fuggiti gli scoiattoli
che si rincorrevano a coppie sui pini.
(Per Agostino, vv. 1-6, corsivi miei)
Raramente Orelli sembra spingersi all’assimilazione del Montale più irto, al
trobar clus dei versi più cifrati di Finisterre e della Bufera. Tra i pochi casi c’è
160
Un’altra fedeltà: Orelli e Montale
forse quello di Natale 1944 (che reca in epigrafe un passo da Isaia: «quare rubicunda sunt vestimenta Tua?»: più che il contenuto, è la fonte mistico-teologico
a richiamare certe zone della Bufera):
Ma qui la neve orma alcuna non serba
del sangue da Te sparso, d’ogni sangue
dagli uomini versato (vv. 2-4).
La memoria diretta è de Gli orecchini («Non serba ombra di voli il nerofumo /
della spera»), eventualmente incrociata con Iride: «il Volto insanguinato», «l’opera tua (che della Sua è una forma)».
6. Se, nella maggior parte dei casi su cui ci siamo fermati, Orelli si mostra solidale al suo modello, in altri sa reagirvi, per esempio scendendo di tono e producendo così un abbassamento che quasi anticipa il “rovescio” del Montale tardo,
da Satura in poi.23 È quello che sembra accadere in Lettera da Bellinzona, già
prossima, per la finzione epistolare, a Notizie dall’Amiata; ma la grande lirica
delle Occasioni pare ironicamente richiamata soprattutto dall’«icone dentro il
portafogli», quasi una versione tascabile dell’icona dal «fondo luminoso» delle
Notizie montaliane.
Fuoruscito «dal cono d’ombra di un culto totalitario»,24 o totalizzante, Orelli, da Sinopie in poi, dà uno sviluppo diverso alla propria poetica e al proprio
stile: si lascia alle spalle il sistema delle Occasioni e di Finisterre, orientandosi
verso toni e forme postlirici, verso uno sperimentalismo temperato, ora vicino
alla linea lombarda (in cui venne precocemente inserito da Anceschi), ora in dialogo con autori anche non italiani. La tematica civile e un più diretto impegno
nel presente contribuiscono a dare sostanza a questa svolta, grazie alla quale la
voce di Orelli, già forte, diventa riconoscibile nel panorama non solo italiano
e svizzero, ma europeo. In un contesto così rinnovato, la funzione di Montale
retrocede: non è più il canone (vorrei dire: il Super Io poetico di Orelli) ma
resta un ascendente. Riemergono qua e là dei tratti, come i connotati familiari
sul volto di un parente; se ne studiano le posture, magari quelle più marcate e
valorizzabili sul piano sperimentale, per rifarle come omaggio e insieme come
caricatura: così avviene, mi pare, per le varie poesie “a colata unica”, cioè i lunghi componimenti di un solo periodo sintattico, sull’esempio di Corno inglese e
soprattutto dell’Anguilla. È un omaggio distintivo di questa natura la poesia che
apre Sinopie, cioè La trota che – come ha scritto Pietro De Marchi – «può essere
letta come una “riscrittura”, più in sordina, meno ambiziosa se si vuole, meno
carica di simboli, dell’Anguilla […]. Quello della Trota è insomma, a livello formale e tematico, un Orelli postmontaliano ma non antimontaliano».25
Sono invece più occasionali connotati montaliani certe locuzioni come «gli
porti fili d’erba» (A Giovanna, sulle capre), memore di Lindau (nelle Occasioni):
«La rondine vi porta / fili d’erba»; o come «s’accende di sole / sull’omero destro», da confrontare con L’estate (ancora Le occasioni): «Ecco l’òmero acceso,
161
Niccolò Scaffai
la pepita / travolta al sole». Suona montaliana, inoltre, la clausola di A un cattolico («fa’ che non vi rintocchi una frivola pendola. Addio»), tra L’ombra della
magnolia… (il verso finale, con lo “scalino” prima di “Addio”: «saltato in secco
al novilunio. Addio») e Costa San Giorgio («Se una pendola rintocca / dal chiuso
porta il tonfo del fantoccio», vv. 30-31).
Non mancano però, anche in Sinopie, episodi di montalismo più pervasivo,
come in Dopo Lucca, che può apparire un abilissimo pastiche tematico-ritmicolessicale su note montaliane:
Tu credevi che fosse uno scherzo del vento
controcorrente: fitti argenti, scompigli
d’un attimo, là, presso gli scogli del molo.
Ma erano le acciughe: lontano dai pesci più grossi
Facevano bizze stupende fingendo le rondini quando
s’impennano nel volo e virano, le foglie
dei gàttici, la gola del ramarro.
le punte dei piedi d’Ilaria
toccate da una luce di bufera.
Ma i versi orelliani che, sul piano tipologico, meglio illustrano la nuova funzione di Montale sono quelli in cui emerge il tono ironico, se non satirico, già
annunciato discretamente in poesie più antiche, come nella citata Lettera da
Bellinzona. L’ironia non investe il modello, ma conta sulla sua riconoscibilità
con fini parodici: è un Montale, dunque, che non provoca ansia di influenza, ma
è festeggiato ormai per la proverbialità dei suoi versi. Così, ad esempio, in A un
piccolo borghese:
Rifiuto lo stupido iddio che ti sei fatto a tua immagine,
l’idolo che t’aiuta a far tornare i conti,
ma ti comprendo, tu sei della razza di quelli
che né “peste” né “cardinale” riescono a mutare (vv. 11-14),
dove si sente un’eco da Gli orecchini («fuggo / l’iddia che non s’incarna») e da
Falsetto («la razza di chi rimane a terra»); si consideri, peraltro, che subito prima
dei versi citati la poesia di Orelli descrive «bottiglie vuote al sole»: non proprio
«cocci aguzzi», ma l’evocazione dell’imagery montaliana è comunque prossima.
E a proposito d’ironia, con versi come quelli di (Infallibilità. Buchi. Talidomide),
siamo in piena atmosfera da Satura, con le venature scettiche e umoristiche di
una teologia da gazzetta tipicamente tardo-montaliana: «Venuta la canicola. Ne /
profitta il Sant’Uffizio / per mettere i puntini sugl’i».
Queste linee o tendenze proseguono senza variazioni sostanziali nelle ultime
due raccolte, Spiracoli e Il collo dell’anitra; a cominciare dalla probabile memoria montaliana che si affaccia all’inizio di Spiracoli, in «Alter klang»:
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Un’altra fedeltà: Orelli e Montale
Era il tempo dei lunghi riposi, dei corvi turchini
sempre ricchi di scuse sui sentieri da capre.
Sembrava facile allora aggirarsi fra i Chiodi
della Passione, se pure più d’un tronco inaridito
pareva un Sebastiano trafitto in fretta da troppe
frecce, e, con colpi di ramo intorno intorno (vv. 1-6),
dove «i sentieri da capre» duplicano il quasi identico sintagma in Voce giunta
con le folaghe e la locuzione «Sembrava facile…» può rimandare sia a Il balcone
(«Pareva facile giuoco…»), sia a L’ombra della magnolia… («Spendersi era più
facile»), che sembra evocata anche dal verso «Era il tempo dei lunghi riposi»:
oppositio in imitando rispetto ai vv. 4-5 della lirica montaliana: «Non è più / il
tempo dell’unísono vocale».
La tecnica dell’accertamento, sperimentata su Montale proprio negli anni
di stesura di Spiracoli, permette di isolare qualche altro luogo, pur distante per
situazione e tema dalla fonte verbale. Come nella sesta poesia di Cardi: «Col
silenzio di cento ramarri / e tremito a sommo d’avide punte di luppolo»; nella
quale, tralasciando il già montaliano e dantesco «ramarro», quel che più conta è
la combinazione di «tremito» e «a sommo», che recupera dagli Ossi un verso di
Falsetto: «Esiti a sommo del tremulo asse» (v. 46). È da notare che le note di Spiracoli, pur generose nel suggerire fonti, non fanno mai menzione di Montale, a
conferma di come l’allusività, quando c’è, dipende dalla pratica verbale più che
dall’intenzione di dialogare con un modello. Eppure, saremmo ancora tentati di
seguire nei guizzi delle Anguille del Reno la scia dell’Anguilla montaliana che
già, con maggiore evidenza, aveva influito sulla Trota di Sinopie…26
7. L’ultimo caso su cui fermarsi riguarda, in Il collo dell’anitra, l’unica apparizione di Montale, nominato come figura empirica in Raccontino 1947. Per la verità,
il personaggio principale della poesia è un altro scrittore, Francesco Chiesa; ma
nella seconda parte del Raccontino si legge:
Volevo un picchio verde sul mio tavolo
e andai nel bosco per prenderlo
e l’ebbi presto nel mirino: tranquillo
in cima a un larice, taceva, ma un attimo prima
che sparassi fuggì con quel suo trillo
che tanto piacque a Montale (II, vv. 1-6).
Capita – è successo del resto allo stesso Montale – che un poeta, alla svolta delle sue ultime opere, chiami per nome i suoi autori. Di quale trillo parla
Orelli? Alla memoria tornano «il trillo d’aria» di «Infuria sale o grandine?…», il
«trillo che punge le vene» di Nel parco, o magari «la capinera che dà un trillo»
nel Quaderno di quattro anni. Ma viene da pensare soprattutto alle situazioni di
caccia evocate in molte poesie di Orelli, come Lo stagno, con il volo del picchio
163
Niccolò Scaffai
e il colore verde, già lì associati. C’è da ricordare inoltre che il 1947, evocato nel
titolo del Raccontino, è anche l’anno in cui Orelli incontrò Montale, che tenne
in gennaio una conferenza a Lugano. Ne dà testimonianza lo stesso Orelli nel
brano L’ozono di Montale, citato qui all’inizio;27 a quella circostanza si riferisce
anche una fotografia, che ritrae al centro Montale e ai lati, tra gli altri, Pino Bernasconi, Gertruden Frankl e, svettante alla destra sopra tutti gli altri, un giovane
Orelli.28 La donna, Gertruden, è Gerti, la protagonista della celebre poesia delle
Occasioni. Montale, come racconta Orelli, «non la vedeva da anni, e quando,
durante la conferenza al Liceo, se la ritrovò d’improvviso sotto gli occhi giusto
nel momento in cui parlava della famosa lirica, s’interruppe». «Pensa che non le
ho mai dato un bacio – avrebbe confessato quella stessa sera Montale – era come
un uccellino […]. Scriverai del mio incontro con Gerti». E Orelli ne avrebbe
scritto, nel suo breve ricordo. Ma certo anche in quel trillo «che tanto piacque»
al poeta c’è il segno di un incontro, di un’altra evocazione del lontano ’47: l’incontro con Montale, con la sua proverbiale predilezione per gli animali curiosi
da cui emanava la presenza assente delle sue ispiratrici.
Il legame di Orelli con Montale non è, perciò, un oggetto di speculazione
erudita, che sottrarrebbe all’uno e all’altro poeta l’impronta originale e irripetibile del genio (son questioni e timori che, dai tempi della critica di Croce ai
positivisti, ci siamo lasciati alle spalle). Il punto è che per capire, talvolta anche
letteralmente, Orelli e trasmetterlo, magari attraverso l’insegnamento, non si
può fare a meno di Montale. Quel legame non è un limite, è il segno di un’altra
fedeltà, alla poesia.
L’ozono di Montale, in G. Orelli, I giorni della vita, a cura di P. De Marchi, con la
collaborazione di S. Soldini, Museo d’Arte, Mendrisio 2011, p. 49.
2
Ora in E. Montale, Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, a cura di G. Zampa, Mondadori, Milano 1996, p. 2042.
3
Il repertorio degli scritti di Orelli su Montale è ora più facilmente percorribile grazie alla Bibliografia degli scritti su Eugenio Montale (1925-2008), a cura di F. Castellano, S.
D’Andrea, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2012 e soprattutto grazie alla Bibliografia di
Giorgio Orelli, a cura di P. Montorfani, con la collaborazione di Y. Bernasconi, Edizioni Cenobio, Lugano 2014. Limitandosi ai soli contributi a stampa (alcuni dei quali poi confluiti nel
volume degli Accertamenti montaliani, il Mulino, Bologna 1984), si ricordano: Su una lirica
di Eugenio Montale, in “Il Dovere”, 20 aprile 1950, p. 5 [lettura di Da un lago svizzero]; Letture di poeti. Poesie d’oggi [Montale, Cardarelli, Penna], in “L’educatore della Svizzera italiana”, XCV (1953), 5-6, maggio-giugno, pp. 33-39; «L’upupa» e altro, in “Strumenti critici”, V
(1971), 15, pp. 237-63; Aderenza di Montale, in “Scuola Ticinese”, IV (1975), 40, novembre,
pp. 3-4; A un amico, in I poeti a Montale, Comune di Genova-Provincia di Genova, Genova
1976, pp. 16-17; L’anguilla, in Profilo di un autore. Eugenio Montale, a cura di A. Cima, C.
Segre, Rizzoli, Milano 1977, pp. 70-90 [II ed. Bompiani, Milano 1996, pp. 57-77]; Tra le
poesie dell’ultimo Montale, in “Bloc notes”, I (1979), 1, ottobre, pp. 93-108; Studi montaliani
di Lonardi, in “Corriere del Ticino”, 20 dicembre 1980, p. 36 [recensione di G. Lonardi, Il
Vecchio e il Giovane e altri studi su Montale, Zanichelli, Bologna 1980]; Montale di Isella, in
“Corriere del Ticino”, 11 aprile 1981, p. 36 [recensione di E. Montale, Mottetti, a cura di D.
1
164
Un’altra fedeltà: Orelli e Montale
Isella, Il Saggiatore, Milano 1980]; Eugenio Montale, in “Cooperazione”, 24 settembre 1981,
p. 3; L’ozono di Montale, in Eugenio Montale. Immagini e documenti, a cura di C. Negri, con la
collaborazione di G. M. Erbesato, Biblioteca Cantonale di Lugano-Libri Scheiwiller, LuganoMilano 1985, pp. 11-12; Allibisco all’alba [accertamenti su Dante, Petrarca, Leopardi, Ungaretti, Montale, Sereni], in “Corriere del Ticino”, 6 febbraio 1988, p. 31; Per uno scandaglio
montaliano, in “Corriere del Ticino”, 31 dicembre 1993, p. 50; Nel ricordo di Giorgio Orelli
15 liriche e un incontro fatale [su Finisterre], in “Giornale del Popolo”, 13 dicembre 1995,
p. 32; Celebrando Montale, in “La Regione Ticino”, 12 ottobre 1996, pp. 1 e 30; Montale
e Montale, in “Autografo”, XIII (1997), 34-35, gennaio-giugno, pp. 9-14; Un gioco per chi
ama i gialli [sul Diario postumo], in “Giornale del Popolo”, 23 luglio 1997, p. 33; Montale,
dopo, in “La Regione Ticino”, 28 luglio 1997, p. 2; La mostra non scioglie i dubbi [sul Diario
postumo], in “La Regione Ticino”, 25 ottobre 1997, p. 35; Perle e sabbia dell’ultimo Montale,
in “Moderna”, I (1999), 1, giugno, pp. 215-223; I falchi di Montale, in Del modo di insegnar
presiedendo senza campanello. Studi in ricordo di Giulia Gianella, a cura di F. Beltraminelli,
Liceo cantonale-Casagrande, Bellinzona 2006, pp. 181-188.
4
Mi riferisco qui in particolare agli studi di S. Agosti, Poesia italiana contemporanea, Bompiani, Milano 1985 («il colore che guarda il Soggetto, è anche ciò che resta quando la forma
dell’oggetto non esiste più», p. 86) e di M.A. Grignani, Deriva dell’identità, in Ead., La costanza
della ragione. Soggetto, oggetto e testualità nella poesia italiana del Novecento, Interlinea, Novara
2002 («Orelli dichiara ugualmente la fine del soggetto ombelico dell’universo e dunque anche
la fine della pienezza semantica dell’immagine o correlativo oggettivo», p. 103).
5
Così lo stesso Orelli nella voce “Febbraio” del postumo Quasi un abbecedario, a cura di
Y. Bernasconi, Casagrande, Bellinzona 2014.
6
Poeti del Novecento, a cura di P.V. Mengaldo, Mondadori, Milano 1978, p. 818.
7
G. Simonetti, Dopo Montale. Le «Occasioni» e la poesia italiana del Novecento, Maria
Pacini Fazzi editore, Lucca 2002, p. 324.
8
Cfr. P. Pellini, Il san buco e i sentieri da capre. Sulla poesia di Giorgio Orelli, in Id., Le
toppe della poesia. Saggi su Montale, Sereni, Fortini, Orelli, Vecchiarelli, Manziana 2004, pp.
241-257.
9
S. Bozzola, Strutture strofiche e versificazione nella «Bufera», in Id., Seminario montaliano, Bonacci, Roma 2006, p. 94. Sulla fortuna di questa figura sintattica in Orelli e in genere
nella poesia postmontaliana, si veda ancora G. Simonetti, Dopo Montale, pp. 251 ss.
10
Rimando per quest’aspetto al mio Sul tempo in Montale (con un’interpretazione di Finisterre), in Il tempo e la poesia. Un quadro novecentesco, a cura di E. Graziosi, Clueb, Bologna
2008, pp. 109-127.
11
Lo nota già G. Simonetti, Dopo Montale, p. 338.
12
Cfr. Y. Bernasconi, «Afferrati ad un lembo / della vita». Qualche spunto per leggere
«Nel dopopioggia» di Giorgio Orelli, in “Bloc notes”, 64 (2014), pp. 39-44. Di Bernasconi si
veda l’edizione commentata di L’ora del tempo in cui sono annotati vari riscontri intertestuali
con l’opera di Montale: il lavoro, ancora inedito per il momento, è stato discusso come tesi di
dottorato all’Università di Friburgo nel giugno 2013 (direttore: Alessandro Martini).
13
I corsivi nelle citazioni dalle tre poesie sono miei.
14
V. Sereni, In margine alle «Occasioni» (1940, in Letture preliminari), ora in Id., Poesie e
prose, a cura di G. Raboni, Mondadori, Milano 2013, p. 817.
15
Si veda il commento a Nel cerchio familiare nella sezione orelliana, a cura di G. Jori,
nell’Antologia della poesia italiana, diretta da C. Segre, C. Ossola, Einaudi-Gallimard, Torino
1999 (poi, in edizione tascabile, Einaudi, Torino 2003: Novecento, tomo II, pp. 922-923). Dal
canto suo, M. Danzi, Esegesi d’autore e memoria di sé: Giorgio Orelli fra prosa e poesia, in
“Autografo”, VI (1989), 19, p. 15, ha notato come i «prati intirizziti» si accostino ad analogo
sintagma in Farfalla di Dinard, il racconto che dà il titolo alla raccolta di prose montaliane del
’56: «Era improbabile che l’algida estate bretone suscitasse dai verzieri intirizziti tante scintille tutte eguali, tutte dello stesso colore» (E. Montale, Prose narrative, a cura di N. Scaffai,
Mondadori, Milano p. 226, corsivo mio).
165
Niccolò Scaffai
16
Su Nel cerchio familiare esiste un lungo autocommento in cui Orelli insiste in particolare
sull’immagine dei «morti più vivi dei vivi»: «Il mio villaggio m’appariva come un luogo in cui i
morti erano più vivi dei vivi; dalla qual cosa derivava non solo un’infinita pietà dei vivi e di me,
sì anche, anzi soprattutto, uno stato d’animo per cui mi sentivo come al margine del nulla, in
un’aria non giusta, in una luce non giusta, eccessiva, che tingevano d’assurdo il quotidiano, in
modo insopportabile (come insopportabili sono certi disturbi detti, se non erro, psicomotorii,
che precedono e accompagnano ogni esaurimento nervoso rispettabile). […] Venne anche il
giorno che fu di nuovo possibile per me scrivere del mio paese: scrissi una poesia di nemmeno
trenta versi, ma che mi sembrava lunghissima. Sono quattro strofe, o meglio momenti, diversi
e inseparabili. Nella prima c’è soprattutto immobilità, tutto sembra raggelato in una luce funerea (ma scrivendo “in questa conca / scavata con dolcezza dal tempo” pensavo a mia madre):
“Una luce funerea, spenta / raggela le conifere / dalla scorza che dura oltre la morte, / e tutto
è fermo in questa conca / scavata con dolcezza dal tempo: / nel cerchio familiare / da cui non
ha senso scampare”. Il secondo momento è occupato dai morti più vivi dei vivi. C’è un interno
leventinese e un’allusione al mito (diciamo così) della razza bruna. (Le capre ingorde che accade
di vedere d’inverno a Prato Leventina sono quelle dei dalpesi. Prato è il paese che per anni fu
onorato dalla presenza della più bella vacca del cantone. Eccetera, eccetera): “Entro un silenzio
così conosciuto / i morti sono più vivi dei vivi: / da linde camere odorose di canfora / scendono
per le botole in stufe / rivestite di legno, aggiustano i propri ritratti, / tornano nella stalla a rivedere i capi / di pura razza bruna”. Il terzo momento comincia con un ma abbastanza improvviso
(e isolato): pensare uno che, come per richiami interni, contempla. Io contemplo la vita, voglio
dire una vita fuori di me, di ragazzi che sono anche proiezioni di me stesso ragazzo (ricordo non
solo il gusto che tutti i ragazzi di questo mondo hanno dell’avventura, ma anche la situazione
particolare dei pochissimi ragazzi del mio paese, la loro noia, il loro cercare e inventare e ubbidire ai richiami, ai carillons più impreveduti): “Ma, / senza ferri da talpe, senza ombrelli / per impigliarvi rondini; / non cauti, non dimentichi in rincorse, / dietro quale carillon ve ne andate, /
ragazzi per i prati intirizziti?” È una sorte d’“allegro moderato”, cui segue un movimento molto
lento. Infatti, l’ultima parte si compone di versi brevi e lunghi separati da punti fermi di natura
più riflessiva che contemplativa». In questo stesso scritto, peraltro, Orelli usa anche il vocabolo
“trabocchetto” (sia pure in un contesto diverso da quello dell’Arca montaliana: Orelli parla
infatti di «trabocchetti crociani»). Lo scritto venne pubblicato in C’è un solo villaggio nostro, a
cura di P.R. Frigeri, prefazione di F. Filippini, Edizioni Cenobio, Lugano 15 agosto 1972, pp.
137-141. Ringrazio per la segnalazione Pietro Montorfani, che ripubblica il testo in questi atti,
alle pp. 291-293.
17
P.V. Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, p. 818. Anche E. Testa, Dopo la lirica.
Poeti italiani 1960-2000, Einaudi, Torino 2005, riconduce a Montale (e a Pascoli) l’«esercizio
nomenclatorio» di Orelli (p. 127).
18
Cfr. G. Simonetti, Dopo Montale, pp. 92-93.
19
G. Orelli, Accertamenti montaliani, pp. 79-94.
20
Del resto, nella nota di autocommento finale, Orelli riconnette questi versi proprio a
Montale, più precisamente al Quaderno di traduzioni: «“pezzata” ecc. è insomma il rovescio
di “i cieli bicolori, pezzati come vacche” di Hopkins nella versione di Montale (cfr. “La bellezza cangiante” nel Quaderno di traduzioni, Milano 1975)» (G. Orelli, Sinopie, Mondadori,
Milano 1977: Note, p. 92). Si ricordi peraltro che A un amico era stata anticipata proprio nel
volume I poeti a Montale (Genova, 1976): si veda qui, più sopra, la nota 3.
21
Cfr. A. Porta, Poesia degli anni settanta, Feltrinelli, Milano 1979, p. 76: «è possibile
che Orelli sia stato molto vicino a Montale, come suggerisce la critica, ora mi pare che non
vi siano più legami e che occorra sbarazzarsi, alla luce di quest’opera uscita felicemente nel
decennio, di questa ottica ormai deformante».
22
G. Simonetti, Dopo Montale, p. 374.
23
L’ha notato già A. Roncaccia, Appunti per rileggere il primo Orelli, in Id., Il luogo delle
muse. Saggi di letteratura contemporanea, Fabrizio Serra Editore, Pisa-Roma 2010, pp. 37-41.
24
M. Raffaeli, Novecento italiano. Saggi e note di letteratura (1979-2000), Sossella, Roma
2001, p. 168.
166
Un’altra fedeltà: Orelli e Montale
25
P. De Marchi, Dove portano le parole. Sulla poesia di Giorgio Orelli e altro Novecento,
Piero Manni Editore, Lecce 2002, p. 71.
26
Id., L’anguilla di Montale e le sue sorelle. Sulla funzione poetica della sintassi, in “Testo.
Rivista di teoria e storia della letteratura e della critica”, n.s., XXVI (2005), 50, pp. 73-91.
27
Si veda anche la lettera di Montale a Contini del 10 febbraio 1947: «Ringrazia anche
Orelli», scrive il poeta alla fine della lettera, incentrata sul suo recente soggiorno in Svizzera,
«se lo vedi: poi gli scriverò» (Eusebio e Trabucco. Carteggio di Eugenio Montale e Gianfranco
Contini, a cura di D. Isella, Adelphi, Milano 1997, p. 161).
28
«Montale, frequentatore parco ma fedele di Lugano, vi si recò per una lettura dei suoi
versi nel 1947, e nell’occasione gli amici gli fecero un poco di festa. Qui è ritratto dall’obiettivo di Vicari, in Viale Cattaneo. Da sinistra si notano: Pietro Salati, Renato Regli, Pino Bernasconi, Montale, Gerti, cui il poeta aveva dedicato una poesia tra le più belle (“Il carnevale
di Gerti”), e Giorgio Orelli» (“Il Cantonetto”, XIV (1967), p. 14). In seguito, la foto è stata
riprodotta in altre sedi, per esempio a corredo dell’articolo Aderenza di Montale e dello stesso
pezzo L’ozono di Montale, in G. Orelli, I giorni della vita.
167
GIOVANNI FONTANA
«Gli occhi attenti, contro stipiti saldi, duraturi»
Orelli e Luzi
La relazione fra Giorgio Orelli e Mario Luzi, legati da un’amicizia e da una
stima reciproca di cui offrono una parca, ma significativa testimonianza le lettere recentemente esposte nella mostra mendrisiense intitolata Mario Luzi. Le
campagne, le parole, la luce,1 è anche il rapporto fra due raffinatissimi lettori
di poesia, che si sono esercitati, sia pure con frequenza e intensità disuguale,
l’uno sulla pagina dell’altro. La prima parte del nostro intervento sarà dedicata
a questo aspetto del sodalizio Orelli-Luzi, che riteniamo possa offrire delle indicazioni preziose anche in vista di un’analisi dei rapporti profondi esistenti fra i
due percorsi poetici individuali.
Luzi è intervenuto una sola volta pubblicamente sulla poesia di Orelli, in una
testimonianza apparsa sul “Corriere del Ticino” il 3 settembre del 1988 in occasione del conferimento al poeta ticinese del prestigioso Gran Premio Schiller.2
Lodato «il lavoro serio e concentrato di un’esistenza discreta», Luzi attira l’attenzione su quella che gli appare la qualità principe dell’Orelli poeta, lo «spirito
di precisione», invocato non per «introdurre surrettiziamente il sigillo dell’elveticità, a cui forse neppure lui darebbe eccessiva importanza, ma per esaltare
quell’estrema delicatissima esattezza che consente a un qualunque dato del senso e dell’esperienza di essere per un attimo, in quell’attimo, vero, cioè pieno di
esistenza (di realtà, diciamo pure) e tracimante quanto al significato». «Molto»,
prosegue Luzi, «il non detto perché il geloso e affabile dire» di Orelli «non si
lasci sfuggire la grazia istantanea di quella precisione che lo fa essere tale. Quella
di Orelli è essenzialmente un’assidua sottile fervida vigilanza affinché quella disattenzione non accada. La esercita sul proprio corso e discorso, essa a sua volta
sottilmente li provoca e li alimenta. La istituisce come criterio e la mobilita come
animatissima caccia nei suoi straordinari saggi, nelle sue mirabili analisi testuali,
che rispondono così bene alle ragioni del suo poetare».
L’Orelli di cui si ragiona in quest’articolo è essenzialmente l’autore di Sinopie, colto alla vigilia della pubblicazione della sua terza, grande raccolta (Spiracoli, 1989); eppure le categorie critiche con cui Luzi misura la sua esperienza
sembrano tarate ancora su L’ora del tempo, come rivelano gli impliciti rimandi
all’“esercizio nomenclatorio”, alla “precisa designazione del dato” di ascendenza pascoliana e montaliana, all’“intensità emblematica” (non simbolica) degli
oggetti che la poesia ritaglia, su cui si sono soffermati molti lettori3 – categorie
che, pur applicandosi in parte anche a Sinopie, non rendono pienamente ragio-
169
Giovanni Fontana
ne della complessità e della ricchezza della raccolta. C’è, è vero, in questa prosa d’occasione un (timido) segnale d’apertura alle peculiarità del nuovo corso
orelliano (il riferimento a un dire «affabile»), ma, nel complesso, lo sguardo del
lettore appare (quasi nostalgicamente) volto all’indietro, a un Orelli che sempre
più appartiene al passato.
Più folte le testimonianze dell’interesse critico di Orelli per Luzi, distribuite
sull’arco di più di quarant’anni, a testimonianza di una “lunga fedeltà”.
Il primo intervento appartiene al versante “sommerso” della produzione critica di Orelli su cui ha attirato – meritoriamente – l’attenzione la ricchissima
Bibliografia allestita da Pietro Montorfani in occasione del primo anniversario
della scomparsa del poeta:4 su una delle testate locali con cui inizia a collaborare
nel dopoguerra – “L’educatore della Svizzera italiana” – Orelli pubblica infatti
nel 1954 una lettura di Notizie a Giuseppina dopo tanti anni (da Primizie del
deserto, 1952)5 che sarà ripresa, qualche mese più tardi, con alcune varianti, su
“La Fiera letteraria” e su “Gazzetta ticinese”,6 ma, come tutti i saggi di questa
fase aurorale, non supererà il severo vaglio critico degli Accertamenti verbali.
Diversa sorte tocca al secondo contributo critico luziano di Orelli, lo splendido Sul «mentre» nella poesia di Mario Luzi, che appare su “Strumenti critici”
nel febbraio del 19707 e otto anni più tardi, dopo essere stato «rimesso in cantiere» dall’autore, subendo modifiche e aggiunte che ne fanno in gran parte un
testo diverso, non solo è ammesso fra gli Accertamenti, ma è investito del compito di suggellare la raccolta a cui Orelli consegna la propria prima immagine
coerente di critico letterario allineato alle tendenze più innovative della ricerca
italiana ed europea.8
Nel 1995, infine, in occasione di una giornata di studio organizzata dall’Università di Firenze per celebrare gli ottant’anni del poeta, Orelli tiene una conferenza intitolata significativamente Accertamento luziano: «Dalla torre», che due
anni più tardi sarà pubblicata negli atti del convegno.9
I tre (o, se si vuole, i quattro) interventi orelliani sono assai diversi nel taglio,
nell’approccio critico ai testi (come vedremo fra breve), ma testimoniamo in maniera coerente di un interesse per la grande stagione post-ermetica di Primizie
del deserto, Onore del vero, Dal fondo delle campagne e Nel magma: il che, sia
detto subito (anticipando le conclusioni di un ragionamento che svilupperemo
minutamente più avanti) non è senza importanza, dato che questo segmento del
percorso di Luzi presenta più di un’affinità con la produzione orelliana degli
anni cinquanta-sessanta, fra Poesie, L’ora del tempo e le prime Sinopie.
L’Orelli lettore di Notizie a Giuseppina dopo tanti anni:10
Che speri, che ti riprometti, amica,
se torni per così cupo viaggio
fin qua dove nel sole le burrasche
hanno una voce altissima abbrunata,
di gelsomino odorano e di frane?
170
5
Orelli e Luzi
Mi trovo qui a questa età che sai,
né giovane né vecchio, attendo, guardo
questa vicissitudine sospesa;
non so più quel che volli o mi fu imposto,
entri nei miei pensieri e n’esci illesa.
10
Tutto l’altro che deve essere è ancora,
il fiume scorre, la campagna varia,
grandina, spiove, qualche cane latra,
esce la luna, niente si riscuote,
niente dal lungo sonno avventuroso.
15
è un critico attento alla dimensione formale dei testi, indagata con gli strumenti
della critica stilistica e auscultata con l’orecchio del poeta. L’attacco del saggio
è, da questo punto di vista, assai eloquente:
Luzi esita tra un linguaggio che non rifiuta, anzi sembra esigere l’“incompiuto” (suggerirei, per usare la metafora regalatami da Vittoria Guerrini, di pensare alla Pietà Rondanini) e un linguaggio in cui il presupposto ideologico coincide rapido con una forma
perfettamente conclusa, sferica: Primizie del deserto, forse il libro più importante, il suo
punto medio, concilia un viaggio in queste due direzioni.
Nella seconda cadono le liriche più brevi, come Notizie a Giuseppina dopo tanti anni,
componimento striato di un’angoscia esistenziale che par stemperarsi in una malinconia
piena di nerbo. Voce d’uomo solo che assiduamente interroga e si confessa con toni
dimessi (non crepuscolari), naturalissimi e insieme toccati da un’eleganza rara.
Il primum è dunque l’individuazione di un timbro di «voce» (vera parolachiave del saggio) – il tono «limpidamente accorato» di un «canto che non singhiozza», posto, fin dalle prime battute, sotto la costellazione di Petrarca e (più
sorprendentemente) di Kafka.11
I paragrafi che seguono mirano da lato a illuminare il carattere metafisicoesistenziale del bilancio stilato dall’io lirico di Notizie, in cui il termine «vicissitudine […] si sfronda di ogni senso di esterna avventura» e fotografa una precaria condizione «dello spirito», sospesa «fra essere e non essere» («né giovane né
vecchio»), e dall’altro a inventariare le strutture formali, gli stampi “naturalissimi” in cui è colata questa materia incandescente.
Così la figura femminile che innesca la riflessione può dirsi «presente e insieme remota», colta «auf halbem Weg, viva in una zona che lo stupore, un’insopprimibile gratitudine e la pietà di sé, nonché “l’ora del tempo”, isolano prodigiosamente», sullo sfondo di «burrasche» che non hanno nulla di «pittoresco»
e parlano esclusivamente all’«intelletto» – mentre i versi della prima strofa (una
“quartina” dilatata «da una segreta piena che la fa traboccare») assecondano il
ritmo del «cupo viaggio».12
Analogamente, l’apertura al «mondo» della strofa finale («a un mondo di cui
tutto può rattristare, fuor del quale tutto può rattristare») è letta sulla falsariga
171
Giovanni Fontana
del Dialogo di un folletto e di uno gnomo di Leopardi e di un passo di una lettera
di Foscolo al Giovio come un riaffacciarsi agli «inganni consueti» e auscultata
nella sua partitura ritmica, sottilmente mimetica.13
Nel passaggio da “L’educatore della Svizzera italiana” a “La Fiera Letteraria” il saggio è amputato di un paragrafo su cui val la pena di soffermarsi. Appena prima della conclusione, Orelli così descrive l’andamento della terza strofa:
Scorre, varia: verbi della «vicissitudine sospesa». «Tutto l’altro», rammentato con una serie così rapida di avvenimenti (come molti giorni in uno), riporta la mente a certe «liste»
del Petrarca. Pure, tutto cade in un ordine preciso, sicché non è distrutta l’impressione
d’uno che coglie una realtà vera fuori dalla mente e la registra senza violare le leggi che la
governano. Una visione esatta: lo sguardo segue il fiume che scorre (tornano a memoria
certo disegni di Leonardo), poi spazia sulla campagna (l’a di campagna ulteriormente
aperto dall’a di varia). Ciò vale anche per «qualche cane latra».14
L’espunzione del riferimento al mondo «fuori della mente» rende più coerente la lettura “anti-naturalistica” (metafisico-esistenziale) del testo luziano,
ma occulta un rilievo prezioso sulla scaturigine nascosta della poesia, su quel
corto-circuito fra esperienza e scrittura senza il quale il verso, pur internamente
modellato dentro gli stampi della tradizione (le condensatissime «liste» di Petrarca), non potrebbe darsi. È l’appunto di un poeta in margine al testo di un
poeta, che illumina una zona del laboratorio creativo inaccessibile a occhi meno
esercitati dove si definisce non solo una grammatica della visione, ma anche un
rapporto fra immagini e suoni, che è indagato qui per la prima volta con un
approccio cauto, sperimentale, non ancora affinato nella fucina formalisticostrutturalista.
Questa riflessione che Orelli sembra fare fra sé e sé, ragionando su Notizie,
certo, ma anche sulla propria poesia (così affine – come vedremo – a quella di
Primizie del deserto…), può trovare spazio nella dimensione domestica e appartata della rivista pedagogica ticinese, ma non nella sede più esposta e prestigiosa
della “Fiera Letteraria”, dove il critico torna a prevalere sul poeta.15
Nell’una e nell’altra sede manca qualsiasi riferimento esplicito al nume tutelare del Luzi di Primizie, T.S. Eliot, da cui deriva l’immagine «né giovane né
vecchio» che Orelli negli stessi anni di Notizie inserisce nella sua Prima dell’anno nuovo…16
Sul «mentre» nella poesia di Mario Luzi rappresenta, da più punti di vista, un
unicum all’interno degli Accertamenti verbali. Proviamo a definire i contorni di
questa felice anomalia. In primo luogo, quello sul mentre è l’unico saggio fra
quelli raccolti nel volume che insegua il percorso poetico di un quasi-coetaneo,
intervenendo sull’attualità di una ricerca in fieri, con progressive messe a punto e tempestivi aggiornamenti. Secondo. Diversamente da tutti gli altri pezzi
confluiti negli Accertamenti – e in parziale dissonanza rispetto all’introduzione
teorica Ritmi, timbri, disegno del pensiero – il saggio pone sotto la lente d’in-
172
Orelli e Luzi
grandimento non il lavoro sul significante, bensì la funzionalità di una struttura
sintattica riconosciuta come mot clé della raccolta Nel magma17 (e delle raccolte
limitrofe) e connessa con una nuova visione del mondo, con una singolare disposizione nei confronti del tempo, della natura, dell’altro.18 Terzo. Il discorso
procede, per larghi tratti del saggio, per micro-esegesi testuali che mettono in
primo piano l’istanza semantica, la struttura tematica dei componimenti in esame, quale si definisce, appunto, attraverso usi peculiari del mentre o di legamenti affini (una delle particolarità dell’articolo è, per inciso, quella di studiare non
solo i casi in cui il mentre è effettivamente impiegato, ma anche tutti i contesti
in cui la sua presenza è puramente virtuale e la congiunzione «funziona per il
vuoto che lascia»).
Non possiamo in questa sede ricostruire minutamente il diagramma di questo splendido saggio: basti dire che, dopo aver riconosciuto nell’impiego del
mentre un comportamento stilistico premeditato che s’inserisce «nella prospettiva semiotica più caratteristica del nostro tempo», in relazione alle «esigenze di
una profonda tematica dell’essere, del tempo, del movimento, ecc.», Orelli ne
verifica presenza e funzionalità nell’Eliot dei Quattro quartetti, nel Montale di
Satura e nel Rebora dei Frammenti lirici, per poi passare a una minuta classificazione dei suoi usi nel Magma. Ne emerge «l’inusitato potenziale concettuale ed
evocativo-sentimentale» di una congiunzione che:
[è] segno certo di un’attenzione penetrante nella «trista scienza del male» (Manzoni),
indizio del bisogno di spiritualità trascendente […] quanto dello sforzo di riempire i
vuoti della memoria, ponte fra sé e l’altro (uomo), fra sé e sé non dissociati […], tra sé e
la natura, la quale può improvvisamente riempire di sé il vuoto della mente e del cuore
[…], congiunzione che attesta l’impulso cristiano di umana solidarietà, per cui circola
nelle poesie del Magma un senso pungente di pietà per l’umana condizione, per questo
istante di vita incompleta, una profonda, fraterna comprensione attiva, una «finestra
sulla strada», vorrei dire ripensando uno di quei raccontini così intensi di Kafka («Chi
vive derelitto e vorrebbe avere amicizia, chi, avendo riguardo ai mutamenti dell’ora, del
tempo, dei rapporti professionali e altro, vuol vedere un braccio qualsiasi al quale appoggiarsi: questi non potrà rimanere privo per molto d’una finestra sulla strada»), fulcro
ubbidiente alle permutazioni dell’io lirico, lungo una successione di presenti in cui è
possibile sentir confluire, agostinianamente, il passato e il futuro, […] momento di compresenza […] per cui si tende alla più larga (a un’infinita) coordinazione col «resto»…19
Il saggio prosegue interrogando le raccolte immediatamente precedenti e
quelle immediatamente successive al Magma, con rapidi e illuminanti spostamenti sull’asse temporale. Da un esame di Dal fondo delle campagne emerge allora il nesso fra l’uso di mentre e il tema della «tolleranza dell’umano» (cioè della
difficile apertura all’alterità), mentre l’esplorazione di Su fondamenti invisibili
(la raccolta del 1971, che si va componendo sotto gli occhi di Orelli), permette
di illustrare il nodo che lega il mentre a una poesia in cui l’esigenza narrativa,
con le sue implicazioni riflessive, «prevale non di rado sull’impulso propriamente lirico», a un sermo merus che tende alla prosa, che si desublima…20
173
Giovanni Fontana
Da ciò che siamo venuti dicendo su questo saggio si possono intuire le ragioni dell’anomalia d’impianto segnalata in apertura: il saggio sul mentre ha queste
peculiarità, crediamo, perché presuppone una forte implicazione di chi scrive
nell’oggetto della propria riflessione critica, un coinvolgimento umano, emotivo, oltre che intellettuale, nella vicenda poetica che sta ricostruendo, in cui – in
qualche misura – il critico-poeta si specchia, in cui riconosce qualcosa di sé, del
proprio cammino poetico.
Tutt’altra prospettiva è quella in cui nasce l’«accertamento luziano» del 1995,
dedicato a uno dei testi capitali della raccolta Dal fondo delle campagne (1965),
Dalla torre:21
Questa terra grigia lisciata dal vento nei suoi dossi
nella sua cavalcata verso il mare,
nella sua ressa d’armento sotto i gioghi
e i contrafforti dell’interno, vista
nel capogiro degli spalti, fila
luce, fila anni luce misteriosi,
fila un solo destino in molte guise,
dice: «guardami sono la tua stella»
e in quell’attimo punge più profonda
il cuore la spina della vita.
Questa terra toscana brulla e tersa
ove corre il pensiero di chi resta
o cresciuto da lei se ne allontana.
Tutti i miei più che quarant’anni sciamano
fuori del loro nido d’ape. Cercano
qui più che altrove il loro cibo, chiedono
di noi, di voi murati nella crosta
di questo corpo luminoso. E seguita,
seguita a pullulare morte e vita
tenera e ostile, chiara e inconoscibile.
Tanto afferra l’occhio da questa torre di vedetta.
5
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20
Già il titolo del saggio è rivelatore: la lettura di Dalla torre invera, infatti, un
metodo ormai collaudato e per così dire canonizzato dai volumi del ’78 (Accertamenti verbali) e dell’84 (Accertamenti montaliani),22 di cui esemplifica luminosamente le linee guida. E l’oggetto di questo raffinato esercizio di lettura non è
più, a vent’anni di distanza, il compagno di strada nelle cui vicissitudini umane
e poetiche specchiarsi, ma lo scrittore ormai assurto a classico del Novecento, al
pari di Montale, da affrontare con gli strumenti riservati ai poeti del suo rango.
Da questo atteggiamento discendono affermazioni come questa, posta in calce a
una lunga esplorazione della «cava di pietrisco» dei versi centrali di Dalla torre,
densi di echi danteschi, petrarcheschi, leopardiani e addirittura manzoniani:
174
Orelli e Luzi
Sto evidentemente parlando di Luzi come d’un classico in quanto, si direbbe inevitabilmente, disposto a usare le «risorse estetiche innate del linguaggio» (Sapir), peculiari
della più illustre tradizione.23
Da questa matrice derivano i rilievi sulla struttura metrico-ritmica-timbrica
del testo che costituiscono l’asse portante del saggio: la prevalenza dell’endecasillabo, il legame assiale fra i versi lunghi che aprono e chiudono il componimento, attraverso la stazione intermedia del v. 11, che riprende anaforicamente
l’incipit «Questa terra»; il valore della «zona mediana» compresa fra il v. 11 e il
v. 13, caratterizzata da una singolare «concordia metrico-timbrica» che è messa
in relazione con la tematica del nido, della terra materna in cui rifugiarsi; il valore delle iterazioni “ansiose” di cui è punteggiato il testo; ecc.
Ai fini del nostro discorso conviene, però, ritornare su quel che nell’accertamento orelliano è solo una breve, per quanto densissima, introduzione all’esercizio di critica verbale: alludiamo alla rapida ricognizione del retroterra tematico
di Dalla torre, che, sulla scorta di indicatori lessicali (la parola «vento», l’immagine degli “anni sciami”) e prosodici (la sequenza di sdruccioli) e di indizi relativi all’impianto del discorso (l’auto-allocuzione), consente a Orelli di ricondurre
questo bilancio esistenziale sollecitato dal raggiungimento dell’Hälfte des Lebens a prototipi rinvenibili nel corpus stesso della poesia luziana (Notizie a Giuseppina dopo tanti anni in Primizie del deserto, Nell’imminenza dei quarant’anni
in Onore del vero, Api in Dal fondo delle campagne), ma anche a modelli eliotiani
(Gerontion per il motivo del «né giovane né vecchio», East Coker, dai Quattro
quartetti, per il tema della «saggezza dell’umiltà» che illumina la comunione dei
vivi e dei morti), benniani (Aprèslude per l’esortazione a immergersi nell’alterna
vicenda della vita che l’io lirico rivolge a se stesso) ecc. Siamo, come ognun vede,
nello stesso orizzonte tematico delineato dal saggio sul mentre.
Ora è tempo di verificare se le preferenze del lettore coincidano con quelle del
poeta in proprio o, detto in altri termini, se le tangenze fra i percorsi poetici di
Orelli e di Luzi – se esistono, come crediamo – si collochino veramente in quella
stagione straordinaria per le sorti della poesia italiana che va dall’inizio degli
anni cinquanta alla fine degli anni sessanta.
Il campione su cui intendiamo soffermarci è costituito da due testi appartenenti all’ultima sezione de L’ora del tempo che, per certi versi, costituiscono un
dittico: Nel cerchio familiare e Prima dell’anno nuovo.24
Nel cerchio familiare esce a stampa per la prima volta sulla rivista “Botteghe
oscure” nel 1958,25 quindi è accolto (con varianti) nella plaquette omonima pubblicata nel 1960 a Milano da Scheiwiller26 e di qui passa nel volume mondadoriano del 1962:
Una luce funerea, spenta,
raggela le conifere
dalla scorza che dura oltre la morte,
175
Giovanni Fontana
e tutto è fermo in questa conca
scavata con dolcezza dal tempo:
nel cerchio familiare
da cui non ha senso scampare.
Entro un silenzio così conosciuto
i morti son più vivi dei vivi:
da linde camere odorose di canfora
scendono per le botole in stufe
rivestite di legno, aggiustano i propri ritratti,
tornano nella stalla a rivedere i capi
di pura razza bruna.
Ma,
senza ferri da talpe, senza ombrelli
per impigliarvi rondini;
non cauti, non dimentichi in rincorse,
dietro quale carillon ve ne andate,
ragazzi per i prati intirizziti?
La cote è nel suo corno.
Il pollaio s’appoggia al suo sambuco.
I falangi stanno a lungo intricati
sui muri della chiesa.
La fontana con l’acqua si tiene compagnia.
Ed io, restituito
a un più discreto amore della vita…
5
10
15
20
25
Organizzato in quattro unità strofiche di 7, 7, 5 e 7 versi di varia misura,27
il componimento esibisce una struttura chiusa, all’interno della quale la prima
e l’ultima stanza individuano simmetricamente il punto di partenza e il punto
d’arrivo di un’immersione “necessaria” «nel cerchio familiare / da cui non ha
senso scampare»: dalla «luce funerea, spenta», che «raggela le conifere / dalla
scorza che dura oltre la morte» a «un più discreto senso della vita». Il senso
d’immobilità che caratterizza sia la prima («tutto è fermo in questa conca / scavata con dolcezza dal tempo»), sia l’ultima strofa («La cote è nel suo corno. /
Il pollaio s’appoggia al suo sambuco…») consente di misurare con precisione il
percorso compiuto dall’io lirico.28
Le stazioni intermedie di questo viaggio sono due, apparentemente di segno
opposto. Dapprima la catabasi, l’evocazione dei morti, che qui prende le forme
di una rassicurante, domestica epifania di trapassati «più vivi dei vivi», che «da
linde camere odorose di canfora / scendono per le botole in stufe / rivestite
di legno, aggiustano i propri ritratti», ispezionano le stalle. La comunione dei
vivi e dei morti ritrovata in una sequenza di gesti elementari che i trapassati,
con un’invenzione straordinaria, sembrano insegnare o rammentare ai vivi…29
Poi – in forte antitesi, segnata dall’avversativa isolata in un verso a scalini e dalla
176
Orelli e Luzi
forma interrogativa del discorso – l’apparizione ilare, estrosa, feroce dei ragazzi
che corrono «per i campi intirizziti» e riconciliano l’io con una dimensione vitalistica dell’esistenza, in un rapporto di continuità/discontinuità con il proprio
passato.30
Di fatto, pur nella varietà delle manifestazioni, entrambe le scene contengono un elemento “attivo”, blandamente dinamico (il gesto, la corsa) attraverso il
quale si compie il rito di purificazione che restituisce l’io «a un più discreto amore della vita», in cui l’immobilità paralizzante, dolcemente angosciante dell’incipit diventa equilibrio, ordine, adattamento alle cose e alle persone, accettazione
dell’esistente.31 L’enumerazione asindetica che innerva la strofa finale, con il
marcato parallelismo fra i membri sintattici e la (quasi) perfetta coincidenza fra
unità logica e unità metrica, sembra visualizzare quest’armonia:32 in quest’ottica, l’«Ed» fortemente rilevato del penultimo verso può essere letto, in qualche
misura, come l’equivalente del mentre luziano, «ponte tra sé e l’altro», strumento «di una più larga coordinazione con il resto», chiave d’accesso all’agognata
«tolleranza dell’umano».
Il motivo della rivisitazione di un paesaggio e di un’umanità elementari – del
proprio mondo e della propria gente, dei borghi della Toscana, ma anche delle
Marche e dell’Umbria – è, come si sa, uno dei fili conduttori delle ricerca luziana
degli anni cinquanta-sessanta, che in Dal fondo delle campagne s’intreccia alla
commemorazione della madre appena scomparsa: il legame istituito fra la madre e la sua terra consente, da una parte, di non soccombere al lutto e all’elegia,
nella prospettiva di un naturale riassorbimento della morte nel ciclo naturale
della terra come origine «che seguita a pullulare morte e vita»; mentre, dall’altra, proprio la madre è l’interlocutrice cui l’io lirico chiede, in componimenti
come La fortezza, consiglio e guida per uscire dall’isolamento, per evadere dalla
sua «cattività» e dal suo «regno», aprendosi alla «tolleranza dell’umano».33 Né
mancano contesti in cui la parusia – “reale” o solo auspicata – della madre si colloca in scenari domestici che possono ricordare le stanze di Nel cerchio familiare: si pensi per esempio a Erba («Non lasciare il governo della casa, / apri le sue
finestre dall’interno, / fa’ che esali ed inali in questo vento / l’eternità che tu respiri. Dove / non è molto eravamo ancora tutti, / poni ciascuno al proprio posto,
spezza / il pane, partisci il cibo eterno») o a Il duro filamento («… quella voce /
con un tremito appena più profondo, / appena più toccante ora che viene /
di là dalla frontiera d’ombra e lacera / come può la cortina d’anni e fora / la coltre di fatica e d’abiezione, / cerca il filo del vento, e vi si affida / finché il vento
la lascia a sé, s’aggira / ospite dove fu di casa, timida / e spersa in queste prime
albe dell’anno»).34
Più stringenti sono però i legami con il secondo elemento del dittico che, in un
certo senso, rovescia gli esiti di Nel cerchio familiare. Prima dell’anno nuovo appare in una prima versione di diciotto versi (coincidenti con l’attuale sezione II)
nel volumetto omonimo del 1952, raggiunge la sua forma definitiva in occasione
177
Giovanni Fontana
della pubblicazione su “Botteghe oscure” dell’agosto 1958 (dove per la prima
volta è affiancato a Nel cerchio familiare) e di qui migra, con il suo gemello,
nella plaquette scheiwilleriana Nel cerchio familiare del 1960 e quindi nell’autoantologia mondadoriana del 1962.
Questo lungo componimento è diviso in due sezioni, a loro volta articolate
in due quadri separati da uno spazio bianco:35
I
Ancora una vigilia mi trattiene:
leggero, gli occhi attenti,
contro stipiti saldi, duraturi.
Neve rappresa ai cigli delle case,
nell’orto il sambuco in gramaglie
e l’alveare, vuoto, o il contrario, d’api;
poi vortice di grani in cui nulla si muove
fuor che l’arbusto emerso dal ricordo
d’una caccia remota, senza preda.
«Wer redet, ist nicht tot» (Benn, Kommt)
Chi entra, e parla: «Se ti laverai
diventerai più bianco della neve»,
non è morto: con gesto giovanile
benedice la casa. Il ragazzo
che ieri andava sui trampoli qua e là
oggi reca un cestello di bianchi dolci all’anice.
Ravvolti nell’odore natalizio
del pino – fronda, resina
del nostro bosco intatto –
nulla, o quasi, sappiamo dell’issopo.
Risaliremo a mezzanotte il colle,
sotto il portico buio ci faremo gli auguri,
gli stessi della fine e del principio.
II
Il vischio sull’armadio; la madre che ha in grembo
un mucchio di ricordi senza polpa;
(dietro la testa di mia madre gli alberi
di ciliegie e marene tratteneva,
ieri, un cielo stupito di sorridere);
la bottiglia (sciroppo di sambuco);
ma la stufa si lagna d’un intoppo.
Nasce un odore, par d’acetilene,
e San Silvestro viene, spazza il destro.
È caduta una bacca, ho pensato
la tua bocca serrata; mi sono
guardato nello specchio:
né giovane né vecchio, più che abete
178
5
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20
25
30
35
Orelli e Luzi
larice, m’allontana
l’inverno in una cenere
d’aghi ove ronza accanito un moscone.
Prima dell’anno nuovo non farò
su questo tema alcuna variazione.
40
Come nella poesia “gemella”, trasparenti richiami fra incipit ed explicit conferiscono al discorso una struttura circolare, “chiusa”: il resoconto dell’ennesima immersione «nel cerchio familiare» è, infatti, aperto da «Ancora una vigilia
mi trattiene» e suggellato, simmetricamente e quasi chiasticamente, da «m’allontana / l’inverno in una cenere / d’aghi ove ronza accanito un moscone», che suona come il riconoscimento di uno “scacco” (cui fa eco, su un piano per così dire
“metapoetico”, l’affermazione conclusiva «Prima dell’anno nuovo non farò /
su questo tema alcuna variazione» che rovescia o annulla il proposito di “parlare
per non morire” affidato all’epigrafe benniana «Wer redet, ist nicht tot»).36
Nella sezione I il primo quadro indica l’angolazione da cui è osservato il microcosmo contadino-alpestre: la «vigilia» di capodanno «trattiene» l’io «leggero, gli occhi attenti, / contro stipiti saldi, duraturi», nell’atteggiamento insieme
partecipe e distaccato di chi osserva per capire e nello stesso tempo per ricavare
da ciò che vede gli “ancoraggi certi” di cui non dispone. Segue un’enumerazione
asindetica/polisindetica di frammenti di paesaggio e di oggetti che identificano
quel mondo, inventariato caleidoscopicamente («l’alveare, vuoto o il contrario,
d’api», «… nulla si muove / fuor che l’arbusto emerso dal ricordo / d’una caccia
remota, senza preda»). Il lessico, tendenzialmente denotativo, s’increspa solo in
due punti («sambuco in gramaglie», «vortice di grani»). Dopo lo spazio bianco,
il secondo quadro introduce delle figure umane (l’anonima voce giovanile che
benedice la casa e parafrasa – forse ironicamente – il salmo 51,37 il ragazzo che
«ieri andava… sui trampoli» e «ora reca un cestello di bianchi dolci all’anice», il
gruppo dei parenti «ravvolti nell’odore natalizio / del pino» che risalirà il colle
per gli auguri di rito) che sembrano veramente appartenere, come suggerisce
Marcel Raymond,38 a un mondo pre-cristiano «che nulla o quasi» sa «dell’issopo» (il fiore della passione di Cristo) e che guarda, se mai, a un paradiso terrestre quasi pagano (il «nostro bosco intatto»).
Nella seconda sezione l’articolazione in due tempi coincide con uno spostamento dell’obiettivo dalla madre (primo quadro) all’io lirico (secondo quadro).
In entrambe le sequenze, colpisce l’andamento enumerativo, che si appoggia a
una sintassi rigorosamente paratattica: nel primo movimento gli elementi allineati sono costituiti per lo più da frasi nominali, nel secondo da brevi proposizioni
incardinate sulle forme verbali, poste sempre in apertura e collegate fra loro
anche fonicamente. Da ciò discende la diversa coloritura delle enumerazioni:
nel primo tempo l’elenco parifica nella sincronia, in un’a-temporalità “materna”
elementi vegetali e naturali (blandamente animati: «un cielo stupito di sorridere»), presenze umane (scarnificate, svuotate, reificate: «la madre che ha in
grembo / un mucchio di ricordi senza polpa») e oggetti (la «bottiglia (sciroppo
179
Giovanni Fontana
di sambuco)», la «stufa» borbottante; mentre nel secondo la sequenza di verbi
incaricati di registrare in maniera apparentemente incoerente micro-eventi («È
caduta una bacca»), collegamenti mentali («ho pensato / la tua bocca serrata»),
riflessioni e bilanci esistenziali («mi sono / guardato allo specchio…») suggerisce un senso di immediatezza, di prossimità, ma anche di disorientamento. È
come se il soggetto – in una precaria condizione di passaggio («né giovane né
vecchio, più che abete / larice») – faticasse a elaborare i dati dell’esperienza, a
fare chiarezza su di sé, a ricavare dal «cerchio familiare» primigenio e “sospeso”
le certezze di cui è in cerca, il «più discreto amore della vita» che sembrava promettere (donde la dolente dichiarazione di resa che chiude il componimento…).
In questo caso il collegamento con la poesia di Luzi – e con quella del suo “modello” Eliot – è esplicito, come se l’Orelli perplesso e disorientato di questa Hälfte des Lebens sentisse il bisogno di appoggiarsi alla saggezza di due compagni di
viaggio: l’espressione «né giovane né vecchio» rimanda, infatti, a un verso della
strofa centrale di Notizie a Giuseppina dopo tanti anni:
Mi trovo qui a questa età che sai,
né giovane né vecchio, attendo, guardo
questa vicissitudine sospesa;
non so più quel che volli o mi fu imposto,
entri nei miei pensieri e n’esci illesa.
che a sua volta riprende l’epigrafe shakeasperiana di Gerontion (1920) di Eliot,39
a cui rinviano (secondo Angelo Jacomuzzi) anche l’espressione «mi trovo qui» e
il «regesto di varia quotidianità» dell’ultima strofa.40 La cronologia porterebbe a
escludere l’ipotesi (formulata da Gilberto Lonardi)41 di una dipendenza diretta
di Orelli da Luzi e ad accreditare piuttosto la tesi di una comune discendenza
eliotiana (per cui parla, sia pur indirettamente, un passo dell’accertamento su
Dalla torre).42
Qualunque sia la “fonte”, le modalità dell’appropriazione orelliana appaiono intermedie fra la citazione e l’assorbimento: l’immagine di Gerontion – o di
Notizie a Giuseppina dopo tanti anni – passa, infatti, intatta (per le ragioni che
abbiamo detto) in Prima dell’anno nuovo, ma è subito tradotta nel linguaggio
oggettivo dell’Ora del tempo dall’apposizione «più che abete / larice», che dice
fragilità, precarietà, anche in relazione alla «cenere / d’aghi» dei versi successivi.
Un confronto fra Notizie e Prima dell’anno nuovo che prenda le mosse da questa immagine condivisa – e tragga la sua legittimazione anche dalla profonda
sintonia con i versi luziani testimoniata dalle pagine saggistiche su cui ci siamo
soffermati nella prima parte del nostro intervento – fa emergere un tratto che
ci pare di poter definire “tipicamente orelliano”: alludiamo alla “discrezione”
con cui è steso questo bilancio esistenziale. Se comune a Luzi e Orelli è la particolare disposizione determinata dalla maturità sopravveniente, «un atteggia-
180
Orelli e Luzi
mento di distacco e di contemplazione, un prevalere del guardare sul vivere»,43
profondamente diverso è, infatti, l’impianto del loro discorso: mentre Luzi alterna momenti fortemente personali e intimi (collocati, non a caso, nel cuore
del testo: «… attendo, guardo / questa vicissitudine sospesa; / non so più quel
che volli o mi fu imposto, / entri nei miei pensieri e n’esci illesa») a momenti
più oggettivi, di apertura a una storia dominata dalla ripetizione («Tutto l’altro
che deve essere è ancora») e a una natura attraversata da un movimento ciclico
(«… il fiume scorre, la campagna varia, / grandina, spiove…»), nella partitura di
Prima dell’anno nuovo l’io è confinato ai margini del componimento, che è tutto
occupato, nella lunghissima parte centrale, da un’esplorazione o, meglio, da un
inventario del «cerchio familiare» – il quale, tuttavia, per il modo in cui è costruito (le enumerazioni, gli elenchi, il ricorso alla paratassi, il lessico scarsamente
metaforico) ci dice molto sul soggetto che lo contempla, sul suo smarrimento e
sulla sua perplessità.
Viene in mente, a questo proposito, ciò che Mengaldo dice in apertura del
bel ritratto pubblicato in Cent’anni di poesia nella Svizzera italiana a proposito
di un Orelli «poeta dell’attenzione alla vita (a compensare una profonda disattenzione esistenziale): vita imparzialmente umana, vegetale, anche minerale»� –
per cui si potrebbe dire, con una battuta, che questo è l’unico modo in cui un
poeta disattento alla dimensione esistenziale può stilare un bilancio esistenziale.
Nei decenni successivi le consonanze fra i due poeti saranno numerose
(nell’apertura a scenari di ordinaria quotidianità, nel frangersi del discorso in
cadenze dialogiche, nel dilatarsi prosastico dei versi,45 nell’accostamento di
elementi linguistici bassi e alti, nel peculiare riuso di Dante, in certe forme di
poesia-pensiero,46 ecc.), ma, nel complesso, più generiche, come potrebbe dimostrare, per esempio, un confronto fra liriche di ambientazione simile ma dagli
esiti diversissimi come In poco d’ora (da 6 poesie, 1965) e Tra notte e giorno (da
Nel magma, 1963)47 o l’analisi della “storia interna” di un componimento come
Di passaggio a Villa Bedretto in cui si misura diacronicamente il progressivo allontanamento di due traiettorie poetiche per alcuni anni così affini.48
Una lettera di Luzi a Orelli del 18 giugno 1977 (conservata nell’Archivio Orelli di
Bellinzona) è riprodotta nel catalogo della mostra Mario Luzi. Le campagne, le parole, la luce,
a cura di S. Verdino, con testi di C. Ossola, S. Verdino. G. Fontana, G. Uzzani, Casa Croci,
Mendrisio 2014, a p. 39. A queste testimonianze si aggiungono i documenti esposti, a cura di
Liliana Orlando e Pietro Montorfani, durante il convegno bellinzonese.
2
M. Luzi, Una sottile vigilanza, in “Corriere del Ticino”, 3 settembre 1988, p. 31.
3
Si veda, in particolare, la persuasiva ricostruzione del percorso di Orelli proposta da
Pier Vincenzo Mengaldo in G. Bonalumi, R. Martinoni, P.V. Mengaldo, Cento anni di poesia nella Svizzera italiana, Armando Dadò Editore, Locarno 1997, pp. 189-197.
4
Bibliografia di Giorgio Orelli, a cura di P. Montorfani, con la collaborazione di Y. Bernasconi, Edizioni Cenobio, Lugano 2014.
5
G. Orelli, Letture di poeti. Sopra una poesia di Mario Luzi, in “L’educatore della Svizzera italiana”, XCVI (1954), 5-6, maggio-giugno, pp. 43-44.
1
181
Giovanni Fontana
6
Id., Voce d’uomo solo, in “La Fiera Letteraria”, IX (1944), 33-34, 14 agosto, p. 5, e,
con lo stesso titolo, in “Gazzetta Ticinese”, 31 agosto 1955, p. 2 (da cui sono tratte le nostre
citazioni).
7
Id., Sul «mentre» nella poesia di Mario Luzi, in “Strumenti critici”, IV (1970), 1, febbraio, pp. 92-105.
8
Id., Sul «mentre» nella poesia di Mario Luzi, in Id., Accertamenti verbali, Bompiani,
Milano 1978, pp. 201-225. Nella versione in volume il saggio è aggiornato agli sviluppi più
recenti della ricerca poetica di Luzi (già “radiografati” nella bella recensione a Su fondamenti
invisibili pubblicata sulle pagine del settimanale ticinese “Cooperazione”, 29 luglio 1971, p.
8) e arricchito di alcuni paragrafi inediti sul ruolo di Rebora nella genesi del mentre luziano.
9
Id., Accertamento luziano: «Dalla torre», in Per Mario Luzi, Atti della giornata di studio
(Firenze 20 gennaio 1995) a cura di G. Nicoletti, Bulzoni, Roma 1997, pp. 73-83.
10
M. Luzi, L’opera poetica, a cura e con saggio introduttivo di S. Verdino, Mondadori,
Milano 1998, p. 189. Il testo – informa Verdino nell’Apparato critico (p. 1447) – risale al 1949.
11
La strana congiunzione Luzi-Kafka si riproporrà, per altro, anche nel saggio sul «mentre», come vedremo fra breve.
12
«Un attento esame prosodico riuscirebbe tutto a vantaggio della voce. Basti indicare
come nel secondo verso l’accentazione s’adegua alla idea del “cupo viaggio”, “dopo tanti
anni”; e gli ultimi due versi, con cesura a majore dattilica e sinalefe, trascorrono precipitosi».
13
«Il secondo, il terzo e il quarto verso dell’ultima strofa sono ritmicamente identici, con
cesura a minore: in tal modo è sottolineato il ripetersi meravigliosamente monotono delle
vicende naturali. La ripresa (“niente… Niente”) non turba nulla, non è una provocazione
eloquente. Essa attesta un breve, energico quanto vano moto di ribellione: nada nada… e ci si
aggrappa a un lembo della vita».
14
G. Orelli, Letture di poeti, p. 44.
15
Sul rapporto della propria poesia con «la realtà vera fuori della mente» si sofferma
Orelli in una conversazione apparsa sulla rivista “Idra”, VI (1996), 13, pp. 87-93, col titolo
Un’altalena che s’inciela. Idra a colloquio con Giorgio Orelli.
16
Notizie a Giuseppina dopo tanti anni e Prima dell’anno nuovo escono nello stesso anno,
il 1952. Per i rapporti di Luzi con la fonte eliotiana e per la storia interna del testo di Orelli,
si veda la parte finale del nostro saggio.
17
M. Luzi, L’opera poetica, pp. 311-352.
18
«Pour deviner l’âme d’un poète, ou du moins sa principale préoccupation, cherchons
dans ses œuvres quel est le mot ou quels sont les mots qui s’y représentent avec le plus de
fréquence. Le mot traduira l’obsession» dice Orelli, citando un’affermazione di Baudelaire
riportata da Uhlmann che godette di grande fortuna nella critica stilistica (G. Orelli, Sul
«mentre», p. 206).
19
Ibi, pp. 210-211. Il passo documenta in maniera esemplare la vivacità e la pregnanza del
linguaggio critico di Orelli, che si colgono anche in talune icastiche definizioni del fare poetico
luziano, come quella con cui visualizza la funzione dei versi lunghi di Su fondamenti invisibili:
«filamenti d’insetti che tastano pertinaci nell’incerto metafisico-esistenziale» (ibi, p. 221).
20
Ibi, pp. 216-217.
21
M. Luzi, L’opera poetica, p. 305; S. Verdino segnala nell’Apparato critico (p. 1523) che
il componimento è stato anticipato su “L’Approdo letterario”, n.s., VIII (1962), 19, lugliosettembre, pp. 56-57, insieme ad altre poesie poi confluite nella raccolta (Qualche luogo, La
colonna, A mezzacosta, La valle, Di notte, un paese). Secondo la testimonianza orale di Fabio
Pusterla, Giorgio Orelli parlava di Dalla torre come di un testo «perfetto».
22
G. Orelli, Accertamenti montaliani, il Mulino, Bologna 1984.
23
Id., Accertamento luziano, p. 80.
24
Id., L’ora del tempo, Mondadori, Milano 1962, pp. 68-69 e 70-73.
25
“Botteghe oscure”, 22 (1958), agosto.
26
G. Orelli, Nel cerchio familiare, All’Insegna del Pesce d’Oro, Milano 1960, pp. 14-15.
27
Così G. Jori descrive la struttura metrica del testo: «Settenari (sdruccioli i vv. 2 e 16), novenari (tronco il v. 14), decasillabi, endecasillabi, doppi settenari e versi lunghi; qualche assonanza
182
Orelli e Luzi
[notevole in particolare, quella che sigilla il componimento, vv. 25-26], rima ai vv. 6-7. Quattro
strofe: le prime due e l’ultima di sette versi, la terza oscillante fra cinque e sei versi, a seconda che
si conti o meno la congiunzione avversativa, isolata dal v. 14, a gradino, in corrispondenza del
salto strofico» (Giorgio Orelli, a cura di G. Jori, in Antologia della poesia italiana diretta da C.
Segre e C. Ossola, III. Ottocento-Novecento, Einaudi, Torino 1999, pp. 1589-1600: 1592).
28
Sulla genesi psicologica di questo testo e, in particolare, sul nodo di odio e amore per
il proprio paese natale da cui prende le mosse, si legga il prezioso autocommento affidato
da Orelli a una prosa del 1972: «Ci fu un tempo ch’io coglievo pretesti anche futili per non
tornare a casa […]. Vivevo solo in città, vorrei dire che resistevo, e quando arrivava il sabato,
al pensiero di prendere il treno e tornare dai miei, in montagna, stavo male. […] Non era
per motivi propriamente familiari che m’accadeva […] io non mi volgevo più al mio villaggio, come a una realtà concreta, umile, quotidiana: vedevo la mia stessa infanzia separata
da me, e la neve era una merce ostile che rendeva più sensibile il vuoto. Il mio villaggio mi
appariva come un luogo in cui i morti erano più vivi dei vivi; dalla qual cosa derivava non
solo un’infinita pietà dei vivi e di me, sì anche, anzi soprattutto, uno stato d’animo per cui mi
sentivo come al margine del nulla, in un’aria non giusta, eccessiva, che tingevano d’assurdo il
quotidiano, in modo insopportabile […]. So bene che il mio stato d’animo e l’esasperazione
dell’insofferenza discendevano anche da un amore sostanzialmente sbagliato della vita. Posso
dire che non amavo, non concepivo la vita né dannunzianamente né hemingwaianamente,
bensì piuttosto nel senso suggerito da una frase di Leopardi, questa: “La vita debb’essere
viva, cioè vera vita, o la morte la supera incomparabilmente di pregio” […]. Ma il fatto sta
che la parola stessa vita sembrava a disagio nella mia mente: era nella mia mente al modo di
una trota che non raggiunga la misura tra le mani del pescatore indeciso […]. Bisognava,
per sentirmi di nuovo tranquillo tornando al mio paese, restituirmi a un più discreto amore
della vita; e fu allora, tra l’altro, che certe parole lette nei libri cominciarono ad essere non
più soltanto parole per me, ma vitale nutrimento, verità che attraversano la mente come lame.
Finalmente mi dicevo non invano che “maturare è tutto”, che “un paese ci vuole, non fosse
che per il gusto di andarsene via” (Shakespeare e Pavese, come molti sapranno) […]. Venne
anche il giorno che fu di nuovo possibile per me scrivere del mio paese: scrissi una poesia
di nemmeno trenta versi, ma che a me sembrava lunghissima…” (G. Orelli, «Ci fu tempo
ch’io coglievo pretesti»…, in C’è solo un villaggio nostro, a cura di P.R. Frigeri, prefazione di
F. Filippini, Edizioni Cenobio, Lugano 1972, pp. 137-141, alle pp. 137-139).
29
Per il motivo “mortuario” sono stati addotti riscontri pascoliani e montaliani (da ultimo, e in maniera del tutto persuasiva, da Niccolò Scaffai nella sua bellissima relazione al
convegno bellinzonese).
30
Indice di questa ambivalenza sono i due «senza» che marcano la discontinuità nella
continuità di un rapporto ritrovato con la propria infanzia, per cui cfr. l’autocommento già
ricordato: «Il terzo momento comincia con un ma abbastanza improvviso (e isolato): pensate
a uno che, come per richiami interni, contempla. Io contemplo la vita, voglio dire una vita
fuori di me, di ragazzi che sono anche proiezioni di me stesso ragazzo (ricordo non solo il
gusto che tutti i ragazzi di questo mondo hanno dell’avventura, ma anche la situazione particolare dei pochissimi ragazzi del mio paese, la loro noia, il loro cercare e inventare e ubbidire
ai richiami, ai carillons più impreveduti)» (G. Orelli, «Ci fu un tempo, p. 140). Sulla genesi
di queste immagini, in un fitto scambio fra prosa (Serale in “Paragone”, 62 (1965), febbraio,
poi in G. Orelli, Un giorno della vita, Lerici, Milano 1960, pp. 45-56: 52) e poesia, si vedano
le osservazioni di M. Danzi, Esegesi d’autore e memoria di sé: Giorgio Orelli fra prosa e poesia,
in Lingua e letteratura italiana in Svizzera, Atti del convegno (Università di Losanna 21-23
maggio 1987), a cura di A. Stäuble, Casagrande, Bellinzona 1989, pp. 84-97: 92-93.
31
Sul valore «dell’inerzia, della privazione di movimento» entro lo «spazio cintato» de
L’ora del tempo, si vedano le osservazioni intelligenti (anche se diversamente orientate) di
G. Pacchiano, Lo spazio cintato di Giorgio Orelli, in “Il lettore di provincia”, V (1974), 19,
aprile, pp. 22-32: 23-25.
32
«Oggetti di una quotidianità da cui si prende commiato, ma anche talismani di salvezza e protezione» (M.A. Grignani, Postfazione, in G. Orelli, Rückspiel /Partita di ritorno,
183
Giovanni Fontana
Gedichte, Italienisch und Deutsch, Ausgewählt und übersetzt von Christoph Ferber, Mit
einem Gespräch von Alice Vollenweider mit Giorgio Orelli und einem Nachwort von Maria
Antonietta Grignani, Limmat Verlag, Zürich 1998, pp. 217-225: 222). Nell’autocommento
più volte ricordato Orelli accenna, per questi oggetti presentati «a due a due», a suggestioni
morandiane.
33
«Tu a cui prima del giorno / dico tante volte “aiutami, / guida l’anima mia coi tuoi
consigli”, / se la scienza silenziosa / dei morti in Dio potesse aprire bocca / lo so quel che
diresti, / diresti: “metti alla prova la tua forza / e la tua tolleranza dell’umano”. // Quel che
mi chiedi non è poco. / Ma se è questo il prezzo / per una conoscenza più compiuta / e per
un’espiazione più profonda / pagherò quel che è dovuto, / nell’ora, nel momento, / nella
contemporaneità di tutti i tempi» (M. Luzi, La fortezza, in Id., L’opera poetica, pp. 289-290:
290). L’espressione «la mia cattività e il mio regno» è tratta, con qualche libertà, da uno dei
movimenti conclusivi de Il pensiero fluttuante della felicità (Su fondamenti invisibili, 1971, in
Id., L’opera poetica, pp. 365-377: 374): «Ho lasciato per te la mia cattività e il mio regno, /
solitudine inquieta / che affinava la sua pupilla / scrutando il cielo sul filo dei tetti».
34
I due testi si leggono in Id., L’opera poetica, pp. 283-284 e 287-288.
35
Le quattro strofe sono composte da 9, 13, 9, 9 versi, per lo più endecasillabi (settenari i
vv. 2, 17, 18, 34, 37, 38; novenario il v. 5; decasillabo il v. 33; doppi settenari i vv. 7, 15, 23); le
rime, le assonanze e le consonanze sono pressoché assenti nella prima sezione – con l’eccezione della rima interna 10 laverai: 11 (diventerai) e di alcuni legami deboli, ad es. fra 10 e 11 o
fra 19 e 20 – più fitte nella seconda, cronologicamente anteriore di alcuni anni – 30 acetilene
: 31 (viene), che si richiama a distanza a 1 trattiene; 31 destro : 31 (San Silvestro); 32 pensato :
33 (serrata) : 34 (guardato); 34 specchio : 35 (vecchio); 38 moscone : 40 variazione.
36
Sul senso dell’epigrafe, cfr. P. De Marchi, Una cosa che comincia con r in mezzo». Sul
tema della morte, in Id., Dove portano le parole. Sulla poesia di Giorgio Orelli e altro Novecento, Manni, Lecce 2002, pp. 21-53: 23.
37
Che recita: «Purificami con l’issòpo e sarò mondo; / lavami e sarò bianco più della neve»
(La Bibbia. Nuovissima versione dai testi originali, con introduzione e note di A. Girlanda, P.
Gironi, F. Pasquero, G. Ravasi, P. Rossano, S. Virgulin, Edizioni San Paolo, Milano 1995, p.
832).
38
«Le monde de Giorgio Orelli, qui est celui d’une communauté où les morts se glissent
entre les vivants, où les bêtes, les arbres, les fleurs, ont leur place, pourrait être assimilé à un
paradis préchretien, bien que le mal n’en soit pas absent et qu’on y pressente par instant le
dessin d’une insaisissable fêlure» (M. Raymond, Préface, in G. Orelli, Choix de poèmes, Texte
français d’Yvette Z’Graggen, Préface de M. Raymond, L’Aire, Lausanne 1973, pp. 7-9: 8-9).
39
«Tu non sei né giovane né vecchio. È come se tu dormissi dopo pranzo sognando di
queste due età» (trad. di L. Berti). Il passo è tratto da Misura per misura, atto III, scena I.
40
Nel primo caso Jacomuzzi (A. Jacomuzzi, Lettura da Primizie del deserto: «Notizie a
Giuseppina dopo tanti anni», in Per Mario Luzi, pp. 61-71: 69) allega – persuasivamente –
l’attacco del componimento eliotiano («here I am»), mentre per il secondo rimanda ai vv.
11-14 di Gerontion («la capra tossisce a sera nel campo di sopra; / rocce, muschio, gramigna,
ferracci, merde. / Tiene una donna la cucina, fa il tè, / Starnuta a sera, l’impetuoso rigagnolo
rovista», trad. L. Berti), che sono però caratterizzati, secondo Stefano Verdino, da un «divergente degradato realismo» (S. Verdino, M. Luzi, L’opera poetica, Apparato critico, p. 1448).
41
«Mi pare […] certo che sia […] la “tradizione del nuovo” novecentesca a contare di
più, nella prima raccolta mondadoriana del ’62, o che come minimo essa non conti affatto
meno di Dante o dei classici. Farò, per L’ora del tempo, due nomi di solito non correnti sul
conto di Orelli: Penna è uno […]. E l’altro e Luzi, cui, per dirla subito, io avvicinerei quel
timbro o quel modello antimetropolitano di spazio poetico, che è un poco la scommessa civile
di Orelli, per il quale l’incantonamento cantonale, elveticamente borghigiano, alpino, è una
specie di equivalente natural-culturale dell’Appennino del Luzi di mezzo, che è poi quello
tuttora più definitivo. E tra parentesi, sarà un segnale non trascurabile che, dalle Primizie del
deserto di Luzi (vedi Notizie a Giuseppina dopo tanti anni), arrivi a L’ora del tempo un’esplicita
tessera come il “né giovane né vecchio”, e in stessa sede di verso, di Il vischio sull’armadio»
184
Orelli e Luzi
(G. Lonardi, Accertamenti sul Dante di Giorgio Orelli, in “Cenobio”, n.s., XXXII (1983), 4,
ottobre-dicembre, pp. 291-301: 292). Come si è anticipato a nota 16, i due componimenti
sono in realtà coevi, uscendo a stampa entrambi nel 1952.
42
«Né giovane né vecchio rimena Shakespeare (Measure for Measure, A III. Sc. I), citato
da Eliot in Gerontion: Thou hast not youth nor age / But as it were an after dinner sleep / Dreaming of both» (G. Orelli, Accertamento luziano, p. 76).
43
A. Jacomuzzi, Lettura, p. 69.
44
G. Bonalumi, R. Martinoni, P.V. Mengaldo, Cento anni di poesia, p. 189. Si veda,
per contrasto, quanto Mengaldo afferma in Poeti italiani del Novecento (Mondadori, Milano
1979, p. 650) a proposito del secondo Luzi: «Nel secondo e centrale momento della sua
carriera, che comprende grosso modo le tre raccolte Primizie del deserto, Onore del vero, Dal
fondo delle campagne, Luzi tocca certamente i suoi risultati più alti. Ciò che prima era soprattutto atteggiamento letterario, qui diventa davvero esperienza esistenziale, e l’autore (già con
Quaderno gotico) incomincia a farsi storico di se stesso. Attraverso il Montale delle Occasioni
Luzi passa sotto il patronato, ideologicamente più congruo, di Eliot, in parallelo al quale egli
approfondisce la metafisica, tra cristiana e platonica, della identità e reciproca reversibilità, o
meglio perpetua oscillazione, di divenire e essere, mutamento e identità, tempo ed eternità e
così via».
45
L’affinità metrica è segnalata da G. Contini in G. Contini, G. Pozzi, E. Raimondi, A.
Zanzotto, Giorgio Orelli poeta e critico, a cura di C. Mésoniat, RTSI, Bellinzona 1980, pp. 16
e 18.
46
Su questo aspetto sia lecito rimandare al nostro «Cercare a occhi chiusi». Note sulla
poesia dell’ultimo Orelli, in Per Giorgio Orelli, a cura di P. De Marchi e P. Di Stefano, Casagrande, Bellinzona 2001, pp. 107-117.
47
G. Orelli, 6 poesie, All’Insegna del Pesce d’Oro, Milano 1964, pp. 12-13 (e quindi in
G. Orelli, Sinopie, Mondadori, Milano 1977, p. 23); M. Luzi, Nel magma, All’Insegna del
Pesce d’Oro, Milano 19631, pp. 21-22 (e ora in L’opera poetica, pp. 326-327). Sulle affinità
fra i due testi, cfr. P. Fontana, Orelli e l’ora del tempo, in Id., Arte e mito della piccola patria,
Marzorati, Milano 1974, pp. 83-108: 98.
48
La prima redazione del componimento (risalente al 1963 e pubblicata in 6 poesie, pp.
10-11) è composta di due strofe di 19 e 6 versi che sembrano rimodulare il tema dell’immersione nel mondo elementare dei padri di Prima dell’anno nuovo – un mondo quasi precristiano, in cui regnano l’equilibrio, la discrezione, la dignità di gesti trattenuti, sommessi e in cui
l’io affonda i propri ricordi come radici che danno stabilità. L’attacco – «La nebbia è nebbia
d’agosto, il sole / La fende agevolmente / (così San Martino / col suo mantello), e dura, dura
anche più del previsto / In questo punto medio della valle / dove oggi è la festa dei santi Maccabei / e in fondo al villaggio, su uno spiazzo di terra battuta, / s’è radunata un po’ di gente /
fra cui saluto parenti del ramo paterno / che non vedevo da tempo…» – sembra, per certi
versi, riecheggiare l’incipit di Nella casa di N. compagna d’infanzia (da Primizie del deserto,
1952, M. Luzi, L’opera poetica, p. 198), sia pur smussato delle asperità quaresimali («Il vento
è un aspro vento di quaresima, / geme dentro le crepe, sotto gli usci…»); e luziana è certo la
conduplicatio patetica «e dura, dura anche più del previsto» del terzo verso (per cui cfr., per
es., la chiusa di Come tu vuoi, 1954 – da Onore del vero, 1957, M. Luzi, L’opera poetica, p. 222
– «un giorno, un giorno della vita» o, in forme leggermente diverse, l’incipit di «Notizie» «Che
speri, che ti riprometti, amica…»; e le puntuali osservazioni di Mengaldo in Poeti italiani, p.
650). Nel passaggio dalla plaquette del ’64 alla raccolta del ’77 (G. Orelli, Sinopie, pp. 17-18)
non solo è obliterata questa “marca” stilistica, ma il testo acquista una terza strofa di 9 versi,
in cui – attraverso il medium dello stupore infantile – il motivo della compresenza di vivi e
morti, dell’osmosi fra vita e morte è declinato in forme originalissime, che segnano il definitivo congedo dalla stagione “luziana” degli anni cinquanta: «Mia figlia non vuole ripartire /
senza aver visto il camposanto. / Non si fatica molto a trovare la zia / con il suo stesso nome, /
ma con grande stupore conosce / che quasi tutti i morti si chiamano Forni, / Orelli, Vella,
Leonardi / e appena fuori esclama: “Io conosco un bambino / che viene all’asilo con me, e si
chiama Ferrari, e è vivo”» (miei tutti i corsivi).
185
GEORGIA FIORONI
Orelli e Sereni: un possibile dialogo*
«Andavo a Milano, appena finita la guerra, e sempre un po’ Renzo Tramaglino,
da contadino che si inurba, visitavo Scheiwiller, Sereni, Erba», così Orelli in un
articolo dedicato all’editore Vanni Scheiwiller apparso nel 1999 sul “Giornale
del Popolo”.1 E proprio al periodo immediatamente successivo al conflitto mondiale è da far risalire l’inizio del rapporto fra il poeta ticinese e Vittorio Sereni,
un rapporto che nel corso degli anni ha lasciato tracce importanti, specie da
parte di Giorgio Orelli (ma chissà che le carte di Sereni, e dello stesso Orelli,
non riservino ancora delle sorprese): nel 1983 appare sulla rivista “Verbanus”
(IV, 1983, 4) la poesia A Vittorio Sereni (poi riedita nel 2001, con varianti, ne
Il collo dell’anitra); due anni dopo una prosa inedita, intitolata La ballata degli
anarchici, in I gentiluomini nottambuli. Una poesia e lettere di Vittorio Sereni,
con cinque acqueforti di Franco Rognoni e testi di Carlo Fruttero, Dante Isella,
Franco Lucentini, Giorgio Orelli e Alessandro Parronchi, Scheiwiller, Milano
1985; nel 1991, in occasione del convegno tenutosi a Luino il 25-26 maggio di
quell’anno, Orelli dedica il suo contributo (uscito l’anno successivo negli Atti)
al Sereni traduttore di Char (Un accertamento su Char e Sereni);2 nel 1994 lo
sguardo di Orelli è attirato da due poesie contigue (Saba e Di passaggio) de Gli
strumenti umani: ne nasce un breve ma intenso accertamento intitolato Due
poesie di Sereni, edito nel volumetto Un posto di vacanza e altre poesie, a cura
di Zeno Birolli, con due scritti di Laura Barile e Giorgio Orelli, All’Insegna del
Pesce d’oro, Milano 1994, pp. 77-85;3 nel 2008 Orelli interviene a una serata,
nell’ambito del “Festival racconto Piero Chiara” (Varese, Villa Ponti, 2008), in
onore di Vittorio Sereni nel 25° anniversario della morte (con Marta Morazzoni,
Silvia Sereni e Andrea Vitali).4 È infine da ricordare la partecipazione dei due
poeti ad alcune trasmissioni del programma della Televisione della Svizzera Italiana Lavori in corso: il 2 febbraio 1970 a Poesia ’70 (a cura di Cesare Garboli e
Marisa Bulgheroni, con Stefano Agosti, Giorgio Orelli, Ippolito Pizzetti e Vittorio Sereni); l’8 novembre del 1971 a La magia, la superstizione (a cura di Grytzko
Mascioni, con Max Frisch, Giorgio Orelli, Vittorio Sereni, Elémire Zolla); il 27
dicembre dello stesso anno a L’arte, l’amore (a cura di Augusta Forni, con Max
Horkheimer, Violette Morin, Max Frisch, John Wain, Charles Percy Snow, Paolo Milano, Talcott Parson, Vittorio Sereni, Cesare Segre, Giorgio Orelli, Mario
Luzi, Jacqueline Risset, Alfred Andersch, Alain Touraine); e, ancora, il 10 aprile
del 1972 a Il tempo libero, la macchina, il gioco (con Vittorio Sereni, Max Frisch,
Andrea Zanzotto, Giorgio Orelli, Enzo Melandri, Pierre Naville, Alain Touraine).5 Accanto a tali testimonianze, si conservano nell’Archivio Sereni di Luino
187
Georgia Fioroni
cinque lettere di Orelli indirizzate all’amico luinese e scritte nel corso di poco
più di un trentennio (fra il maggio del 1950 e il febbraio 1982).6
Ma, com’è noto, Vittorio Sereni e Giorgio Orelli appaiono altresì uniti (insieme a Roberto Rèbora, Nelo Risi, Renzo Modesti e Luciano Erba) nella raccolta
ideata da Luciano Anceschi nel 1952, Linea Lombarda.7 Benché in tempi diversi, entrambi si dimostrano poco entusiasti dell’iniziativa anceschiana. Il primo
rivela la sua reticenza (quasi insofferenza), con toni a tratti duri, in un’importantissima lettera da far risalire all’aprile del 1952:8 esplicita qui le perplessità
sull’iniziativa («Io rimasi perplesso non – è bene dirlo una volta per tutte – di
fronte alla compagnia, ma di fronte all’idea, allo spunto»), sulla stessa etichetta
di “linea lombarda” («Ma non mi sento “movimento”, né mi sembra costituire
movimento o filone, piccolo o grosso che sia, quel gruppo di nomi che formano
una “linea lombarda”. È vero, tu l’hai detto, “nessuna scuola”…») e, soprattutto, sull’esclusività del rapporto poesia-realtà che agli occhi di Anceschi costituisce una peculiarità dei sei poeti antologizzati:
Vediamo qual è questa qualità [identificata da Anceschi quale matrice comune ai sei
poeti]. Si tratta del particolare rapporto tra poesia e realtà. E qui mi pare non ci sia dubbio: il moto di poesia colto nei sei poeti è quello che tu hai descritto, è la parte davvero
concreta e felice del saggio […] e si può dire che vale per tutti quanti i prescelti (salvo
sfumature). Ma qui ci risiamo. Questo particolare rapporto è proprio esclusivo, inconfondibile tanto da rendere reale una “linea lombarda”, una disposizione lombarda della
lirica nuova? O questo particolare rapporto, o “sentimento del rapporto” tra poesia e
realtà non è per caso un fatto molto più vasto nel quale s’iscrive, del quale partecipano,
ognuno nei propri modi, i sei antologizzati? […] In altri termini: lo spunto, occasionale
per esplicita ammissione, ha finito col fruttificare in una “linea lombarda”. Il dubbio che
a me rimane è questo: non valeva la pena, visto che ci si era avviati, distendere un discorso molto più generale sul sentimento del rapporto tra poesia e realtà nella poesia italiana
contemporanea di cui sarebbe, più o meno evidente, più o meno felice, nient’altro che
un espisodio il caso dei sei poeti presentati?
Orelli, a distanza di tempo, pur non nascondendo gratitudine per Anceschi,
esprime un certo distacco, che tuttavia non raggiunge il tono polemico di Sereni:
Io continuo a rallegrarmi d’aver avuto in gioventù un amico, un patronus, come Anceschi, anche se, molto post factum, letto anche il volume einaudiano dell’89 (Gli specchi
della poesia), riconoscenza e gratitudine non possono non striarsi di sorridente distacco.
No, l’etichetta di “lombardo della Svizzera” non mi ha mai disturbato, come non mi ha
mai disturbato quella, pure divertita ma più fondata (per le mie prime prose), continiana
di “toscano della Svizzera”. È che non vedo “linea”, e meno ancora “via” lombarda (si
legga, di Giorgio Luzzi, Poesia italiana 1941-1988: la via lombarda). Né mi pare che le
dichiarazioni di Anceschi nella citata prefazione diano consistenza alla «disposizione
lombarda nella lirica nuova»; con quei moti improvvisi, esclamativi: «Che cosa fu mai
Sassu, per noi, in quegli anni!», «E quanto amammo Quasimodo». Ricordo bene queste
cose, queste cotte, non condivise da me, nutrito in quegli anni da ben altro pane (e, a
Friburgo, Europa non era solo uno scoppio bilabiale).9
188
Orelli e Sereni: un possibile dialogo
L’etichetta di “linea lombarda”, «proverbiale invenzione di Anceschi, poco resistente sul piano formale, ma non del tutto sbagliata a livello tonale»,10 va pertanto còlta con estrema cautela anche nel caso di Orelli e Sereni e, d’altra parte, uno
studio vòlto a individuare riscontri testuali precisi o eventuali contaminazioni
della poesia dell’uno nell’altro non risulta, a mio parere, la via più feconda per
determinare eventuali affinità fra il poeta luinese e Giorgio Orelli. Più fruttuoso appare invece – ed è su questo aspetto che intendo soffermarmi – indagare
alcuni momenti poetici cruciali cui entrambi sembrano giungere attraverso un
percorso attentissimo al motivo dei morti,11 nodo implicito del già menzionato
accertamento orelliano del 1994 – Due poesie di Sereni nel volume «Un posto di
vacanza» e altre poesie –; e proprio da questo accertamento intende prendere avvio la presente ricerca. Il libro in cui appare, curato da Zeno Birolli, è suddiviso
in tre sezioni: la prima (che dà il titolo al volume) comprende dodici poesie di
Vittorio Sereni appartenenti a Gli strumenti umani e a Stella variabile,12 disposte
in ordine inverso rispetto all’uscita delle due raccolte (i testi di Stella variabile anticipano le poesie de Gli strumenti umani); la seconda sezione, intitolata
TRA FIUME E MARE prose su Bocca di Magra di Vittorio Sereni è costituita da
quattro prose: tre già pubblicate in altra sede («Il ritorno», Tra fiume e mare e
Infatuazioni)13 e una fino ad allora inedita, Bocca di magra (ms. di tre piccoli fogli
numerati, s.d.); l’ultima sezione, infine, Per Vittorio Sereni, include tre scritti,
nel seguente ordine: Due poesie di Sereni di Giorgio Orelli, I nomi di un quadro
di Zeno Birolli e Alcuni materiali per «Un posto di vacanza» di Laura Barile. Il
saggio orelliano propone una lettura di due testi poetici, Saba e Di passaggio,
situati l’uno di seguito all’altro entro la sezione Appuntamento a ora insolita de
Gli strumenti umani. La lettura di Di passaggio (il primo testo cui Orelli si dedica) consente di cogliere alcune peculiarità dei due poeti nel trattare il tema dei
morti; tema che, per la sua ampiezza, verrà qui circoscritto solo ad alcuni aspetti, che via via espliciterò, e con una maggiore attenzione per le poesie di Orelli.
Di passaggio
Un solo giorno, nemmeno. Poche ore.
Una luce mai vista.
Fiori che in agosto nemmeno te li sogni.
Sangue a chiazze sui prati,
non ancora oleandri dalla parte del mare.
Caldo, ma poca voglia di bagnarsi.
Ventilata domenica tirrena.
Sono già morto e qui torno?
O sono il solo vivo nella vivida e ferma
nullità di un ricordo?
5
10
Suggerendo implicitamente una spiegazione al titolo di una sua poesia contenuta in Sinopie – Di passaggio a Villa Bedretto – a Orelli non sfugge l’«apparente
levità» del titolo (parla, per l’esattezza, di una «breve e intensa lirica intitolata con
189
Georgia Fioroni
apparente levità “Di passaggio”» [p. 77, corsivo mio]); e di levità solo apparente
si tratta, giacché nella poesia il poeta individua due distinti percorsi, uno mortale
e l’altro vitale.14 Il primo «è dominato da morto 8 e può dirsi “mortale”. Accoglie
giORno 1, provvisto del nesso /OR/ in arsi di morto, con cui dimora TORno che
ne torce (come dice Petrarca) il gruppo forte. Come giorno e morto in 4a, così
sono isometrici torno e ricordo 10 […] (p. 79). La «seconda portante fonica», o
come si preciserà poco dopo, il secondo «triangolo», «investe /i/ di semantismo
luminoso» e «può dirsi “vitale”, è una classica figura su /VI/; mossa da VIsta 2,
isometrico a VIvo 9 potenziato nel suo stesso verso da VIVIda» (p. 79). La presenza di un duplice e apparentemente opposto percorso (altresì registrato, attraverso
le medesime terne lessicali nella successiva Saba) anziché costituire un contrasto,
genera, grazie alla particolare disposizione di alcuni termini («caldo», «sangue»,
«fiori»), «un’aria stranita che finisce col pareggiare vita e morte».15
Le pagine dedicate alle due poesie de Gli strumenti umani sono sintomo di
una duplice operazione: da una parte il poeta individua un motivo notoriamente
centrale della poesia di Sereni associandolo a un percorso vitale, “pareggiando”
le due realtà dell’esistenza16 e intrecciando alla realtà mortuaria altri due temi
fondamentali della poesia di Sereni, il tempo e la memoria;17 d’altra parte, come
spesso accade, Orelli parlando d’altri, sembra parlare anche di sé.18 Il tema degli
«andati di là» è tratto dominante anche della sua poesia,19 e non è un caso che
la terna lessicale giorno-morto-ricordo («tre parole», scrive Orelli, «così legate
nel senso e nel suono», p. 81), individuata in Di passaggio quale matrice del
percorso mortale, trovi riscontro nel suo “sistema”: «ogni giorno», confidava
Orelli a De Marchi in un’intervista, «in qualche modo contiene tutta la vita»
e «di qui», proseguiva il poeta, «lo sforzo di non lasciarsi scappare troppo di
noi e del mondo che ci circonda, di fronte al furto irrimediabile del tempo»;20 a
sua volta il ricordo, nell’attacco del secondo movimento della poesia L’estate a
Prato Leventina, 1-4 (Si), sembra allontanare la morte: «Ancora, nel ricordo, / è
come se potessimo, strappando / fin le ultime radici delle erbacce, / allontanare
la morte» (e non si escluda, in quest’ultimo verso, l’eco del Sereni di Strada di
Zenna, F, 2-4: «[…] Ma ora / nell’estate impaziente / s’allontana la morte»).
Ma il binomio vita-morte, e il saggio dedicato a Sereni non ne è che un’ulteriore conferma, percorre anche le prose critiche di Orelli: basti pensare, a titolo
d’esempio, al saggio «Stil canuto» di Saba (apparso in “Strumenti critici”, XI
[1977], 32-33, giugno) o, ancora, a parte dell’accertamento verbale dedicato a
Mario Luzi (Sul «mentre» nella poesia di Mario Luzi).21
In Sereni la radice del rapporto vita-morte e del suo successivo mutare nel
tempo è da cogliere nella sezione eponima della raccolta d’esordio, Frontiera;
in Orelli in parte della IV (e ultima) sezione de L’ora del tempo, sezione in cui
convergono quasi tutte le poesie di Ncf seguite da quattro testi inediti. In effetti,
benché alcuni indizi importanti di tale binomio vengano espressi già in poesie
di precedenti sezioni (nel caso di Sereni) o raccolte (nel caso di Orelli), è lì che
si annida con una certa costanza quella compresenza di estremi, che da subito
suggerisce delle implicazioni fortissime con un altro binomio fondamentale, il
190
Orelli e Sereni: un possibile dialogo
silenzio e la parola. Un’operazione preliminare – utile a cogliere la frequenza
esplicita del motivo funebre nonché il suo rapporto con la «vita» – consiste in
un rapido esame delle occorrenze dei termini «morte» e «vita» (e l’operazione,
d’altra parte, sembrerebbe non essere estranea né a Orelli né tantomeno a Sereni):22 sia in Frontiera sia in L’ora del tempo il lemma «morte» (o derivati) prevale
sul termine «vita», e il rapporto fra occorrenze e numero di versi è più o meno
simile;23 inoltre, entrambe le raccolte registrano un’unica poesia contenente –
entro il medesimo verso – i due lessemi: Strada di Creva 15 («Questo trepido
vivere nei morti») e Nel cerchio familiare 9 («i morti sono più vivi dei vivi»). Al
di là dell’affinità lessicale, Strada di Creva e Nel cerchio familiare costituiscono,
entro l’itinerario poetico di Sereni e Orelli, una tappa fondamentale e simile
nonché un nuovo punto d’avvio, percepibili anzitutto tratteggiando, almeno per
sommi capi, il percorso che conduce ai due componimenti.
Nel cerchio familiare viene pubblicata per la prima volta nella rivista “Botteghe
oscure” (con il titolo Nel cerchio famigliare), quindi nella plaquette del 1960 (cui
dà il nome); ne L’ora del tempo si situa nella parte conclusiva del libro,24 ma si
noti che in entrambe le edizioni si colloca, ed entro il medesimo ordine, in un
nucleo compatto di testi, che da L’estate giunge a Prima dell’anno nuovo. Più nel
dettaglio, si osserva che Ncf è costituita da undici componimenti (Epigramma
veneziano [1]-Il fanciullo del paradiso [2]-L’estate [3]-Passo della Novena [4]-Dicembre a Prato [5]-Nel cerchio familiare [6]-Prima dell’anno nuovo [7]-L’uomo
che va nel bosco [8]-Nel dopopioggia [9]-A un amico che si sposa [10]-Frammento
della montagna [11]), tutti riproposti in Ot: ad eccezione delle due poesie iniziali – collocate rispettivamente nella terza e nella prima sezione della raccolta del
1962 – le liriche di Ncf andranno a situarsi, con lieve ma significativa variazione
dell’ordine, nella IV sezione di Ot, che propone altresì, in chiusura, quattro
poesie inedite. Ne deriva una sezione così composta: 25 L’uomo che va nel bosco
[8 →1]-Nel dopopioggia [9→2]-L’estate [3→3]-Passo della Novena [4/4]-Dicembre a Prato [5→5]-Nel cerchio familiare [6→6]-Prima dell’anno nuovo [7→7]-A
un amico che si sposa [10→8]-Frammento della montagna [11/9]-*Brindisi del
primo fieno-*A un giovane poeta cacciatore-*A mia moglie, in montagna-*[Se fai
come il vecchio sartore…]. La disposizione definitiva anticipa, ad apertura di sezione, la coppia (mantenuta sin da Ncf) L’uomo che va nel bosco – Nel dopopioggia, inizialmente situata in ottava e nona posizione (fra Prima dell’anno nuovo
e A un amico che si sposa); propone poi il mantenimento e l’ordine di un consistente nucleo di testi (L’estate, Passo della Novena, Dicembre a Prato, Nel cerchio
familiare, Prima dell’anno nuovo);26 infine A un amico che si sposa e Frammento
della montagna, anziché seguire (come in Ncf) Nel dopopioggia, sono poste di
seguito a Prima dell’anno nuovo e prima della serie delle quattro poesie inedite.
I testi situati alle estremità della sezione appaiono il frutto di una riflessione
assai calibrata, giacché le due poesie illustrano due motivi chiave dell’ultima
parte del libro, al cui centro – quale punto di svolta – sembra situarsi Nel cerchio
familiare. In effetti L’uomo che va nel bosco e [Se fai come il vecchio sartore],
191
Georgia Fioroni
correlati peraltro dal significativo «oscillando» (L’uomo che va nel bosco 13-14:
«con sulle spalle falci, che, divaricate, / oscillando, scintillano»; [Se fai come il
vecchio sartore] 2: «le vacche nere di pioggia che oscillando indietreggiano»),27
colgono due aspetti fondamentali dell’ultima parte del libro (e degli sviluppi
della poesia di Orelli), assumendo così il ruolo di “cornice”. La poesia posta
ad apertura della sezione illustra, in termini accentuati, la duplicità vita-morte,
mediante alcuni lemmi che agli occhi di Orelli (parecchi anni dopo) avrebbero
costituito il «percorso mortale e vitale» dei due testi di Sereni già menzionati, Saba e Di passaggio, oggetto dell’accertamento del 1994. In effetti L’uomo
che va nel bosco registra in clausola «morto», accompagnato da «giorno» 8, cui
idealmente si potrebbe aggiungere «ritorno» 14 (nel suono e nel senso affine a
«ricordo»), entrambi con arsi di 4a; né forse sarebbe da dimenticare «sorge» 9.
Accanto – in linea con il percorso “vitale” – si registra il lemma «vita» 7, forse
accentuato da «viso» 12:
L’uomo che va nel bosco (lo rallegra
un suono di campana da non sa
bene quale paese: certezza di bel tempo?)
pensa a un tratto i compagni ch’è inutile chiamare,
i compagni spariti con le bocche
sporche di mirtilli in intrichi
d’ombra e sole.
La briga della vita
lo stesso giorno, o un altro, lo dimentica
al margine d’un nulla in cui sorge
come una riva un poggio e donne girano
il viso alla parete dei monti
con sulle spalle falci, che, divaricate,
oscillando, scintillano.
Al suo ritorno l’aria
è quella giusta, sottile, che punge
se anche nessuno, nel frattempo, è morto.
5
10
15
Ma, al di là di tali occorrenze, L’uomo che va nel bosco irradia una serie di legami attinenti alla fragilità della vita, specie con poesie della medesima sezione:
anzitutto la «falce», che – come già osservato dalla critica – si registra ne L’estate
4-5, con «l’erba» che «s’arrende al taglio netto della falce»; ma, prima ancora
(III sezione), nel «falciatore» de L’epigramma pisano 1-4 («Il falciatore in Piazza
dei Miracoli / falcia un’erba cui più di quel tanto / non concede di crescere /
in nessuna stagione, da sempre»), significativamente affine al «pescatore» del
medesimo testo («simile al pescatore che ritira / la rete colma di pesci invisibili /
nella sinopia del Maestro ignoto, / ma quanto più in disparte, / viola stinto con
falce lungo il muro del Campo», 4-5), che, a sua volta, avrà il compito di aprire
la raccolta Sinopie decidendo della vita e della morte (nella poesia La trota). A
192
Orelli e Sereni: un possibile dialogo
tale fragilità è strettamente correlato il motivo di un labile confine, altro fil rouge
dell’ultima parte del libro. Il «margine d’un nulla», al verso 9,28 è immagine variamente declinata entro la sezione: basti pensare al «lembo / della vita» nell’explicit della successiva Nel dopopioggia; o ai «limiti del nostro giorno», 25 e a «la
fine / d’un’estate, d’un anno» de L’estate 27-28; ma anche – sempre ne L’estate
e in termini più impliciti – al «filo a sbalzo» («ma solo una speranza, tesa, com’è
del filo / a sbalzo, quando un tronco scende», 9-10), sintagma altresì registrato
in A Giovanni, per San Silvestro, P («La morte non è più / nel filo a sbalzo teso
nell’albe / dei boscaioli […]», 2-4) e Il fanciullo del paradiso, Ncf-Ot («“Torci
torci il tuo cappio, ora, fanciullo / del paradiso! Il filo a sbalzo è un serpe / troppo inquieto!”», 8-10), indizio sottile e inquietante della precarietà dell’esistenza,
come suggerisce un passo del racconto La morte del gatto:
Non mi par vero di non vedere un filo a sbalzo qui intorno, ma risento le telefonate dei
boscaioli della Valtellina venuti a lavorare pel Patriziato: colpi di randello sul portante;
e i gridi che riempivano questa conca come i guaiti delle volpi, e Bortolo che mostra la
camicia strappata su una spalla, dicendo: – La vita la va a strappi, come il filo, – quel filo
che, quando gli saltava il ruzzo, levava tali stridori che i contadini cessavano di lavorare,
e, appoggiandosi a una forca o ad un rastrello, guardavano in su: chi non sapeva che la
cordina, se salta, con uno schiaffo dei suoi ti può mandare all’altro mondo!29
Tale frontiera verrà annullata – lo preciserò oltre – in Nel cerchio familiare e
ne deriverà, a partire da Prima dell’anno nuovo, un altro fondamentale binomio,
quello fra silenzio e parola, quasi a suggerire che è «dal vuoto del silenzio che si
origina il pieno della parola; è dall’incombere della morte che viene la necessità
di dire».30 E la strettissima correlazione fra parola e vita appare condensata,
e magistralmente illustrata, proprio nel testo posto a sigillo della sezione [Se
fai come il vecchio sartore], specie nell’immagine del «vecchio»: «[…] vedi il
vecchio, / ma non poi tanto vecchio, dal morbo irrimediabile, / che ancora vive,
ancora racconta storielle e saluta / con un sorriso che gli occhi straniti non deturpano», 4-7 (corsivo mio).
Se ora si volge lo sguardo al Sereni di Frontiera, si osserverà che – analogamente a quanto accade nella sezione conclusiva di Ot – nell’ultima parte della
raccolta si registra un’analoga tensione fra morte e vita. Strada di Creva, assente
da F1941, ma apparsa in “Letteratura” lo stesso anno, appare a partire da P1942
e quindi nell’edizione di F1966, ove sembra trovare la sua collocazione ideale,
vale a dire a sigillo della parte eponima della raccolta. In Frontiera, così come si
presenta nell’edizione del 1966, fra le poesie che precedono Strada di Creva, il
termine «vita», tendenzialmente raro, non si accosta al suo opposto, e prevale la
dimensione mortuaria che può esplicitarsi sia nei testi di memoria o di anniversario (quali Diana o 3 dicembre), sia in liriche che esprimono uno dei nodi della
prima raccolta, ossia l’attesa di un futuro dialogo con i morti,31 particolarmente
presente nella parte eponima del libro, costituita da nove poesie e quasi identica
alla sezione III di F1941 (Inverno a Luino [1]-Terrazza [2]-Zenna [3]-Settembre
193
Georgia Fioroni
[4]-Un’altra estate [5]-Paese [6]-Immagine [7]-In me il tuo ricordo [8]-Ecco le
voci cadono [9]), ad eccezione della fondamentale aggiunta in P1942 di Strada di
Creva (Inverno a Luino [1]-Terrazza [2]-Zenna [3]-Settembre [4]-Un’altra estate
[5]-Paese [6]-Immagine [7]-In me il tuo ricordo [8]-*Strada di Creva [9]-Ecco le
voci cadono [10→9]) cui è affidata la posizione explicitaria in F1966 (Inverno
a Luino [1→1→1]-Terrazza [2→2→2]-Strada di Zenna [3→3→3]-Settembre
[4→4→4]-Un’altra estate [5→5→5]-Paese [6→6→6]-Immagine [7→7→7]-In
me il tuo ricordo [8→8→8]-Strada di Creva [9→9]), dapprima occupata da Ecco
le voci cadono che, a partire da F1966, costituisce una sezione a sé, a sigillo
del libro. La sezione – topograficamente incentrata sul paese natìo e sui suoi
dintorni, e psicologicamente sostenuta dal desiderio di individuare nella realtà
del luogo familiare la presenza mortuaria (a conferma di quella fedeltà ai morti,
profondamente intrecciata a una fedeltà ai luoghi) –, appare percorsa da un triplice e lineare movimento, strettamente connesso al ciclo stagionale: lo stato di
sospensione e di attesa di un evento futuro – Terrazza 6-7 («Siamo tutti sospesi /
a un tacito evento questa sera»), Strada di Zenna 2-7 («[…] Ma ora / nell’estate
impaziente / s’allontana la morte. / E pure con labile passo / c’incamminiamo su
cinerei prati / che rasentano l’Eliso») e Settembre 6-10 («E il vento che illumina
le vigne / già volge ai giorni fermi queste plaghe / da una dubbiosa brulicante
estate. // Nella morte già certa / cammineremo con più coraggio») –; il momento di transizione in Un’altra estate 1-6 («Lunga furente estate. / La solca ora un
brivido sottile / alle foci del Tresa / sì che alcuno ne trema / dei volti già ridenti, /
ora presaghi»); e, infine, il ricordo: in Paese 1-4 («Era questo l’augurio: camminare, / o frusciante di passi nella sera, / nell’oscura tua folla che trascorre /
all’ombra fedele dei morti»), Immagine 1-4 («La finestra ti reggeva nella sera /
alta sulle canzoni della strada. / Così nel buio degli anni indecisi / resterai… –
[…]») e In me il tuo ricordo 1-3 e 12-13 («In me il tuo ricordo è un fruscìo / solo
di velocipedi che vanno / quietamente […]»; «E là leggera te ne vai sul vento, /
ti perdi nella sera»). A precisare geograficamente la sezione, fungendo altresì
da cornice, sono i due testi che aprono e chiudono la sezione (Inverno a Luino
e Strada di Creva), sviluppati attorno al motivo dell’inganno stagionale, che genera una bipartizione della materia, entro una topografia di frontiera: frontiera
che sigilla Inverno a Luino («un fioco tumulto di lontane / locomotive verso la
frontiera», 25-26) e la cui essenza metafisica e mortuaria appare lampante in
Strada di Creva.
Inquadrato, a grandi linee, il contesto in cui si situano Nel cerchio familiare
e Strada di Creva, un primo rilievo riguarda i titoli. In Sereni, dall’esplicita e
familiare indicazione geografica è possibile risalire alla dimensione mortuaria,
giacché Creva è località nei dintorni di Luino, e la strada che vi conduce porta
anche al cimitero; a un duplice aspetto, benché più implicitamente, rinvia anche
il titolo Nel cerchio familiare (sintagma ripreso al verso 6, con «familiare» in rima
baciata con «scampare» – «nel cerchio familiare / da cui non ha senso scampare» – a concentrare lo status coscientiae dell’io):32 immediato è il richiamo a
194
Orelli e Sereni: un possibile dialogo
una dimensione intima, alle radici, alle origini, a «[…] questa conca / scavata
con dolcezza dal tempo», 4-5 (da correlare a L’estate 3-6: «Di là dal melo i loro
gridi cadono / in una dolce conca dove l’erba / s’arrende al taglio netto della
falce / e più verde s’adagia»): «questa fedeltà dichiarata al cerchio familiare, alle
radici, alle origini, al luogo privilegiato della nostra giovinezza, non è senz’altro
il nostro paese natìo […]», afferma Orelli. «Io», prosegue il poeta, «non sono
legato al paese natìo, io sono nato ad Airolo, ma se devo scegliere un paese, una
sorta di probabile Eliso, qui, non è Airolo; è Prato Leventina, è questa conca di
cui parlo qui, questo paese, diciamo così, costruito con dolcezza, con tocchi dei
polpastrelli tra le dita, non violenti. Prato Leventina sembra un paese di collina,
è il paese di mia madre».33 Ma, d’altra parte, implicitamente il «cerchio» conduce, è ancora Orelli a suggerirlo nella medesima intervista, «al cerchio esiguo
della nostra vita», alla «doppia realtà del vivere»:
Ecco che si vive da un lato intensamente questa vicenda nel cerchio esiguo della nostra
vita: “ein kleiner Ring begrenzt unser Leben”, è una famosa poesia di Goethe, il cerchio
viene un po’ da lì, «un cerchio esiguo limita la nostra vita» […], che s’intitola molto
significativamente Grenzen der Menscheit: Confini dell’umanità…frontiere; dall’altro c’è
questo sentimento della doppia realtà del vivere, e bisogna accettare questo: doppia
realtà della vita.
Fedeltà ai luoghi, annullamento del confine fra vivi e morti e duplice realtà espressa mediante una struttura argomentativa bipartita, sono elementi che
affiorano anche a una lettura superficiale di Nel cerchio familiare e Strada di
Creva: Strada di Creva
I
Presto la vela freschissima di maggio
ritornerà sulle acque
dove infinita trema Luino
e il canto punterà remoto
del cucco affacciato alle valli dopo l’ultima pioggia:
ora
d’un pazzo inverno nei giorni
dei Santi votati alla neve
lucerte vanno per siepi,
fumano i boschi intorno e una coppia attardata sui clivi
ha voci per me di saluto
come a volte sui monti
la gente che si chiama tra le valli.
II
Questo trepido vivere nei morti. Nel cerchio familiare (versione Ot)
5
10
15
Una luce funerea, spenta,
raggela le conifere
dalla scorza che dura oltre la morte,
e tutto è fermo in questa conca
scavata con dolcezza dal tempo: nel cerchio familiare
da cui non ha senso scampare.
5
Entro un silenzio così conosciuto
i morti sono più vivi dei vivi:
da linde camere odorose di canfora 10
scendono per le botole in stufe
rivestite di legno, aggiustano i propri ritratti,
tornano nella stalla a rivedere i capi
di pura razza bruna.
Ma,
senza ferri da talpe, senza ombrelli 15
195
Georgia Fioroni
Ma dove ci conduce questo cielo
che azzurro sempre più azzurro si spalanca
ove, a guardarli, ai lontani
paesi decade ogni colore.
Tu sai che la strada se discende 20
ci protende altri prati, altri paesi,
altre vele sui laghi:
il vento ancora
turba i golfi, li oscura.
Si rientra d’un passo nell’inverno.
E nei tetri abituri si rientra, 25
a un convito d’ospiti leggiadri
si riattizzano i fuochi moribondi.
per impigliarvi rondini;
non cauti, non dimentichi in rincorse,
dietro quali carillon ve ne andate,
ragazzi per i prati intirizziti?
La cote è nel suo corno. 20
Il pollaio s’appoggia al suo sambuco.
I falangi stanno a lungo intricati
sui muri della chiesa.
La fontana con l’acqua si tiene compagnia.
Ed io, restituito 25
a un più discreto amore della vita…
E nei bicchieri muiono altri giorni.
Salvaci allora dai notturni orrori
dei lumi nelle case silenziose. 30
Strada di Creva,34 esplicitamente suddivisa in due tempi (segnalati dai numeri
romani), si sviluppa sul contrasto fra primo e secondo movimento: all’attesa
della primavera, focalizzata sul paesaggio ampio e luminoso che circonda la cittadina lacustre, segue un tono cupo e riflessivo che conduce a una dimensione di
oscurità e chiusura. Ne deriva uno spostamento: dagli esterni ai silenziosi interni
domestici, abitati dalla costante presenza mortuaria che ritma le lunghe giornate
invernali. E, tuttavia, tra i due momenti è lecito individuare un’unità di fondo, emblematica della fragilità del confine tra vita e morte; anzi, del connubio
tra vita e morte, condensato nell’incipit, brusco e nominale, del II movimento:
«Questo trepido vivere nei morti». Nel cerchio familiare,35 pur non presentando
una struttura esplicitamente bipartita, appare idealmente suddivisibile in due
tempi, il secondo dei quali inaugurato, al verso 14 (a gradino), dalla congiunzione avversativa «Ma». Tuttavia, la materia si presenta distribuita in maniera
opposta rispetto a Strada di Creva, giacché a una prima parte ambientata nella
stagione invernale e negli interni domestici dominati dal silenzio, ed essenzialmente dedicata alla presenza mortuaria, segue un’ambientazione aperta e più
distesa (l’andare, quasi svagato dei ragazzi) e quindi un finale che «contrasta
l’angoscia ripresentando fermi al loro posto» gli «oggetti di una quotidianità da
cui si prende commiato, ma anche talismani di salvezza e protezione».36
Alla luce di tali osservazioni, non deve sfuggire un’affinità di fondo, suggerita
dai titoli e confermata dalla struttura argomentativa: da una parte una duplicità
della natura dell’esperienza e della realtà percepite da un io, da un noi; e, dall’altra, un’unità di sguardo sui defunti, che assumono «uno statuto di revenants»37
entro un’atmosfera in cui dimensione vitale e dimensione mortuaria coesistono,
giacché la presenza dei morti è costante e il sentimento di confine non ha più
ragione di esistere.38 Tale comunanza, tuttavia, non stempera il forte contrasto –
196
Orelli e Sereni: un possibile dialogo
che sembrerebbe quasi suggerire, benché in forma ancora embrionale, il diverso
sviluppo della poesia dei due autori – fra le due chiuse: una richiesta di salvezza
rivolta a un indeterminato “tu” in Sereni («Salvaci allora dai notturni orrori /
dei lumi nelle case silenziose»), una conciliazione con la vita in Orelli («Ed io,
restituito / a un più discreto amore per la vita»). Il silenzio mortuario che sigilla
la poesia sereniana – silenzio altresì registrato in Nel cerchio familiare 8-9 («Entro un silenzio così conosciuto / i morti sono più vivi dei vivi») e forse da far risalire, per l’uno e per l’altro, alla lettura di Jules Supervielle –39 o meglio ancora,
l’infrazione di quel silenzio, equivale all’annullamento del confine fra vivi e morti; e non sarà dunque inutile rilevare che i testi che seguono Nel cerchio familiare
e Strada di Creva, alludano proprio a una forma dialogica: come è ben noto in
Prima dell’anno nuovo, di seguito al titolo figura l’epigrafe di Benn («Wer redet,
ist nicht tot»), formula che condiziona l’intera poesia di Orelli, e la cui portata è
stata acutamente studiata da De Marchi.40 Analogamente, la sezione che segue
Strada di Creva, Versi a Proserpina, apre alla parola: i cinque testi anepigrafi che
costituiscono la sezione, leggibili come una sola lunga poesia,41 non si limitano
a un dialogo interiore rivolto a un “tu”, ma propongono anche l’immissione di
una voce introdotta dal verbo dire, pronunciata dapprima da un locutore vago,
quindi dalle «ortensie»; nella sezione, accanto all’inserimento di parole e di dialoghi, appare particolarmente accentuato un percorso a un tempo mortale e
vitale, individuato nel più volte citato accertamento orelliano dedicato a Sereni,
proponendo al centro la morte («morta», [Dicono le ortensie] 7), circondata da
una dimensione vitale («vivo» e «vibri», [Te n’andrai nell’assolato pomeriggio] 5
e 7; «vita», [Così, sirena] 6) e, alle estremità, l’aspetto temporale («giorno», [La
sera invade il calice leggero] 3; «giorno», [Sul tavolo tondo di sasso] 5).
L’infrazione del silenzio, negli sviluppi della poesia di Sereni e Orelli, assumerà
forme in parte diverse. Se il Diario d’Algeria – ove «[…] non vi può essere attesa
dei morti, se è morto colui che dovrebbe incontrarli e la morte è una condizione
puramente negativa, non-vita e non oltrevita, diversa vita»42 – meriterebbe un
discorso a parte, è noto invece che negli Strumenti umani – specie nella sezione
Apparizioni o incontri –, i morti parlano (e parlano più dei vivi), con i vivi dialogano (sebbene di dialoghi spesso «tragici e delusivi» si tratti);43 e, malgrado
l’utopia che sigilla Gli strumenti umani (la nota chiusa de La spiaggia: «Non /
dubitare, – m’investe della sua forza il mare – / parleranno»), in Stella variabile
i morti «non sono altro che coloro che ci lasciano qui, soli e feriti».44 Al dialogo
con i morti, Orelli sembra preferire il dialogo con i morituri, personaggi che
nella loro umiltà appartengono a una «doppia realtà»:
C’è una sorta di scelta anteriore di questo microcosmo e anche di questi microracconti,
ed è su questa pre-creazione che si dovrebbe mettere l’accento; e allora se si legge tutta
la composizione [Sinopie] si nota una convergenza tematica che è di molta parte della
mia poesia; ossia questa realtà, […] della quale fanno parte umili personaggi del mondo
quotidiano, è una doppia realtà: io colgo istintivamente, per mia natura, questo aspetto
della realtà, della doppia realtà, della realtà della vita che per me contiene sempre la
197
Georgia Fioroni
morte; ecco perché lì si corre a morte (lo dico al modo di Dante), è un verso di Dante,
del viver che è un correre alla morte.45
Con coloro che “corrono a morte” dialoga, a loro dà la parola; ma con coloro che non sono più, e di coloro che non sono più, vorrebbe parlare: «D’altri /
pure vorrei parlare, che sono già tutti sinopie / (senza le belle beffe dei peschi
dei meli) / traversate da crepe secolari» (Sinopie, Si, 17-20).46 Tenendo conto
in questa sede solo dei componimenti esplicitamente mortuari in cui l’io dialoga con una seconda persona, il «correre alla morte» tende ad accentuarsi e gli
interlocutori dell’io appaiono sempre più vicini al «margine d’ombra». Esemplificativa di tale fenomeno è Una visita (Sp), opportunamente definita da De
Marchi «vero pendant (al femminile) di Sinopie»:47 lo stesso Orelli d’altra parte,
nell’intervista citata più volte, sembra intrecciare il discorso relativo a Sinopie
con elementi variamente presenti in Una visita:48
… e quindi queste fugaci apparizioni di stagione («le belle beffe dei peschi dei meli»),
con un che di beffardo, nella loro vicenda rapida, fugace, che è poi anche sull’arco di
anni. Io ho incontrato una vecchia pochi giorni fa, raccogliendo castagne, dalle parti di
Camorino, […] verso i “Fortini della Fame”, un mio amico ha una sorta di pascolo, bellissimo; e stavo raccogliendo castagne e incontrai una vecchia, e a un certo momento, mi
disse che era di Camorino, proprio di quelle parti, e mi additò la sua casa che era poco
lontana; e mi disse che quando era ragazza quella collina era tutto un profumo, era tutta
peschi, dice: l’era un profüm, era tutto un profumo; adesso non c’è quasi più niente; però
è bello lo stesso: ci sono ancora i “Fortini della Fame”, c’è qualche pesco, ma insomma
era tutto un fiore e un profumo di pesco. È straordinario.
Nel corso di una visita, in ospedale, a una «mite signora» («I cumuli di sé sui
letti d’ospedale. / Se ne stagliano poveri crinali / scossi appena da colpi repressi
di tosse. // I rapporti difficili coi fiori, / specie nei corridoi», 1-5), a prendere più
volte la parola è l’io («“Quest’anno”, dico, non è ancora ottobre / e ho già raccolto castagne», 10-11; «Chi sa se la mia voce / trova giusti versanti», 15-16; «Mi
tornano a mente / incontri di primavera e dico» […], 31-32; «Le ho dato una
risposta smerlettata», 38; «[…] Tu credi, mi son detto, / che nessuno ti stia guardando, ma ti sbagli […]», 40-41; «in cima a un ronco una vecchia mi ha chiesto
“cosa cercava là giù”. L’oro, le ho detto […]», 42-43); analogamente anche la
«mite signora» e una sua compagna di stanza parlano, raccontano aneddoti; e
a parlare sono altresì i protagonisti di tali aneddoti («una donna magrissima /
vestita di giallo»; la sorella della «paziente / meno anziana»; «una donna»; «una
vecchia»; e, infine, un indeterminato «uno»). Chi invece non parla, chi non dà
segni di vita è colei che appare, forse, già quasi sinopia: «Sorride la mite signora, /
sorride la donna d’Iragna; la terza, di cui non ho mai / potuto cogliere gli occhi,
s’è fatta scoglio. / Vorrei, per sentirne la voce, ricordare che un giorno / mi sono
fermato a raccogliere noci cadute / fuori del prato d’uno che quando mi ha visto
mi ha detto / di prenderle tutte, tanto non le mangiavano», 43-49. Non è casuale
che le zone testuali più insistentemente percorse da un’ombra mortuaria – e
198
Orelli e Sereni: un possibile dialogo
quindi dal silenzio – siano quelle in cui si insinua il nesso /s/ vs /k/: i versi 1-3 («I
cumuli di sé sui letti d’ospedale. / Se ne stagliano i poveri crinali / scossi appena
da colpi repressi di tosse»); 6-7 («Mentre le due compagne, forse, dormono /
voltandomi la schiena»); 43-46 («Sorride la mite signora, / sorride la donna d’Iragna; la terza, di cui non ho mai / potuto cogliere gli occhi, s’è fatta scoglio. /
Vorrei, per sentirne la voce, ricordare che un giorno»: e si noti qui che, ancora
una volta, il ricordo sembra allontanare la morte); e infine nell’ultima strofa –
secondo a parte della poesia, ove a parlare «è la voce fuori campo» –49 domina la
presenza della «mosca»-morte. Si tratta di un nesso su cui Orelli si sofferma in
un articolo intitolato Appunti su Char, dedicato a Vittorio Sereni, ed edito nella
rivista “Il piccolo Hans” nel 1980 (25, gennaio-marzo). In queste pagine – che
rielaborano alcune delle osservazioni già espresse in una lettera a Sereni del 24
novembre 1974 (riprodotta in Allegato) relative ad alcune scelte traduttorie (nel
1974 esce la traduzione sereniana di Ritorno sopramonte e altre poesie di René
Char) –, a proposito del termine «obscur», Orelli parla dello slancio vitale della
/s/, poi corroso da /k/ «come insorgenza del negativo, intoppo mortale» (p.
130), con cui dunque «s’afferma la negatività» (p. 131). Tale «intoppo mortale»
(«scossi», «schiena», «scoglio», mosca») riappare, inversamente, nella X, incontro-scontro di /k/ e /s/ (e significativamente non inclusa nell’Abcedario curato
da Yari Bernasconi),50 che sigilla la poesia In memoria. Quella stessa In memoria
(Ca), in cui l’io voleva dire a un “tu” che pare non poter più ascoltare («Volevo
dirti che mi sono accorto», 12); e, analogamente, nel testo che immediatamente
la precede, Per zia Anna (Ca), di fronte a una prima persona che non può chiedere vi è un interlocutore che non può ormai più dire: «Ora non posso chiederti
di dirmi / se dove stai smarrendoti qualcuno / ti viene incontro senza spaventarti
/ e ti prende per mano» (vv. 15-18).
Ma il tema del “correre alla morte” si coniuga in Orelli a un altro universo, interamente rivolto al futuro e tendenzialmente estraneo a Sereni; per quest’ultimo
le esperienze personali e storiche sembrano condurre a un io poetante irrisolto,
che, addirittura, implica un «tragitto fra nascita e morte» che «non è più progressivo, ma regressivo».51 Tale divario appare confermato, ad esempio, dal ruolo dell’universo infantile nella poesia di Orelli e Sereni (motivo che qui mi limito
ad accennare rapidamente): nel primo le «figure connesse all’io […], che insinuano discorsi, educano il soggetto poetante a prendere le distanze dalla propria centralità»;52 in Sereni la loro presenza, esigua,53 tende invece a correlarsi
amaramente a un futuro dipendente da un passato e un presente catastrofici: le
figure dei bambini sembrano acuire il senso di colpa dell’io poetante;54 o addirittura generare il recupero, entro ogni gesto – anche il più privato e innocente –,
di un passato atroce (è il caso di Sarà la noia, Sv).55 È probabilmente anche questo passato a determinare i diversi esiti della poesia di Sereni e Orelli: in Sereni il
futuro – e quindi anche le giovani generazioni – non ha «nessuna connotazione
salvifica»,56 in Orelli il mondo infantile si situa entro una visione in cui il cerchio
esiguo si intreccia a un’idea di continuità per certi aspetti rasserenante che, in
199
Georgia Fioroni
fondo, altro non fa che ricondurre a uno dei suoi primi testi, Paese,57 ove si registrano vita e morte, «inizio e fine, goethianamente stretti in unità»:58 ogni anno
è, sì, «[…] un anno che passa» (v. 1), ma «[…] ogni anno che passa è tuttavia /
un figliolo che nasce» (vv. 8-9).
200
Allegato
Due lettere di Giorgio Orelli a Vittorio Sereni59
Bellinzona, 24 novembre ’7460
Carissimo Vittorio,
molte grazie del consistente Char. In attesa di poterti scrivere con un po’ di
calma, ne ho parlato brevemente alla nostra Radio.
Pensa: io non conosco bene Char, che ora tu mi costringi a leggere come merita. Il tuo incontro mi sembra fruttuoso e cattivante proprio perché non si può
dire che tu (il poeta in proprio) “somigli” a Char. Come poeta che traduce un
altro poeta, sei tra quelli che più sento: per lo sforzo (che è insomma umiltà)
di risolvere sempre a favore della poesia il rapporto fedeltà-infedeltà. Poiché,
dunque, sei sostanzialmente, naturalmente un (diciamo con Machiavelli) respettivo, anche più netti m’appaiono gli scarti, le “divergenze” dall’originale. Di essi
non sempre riesco a intravvedere le motivazioni. Non vedo bene per esempio,
dacché il “pensiero” di Char si configura per solito in un disegno abbastanza
“semplice” [Mallarmé è certo più syntaxier], non vedo per quali vere ragioni
sufficienti tu divida [p. 59] un verso come Les longs vents d’hiver vont vous
pendre, che me ne rimena uno del Fiore [ti manderò, presto spero, un mio
articolo]: Per vento che a Provenza mi ventava; e infatti tu hai sfruttato bene la
fricativa, la /v/; ma, come sai, c’è altro.
Oppure (ed è un continuare a farti festa): «la sega non ce la fece coi lattiginosi
rami, / tanto gelò […]» (p. 83) non attenua troppo la forza dell’avvio francese
Tant il gela que […]? Pensa, quasi al limite d’intensità, Tant’è amara che […]
di Dante.
A livello soltanto (?) lessicale, prenderei Nella pioggia doviziosa, dico il “doviziosa”, che tu – immagino – potrai difendere senza affaticarti. Giboyeuse non
conduce verso “saccheggiatrice”, “predatrice”, “brulicante” ecc.? Non c’è qualcosa di Zanzotto che potrebbe aiutare? Tradurre è, evidentemente, un gareggiare (Goethe) su vari piani. Tu non gareggi, certo, con Char come (poniamo) il
Pocar con Trakl.
Ancora grazie, e un abbraccio fraterno dal tuo
Giorgio (Orelli)

201
Georgia Fioroni
Caro Sereni,
Bellinzona, 11 febbraio ’8261
volevo dirti subito il piacere – verso mezzogiorno, entrando in casa – di veder sul cassettone toccato da giusta luce un libro che è prestissimo la tua Stella
variabile (sei anni di collegio dai benedettini mi fanno incrociare «stelle» e «mater» – admirabilis, amabilis). L’ho poi portato a scuola (è il mio ultimo anno)
per leggere ad allievi non troppo “Cioè” ma neanche troppo vispi alcune poesie
che mi vengono incontro rapidamente: Ogni volta che quasi, Paura prima e
seconda, Altro compleanno… Adesso, non puro ma meglio disposto a salire alla
Stella, posso cominciare ad assaporare lentamente ogni pagina.
Sono contento, poi, di dirti che ho riscritto il primo dei tre studi manzoniani
che cercasti ammirevolmente di far pubblicare nel “Saggiatore”; posso dunque
dire che mi è andata bene.
Spero di vederti (a Segrate?). Grazie di cuore.
Affettuosamente tuo
Giorgio Orelli
Di séguito le sigle impiegate per le opere di Vittorio Sereni e Giorgio Orelli:
V. Sereni: F1941 = Frontiera, Edizioni di “Corrente”, Milano 1941; P1942 = Poesie, Vallecchi, Firenze 1942; Da1947 = Diario d’Algeria, Vallecchi, Firenze 1947 (quindi Da1965 =
V. Sereni, Diario d’Algeria, Mondadori, Milano 1965); Su = Gli strumenti umani, Einaudi,
Torino 1965 (quindi V. Sereni, Gli strumenti umani, con un saggio di P.V. Mengaldo, Einaudi, Torino 1975; F1966 = Frontiera, nuova edizione, Scheiwiller, Milano 1966; Sv = Stella
variabile, in 130 esemplari fuori commercio, ill. di R. Savinio, tirata col torchio a mano per
l’Associazione “Cento amici del libro”, Verona 1979 [ma in realtà 1980] (quindi V. Sereni,
Stella variabile, Garzanti, Milano 1981).
G. Orelli: Nbv = Né bianco né viola (versi del 1939-1943), con una prefazione in versi di
G. Contini, Collana di Lugano, Lugano 1944; Pan = Prima dell’anno nuovo, Leins e Vescovi,
Bellinzona 1952; P = Poesie, Edizioni della Meridiana, Milano 1953; Ncf = Nel cerchio familiare, Scheiwiller, Milano 1960; Ot = L’ora del tempo, Mondadori, Milano 1962; Si = Sinopie,
Mondadori, Milano 1977; Sp = Spiracoli, Mondadori, Milano 1989; Ca = Il collo dell’anitra,
Garzanti, Milano 2001. Gdv = G. Orelli, Un giorno della vita, Lerici, Milano 1960 [da cui
si cita], ristampato nel 2014: G. Orelli, Un giorno della vita, Erzählungen Italienisch und
Deutsch. Mit einem Vorwort von Pietro De Marchi und einem Nachwort der Übersetzerin
[Julia Dengg], Limmat, Zürich 2014.
I corsivi, salvo indicazione contraria, sono nel testo.
1
G. Orelli, Scheiwiller, ricordo di un amico-editore (intervista di Bruno Boccaletti), in
“Giornale del Popolo”, 21 ottobre 1999, p. 39.
2
Id., Un accertamento su Char e Sereni, in Per Vittorio Sereni, Atti del convegno di poeti
(Luino 25-26 maggio 1991), a cura di D. Isella, All’Insegna del Pesce d’oro, Milano 1992, pp.
65-79.
3
L’articolo, in forma abbreviata, compare poi in Luino e immeditati dintorni. Geografie
poetiche di Vittorio Sereni, Catalogo della mostra (Varese 27 febbraio-20 marzo 2010), a cura
di A. Stella e B. Colli, con la collaborazione di T. Zanetti, Insubria University Presse, Varese
2010, pp. 135-136.
*
202
Orelli e Sereni: un possibile dialogo
4
A questi dati – che traggo dall’utilissima Bibliografia di Giorgio Orelli, a cura di P. Montorfani, con la collaborazione di Y. Bernasconi, Edizioni Cenobio, Lugano 2014 – saranno da
aggiungere alcuni interventi “minori”, altresì segnalati nella Bibliografia: è il caso dell’articolo
intitolato «Allibisco all’alba», apparso il 27 febbraio 1988 sul “Corriere del Ticino” (p. 43),
che contiene accertamenti su Dante, Petrarca, Leopardi, Ungaretti, Montale e Sereni.
5
Le indicazioni relative ai materiali televisivi sono contenute sia nella Bibliografia di Giorgio Orelli, sia nell’archivio della Confederazione Svizzera (https://www.helveticarchives.ch).
6
Le cinque lettere recano la segnatura SER LA 0386 all’Archivio Sereni. Si trascrivono qui, in Appendice, per gentile concessione di Mimma Orelli e degli eredi Sereni – che
ringrazio – due lettere, risalenti al novembre 1974 e al febbraio 1982: la prima dedicata alla
traduzione sereniana di Char (R. Char, Ritorno sopramonte e altre poesie, a cura di V. Sereni,
prefazione di J. Starobinski, traduzione di V. Sereni, e con appunti del traduttore, Mondadori, Milano 1974); la seconda alla ricezione dell’ultima raccolta di Sereni, Stella variabile.
7
Linea lombarda. Sei poeti, a cura di L. Anceschi, Magenta, Varese 1952. Di Sereni sono
riportate Canzone lombarda (F1941, P1942, F1966), Nebbia (F1941, P1942, F1966), Diana
(F1941, P1942, F1966), Inverno a Luino (F1941, P1942, F1966), Zenna (F1941, P1942 e,
con il titolo Strada di Zenna, a partire da F1966), Un’altra estate (F1941, P1942, F1966),
Paese (F1941, P1942, F1966), Strada di Creva (P1942 e F1966), [Non sa più nulla, è alto sulle
ali] (Da1947 e Da1965), [Non sanno d’essere morti] (Da1947 e Da1965), [Nel bicchiere di
frodo] (Da1947 e Da1965), Via Scarlatti (Da1947, quindi Su), Istruzione e allarme (secondo
elemento della suite intitolata Frammenti di una sconfitta, inedita al tempo della pubblicazione di Linea lombarda, quindi inserita in Da1965), L’equivoco (Su, inedita al momento della
pubblicazione di Linea lombarda). Di Orelli Risveglio (Nbv), Autunno, il treno lacera la bruma
(Nbv), Sera a Bedretto (P e Ot), Frammento della martora (P e Ot), Carnevale a Prato (P e Ot,
con il titolo Carnevale a Prato Leventina), La pietra nelle nuvole (P), Dove i ragazzi ammazzano
il gennaio (P e Ot), L’ora esatta (P e Ot), Frammento di un andante affettuoso (P), Poesia del
febbraio (P e Ot, con il titolo Di febbraio), La trottola (P e Ot, con espunzione della dedica A
Luciano Anceschi), Natale 1944 (P e Ot).
8
Già pubblicata in Il laboratorio di Luciano Anceschi: pagine, carte, memorie, a cura di
M.G. Anceschi, A. Campagna, D. Colombo, Scheiwiller, Milano 1998, pp. 195-201, la lettera
si legge ora in Vittorio Sereni. Carteggio con Luciano Anceschi 1935-1983, a cura di B. Carletti,
prefazione di N. Lorenzini, Feltrinelli, Milano 2013, pp. 169-183. Le citazioni che seguono si
trovano alle pp. 169, 177, 179-180.
9
G. Orelli, Linea lombarda?, in Il laboratorio di Luciano Anceschi, p. 203.
10
M.A. Grignani, Posizione del soggetto nella poesia del secondo Novecento, in Ead.,
La costanza della ragione. Soggetto, oggetto e testualità nella poesia italiana del Novecento,
Interlinea, Novara 2002, p. 117. A tale definizione è opportuno aggiungere le osservazioni
di Pierluigi Pellini (P. Pellini, Il San Buco e i sentieri da capre. Sulla poesia di Giorgio Orelli,
in Id., Le toppe della poesia. Saggi su Montale, Sereni, Fortini, Orelli, Vecchiarelli, Manziana
2002, pp. 241-257): «[…] etichetta spesso usata a sproposito, spesso contestata, non di rado
radicalmente negata, eppure straordinariamente resistente. Il paradosso nasce innanzitutto,
credo, dal fatto che si tratta di una non-poetica, di un insieme di tratti eterocliti (psicologici,
stilistici, tonali, soprattutto – in senso lato – etici) facilmente intuibili ma difficilmente schematizzabili)» (p. 242 n.).
11
Cfr. P.V. Mengaldo, Giorgio Orelli, in Id., Poeti italiani del Novecento, Mondadori, Milano 1978, p. 818: «La peculiare posizione di “lombardo di Svizzera” […] dà anche
ad Orelli una collocazione molto personale all’interno della linea lombarda cui subito l’ha
ascritto Anceschi e che è per molti aspetti il suo clima poetico più prossimo, come indicano
talune parentele con Sereni (per esempio il motivo dei “morti… più vivi dei vivi”) o il gusto
fra oggettivo e aleatorio della quotidianità occasionale, non lontano da Erba e Risi».
12
Si tratta, per la precisione, di Un posto di vacanza (Sv, III), Niccolò (Sv, III), Fissità (Sv,
III), La malattia dell’olmo (Sv, V), In salita (Sv, V), Il poggio (Sv, V), Autostrada della Cisa
(Sv, V), Gli squali (Su, Uno sguardo di rimando), Di passaggio (Su, Appuntamento a ora insoli-
203
Georgia Fioroni
ta), Gli amici (Su, Appuntamento a ora insolita), I ricongiunti (Su, Apparizioni o incontri), La
spiaggia (Su, Apparizioni o incontri).
13
V. Sereni, «Il ritorno», in Letture montaliane, Bozzi Editore, Genova 1977; V. Sereni,
Tra fiume e mare, in “Portus Lunae”, 1 (1977), Sarzana; V. Sereni, Infatuazioni, in Id., Gli
immediati dintorni primi e secondi, con Introduzione di F. Brioschi e Note alla prima edizione
di G. Debenedetti, Il Saggiatore, Milano 1983.
14
Prima di giungere a queste considerazioni, Orelli rileva la natura assolutamente paratattica-asindetica della poesia, da correlare al Leopardi di A se stesso («Niente di più paratattico-asindetico nella poesia di Sereni. Viene in mente A se stesso di Leopardi, che è di sedici
versi con undici punti fermi. […] Nessuna delle inarcature leopardiane (Assai / palpitasti
ecc.) in Sereni, ma non pare insulso l’accostare l’abbastanza letterario nullità v. 10 a l’infinita
vanità del tutto, con cui termina A se stesso» [p. 77]) nonché, per identità topografia (Bocca
di Magra), al Montale de Il ritorno (cui lo stesso Sereni dedica una prosa critica, per cui cfr.
n. 13), «che per contro è un flusso ininterrotto di ventisei versi» (p. 78). «Nelle montaliane
Note delle edizioni», prosegue Orelli, «leggiamo: “Il ritorno. Aria di musica, nella quale i
mozartiani Angui d’inferno non dovrebbero solo giustificare la raffica finale”. La “musica”
di Sereni non potrebbe essere più diversa e il motivo del ritorno più lacerato dal morso della
fresca morte di cui si legge in altra lirica di Sereni (Le sei del mattino)» (p. 79).
15
«Il secondo endecasillabo (v. 6) sposta il primo accento sulla 1a, Caldo, in accordo con
Sangue 4 e Fiori 3: un rapido prendere atto della stagione fuori stagione, in un’aria stranita
che finisce col pareggiare vita e morte» (p. 80).
16
Stefano Agosti, a proposito di Di passaggio, si è espresso proprio in termini di «compresenza dell’uno e dell’altro stato» (S. Agosti, Interpretazione della poesia di Sereni, in La poesia
di Vittorio Sereni, Atti del convegno (28-29 settembre 1984), Librex, Milano 1984, p. 43).
17
Di «fedeltà ai vivi e ancor di più forse ai morti» ha parlato Pier Vincenzo Mengaldo in
P.V. Mengaldo, Tempo e memoria in Sereni [2000] (ora in Id., Per Vittorio Sereni, Aragno,
Milano 2013, pp. 37-62: 43) e, prima ancora, in Id., Ricordo di Vittorio Sereni [1983], ora
in Id., Per Vittorio Sereni, p. 13: «Fedeltà ai luoghi, alle cose, ai vivi; ma anche e soprattutto
fedeltà ai morti. Quei morti che egli non scendeva a ritrovare in un movimento di catabasi
(Sereni non era per nulla un poeta ctonio), ma che incontrava a mezza via, come la nonna
sulla strada di Creva, in quel luogo intermedio fra la vita e la morte o, che è lo stesso, fra la
veglia e il sonno che è il luogo per eccellenza della poesia sereniana».
18
Si veda, ad esempio, quanto scrive Orelli nel saggio dedicato a Mario Luzi ove, riportando alcune osservazioni di Luzi sul presente (corsivo nel testo) di Dante, precisa: «dove non
occorre tentar di segnare fin dove Luzi parla anche di sé, come accade spesso ai poeti parlando
d’altri poeti» (G. Orelli, Sul «mentre» nella poesia di Mario Luzi, in “Strumenti critici”, XI
[1970], 1, quindi in Id., Accertamenti verbali, Bompiani, Milano 1978 [da cui si cita], p. 215).
19
E, su questo tema, la critica offre importanti contributi: P. Fontana, Orelli e l’ora del tempo, in Id., Arte e mito della piccola patria, Marzorati, Milano 1974, pp. 83-108; G. Pacchiano,
Lo spazio cintato di Giorgio Orelli, in “Il lettore di provincia”, V (1974), 16, aprile, pp. 22-32;
G. Luzzi (intr. a Orelli), in Poesia italiana 1941-1988: la via lombarda, a cura di G. Luzzi, Casagrande, Lugano 1989, pp. 97-101; P. De Marchi, Dove portano le parole. Sulla poesia di Giorgio
Orelli e altro Novecento, Manni, Lecce 2002 (in generale i capitoli dedicati a Orelli e, in particolare, il capitolo «Una cosa che comincia con la r in mezzo». Sul tema della morte, pp. 21-53).
20
«Inclino a pensare che ogni giorno in qualche modo contiene tutta la vita, e va dunque
vissuto con attenzione a sé stessi e alla realtà. Di qui il desiderio di approfondimento della
conoscenza di noi stessi e di comprensione quotidiana di sé, e anche lo sforzo di non lasciarsi
scappare troppo di noi e del mondo che ci circonda, di fronte al furto irrimediabile del tempo» (Giorgio Orelli in un’intervista a Pietro De Marchi in occasione dei suoi ottant’anni, ora
in P. De Marchi, I giorni della vita. Per i novant’anni di Giorgio Orelli, in Giorgio Orelli. I
giorni della vita, a cura di P. De Marchi, con la collaborazione di S. Soldini, Casa Croci, Mendrisio 2011, p. 9).
21
Cfr., a questo proposito, P. De Marchi, «Una cosa che comincia con la r in mezzo». Sul
tema della morte, in Id., Dove portano le parole, pp. 22-23.
204
Orelli e Sereni: un possibile dialogo
22
Nel saggio dedicato a Luzi (G. Orelli, Sul «mentre» nella poesia di Mario Luzi, p. 206),
Orelli afferma: «Ullmann ricorda questa nota di Baudelaire: “Je lis dans un critique: ‘Pour deviner l’âme d’un poète, ou du moins sa principale préoccupation, cherchons dans ses oeuvres
quel est le mot ou quels sont les mots qui s’y représentent avec le plus de fréquence, le mot
traduira l’obsession’”». Sereni, a sua volta, in un’intervista risalente al 1972 (in M. Grillandi,
Vittorio Sereni, La Nuova Italia, Firenze 1972, p. 3), dice: «C’è un’età a partire dalla quale
si comincia a sapere con certezza che un giorno si muore. Prima di questa chi scrive versi è
solito corteggiarla, la morte. È capitato anche a me. Quando subentra quella certezza, si tende
a nominarla molto meno».
23
F1966, trentasette poesie per un totale di 548 versi, registra undici volte il lemma «morte», sei volte «vita». In Ot, quarantanove testi, per un totale di 710 versi, si registrano tredici
occorrenze del termine «morte» o derivati – di queste quattro sono impiegate in senso figurato – e sette occorrenze di «vita» o derivati.
24
Come indicato nel cappello introduttivo alla poesia nella tesi di dottorato friburghese
di Yari Bernasconi, la versione in rivista – oltre alla variante del titolo (e del verso 6), con
«famigliare» in luogo di «familiare» registra (verso 23) «un più semplice “ragni” invece di
“falangi”». Inoltre, il punto fermo che sigilla la poesia in Ncf è sostituito nella redazione di
Ot dai puntini di sospensione, già nella stampa delle “Botteghe oscure” (cfr. G. Orelli, L’ora
del tempo, edizione e commento a cura di Y. Bernasconi).
25
Entro le parentesi quadre il primo numero indica la posizione del testo in Ncf, mentre
il numero che segue la freccia la posizione del testo in Ot; l’asterisco indica invece le poesie
inedite. Le varianti testuali fra le diverse edizioni (in rivista o in raccolta) sono puntualmente
segnalate nei cappelli introduttivi a G. Orelli, L’ora del tempo, edizione e commento a cura
di Y. Bernasconi.
26
Testi che – causa il trasferimento di Epigramma veneziano e Il fanciullo del paradiso in
altre sezioni del libro nonché l’anticipo delle due poesie succitate – continuano ad occupare
le medesime posizioni.
27
L’affinità è stata rilevata da Yari Bernasconi in G. Orelli, L’ora del tempo, edizione e
commento.
28
Il sintagma e, più in generale, i versi 9-10, sono pressoché identici (lo ha già segnalato
Yari Bernasconi nella sua tesi di dottorato) a un passo del racconto Un giorno della vita: «Ora
Antonio potrebbe rimaner solo a lungo, senza timore di tonfi, di gridi, senza far nulla che
non sia sopportabile, o che gli sembri assurdo. La pietà di sé non gli impedisce di reggersi al
margine d’un nulla in cui sorge, come una riva, un poggio, e suore invisibili passano, pregano,
cantano, tutto segue una legge inviolabile» (G. Orelli, Un giorno della vita, Gdv, p. 165).
Sulla fecondità del rapporto fra poesia e prosa in Giorgio Orelli, si veda lo studio di M. Danzi, Esegesi d’autore e memoria di sé: Giorgio Orelli fra prosa e poesia, in “Autografo”, 6 (1989),
18, pp. 3-20.
29
G. Orelli, La morte del gatto, Gdv, p. 96. I����������������������������������������������
corsivi, ad eccezione dei termini «telefonate» e «cordina» (nel testo), sono miei.
30
P. De Marchi, «Una cosa che comincia con la r in mezzo», p. 23.
31
Cfr. P.V. Mengaldo, Note sul «Diario d’Algeria» [1999], in Id., Per Vittorio Sereni, p. 99:
«L’attesa […] sarà soprattutto attesa dell’incontro coi morti, individui o categoria, come utopia
o prospettiva di un’umanità migliore che in loro si conserva o si crea proprio in quanto morti».
32
Lo afferma Orelli nel programma della Televisione della Svizzera Italiana Carta Bianca
(intervista di Federico Jolli ed Enrico Lombardi) del 23 novembre 1989, ora disponibile
(insieme ad altre apparizioni televisive di Orelli) al sito http://www6.rsi.ch/home/channels/
lifestyle/personaggi/2011/04/14/orelli.html?selectedVideo=2#Video: «La famiglia, io lo dico
con una certa energia nella poesia quando dico nel cerchio familiare da cui non ha senso scampare – c’è anche una rima, ma questa rima, baciata, mi pare che concentri un po’ il mio status
coscientiae, come si dice».
33
Sono parole della già citata intervista (23 novembre 1989).
34
Per un commento integrale al testo rinvio a V. Sereni, Frontiera. Diario d’Algeria, a cura
di G. Fioroni, Fondazione Pietro Bembo-Guanda, Milano 2013, pp. 177-187.
205
Georgia Fioroni
35
Per un commento puntuale al testo, si veda G. Orelli, L’ora del tempo, edizione e
commento a cura di Y. Bernasconi.
36
M.A. Grignani, La poesia di Giorgio Orelli, in Ead., Lavori in corso: poesia, poetiche,
metodi nel secondo Novecento, Mucchi, Modena 2007, p. 170.
37
G. Isella, Per «Sinopie» e «Spiracoli», in punta di penna», in “Bloc-notes”, 64 (2014),
maggio, p. 86.
38
È questo un «luogo nel quale questa frontiera [fra vivi e morti] viene annullata» (P. De
Marchi, La frontiera fra detto e non detto, in Id., Dove portano le parole, p. 54). E, ancora:
«all’inevitabilità della morte sono i morti stessi a contrapporre la continuità della vita» (P. De
Marchi, «Una cosa che comincia con la r in mezzo», pp. 34-35), come recita il verso «i morti
sono più vivi dei vivi».
39
Mi limito qui a citare qualche esempio (pur consapevole che l’indagine meriterebbe di
essere approfondita), ove non sfuggirà l’importanza dei ritratti (quei ritratti che i «morti» di
Nel cerchio familiare «aggiustano»): Les portraits (da Comme des voiliers [1910]), 1-2: «Devant vos vieux portraits, je m’assis en silence, / Un jour que mon coeur avait froid» e 19-20:
«Et je fus effrayé par votre grand silence: / Vous étiez des portraits de morts»; l’epigrafe della
raccolta Gravitations (che reca la dedica À Valéry Larbaud): «Lorsque nous serons morts nous
parlerons de vie Tristan l’hermite»; e, sempre nella medesima raccolta, Le portrait 9-10:
«Que je penche sur la source où se forme ton silence / Dans un reflet de feuillage que ton
âme fait trembler» e 24-28: «Je parle durement aux morts parce qu’il faut leur parler dur, /
Debout sur des toits glissants, / Les deux mains en porte-voix et sur un ton courroucé, / Pour
dominer le silence assourdissant / Qui voudrait nous séparer, nous les morts et les vivants».
40
Si veda, a questo proposito, P. De Marchi, «Una cosa che comincia con la r in mezzo»
(in particolare il paragrafo Chi parla non è morto, pp. 23-24), ove si sottolinea che «la vita, per
essere, leopardianamente “vera vita”, deve farsi dialogo» (p. 23) nonché il legame (fortemente presente in [Se fai come il vecchio sartore]) «tra il pensiero della morte e la volontà di dire»
(p. 24).
41
Riporto di seguito, per completezza, i testi della sezione (e, per il loro commento, cfr.
V. Sereni, Frontiera. Diario d’Algeria, pp. 191-214): [La sera invade il calice leggero]: «La
sera invade il calice leggero / che tu accosti alle labbra. / Diranno un giorno: – che amore /
fu quello… –, ma intanto / come il cucù desolato dell’ora / percossa da stanza a stanza / dei
giovani cade la danza, / s’allunga l’ombra sul prato. / E sempre io resto / di qua dalla nube
smemorata / che chiude la tua dolce austerità»; [Te n’andrai nell’assolato pomeriggio]: «Te
n’andrai nell’assolato pomeriggio / per le strade che seguono le colline / sul lago che brulica
di barche / arido nel ferragosto. / Di quest’attimo vivo / E poi di nulla. E tu / ne vibri assorta
in ogni vena / o mia voce più dolce… Ma sempre / lo stesso stupore l’avvento / saluterà della
luna / dietro il colle di Bédero, ove al chiaro / prato che di compianto circonfonde / ogni luogo già nostro / torneremo anche noi due / abbandonati sull’orlo dei rivi»; [Dicono le ortensie]:
«Dicono le ortensie: / – è partita stanotte / e il buio paese s’è racchiuso / dietro la lanterna /
che guidava i suoi passi – / dicono anche: – è finita / l’estate, è morta in lei, / e niente ne
sapranno i freddi / verdi astri d’autunno –. / Un cane abbaiava all’ora fonda / alla pioggia
all’ombra del mulino / e la casa il giardino / si vela di leggera umidità»; [Così, sirena]: «Così,
sirena, / mutò la tua natura / nel volto delle fosche / madonne di queste parti. / È un fuoco
salito alle ville. / E insieme in me la tua lontana vita / si fa sempre più tenue e smarrita / con
l’ombra delle nuvole sui prati»; [Sul tavolo tondo di sasso]: «Sul tavolo tondo di sasso / due
versi a matita, parole / per musica fiorite su una festa. / Di occhi ardenti, di capelli castani? /
Come fu quel tuo giorno, e tu com’eri? // E oggi qui attorno la quiete / dei vetri indifferenti,
oggi il minuto / sfaccendare dei passeri là fuori». I corsivi sono miei.
42
P.V. Mengaldo, Note sul «Diario d’Algeria» [1999], ora in Id., Per Vittorio Sereni, p. 99.
43
Id., «La spiaggia» [1997], ora in Id., Per Vittorio Sereni, p. 181.
44
Ibi, p. 183.
45
Sono parole dell’intervista citata più volte, per cui cfr. nota 33.
46
Qui e nelle successive citazioni di Una visita, il corsivo è mio.
47
P. De Marchi, «Una cosa che comincia con la r in mezzo», p. 41.
206
Orelli e Sereni: un possibile dialogo
48
Una visita: «I cumuli di sé sui letti d’ospedale. / Se ne stagliano poveri crinali / scossi
appena da colpi repressi di tosse. // I rapporti difficili coi fiori, / specie nei corridoi. // Mentre
le due compagne, forse, dormono / voltandomi la schiena, sùbito mi saluta / la mite signora
che vengo ogni tanto a trovare, / e mi parla di teneri agguati autunnali. // “Quest’anno”,
dico, “non è ancora ottobre / e ho già raccolto castagne, a due passi da qui, / bellissime,
il tramonto me le accendeva in mano, / e in un sito appartato di là da un torrente fra i
ricci / ho visto rane, salamandre”. // (Chi sa se la mia voce / trova giusti versanti. Forse
basta / spirare, come faccio, sorpreso da nebbie / che arruffano ogni sponda dell’anima). //
“Ieri entrato nel bosco / dove ho sempre trovato le castagne più scure / mi son visto adocchiare da un gatto che presto è sparito / in un folto in pendìo con uno scroscio d’acqua /
che ricordavo più forte, ed è sorta una donna / magrissima, vestita di giallo, mi ha detto
decisa ‘lei guardi / che lì è privato se non lo sa’”. “Dalle mie parti, a Iragna”, / dal suo
margine d’ombra svolgendosi / con occhi d’azzurro stremato racconta la paziente / meno
anziana, “in un bosco di tutti dove andavo già da bambina / ci hanno tirato sassi, ragazzi in
gruppo, e per calmarli mia sorella / sa cos’ha fatto? gli ha messo su un muretto delle pere, /
‘è la nostra merenda’, gli ha detto, ‘prendetela’, ebbene, le hanno / spazzate via coi bastoni
ghignando”. Mi tornano a mente / incontri di primavera, e dico: “Anche fuori sui prati / non
sempre mi va bene quando cerco / cicorietta. Una volta una donna, dopo avermi tenuto /
d’occhio un bel po’ nella piana da Camorino a Comelina, / mi ha lentamente avvicinato e
mi ha detto ‘signore, / mi piace tanto anche a me questa insalata’. / Le ho dato una risposta
smerlettata / ma sono andato via, sono salito sui ronchi / sotto Vigana, ma c’era solo qualche
croco. Tu credi, mi son detto, / che nessuno ti stia guardando, ma ti sbagli, e infatti / in cima
a un ronco una vecchia mi ha chiesto ‘cosa cercava / là giù?’ L’oro, le ho detto”. Sorride la
mite signora, / sorride la donna d’Iragna; la terza, di cui non ho mai / potuto cogliere gli
occhi, s’è fatta scoglio. / Vorrei, per sentirne la voce, ricordare che un giorno / mi sono fermato a raccogliere noci cadute / fuori del prato d’uno che quando mi ha visto mi ha detto /
di prenderle tutte, tanto non le mangiavano. // (Unica mosca visibile nella stanza che invade
la sera, / tu non ronzi ma non fai compagnia, / tu troppo insisti su quel dorso labile / di mano,
troppo nera / su quella fronte. Non avrai nido / ma sei senza ritegno, perciò brandisco un
ridicolo / acchiappamosche e ti uccido)».
49
P. De Marchi, «Una cosa che comincia con la r in mezzo», p. 41.
50
G. Orelli, Quasi un abbecedario, a cura di Y. Bernasconi, Casagrande, Bellinzona 2014.
51
P.V. Mengaldo, «La spiaggia» [1997], p. 183.
52
M.A. Grignani, Posizioni del soggetto nella poesia del secondo Novecento, p. 127. Il
motivo dell’universo infantile in Orelli viene altresì approfondito da Ead., Postfazione, in G.
Orelli, Rückspiel / Partita di ritorno, traduzione a cura di C. Ferber, Limmat, Zürich 1998,
pp. 222-223.
53
Primo riferimento si registra in Dimitrios (Da), piccolo bimbo greco, con dedica a mia
figlia; in Su si trovano tre testi (Quei bambini che giocano, Crescita, Di taglio e cucito) incentrati su giovanissime generazioni e altri due (Sarà la noia e Giovanna e i Beatles) sono in Sv.
54
Quei bambini che giocano // un giorno perdoneranno, / se presto ci togliamo di mezzo. /
Perdoneranno. Un giorno. / Ma la distorsione del tempo / il corso della vita deviato su false
piste / l’emorragia dei giorni / dal varco del corrotto intendimento: / questo no, non lo perdonerranno», Su, vv. 1-8.
55
Sarà la noia // dei giorni lunghi e torridi / ma oggi la piccola / Laura è fastidiosa proprio. / Smettila – dico – se no… / con repressa ferocia / torcendole piano il braccino. // Non
mi fai male non mi fai / male, mi sfida in cantilena / guardandomi da sotto in su / petulante
ma già / in punta di lagrime, / non piango nemmeno vedi. // Vedo. Ma è l’angelo / nero dello
sterminio / quello che adesso vedo / lucente nelle sue bardature / di morte / e a lui rivolto in
estasi / il bambinetto ebreo / invitandolo al gioco / del massacro».
56
P.V. Mengaldo, Tempo e memoria in Sereni [2000], in Id., Per Vittorio Sereni, p. 61.
57
Già edita, con qualche variante (per cui si veda G. Orelli, L’ora del tempo, edizione e
commento a cura di Y. Bernasconi), in Nbv. I versi citati qui seguono la lezione Ot (in Nbv i
versi 1 e 9 sono isolati).
207
Georgia Fioroni
P. De Marchi, «Una cosa che comincia con la r in mezzo», p. 35.
Nella trascrizione delle lettere (per cui rimando alla nota 6), si riproducono le scelte
grafiche (maiuscole, sottolineature, rientri, ecc.) dell’autore.
60
Lettera scritta a penna, con inchiostro nero, su foglio bianco di formato A4.
61
Lettera scritta a penna, con inchiostro nero, su foglio bianco di formato A4. Incerta la
data dell’11 febbraio; potrebbe trattarsi di un 21 o di un 29 febbraio.
58
59
208
YARI BERNASCONI
Quello che resta nella memoria:
L’ora del tempo di Giorgio Orelli
Tengo soprattutto a mettere sotto l’occhio dell’umile e paziente lettore alcuni prodotti in
cui la poetessa torinese ci appare particolarmente fedele a se stessa, o semplicemente felice, grazie a un linguaggio che rispecchia, senza forzature, le immagini di un’anima sensibilissima, il suo “sentimento del tempo” (dell’“ora del tempo”, della stagione), quello
che resta nella memoria in cui tutto, forse, si purifica.1
Così Giorgio Orelli, recensendo nel 1955 Le acque del sabato di Maria Luisa
Spaziani, ci regala – difficile dire quanto coscientemente – una prima, privilegiata porta d’accesso all’auto-antologia che avrebbe pubblicato sette anni dopo
nella collana mondadoriana dello “Specchio”: L’ora del tempo.2 Un autocommento in proiezione, verrebbe da dire, secondo un procedimento che in Orelli
non stupisce e non ha mai stupito: la tenuta e le interferenze – o, meglio, il continuo dialogo – attraverso i generi, e più in generale la coerenza che attraversa
tutta la sua produzione,3 hanno sempre permesso e forse suggerito questo tipo
di letture trasversali.4
Non vi è alcun imbarazzo, dunque, nel prendere in prestito le parole usate
da Orelli per la Spaziani e accostarle alla sua raccolta del 1962, dove l’autore –
selezionando cinquanta testi nelle precedenti quattro raccolte (Né bianco né viola, 1944; Prima dell’anno nuovo, 1952; Poesie, 1953; Nel cerchio familiare, 1960)
e alcune poesie inedite o apparse solo su rivista – propone precisamente «il
suo “sentimento del tempo” (dell’“ora del tempo”, della stagione)». La ripresa
nel titolo dell’emistichio dantesco – che nel ’55 andava a ispessire il più spontaneo concetto ungarettiano – è in questo senso illuminante e, pur riferendosi
in primo luogo alla memoria, abbraccia passato, presente e futuro. Come nella
Commedia (Inf. I, 37-43), dove chi è minacciato guarda indietro, all’origine delle
cose, e rinfrancandosi trova speranza per il futuro:
Temp’ era dal principio del mattino,
e ’l sol montava ’n sú con quelle stelle
ch’eran con lui quando l’amor divino
mosse di prima quelle cose belle;
sì ch’a bene sperar m’era cagione
di quella fiera a la gaetta pelle
l’ora del tempo e la dolce stagione.
Giorgio Orelli, con L’ora del tempo, fa senz’altro – come afferma Maria Antonietta Grignani – «il punto su due decenni di lavoro»,5 ma fissa anche e so-
209
Yari Bernasconi
prattutto i termini della sua esperienza, ridisegnandone in parte le coordinate
e voltando definitivamente pagina verso una produzione che si farà ancora più
misurata (Sinopie, 1977; Spiracoli, 1989; Il collo dell’anitra, 2001).
La scelta antologica è decisamente severa e, quand’anche parlare di «severissima autocensura»6 può sembrare eccessivo, i testi scartati – una settantina solo
tra quelli pubblicati in raccolta – sono troppi per essere ignorati. Al di là dei vincoli editoriali, l’operazione proposta da Giorgio Orelli – che non solo seleziona i
testi, ma qua e là li modifica, li riordina, in alcuni casi li riscrive o modifica strutturalmente – è frutto di una riflessione profonda sul suo percorso letterario. Di
certo è che l’autore non dà in queste pagine una mera testimonianza storica del
suo lavoro. Anche Giovanni Orelli, già autore dell’antologia Svizzera italiana,7
in un articolo dedicato a uno dei testi esclusi de L’ora del tempo nota con scherzoso risentimento che «tra le poesie selezionate non figurano due testi ai quali io
(se posso propormi, per ipotesi di lavoro, quale antologista-storico) avrei dato
la “preferenza”, proprio perché testi che mi sembrano particolarmente atti a
costruire l’identikit del poeta».8 Ma forse è proprio questo il punto: a Giorgio
Orelli non interessava – e comunque non in primo luogo – «costruire l’identikit
del poeta». Voleva anzitutto attraversare i suoi vent’anni d’attività con un lavoro
di memoria: «quello che resta nella memoria in cui tutto, forse, si purifica», se
torniamo alla recensione del 1955 citata in apertura.
Per diversi motivi, anche estranei allo stesso autore, l’influenza de L’ora del
tempo sulla bibliografia orelliana si è poi rivelata decisiva e ha relegato in secondo piano tutte le raccolte precedenti, in particolare il ricco volume delle
Poesie, di cui appunto – come evidenzia De Marchi – «non si parla quasi mai,
che si tende in qualche modo a dimenticare, che spesso sfugge persino alle bibliografie».9 È significativo come, nel 1977, appena dopo l’uscita di Sinopie,
Gianfranco Contini – che pure aveva tenuto Orelli (per così dire) a battesimo e
accompagnato nel 1944 la sua raccolta d’esordio con la celebre epistola in versi –
affermi: «Trovo eccellente che in sostanza Orelli sia soltanto l’autore di due
libri»; elencando comunque, Contini, le raccolte precedenti a L’ora del tempo e
sottolineando – come già Orelli per Spaziani – la «fedeltà a se stesso», espressione non certo inusitata (entro un orizzonte orelliano, si può ricordare Debenedetti che la usò per Saba), ma senz’altro indicativa e calzante. Nella «sostanza»,
però, anche per Contini, l’antologia d’autore rappresenta sufficientemente le
esperienze delle raccolte passate.10
L’ora del tempo si ritrova insomma ad avere un’importanza cruciale e a fungere da vero spartiacque della produzione letteraria di Giorgio Orelli. Una
ragione di più per prestare la massima attenzione al lavoro che ha preceduto
l’uscita del libro e alle scelte operate, risalendo gli anni fino agli esordi. Anche
perché – ancora con Contini – la coerenza dell’opera di Orelli permette di fare
salti all’indietro nel tempo «senza che ci si rompa l’osso del collo».11
*
210
Quello che resta nella memoria: L’ora del tempo di Giorgio Orelli
Delle centododici poesie pubblicate in raccolta fino al 1962, Orelli ne seleziona
quarantuno – cioè il 37% – per L’ora del tempo, aggiungendoci cinque testi inediti e quattro testi apparsi solo su rivista o in altre sedi (tra il 1953 e il 1960). I
dodici testi di Nel cerchio familiare vengono però tutti riproposti e sono solo le
prime tre raccolte a subire dei tagli: per Né bianco né viola i testi scelti sono sei
su trenta (20%), per Prima dell’anno nuovo quattro su dieci (40%), per Poesie
ventidue su sessanta (37%).12
L’antologia è organizzata, montalianamente, in quattro sezioni – come già
Poesie – e segue un percorso tendenzialmente cronologico, pur con diverse e
significative eccezioni. La prima sezione ospita il maggior numero di poesie,
diciassette, tra cui si trovano i sei superstiti di Né bianco né viola, nove testi
da Poesie, un testo da Nel cerchio familiare (Il fanciullo del paradiso) e un altro
ancora apparso altrove (Colgo questo paese). La seconda – che è anche, al contrario della prima, la sezione più breve – conta nove poesie, di cui due da Prima
dell’anno nuovo, sei da Poesie e una apparsa solo su rivista (Il lago). La terza ha
poi una poesia in più della seconda, per un totale di dieci: sei provenienti da
Poesie, una da Nel cerchio familiare (Epigramma veneziano), due pubblicate su
rivista (Epigramma pisano e Oltr’alpe) e il primo dei cinque inediti (Il viaggio).
La quarta e ultima sezione, infine, conta quattordici poesie (ma in numero di
pagine è la più lunga): oltre ai quattro inediti, vi convergono i dieci testi restanti
di Nel cerchio familiare.
Come s’è detto, l’opera orelliana non soffre il trascorrere degli anni. Questo
però non impedisce a L’ora del tempo di testimoniare piuttosto chiaramente di
due stagioni letterarie che, sebbene strettamente connesse o molto vicine, evidenziano una certa evoluzione stilistica. Da una parte la produzione che può
dirsi – per comodità – “giovanile”,13 fin verso le Poesie del ’53 o l’antologia
Quarta generazione di Piero Chiara e Luciano Erba,14 che ospita alcuni testi di
Orelli; dall’altra la produzione più “matura” e forse oggi più facilmente riconoscibile, di cui Nel cerchio familiare e soprattutto gli inediti de L’ora del tempo
sono un primo, sostanzioso assaggio, già perfettamente in linea con Sinopie,
come immediatamente indicato da Pier Vincenzo Mengaldo.15 Del resto La trota, che in Sinopie fa da programmatico testo d’apertura, è composto in parallelo
all’uscita di L’ora del tempo e nelle 6 poesie del 1964 – dove compare per la
prima volta – reca la data «1962»).
Due stagioni letterarie riconoscibili sin dalle due quartine del testo “in limine” della raccolta, Perché il cielo è più ingenuo. Anzi, sembra che le due quartine – come già notato da Pio Fontana16 – vogliano suggerire attivamente (o
emblematicamente) le coordinate di queste due stagioni: la prima quartina, che
– dettaglio fondamentale – da sola già fungeva da testo d’apertura di Poesie, a
rappresentare il primo quindicennio dell’esperienza poetica di Orelli; la seconda, inedita, a rappresentare una certa novità, o almeno uno stacco, nei toni e
nello stile.
211
Yari Bernasconi
Perché il cielo è più ingenuo
Perché il cielo è più ingenuo
splendono bacche rosse,
fanciulli seminudi
giocano coi superstiti camosci.
Gli scoiattoli uccisi
si sono ritrovati per salire
in lunga fila dal Padreterno
a perorare la mia causa.
Al di là dell’indubbia unità della poesia (suggellata anche dal chiasmo che
lega saldamente le strofe), si può leggere la prima strofa come il frutto di un
«discepolato ermetico», con una «sorta di frammentismo che esorcizzava il contenuto come argomento di discorso, sostituendo alla logica un rapporto psicologico-metafisico con la realtà».17 Si pensi, per esempio, a quello che Orelli scrisse
di Nicola Lisi nel 194418 e dove ancora sembra parlare di sé:
Un’arte in cui si è fatto sempre più evidente l’elemento irrazionale: Lisi è scrittore-poeta.
Egli solleva i fatti più quotidiani in una magica atmosfera, osserva il mondo con occhi
ingenui eppure esperti; ma «la naïveté par dessus tout, celle du cœur qui se donne avec
confiance». […] E il suo stile è inconfondibile, non densa, precisamente, la sua pagina,
ma – come s’è detto – rarefatta, asciutta, in cui si è fermato quel “magico quotidiano”
che potremo chiamare il “miracolo quotidiano”.
Nella seconda strofa, invece, quattro versi metricamente più liberi e – malgrado la presenza di un verbo impegnativo come “perorare”, qui comunque
tendente all’ironia, dove forse risuona Il fanciullino di Pascoli19 – dall’andatura
più colloquiale e divertita.
Certo, parlare di «discepolato ermetico» per Orelli può risultare discutibile. Ma è difficile entrare in disaccordo con Maria Antonietta Grignani quando
afferma che «nei paraggi del giovanile Né bianco né viola il linguaggio sente un
poco la “grammatica” dell’Ermetismo»; o con Pietro De Marchi, che sottolinea
come in Orelli (ma «l’esemplificazione può arrivare al più fino all’altezza di L’ora
del tempo») ci sono testi in cui «il non detto è strettamente connesso alla grammatica o, forse meglio, alla retorica di derivazione “ermetica”».20 Pier Paolo Pasolini, del resto, commentando l’antologia Linea lombarda di Luciano Anceschi,
nella quale figura anche Giorgio Orelli, non ha dubbi sulla derivazione ermetica
dei “lombardi” e cerca di definirne l’aggiornamento:21
È evidente comunque che […] questi lombardi sono il prodotto estremo dell’ermetismo: un ermetismo aggiornato nel senso che le istanze realistiche degli ultimi anni lo
hanno turbato, ma riconducendolo alla sua anteriore e profonda natura espressionistica:
che con la sua violenza urge sia sotto le patine petrarchesco-leopardiane del versante di
Ungaretti, sia sotto le patine eliottiane (e, linguisticamente, romantico-pascoliane) del
versante di Montale.
212
Quello che resta nella memoria: L’ora del tempo di Giorgio Orelli
Dal canto suo, Mengaldo trova che Orelli poggi,
molto più che sull’ermetismo, cui in sostanza è estraneo, […] direttamente su Montale,
per lingua e tagli formali: si penserà soprattutto al rapporto evidente fra le forme brevi
orelliane e i Mottetti, mentre nel ticinese riecheggia significativamente anche la lezione
del Montale “nominalistico” di Keepsake (v. Sera a Bedretto).22
Lo stesso Orelli ha sempre respinto l’ipotesi di un’ascendenza ermetica già
a partire da Né bianco né viola. In un resoconto giornalistico del 1963, dove
si riassume una conferenza dedicata dall’autore alla sua “evoluzione poetica”,
troviamo spunti interessanti non solo per quella prima stagione letteraria, ma
anche per la stagione successiva, matura, più aperta alla narrazione:23
[Orelli] comincia a scrivere poesie con molta fiducia nella grazia, nella eleganza, nella
parola esatta della poesia pura. […] Ma il poeta è sempre meno accontentato dalla grazia, dall’eleganza, dalla purezza elemento integrante della poetica dell’ermetismo. Sente
il bisogno di umiliarsi, nel senso di aderire al livello esistenziale. A questo punto, l’autore
di Né bianco né viola ha affermato che in quella raccolta non vi è quasi niente d’ermetico.
Montalismi, sì, sabismi, sì, “intrisi” di Cardarelli, sì, ma – ha detto – è disposto a pagare
un mese a San Remo a chi trova in quelle liriche un solo aggettivo veramente ermetico.
[…] D’accordo: qua e là c’è l’illusione che il poco detto suggerisse molto. Oggi, la vede
– appunto – come un’illusione. Ungaretti scriveva in tempo di guerra quando le parole
erano poche e le pallottole molte. […] Anche da Ungaretti trasse una lezione: quella che
il poeta italiano diede alla Quarta generazione di lirici della sua terra: il senso pregnante
conferito alla parola per cui questa acquista una tensione all’isolamento. E di Montale
l’afferrò la sostanza umana e metafisica, insieme con il taglio netto, secco, che si riallaccia
alla tradizione madrigalesca. […]
Oggi – senza voler essere polemico con il se stesso degli inizi – sente che la purezza non
basta più: e i suoi componimenti lirici sono misti, cercano di armonizzare l’esigenza lirica e l’esigenza che si può dire narrativa, con il suo discorso prosastico delle cui scorie e
dei cui pericoli pure è consapevole. A volte comincia con un racconto e finisce con una
poesia. […] Dopo aver parlato del verso lungo e della sua vera natura che non è metrica, Giorgio Orelli ha felicemente puntualizzato la sua ricerca di un discorso che sia più
semplice (non più facile!), di una poesia che non s’accontenti dell’immagine (pericolo
degli anni giovani: Garcia Lorca oggi gl’interessa molto meno di Machado) ma che faccia
un discorso […].
*
Entrando più concretamente nel merito delle sezioni, va da subito sottolineato
che la struttura e organizzazione interna de L’ora del tempo non si limita ad
assecondare o evidenziare le due vene compositive sopra evocate, ed è uno dei
motivi per cui la distribuzione delle poesie rispetta solo in parte la cronologia
di composizione o pubblicazione. Le quattro sezioni riuniscono e raccontano in
primo luogo delle tappe precise della poesia orelliana, in una successione esperienziale che è anche maturazione esistenziale e filosofica.
213
Yari Bernasconi
Nella prima sezione – quella con il maggior numero di testi ma anche con i
testi più brevi, in alcuni casi tendenti all’epigramma – dominano i luoghi montani
cari a Orelli («la mia terra», la terra d’origine), fanno capolino figure di valligiani
e montanari chiamati talvolta per nome (personaggi che compaiono e compariranno regolarmente nelle poesie e nelle prose di Orelli: Pasquale, Zalèk, Agostino)
in un’inequivocabile cartografia, sin dai titoli: Sera a Bedretto, Carnevale a Prato Leventina, Campolungo; e poi, ad abitare la vegetazione e la morfologia dello
scenario alpino, una moltitudine di animali, che da subito assumono un ruolo
centrale24 (e così sarà in tutte le raccolte di Orelli a venire): camosci, scoiattoli,
vacche, pecore, capre, lepri, martore, tassi; e ancora, tra gli uccelli, gazze, fagiani,
francolini, pernici. Uno degli ambienti ricorrenti è il “paese”, luogo semplice e
incorrotto, «grembo o bozzolo che protegge dall’ansia, dalla nevrosi».25
Ma è l’intera prima sezione a godere di un’aura protettiva, amplificata dall’intrinseca serenità dei suoi protagonisti e dei suoi spazi, scanditi dall’equilibrio
naturale e dalla ciclicità della vita: «Ogni anno è un anno che passa»; e anche se
«Le madri sanno lunghe trafitture», «ogni anno che passa è tuttavia / un figliolo
che nasce». È uno “stato di grazia”, un idillio in cui la realtà è più vicina e si è
quindi più consapevoli della propria esistenza. Non c’è affanno, non si rincorrono grandi interrogativi: «Nulla scoprire. Amare il primo verde / di robinia.
[…] / Essere il vecchio che socchiude gli occhi / poggiato al suo rastrello». È un
mondo dove la gente «s’abbraccia / così, senza partire, / per tornare all’abbraccio». Solo gli ultimi due testi della sezione portano altrove: ci si sposta a sud, a
Bellinzona, città in cui Orelli ha insegnato e vissuto tutta la vita, a partire dal ’45,
con una poesia (Per un componimento di Mario Villa) dedicata a un suo studente
della scuola di commercio e, in ultima posizione, L’ora esatta, in cui «i padroni
di tutto il Viale / della Stazione sono tre piccioni», con riferimento a una delle
vie principali del capoluogo ticinese. È il primo, impercettibile segno del cambiamento di prospettiva che traghetta alla seconda sezione, dove non solo è citata Bellinzona nel titolo (inedito) Lettera da Bellinzona, ma la città assume una
centralità e un’importanza a tratti persino allegorica: «Una fascina d’anni, una
collina. / E il castello più alto. / Tutto il grigio all’altezza dei colombi, / tutto il
verde che scorre fino al grigio…»
La seconda sezione, però, si distingue soprattutto per le sue poesie d’amore:
fino a Lettera da Bellinzona, si seguono infatti sei componimenti dove i protagonisti sono un uomo innamorato e una donna amata. In cinque casi la donna
è destinataria diretta, con una seconda persona singolare: «Oh non schivare di
specchiarti, cara», «Dove una sola volta sei passata / e a me distratto lampeggiò
brunetta / la luce dei tuoi occhi», «gli occhi su cui m’oriento questa sera / a
ricercarti», «L’insetto caduto / nel tuo grembo s’accende di barbagli»; mentre
dove compare il “lei” (una sola volta, nella poesia Il calicanto) è solo perché il
“tu” diventa rifugio dell’io lirico: «Stringi per lei nella mano un rametto / di
calicanto, vivi in questo odore». La figura della donna è sempre al centro di
un’affettuosa contemplazione, ma non per questo si riduce al ruolo di comparsa
e la sua presenza ha persino effetti salvifici. In Tra pochi voli, per esempio, dove
214
Quello che resta nella memoria: L’ora del tempo di Giorgio Orelli
«l’ombra indiscreta della sera» sta raggiungendo la coppia, il suo intervento
riaccende versi che si stavano rabbuiando ben oltre il dato atmosferico, e che
invece così concludono: «Tu parli di sorgiva per questi occhi / pieni di raggi
quotidiani? Grazie».
In coda alla seconda sezione, come già nella prima, sono posizionati due testi
che si scostano lievemente dal tema dominante e favoriscono la transizione alla
terza sezione: Di gennaio e Di febbraio, naturalmente contigui (malgrado non lo
fossero in Poesie), dove domina il peso del (tras)correre del tempo26 e dell’assenza di colore e di vita («colei che ne ha parlato è già lontana»; «Contro l’occhio
pervaso di sclerotica / la banderuola non si muove più»), che nell’ultimo componimento è anche assenza di acqua e rassegnazione, infatti «la tuba di un bimbo che pare / dimenticato / tutta grida la lunga siccità» e «con la speranza che
ha di sé pietà, / da vie scordate dalla pioggia un uomo / a quelle case rassegnate
va». Questo incupimento dei toni non è casuale e viene a dilatarsi lungo tutta
la terza sezione, in quello che – proprio a metà percorso – rappresenta forse il
passaggio più brusco della raccolta. I luoghi, per cominciare, cambiano repentinamente e diventano più urbani: si scende ulteriormente a sud, in Italia, con
Venezia, Pisa e Bergamo (le prime due città citate nei titoli, la terza nel testo).
Anche se il vero tema centrale della sezione è quello della morte.
S’inizia dal rito di passaggio nell’Aldilà, con tre «epigrammi veneziani» che si
accompagnano sempre a una (insistita) figura di angelo: il testo d’apertura presenta un «angelo spettinato» che addita «il Campo / da cui si svolta nell’eterna
pace»; nel secondo testo c’è chi aspetta «l’Arcangelo, che suoni / dal mare la
cornetta»; nel terzo, in cui è descritto un funerale sull’acqua e «i vivi / vengono dietro il Morto», c’è «il mare / dove si specchia l’Angelo di prua». Mentre
l’Epigramma pisano che segue rende i toni ancora più neri con l’allegoria della
morte27 incarnata dal «falciatore» che «falcia un’erba cui più di quel tanto /
non concede di crescere / in nessuna stagione, da sempre». La minaccia diventa
allora manifesta e imperversa il tema della guerra, inaugurato con La trottola –
che prende ispirazione direttamente dal montaliano Finisterre – e ripreso esplicitamente da Novembre 1944 e Natale 1944. Si tratta di una guerra vissuta da
spettatore, da un paese neutrale come la Svizzera (si dice infatti «laggiù / dove
dura la guerra»; «qui la neve orma alcuna non serba / del sangue da Te sparso,
d’ogni sangue / dagli uomini versato»), ma la sua presenza evidente e invadente,
perché significa allo stesso tempo presenza di morte, segna un cambiamento di
prospettiva. Lo stesso Orelli, pensando a Luzi, parlerà nel 1963 di «inquietudine metafisica, esistenziale, […] poco conciliabile con una certa stagnazione spirituale verificatasi nel nostro paese risparmiato dalle guerre».28 L’idillio paesano
e montano della prima sezione ne esce incrinato; o meglio: ne esce incrinato lo
sguardo dell’io lirico, che non vi trova più il medesimo conforto e ne compromette l’adesione. Conscio dell’aleggiare della morte, le «tante notti» diventano
«inutilmente / chiare nel vasto abbraccio della luna». Ma soprattutto «Non è il
fuoco delle case / che mi chiama e soverchia questa sera / nell’intatto paese»;
non più: ora ad attirare la sua attenzione è «lo strepito / inatteso che sale / con
215
Yari Bernasconi
i fiati infingardi dell’inverno / dalla riva remota, irraggiungibile, / dove i ragazzi
ammazzano il gennaio».
Ancora una volta, con lo stesso procedimento che si è notato per le chiuse
delle altre sezioni, sono gli ultimi due testi della sezione a cambiare registro, preparando il terreno all’ultimo gruppo di componimenti. Due poesie di viaggio, di
transizione: Oltr’alpe, che guarda al nord delle Alpi e lascia affiorare il tema del
ritorno al passato, all’infanzia, sottolineato una volta di più dalla ciclicità della
vita e lo scorrere del tempo, con un battello che «già aspetta, già riparte, è già
domani»; e poi un testo intitolato proprio Il viaggio, che è anche il primo dei
cinque inediti (l’unico a non comparire in coda al libro).
La quarta e ultima sezione è la resultante delle esperienze precedenti, che
confluiscono in uno dei concetti o motivi fondamentali – anche per il futuro – di
Giorgio Orelli: il «cerchio familiare». Si ritorna soprattutto nei luoghi della prima sezione, montani, legati alle origini di Orelli (già dai titoli, anche qui: Passo
della Novena, Dicembre a Prato), ma – come abbozzato nella terza sezione – lo
sguardo è cambiato, filtrato dal tempo e dall’esperienza, e c’è una nuova consapevolezza che genera continui incontri-scontri tra passato e presente. L’uomo
che va nel bosco, poesia con cui si apre la sezione, è infatti una passeggiata indietro negli anni, piacevole finché non vi si oppone «a un tratto» l’inesorabilità
del tempo nell’immagine dei «compagni ch’è inutile chiamare, / i compagni
spariti». Come afferma Pio Fontana, «la memoria riporta al senso dell’irrecuperabilità dell’infanzia. Il bosco diventa quindi “intrico”, labirinto che è emblema
della “briga della vita”; e infine “nulla”, anzi “margine d’un nulla”, “riva” cui
approdare appena o naufragare, scampare».29 Eppure la memoria rappresenta
anche uno degli unici modi di cristallizzare un mondo che non esiste più. Solo,
di fronte al vuoto e al silenzio, il “paese” e l’idillio alpino con la loro aura protettiva – simbolo della prima sezione – non esistono più. Nel 1975, la prosa
Autunno a Rosagarda30 sembra offrire il quadro perfetto di questa situazione:
Dio, che silenzio. Ha ragione il prete, noi non li vediamo ma loro, i morti, ci vedono;
raccomandiamoci ai morti. Come dire che i vivi sono loro, e i morti siamo noi. Non è
così, signor curato? Vent’anni di Brasile per finire in un paesino di montagna, svizzero,
in Isvizzera, a cercar di convincerci che siamo tutti morti, non c’è bisogno di guardare
tutte queste case disabitate, non c’è bisogno…
E ancora più significativa – nello stesso racconto – è la comparsa di Pasquale,
uno dei personaggi che nella prima sezione de L’ora del tempo illuminava con
la sua presenza i versi: lì, nella poesia Vigna, si voleva «ricordare / la tua vigna,
Pasquale, inimitabile»; qui, più di trent’anni dopo, diventa un’assenza che si ripercuote su quello stesso scenario che sembrava intoccabile e come sacralmente
protetto:
Mia madre tornando dal pollaio si ferma a guardare l’orto di Pasquale, che in questi
tempi tratta quasi da pari a pari con la vigna di Renzo. «Adesso poi, che è quasi sempre
216
Quello che resta nella memoria: L’ora del tempo di Giorgio Orelli
su a Cintone», dice, «non gli verrà in mente neanche la melissa, che come decotto per
lui non c’è niente di meglio».
«Cosa fa a Cintone?»
«Aiuta quei di Medardo, soprattutto in stalla».
«Ah, perché Medardo…»
«È malato, l’hanno menato all’ospedale, a Faido. Dicono che non è neanche un po’
bene. Deve fare un’operazione, dev’essere brutta».
Vittima di questa evoluzione, il microcosmo montano si restringe così a ciò
che è più umanamente vicino e riconoscibile, e più legato al luogo come origine, cioè il «cerchio familiare / da cui non ha senso scampare», dove le conifere
hanno una «scorza che dura oltre la morte» e ogni cosa è al suo posto: ecco la
svolta, la nuova consapevolezza esplicitata dalla poesia Nel cerchio familiare. La
memoria – cioè il lavoro di memoria – diventa cruciale. In questo spazio il tempo agisce diversamente: la «conca» è sì «scavata con dolcezza dal tempo», ma
«tutto è fermo»; chi se n’è andato è come se non l’avesse fatto, perché «Entro un
silenzio così conosciuto / i morti sono più vivi dei vivi». Le persone care – del
passato e del presente – si rivelano interlocutori privilegiati, “ideali”, a cui rivolgersi affettuosamente (A mia moglie, in montagna, A un giovane poeta cacciatore,
A un amico che si sposa), spesso anche per nome (in Brindisi del primo fieno,
i bergamaschi che hanno fatto il fieno sono festeggiati uno a uno: «Giuseppe
d’Albensa», «Bernardo da Lovere», «Stefano da Marone»): nomi che così si intrecciano istintivamente con i luoghi («Io e mio padre quando fu che bevemmo /
la prima volta a questa fonte?»). Anche Maria Antonietta Grignani, nel 1998,
pur riferendosi soprattutto agli sviluppi che il tema avrà nelle poesie più vicine
a quella data (ma è una proiezione significativa), nota come il
cerchio familiare» sia un «motivo che innerva un’intera parabola fino a baciare e riassorbire in una circolarità senza scampo la terza età di colui che parla: la stagione della
moglie e delle figlie bambine, quella dei nipoti; ma anche il non-tempo del padre e della
madre defunti, dei vecchi di casa, degli amici, delle ragazze scomparse.31
Segue la poesia Nel cerchio familiare la suite in due tempi Prima dell’anno
nuovo, formando in tal modo un trittico che costituisce forse il nucleo della
riflessione esistenziale e filosofica di Orelli, che è anche – va da sé – riflessione di
scrittura (d’altra parte, le tre poesie sono stilisticamente molto legate e i luoghi
entro cui ci si muove sono gli stessi). Che si facciano i conti con le esperienze
trascorse è evidente sin dal titolo, Prima dell’anno nuovo, che non a caso lascia
poi spazio al gruppo di inediti e agli ultimi due testi della plaquette del ’60. E
infatti vi si esplicita un altro motivo fondamentale dell’opera di Giorgio Orelli,
già accennato – ma implicitamente – in alcune poesie delle sezioni precedenti (soprattutto Parla, Zalèk…, Tra pochi voli ed Epigramma veneziano): quello
legato alla citazione in esergo di Gottfried Benn, con cui i due testi sono introdotti, «Wer redet, ist nicht tot»,32 che ritroviamo tradotta nel testo. Come
spiega De Marchi, «La vita, per essere, leopardianamente, “vera vita”, deve farsi
217
Yari Bernasconi
dialogo, discorso, racconto di sé. Ecco che si tocca qui un punto fondamentale,
per Benn come per Orelli: è dal vuoto del silenzio che si origina il pieno della
parola; è dall’incombere della morte che viene la necessità di dire».33 L’ambiente
circostante e il pensiero di una persona cara fanno il resto, in uno dei passi più
celebri della poesia, dove l’io lirico – primi che arrivi l’anno nuovo – è spinto a
tirare le somme e dare una definizione di sé («auto-definizione», come ha detto
Contini):34 «È caduta una bacca, ho pensato / la tua bocca serrata; mi sono /
guardato nello specchio: / né giovane né vecchio, più che abete / larice». Con
il sigillo dei versi conclusivi: «Prima dell’anno nuovo non farò / su questo tema
alcuna variazione».
Al di là del sintagma «né giovane né vecchio» (luziano e prima ancora «shakespeariano, che Eliot pose in epigrafe a Gerontion»),35 a illuminare il passo
è il “complemento” orelliano «più che abete / larice»: più che il sempreverde
abete, il mutevole larice, unica conifera europea che non ha le foglie persistenti,
e dunque cambia aspetto e colore in funzione delle stagioni. Insomma, una sorta
di “sentimento del tempo” vegetale. E, sulla scia di Benn, e del «wer redet, ist
nicht tot», è interessante notare come, oltre alla «bacca», sia il silenzio della
«bocca serrata» l’immagine da cui scaturisce la riflessione o presa di posizione
dell’io lirico.
*
Tutti questi aspetti, oltre all’intensità dell’itinerario proposto, sembrano dimostrare come L’ora del tempo sia un libro preparato con una grande attenzione e
consapevolezza. E il lavoro di memoria a cui s’è accennato per la quarta sezione
vale in verità per l’intera antologia: presto o tardi, raggiunto quel «giorno della
vita» in cui la purezza e le certezze del visibile s’offuscano, si è costretti a ritornare indietro, nei ricordi o nel passato, per fare delle scelte e ristabilire delle priorità nel presente (e forse oltre). Ci si ritrova, volenti o nolenti, «nella nebbia che
ora punge la memoria»: verso proveniente dalla prima sezione, da Campolungo,
ma che è – si ha voglia di dire: tutt’altro che casualmente – inedito, aggiunto
solo nel 1962 per la versione de L’ora del tempo. Verso che dà ulteriore spessore
macrotestuale alla già citata poesia L’uomo che va nel bosco, che ora possiamo
considerare ancora più cruciale:
L’uomo che va nel bosco
L’uomo che va nel bosco (lo rallegra
un suono di campana da non sa
bene quale paese: certezza di bel tempo?)
pensa a un tratto i compagni ch’è inutile chiamare,
i compagni spariti con le bocche
sporche di mirtilli in intrichi
d’ombra e sole.
La briga della vita
218
Quello che resta nella memoria: L’ora del tempo di Giorgio Orelli
lo stesso giorno, o un altro, lo dimentica
al margine d’un nulla in cui sorge
come una riva un poggio e donne girano
il viso alla parete dei monti
con sulle spalle falci, che, divaricate,
oscillando, scintillano.
Al suo ritorno l’aria
è quella giusta, sottile, che punge
se anche nessuno, nel frattempo, è morto.
1
G. Orelli, «Le acque del sabato» di Maria Luisa Spaziani, in “Cenobio”, III (1955), 1112, gennaio-febbraio, p. 705.
2
Le raccolte di Giorgio Orelli citate nell’articolo sono Né bianco né viola, Collana di
Lugano, Lugano 1944; Prima dell’anno nuovo, Leins & Vescovi, Bellinzona 1952; Poesie,
Edizioni della Meridiana, Milano 1953; Nel cerchio familiare, Scheiwiller, Milano 1960; L’ora
del tempo, Mondadori, Milano 1962; 6 poesie, Scheiwiller, Milano 1964; Sinopie, Mondadori,
Milano 1977; Spiracoli, ivi, 1989; Il collo dell’anitra, Garzanti, Milano 2001. L’ora del tempo
è valsa a Orelli, nell’aprile del 1963, il Premio Tarquinia-Cardarelli (a pari merito con Nelo
Risi, che presentava Massime e minime); la giuria, presieduta da Giuseppe Ungaretti, presentava tra i suoi membri Giansiro Ferrata, Leonida Répaci, Leonardo Sinisgalli e Bonaventura
Tecchi.
3
S’intende qui il lavoro del poeta quanto quello del prosatore, del critico e del traduttore. E si sarebbe tentati di aggiungerci anche la sua oralità, se Cesare Segre ha affermato che
«Orelli è tra i pochi che coltivano ancora il gusto, anzi l’arte della conversazione; e questa
secondo me è la chiave anche per capire il poeta» (C. Segre, Un conversatore dall’orecchio
straordinario, in “Cenobio”, LX (2011), 2, aprile-giugno, p. 61).
4
L’opera di Giorgio Orelli, come afferma Pietro De Marchi, può essere letta «come
un autocommento continuo a più entrate: il suo essere poeta non è estraneo al suo modo di
fare critica, e anche al suo modo di “scrivere” critica; i suoi accertamenti verbali […] e i suoi
racconti aiutano a “spiegare” la sua poesia» (P. De Marchi, Racconti in versi e poesie in prosa.
Giorgio Orelli da «Sinopie» al «Collo dell’anitra», in Id., Uno specchio di parole scritte. Da
Parini a Pusterla, da Gozzi a Meneghello, Cesati, Firenze 2003, p. 69).
5
M.A. Grignani, Postfazione, in G. Orelli, Rückspiel / Partita di ritorno, traduzione e
cura di C. Ferber, Limmat, Zürich 1998, p. 217.
6
P. Pontinelli, “Con altra voce omai, con altro vello ritornerò poeta”. Su «Alter Klang» di
Giorgio Orelli, in “Idra”, VI (1996), 13, p. 48.
7
G. Orelli, Svizzera italiana, La Scuola, Brescia 1986.
8
Id., Cantano i dissennati, in “Idra”, VI (1996), 13, p. 81.
9
«L’ora del tempo operava una severa selezione della produzione poetica orelliana tra i
venti e i quarant’anni, rimettendo in circolazione testi noti e facendo conoscere alcuni inediti,
ma condannava al limbo una parte cospicua di un libro, quello del 1953, che aveva una sua
struttura oltre che una sua dignità» (P. De Marchi, Per una tipologia dell’autocommento in
Giorgio Orelli: note, autoletture, autocommenti impliciti, in L’autocommento nella poesia del
Novecento: Italia e Svizzera italiana, a cura di M. Gezzi e T. Stein, Pacini, Pisa 2010, p. 29).
10
La figura di Gianfranco Contini è fondamentale per l’esordio di Orelli: al di là dell’amicizia che li legò da subito, fu lui a leggerne i testi inediti e a promuoverne la pubblicazione
in raccolta (attraverso la conquista, nel 1943, della seconda edizione del Premio Lugano) e in
alcune riviste, come la losannese “Formes et couleurs” (VII, 1945, 2), dove Contini scelse un
219
Yari Bernasconi
piccolo drappello di poeti italiani contemporanei accostando Orelli – e la sua «grêle, mais si
pure voix» – a Cardarelli, Saba, Montale, Ungaretti, Gatto, Quasimodo e Penna. Non stupisce, per fare un esempio, che ancora nel 2012 Giorgio Orelli parlasse di Gianfranco Contini
come del «vero e grande Maestro» (cfr. “Giornale del Popolo”, 4 agosto 2012, p. 25; e si veda
la voce «C come CONTINI» in G. Orelli, Quasi un abbecedario, a cura di Y. Bernasconi,
Casagrande, Bellinzona 2014, pp. 25-26). D’altronde, nel 1945 non tutti avevano accolto le
prime poesie orelliane con entusiasmo; basti ricordare la reazione di Arminio Janner a Né
bianco né viola: «In primo luogo: Montale è qui troppo presente, e imitato solo esteriormente. Poi, nei particolari, chi ci capisce qualche cosa?» (A. Janner, Letteratura della Svizzera
italiana. Tre giovani poeti della Svizzera italiana, in “Svizzera italiana”, V (1945), 1, gennaio,
p. 27). Per quanto riguarda il passo continiano – piuttosto celebre – a cui la nota si riferisce,
si veda G. Contini, Giorgio Orelli. Un toscano del Ticino, in Pagine ticinesi di Gianfranco
Contini, a cura di R. Broggini, Salvioni, Bellinzona 1986, pp. 190-191 (ma apparso una prima
volta in Giorgio Orelli poeta e critico, a cura di C. Mésoniat, RTSI, Lugano 1980). Nelle stesse
pagine, Contini aggiunge: «Io trovo assolutamente consolante che un poeta, un vero poeta,
abbia scritto soltanto poesie pubblicabili e non abbia strappato carte poetiche che non gli
sono venute. È stato non per niente avaro di se stesso, è stato estremamente discreto, non ha
avuto impazienza; e questo è un carattere generale di Orelli, cioè non si verifica soltanto per il
poeta in versi ma anche per il narratore». A un Orelli «autore di due libri», accenna Massimo
Danzi, che nella seconda metà degli anni ottanta – pur citando Né bianco né viola – parla di
«un percorso essenzialmente ritmato da due soli libri» (M. Danzi, Esegesi d’autore e memoria
di sé: Giorgio Orelli fra prosa e poesia, in Lingua e letteratura italiana in Svizzera, Atti del convegno tenuto all’Università di Losanna, 21-23 maggio 1987, a cura di A. Stäuble, Casagrande,
Bellinzona 1989, p. 94).
11
G. Contini, Giorgio Orelli, p. 191.
12
La somma totale eccede di tre poesie perché in due casi L’ora del tempo riprende e
fonde due testi diversi (succede in Lettera da Bellinzona e in Di gennaio), mentre un testo è
pubblicato in due raccolte diverse ed è quindi contato due volte.
13
«Giovanile», beninteso, riferito unicamente all’età: nel 1944, infatti, Né bianco né viola
è già a tutti gli effetti «un bel libro», come affermato da Contini, non «semplicemente una
promessa» (G. Contini, Giorgio Orelli, p. 190); Orelli, con le parole di Remo Fasani, «già
nell’opera prima domina interamente la sua arte» (R. Fasani, Felice Menghini poeta, prosatore
e uomo di cultura, Pro Grigioni Italiano-Dadò, Locarno 1995, p. 10. Il passo è evidenziato
anche da Giovanni Orelli in Cantano i dissennati, p. 82).
14
Quarta generazione, a cura di P. Chiara e L. Erba, Magenta, Varese 1954.
15
L’Orelli di Sinopie, afferma Mengaldo, approfondisce «la propensione al racconto, o
al montaggio di spezzoni narrativi, che era già dell’ultima parte de L’ora del tempo» (Poeti
italiani del Novecento, a cura di P.V. Mengaldo, Mondadori, Milano 1978, p. 820).
16
P. Fontana, Orelli e l’ora del tempo, in Id., Arte e mito della piccola patria, Marzorati,
Milano 1974, pp. 88-89.
17
Ibi, p. 89.
18
G. Orelli, Uno scrittore italiano contemporaneo: Nicola Lisi, in “Schweizerischer Studentenverein. Monatschrift”, 4 (1944), dicembre, pp. 130 e 132.
19
Così nel Pascoli del Fanciullino: «Il quale tintinnio segreto noi non udiamo distinto
nell’età giovanile forse così come nella più matura, perché in quella occupati a litigare e perorare la causa della nostra vita, meno badiamo a quell’angolo d’anima d’onde esso risuona»
(ed. a cura di G. Agamben, Feltrinelli, Milano 1991, p. 25).
20
M.A. Grignani, Postfazione, p. 218. E P. De Marchi, La frontiera fra detto e non detto,
in Id., Dove portano le parole. Sulla poesia di Giorgio Orelli e altro Novecento, Manni, Lecce
2002, p. 56.
21
P.P. Pasolini, Implicazioni di una «Linea lombarda», in Id., Passione e ideologia (19481958), Garzanti, Milano 1960, p. 433. L’antologia è la nota Linea lombarda, a cura di L. Anceschi, Magenta, Varese 1952; oltre a Orelli, vi sono presentati Vittorio Sereni, Roberto Rebora,
Nelo Risi, Renzo Modesti e Luciano Erba.
220
Quello che resta nella memoria: L’ora del tempo di Giorgio Orelli
22
P.V. Mengaldo, Giorgio Orelli, in G. Bonalumi, R. Martinoni, P.V. Mengaldo,
Cent’anni di poesia nella Svizzera italiana, Dadò, Locarno 1997, p. 191.
23
Giorgio Orelli delinea la sua evoluzione poetica, in “Giornale del Popolo”, 6 giugno
1963, p. 2. L’articolo è siglato «g.b.» (forse Giuseppe Biscossa).
24
Come affermato da Francesco Napoli, Orelli tende in particolare ad «attribuire al
mondo animale una funzione di orologio naturale» (F. Napoli, «L’ora del tempo» di Giorgio
Orelli, in “Poesia”, III (1990), 35, dicembre, p. 52; cfr. anche Y. Bernasconi, Gli animali di
Giorgio Orelli: «L’ora del tempo», in “Versants”, 55, 2008); gli esempi sono diversi: per L’ora
del tempo basti citare Parla, Zalèk… e L’estate. Da segnalare anche la posizione di Gilberto
Isella, secondo cui «Né oracolare in accezione forte – come in Pascoli – né tendenzialmente
empatetico nei confronti dell’uomo – come in Saba – l’animale orelliano è creatura votata
all’indizio, fluttuante in una zona dove la rivelazione vive nel nascondimento; dischiusa, ma
discretamente, verso l’altrove» (G. Isella, «A mia moglie, in montagna» di Giorgio Orelli: il
maturare del senso, in “Versants”, 20 (1991), p. 56).
25
P. De Marchi, Il fiore di Mallarmé e Xuan Loc. La poesia di Giorgio Orelli da «L’ora del
tempo» a «Sinopie», in Id., Dove portano le parole, p. 70.
26
In Di gennaio il tema è sottolineato dalla citazione foscoliana incastonata nei versi: «e
intanto fugge / questo reo tempo» (si veda A. Martini, Tre finestre poetiche, in Finestre sulla Svizzera, a cura di R. Castagnola, Casagrande, Bellinzona 2011). Ma, tornando al dittico
costituito dalle poesie Di gennaio e Di febbraio, anche un verbo come “scordare” ha un suo
notevole peso specifico, soprattutto perché non si limita a comparire in entrambi i testi, ma lo
fa sempre nello stesso luogo, il primo emistichio del verso 3 (le due poesie, del resto, ne L’ora
del tempo sono appaiate): «Scordati dagli uccelli, i fili, i rami» in Di gennaio; «da vie scordate
dalla pioggia un uomo» in Di febbraio.
27
Cfr. P. Fontana, Orelli e l’ora del tempo, p. 94.
28
Giorgio Orelli delinea la sua evoluzione poetica, p. 2.
29
P. Fontana, Orelli e l’ora del tempo, p. 94.
30
G. Orelli, Autunno a Rosagarda, in Pane e coltello. Cinque racconti di paese, Dadò,
Locarno 1975, p. 112.
31
M.A. Grignani, Postfazione, pp. 221-22.
32
Da Kommt, in Aprèsludes (1955).
33
P. De Marchi, «Una cosa che comincia con la r in mezzo». Sul tema della morte, in Id.,
Dove portano le parole, p. 23.
34
G. Contini, Giorgio Orelli, p. 191.
35
P. De Marchi, I giorni della vita. Per i novant’anni di Giorgio Orelli, in Giorgio Orelli.
I giorni della vita, a cura di P. De Marchi e S. Soldini, Museo d’arte, Mendrisio 2011, p. 9.
221
OTTAVIO BESOMI
Il lavoro sulla parola d’altri:
gli inediti del Fiore
1. Il corpus creativo di Orelli, poesia e prosa, è largamente noto perché a stampa,
benché da anni alcune raccolte non siano facilmente reperibili. L’edizione di
tutta l’opera poetica, edita e inedita, è in preparazione, come Pietro De Marchi
dice qui appresso. Il paesaggio dei testi critici resta invece in gran parte da scoprire, per due ragioni:
– la prima: a parte i volumi di saggi e le monografie che si conoscono,1 gli
scritti critici sono ancora dispersi, affidati a interventi su quotidiani e riviste, o
a interviste in forma sia orale e sia scritta: una produzione di varietà e misura
prima non immaginabile, perfettamente registrata da Pietro Montorfani e da
Yari Bernasconi,2 ma produzione di fatto dispersa e perciò di difficile accesso
– la seconda: una buona parte dei saggi critici di Orelli è tuttora inedita.
L’immagine che si presta a visualizzare la situazione è quella dell’iceberg:
dove l’inedito corrisponde alla zona sommersa.
Nell’appartamento di Ravecchia (non oso parlare di archivio, termine istituzionale che qui non conviene), si conservano materiali su cui Mimma sta esercitando, con amore, il primo intervento necessario: quello di individuare, raccogliere, ordinare. Faccio conoscere gli inediti, con un primo esame da contabile
più che da critico; essi riguardano:
I. Dante del “Fiore”. Titolo dell’autore; 364 pagine
II. Addizioni petrarchesche. Titolo dell’autore; 284 pagine
III. Poesie di Giovanni Pascoli. Titolo dell’autore; 140 pagine
IV. Vittorio Sereni poeta e traduttore. Titolo dell’autore; 83 pagine
Da contabile: il totale dà 871 pagine; tanta è la parte sommersa. Di tutti gli
scritti indico struttura e contenuti in Appendice; qui offro una prima ricognizione che si applica unicamente al Fiore.
2. Sulla questione attributiva del Fiore («che non ha l’eguale né per il numero
di concorrenti chiamati in causa, né per la quantità degli interventi critici»,3
in tutte le letterature e tutti i tempi) le voci bibliografiche si sono moltiplicate:
dall’attribuzione a Dante sostenuta dal suo primo editore, Ferdinand Castetz
(1881), attraverso le differenziate e anche divergenti posizioni della grande filologia romanza di fine Otto e inizio Novecento,4 all’edizione critica di Contini del
19845 e agli studi correlati, al volume recente di Pasquale Stoppelli, contrario
223
Ottavio Besomi
all’attribuzione dantesca, favorevole all’omonimo Dante da Maiano per ragioni
che qui non è necessario esporre,6 passando attraverso attribuzioni e disattribuzioni degli ultimi decenni (alcune addirittura di uno stesso critico);7 andando
infine alle ottime edizioni commentate, con differenziata collocazione del Fiore
nel corpus dantesco.8
Do alcune coordinate essenziali per i non addetti ai lavori:
– il Roman de la rose è tra le maggiori opere letterarie del Duecento francese;
– il Fiore è il testo che ne è stato tratto in volgare italiano, con rimaneggiamento libero che la poetica medioevale permetteva, prevedeva e incoraggiava.
Dalla complicatissima matassa Rose-Fiore isolo qualche capo, semplicemente accennando a componenti essenziali del problema:
– la materia della Rose, affidata a oltre 22 000 versi octosyllabes (i nostri novenari) in distici a rima baciata, di cui oltre 4000 sono di Guillaume de Lorris,
anno 1230, e oltre 18 000 di Jean de Meung, anno 1275. Sul racconto originale
di un sogno del protagonista-amante alla ricerca della rosa (l’oggetto del desiderio) nel regno d’Amore, ostacolato o favorito da sentimenti contrastanti personificati, si innesta un romanzo enciclopedico in cui convergono, caoticamente,
temi di fisica, filosofia, teologia, di ascendenza classica e medioevale;
– il Fiore, con 232 sonetti a schema metrico unico, per ampiezza (numero di
versi) equivale a un settimo soltanto della Rose, si presenta come una «stringata
parafrasi» (Contini), senza distinzione tra le due parti dei due diversi autori,
applicata essenzialmente alla porzione narrativo-allegorica (priva cioè degli excursus dottrinali di Jean de Meung). Nel poemetto, largamente dialogato, l’“io”
narrante, il protagonista che si nomina Durante, nell’affrontare l’impresa della
deflorazione entra in contatto con enti simbolici di carattere erotico-psicologici
che lo ostacolano (Falsembiante, Astinenza, Gelosia, Paura, Vergogna) o lo incoraggiano (Amico, Bellaccoglienza, Cortesia, Vecchia); al centro un’ars amandi, i cui precetti sono dichiarati dalla Vecchia;
– i manoscritti che portano il Fiore e il Detto d’Amore (l’altro poemetto attribuibile a Dante), entrambi anepigrafi e adespoti, erano inizialmente legati in un
solo codice, unitamente alla Rose, ma oggi risultano separati: la Rose e il Fiore
a Montpellier, Bibliothèque interuniversitaire, Section Médecine, segnatura H
438; il Detto a Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, fondo Ashburnamiano
1234II;9
– il rapporto strutturale tra la Rose e il Fiore, e il diverso riflesso nel Fiore
delle due parti della Rose;
– le innovazioni introdotte dal parafraste Durante rispetto al poema matrice:
tagli, compensazioni, interpolazioni;
– l’esemplare del poema utilizzato;
– la data e il luogo di produzione del Fiore; i gallicismi; la metrica; l’unità del
Fiore, pur nella frammentazione in sonetti;
– la componente “comica” del Fiore e gli elementi culturali comuni alla poesia del Duecento.
Tutti questi aspetti, ripeto, sono qui semplicemente accennati.
224
Il lavoro sulla parola d’altri: gli inediti del Fiore
3. Orelli ha un ricco Dossier inedito sul Fiore, oltre alle pagine portate a stampa
in più occasioni, tra il 1974 e il 2005 (una quarantina rispetto alle 364 inedite).10
Sono l’ultimo a poterne parlare degnamente, essendo la mia bibliografia muta
alla voce Dante (né aspiro ad acquisirne una fuori tempo massimo). I contatti
con Orelli mi hanno tenuto al corrente del suo lavoro, e Mimma mi permette
ora di accostare il Dossier; questi rilievi valgano dunque sul piano dell’amicizia,
se non della competenza.
Orelli ha lavorato al Fiore con un’acribia e un’applicazione (in forze e tempo)
eccezionali, certosine; negli ultimi anni quotidianamente, con una passione verso
l’oggetto quasi esclusiva, oserei dire ossessiva, non trascurando certo, ma lasciando
persino in secondo piano, la parte più propriamente creativa. Ma il filo non è mai
interrotto. Sasso Corbaro (leggendo il Fiore)11 è una tessitura del nesso palatale liquido /gli/ (soglia, figlia, spogliare, cogliere, agrifoglio, bagliori, invogliarsi, caviglie, voglia, meraviglia, abbagliava, scompiglio, scagliate, famiglia, giacigliamoci nelle foglie),
16 occorrenze in 21 versi; immagino che un punto di avvio possa essere stato (giusto, leggendo il Fiore) il son. CCXIV, dove ricorrono battaglia, trapesaglia, taglia,
vaglia, in rima. Ma altro è da vedere, i componimenti ricchi di rime in aglia, aglio,
iglio, oglio, uglia. Basti la variazione dell’incipit «Sulla collina di Sasso Corbaro» >
«Sulla soglia di Sasso Corbaro» per cogliere la direzione del lavoro sulla lettera; e
se spoglia meraviglia 10 che diventa nuda meraviglia 13 sembra contraddire il movimento, basterà osservare che al v. 3 entra, nuovo e a compenso (come nella pratica
di Petrarca e di Leopardi), spogliare ogni rovo, semanticamente più pregnante. Taccio su altri rimaneggiamenti. Certo “infogliarsi”, “sdiricciarsi”, “giacigliarsi” sono
da ricondurre alla funzione creativa del Dante maggiore; e non si può dimenticare
che sullo stesso tavolo di lavoro, Orelli convocava contemporaneamente le carte de
L’orlo della vita. La mia rapida escursione finisce qui.
4. Queste, credo, le ragioni della massima attenzione di Orelli al Fiore:12
– la volontà di applicare un metodo, che solum è suo, a un problema di attribuzione, una delle operazioni più insidiose della critica, sia essa applicata alle
lettere o alle arti figurative;
– il desiderio di convalidare la posizione di Contini e, nello stesso tempo,
l’ambizione di misurarsi con lui; i rinvii su punti precisi sono ricorrenti, per
confermare e vedersi confermato, prendere spunto per nuovi accertamenti e
aggiungere nuovi rilievi a quelli segnalati dal Maestro;13
– il piacere di entrare in competizione con studiosi che hanno negato l’attribuzione del Fiore a Dante, funzione agonistica che opera come stimolante anche
in altre iniziative;
– e da ultimo, ma per importanza forse la ragione principale, il piacere del
testo, con la gioiosa soddisfazione di auscultarlo dentro le pieghe della Commedia, dove gli strumenti di altri lettori si rivelano inadeguati. Si può anche dire
così: arrivando dal Fiore alla Commedia, Orelli vi sosta anche oltre il tempo
necessario per l’individuazione di accordi solidali, funzionali all’accertamento
attributivo; vi passeggia con Dante, come Contini con Sainte-Beuve.14
225
Ottavio Besomi
Orelli adotta quella che Contini chiama «la regina delle prove [che] si tocca
quando alla ripetizione di elementi semantici si accompagna quella di dati fonici
in analoghe congiunture ritmiche e sintattiche»;15 e allarga l’individuazione di
«strutture di convergenze, dove cospirano parentele semantiche, lessicali, foniche e ritmiche»,16 così penetrando «in un sistema di memoria coerente, affondato nell’inconscio forse meno che non possa sembrare, del tutto simile alla
memoria che la Commedia ha di se stessa».17 Forse talvolta – mi permetto di
osservare – Orelli va oltre i limiti della «grande oculatezza» necessaria (è ancora
Contini che mette in guardia, da altra sede) «nel determinare se un certo stilema
o sistema di stilemi possa davvero esser considerato una firma interna».18 “Di
torsione in torsione” dentro la Commedia (Dossier Fiore 186), il rischio di allontanarsi dal Fiore non sembra sempre evitato. Orelli non concede per contro nessuno spazio agli “argomenti esterni” (centrale l’assassinio di Sigieri di Brabante,
ignoto alla Rose, presente nel Fiore e in Par. X, 133-38),19 sui quali hanno sostato
il Maestro e altri, prima e dopo di lui.20
La lettura di Orelli (applicata, in Accertamenti verbali, a testi di Dante, Petrarca, Foscolo, Leopardi, Pascoli, Barile, Montale, Luzi) è dettata dal principio
secondo cui «ritmico-timbrica è essenzialmente la memoria che i poeti hanno di
sé e d’altri poeti».21 Tale memoria è già esegesi: Un verso di Petrarca in Accertamenti verbali 51-65 ne è un esempio pregnante: ecco il lettore-critico ricondurre
«Batte nel campo la falce picchiando», di Clemente Rebora, al dantesco «batte
col remo qualunque s’adagia» in Inf. III, 111, non per l’incipit comune batte, ma
per il ritmo dattilico-anapestico del verso.22 Un altro esempio: il fonema sordo
(denso) /t/ del Sabato leopardiano 38, «questo di sette è il più gradito giorno» è
ricondotto per i suoi “rintocchi attutiti”, a Petrarca CCLXXII «La vita fugge, e
non s’arresta una hora / […] et le cose presenti et le passate / mi danno guerra,
et le future anchora».
Tra gli Accertamenti e il Dossier del Fiore sta Il suono dei sospiri, anche se
per Orelli critico, e non solo, il lavoro sulla lettera cresce su se stesso, si lascia
immaginare come la spirale a tre dimensioni più che come la linea retta (la stessa
figura potrà valere per la poesia?). È però certo che il Dossier raccoglie tutta
l’esperienza della «lettura lenta del Canzoniere»,23 della misurazione della «tensione dinamizzata tra significato e significante»� e dell’esercizio della memoria
che permette a Orelli di leggere Dante in Petrarca.25 È proprio grazie a questa
memoria, esercitata da un poeta su un altro poeta, che egli ritiene di poter riconoscere gli effetti della memoria di Dante in Dante, e quindi di legare il Fiore
alla Commedia, dichiarandone comune l’autore.
5. Il Dossier porta il titolo «Giorgio Orelli / Dante del “Fiore”» (ossia: ciò che di
Dante si trova nel Fiore; è «Dante in Dante» di Contini),26 autografo sulla pagina [I], ripetuto a macchina sul foglio [II]. Conta 364 fogli sciolti formato A4,
dattiloscritti con Olivetti Lettera 22, la fedele macchina da scrivere, numerati
per pagina a mano al centro del margine superiore. Risulta chiaramente «par les
portions faites que ce livre existe».27 In Appendice I la situazione più in dettaglio.
226
Il lavoro sulla parola d’altri: gli inediti del Fiore
Il volume (tale la dicitura dell’autore, p. 1), si struttura fondamentalmente
in tre parti:
A. Poscritto I e II (20 pagine)
B. Accertamenti, numerati da 1 a 40 (278 pagine)28
C. Altri accertamenti (41, così il titolo del dattiloscritto), 32 paragrafi numerati dall’autore (62 pagine).
Tra B e C si colloca Una fascina di rimemorazioni (pp. 299-302) dette «probabilmente inconsce, talvolta più ritmiche che timbriche, anche più probanti se
recano “stilemi associativi” (Contini) o riguardano il disegno sintattico».29
6. Conviene leggere l’avvio per un primo orientamento:
Com’era chiaro sin dal primo fiotto, non ho mai dubitato della paternità dantesca del
Fiore, non penso che occorra essere continiani per nutrire questa certezza, e continuo a
stupirmi che qualcuno, qui, là, forse desiderando di scollinare, come si dice, in bellezza,
o giovanilmente trottando, sia scosso dalla voglienza di attribuire lo straordinario poemetto ad altro poeta […] (Dossier Fiore 1).
Lo “scollinante” di turno, negatore della paternità del Fiore a Dante, è segnalato nel “Corriere del Ticino” del 5 novembre 1999.30 La notizia è definita
«patullante»,31 il che rende l’atmosfera in cui Orelli si pone; egli esibisce subito
il son. XC del Fiore, con relativa analisi (come un “tramaglio”, con assunzione in
proprio, come spesso succede, del tramagli del testo, v. 2) e la messa in evidenza
della dentale vibrante TRA RTA della fronte, che porta a Purg. XXIX, 127-129
(tratte, altre, tarde, ratte) e a Inf. XXVIII, 25-27 (tristo sacco, merda, trangugia),
54-57 (martiro, vedrà, seguitarmi), per mostrare (anche con altro) la mano di un
grande. Ritorna ancora più in là (Dossier Fiore 153-154); sulle torsioni di /TRA/
in XC (poveRTA, TRAmagli, TRAvagli, TRAre [cosa] ceRTA, chiTARli, raquisTARli), osserva: «chiude la quartina con nuova torsione dARTi apeRTA, da cui
possiamo balzare a Purg. XXVIII, 126 quant’ella versa da due pARTi apeRTA». Su
altri suoni riscontra «l’ennesimo documento dell’inesausta inclinazione isofonicoisosemica peculiare della poesia dantesca». E così siamo subito nella rete; Nascoso
11 ingoia anagrammaticamente cosa 5 come in Par. XVI, 86-88 (cosa : nascosa in
rima); e la «flottiglia centrale» di lessemi del sonetto trova riscontro in Par. XXIX,
60 ss. La cobla capfinida che lega Fiore XC al precedente suggerisce coincidenze
con altre zone della Commedia. E così il transito da CCXI a Inf. XIX, 96-99 (che
Orelli chiama «il lavoro di Inf. XIX, 96-99») è dato dal gruppo vibrante-dentale
sonoro peRDuto-aRDire; dire : ardire è «il legame tra i più danteschi che possiamo
augurarci» (13); è il passaggio da /d/ + /r/ a /rd/ «che fa più dantesco il morsello»;32 sono gli stessi suoni che legano CCXIII a Par. XVII, 106-120.
I primi affondi del Poscritto, ad apertura di libro, riassumono l’esito della
ricerca, che Orelli intende anticipare al lettore:
Il Fiore sembra soprattutto un’insolita esercitazione retorica, atta a saggiare l’azione “relativa” (Dante) delle parole […]. Più si tasta nel certo del linguaggio, della fabricatio
[verborum], e più splende la paternità dantesca del poemetto (12).
227
Ottavio Besomi
Oltre la soglia dei due Poscritti, si entra negli Accertamenti; il primo, Un
sonetto del “Fiore” (IV), è traslato non senza interventi dalla stampa, come dico
più avanti.33 Il secondo è sul sonetto d’apertura del Fiore, dal quale arco-trasse si
irradiano in più direzioni. «Non è sùbito Dante?» Nel sonetto, Orelli individua
«la prima di non poche torsioni» del tipo aRCO-CORe attraverso CORtesia;
cortesia e core tornano in Inf. II, 131-134 (al cor mi corse, soccorse, cortese), arco
e cortese in Par. XV, 43-48; cortesia e compagnia, isometrici in 12 e 13, sono in
rima a Par. XII, 143-145. «L’azione vigorosa di /r/ implosiva in arsi», da AmOR
1 e fiOR 2 porta in chiusura di quartina a giaRDini di PiaceR, nella stessa sede
di giardin de lo ’mperio di Purg. VI, 105; le cesure ossitone vibranti richiamano
Purg. VIII, 100-104 (dicer, mosser, astor). La serie PIAcer 4, PIAntato 3, PIAcque
7, PIAgasse 8 conduce a Par. XXXII, 1-6 (piacer, parole, piedi, aperse, punse) e a
Inf. XIX, 79-81 (per piantato). Da volasse 5 a voglia 7 non occorre alzarsi a volo
per imbattersi in almeno tre delle ormai attese inversioni dal Fiore alla Commedia (Purg. XIII, 24 ss. voglia, verso voi, volar, visti, inviti; Purg. XXV, 11 voglia di
volare; Par. XXXIII, 13-15 voli, vuol, vuol volar). Sul gruppo /ard/ guARDava e
giARDino molti sono i riscontri. Un esempio di andata e ritorno offre Guarda,
guarda di Fiore XXXII 2 che manda a Purg. XVIII, 7-12 e a 76-81, e di là a Fiore
CLXXXVIII, il cui «perno fono-semantico» rinvia a più di un luogo del poema.
Esempio significativo del procedimento è l’Accertamento 13 “Immantenente”, 15 pagine densissime; può prestarsi come carta da tornasole per convenire
o dissentire sul metodo.34 Venti occorrenze nel Fiore: per Remo Fasani, chiave
della disattribuzione per ragioni formali, per Orelli, esempio di attribuzione per
motivi di convergenze di natura diversa, ma fondamentalmente fonica, isofonica o con torsioni, tipicamente dantesche. Qualche rapido, impreciso (da parte
mia) ragguaglio. La rassegna di tutte le occorrenze mette in evidenza in ogni
componimento l’insieme solidale, individuato con spostamenti in zone diverse
della Commedia, con andata e ritorno continui, rifacendo via via il lavoro di
Dante su imantenente e circostanti. «IMANTENente in LXIV ingoia anaforicamente MANTIEN» come in Par. XI, 119: in CXXXVI multisonanza con INT,
ANTA, ANTE come in Inf. VII, 109-111 (inteso, gente, pantano, sembiante); in
CXXXII accordi con diMANdò, ANIME, rIMENArgli e cAMINI che portano a
Purg. XXIII, 53-54; in CLXXVIII il «legame musaico» [armonizzato] (Convivio) mandi sonorizza con /MANTE/ al modo di mando nei riguardi di /mento/
in Inf. II, 95 «di questo impedimento ov’io ti mando».35
Ho convocato qui pochi rilievi per indicare, a chi ancora non lo conosca,
il tipo di analisi che si muove nella selva dei rinvii testuali, fonici, timbrici, semantici, metrici, di isofonie e isometrie, isoritmie e molto altro ancora.36 È un
movimento continuo dal poemetto al poema, e dentro l’uno e l’altro corpus,
con rimbalzi e ritorni moltiplicati, in avanti e indietro e in più direzioni. Sono
«gli esiti di una […] non troppo frettolosa spola tra Fiore e Commedia» (Dossier Fiore 21). La “lentezza” di Orelli è da intendere come temporale (la lunga incubazione di temi e stilemi prima di fissarsi sulla pagina, spesso in modo
provvisorio in attesa di successivi assestamenti) e spaziale (l’attenzione distesa
228
Il lavoro sulla parola d’altri: gli inediti del Fiore
sui testi sottoposti alla lettura; questa del Fiore è l’esempio più evidente).37 Sul
primo aspetto avvicino, proprio perché cronologicamente distanti, «il merito
del suo [di Dante] così trasmutabile, il collo dell’anitra della sua espressività» (Il
suono dei sospiri, p. 9) e «Dal collo dei colombi di Lucrezio a quello dell’anitra,
è continua meraviglia il trasmutare dei colori a seconda della luce […]» (Il collo
dell’anitra, Garzanti, Milano 2001; risvolto della prima di copertina).
Si può arrischiare un’osservazione: dagli Accertamenti a stampa a questi inediti, i rilievi critici si fanno più asciutti, metallici, più essenzialmente riconducibili ai
fenomeni che sono stati indicati; viene ridotto, e persino quasi annullato, almeno
in apparenza, l’esame di fenomeni semantici, comunque implicito. Ma l’osservazione è da verificare. Ci si può chiedere come avvenga il trasferimento di testi da
una sede all’altra, dalla stampa al Dossier per le parti coinvolte nel riuso. Dico
subito, con adattamenti. Nelle prime pagine dell’Accertamento 1. Un sonetto del
“Fiore” (IV), largamente riportate alla lettera, si insinuano leggeri, ma significativi
mutamenti. Sul piano della dicitura, l’incipit «Con antiche prove esterne» lascia
cadere «Come tutti lo sanno, [con…]»; il neutro «Remo Fasani […] ha pubblicato» diventa il non innocente «ha coraggiosamente pubblicato», trattandosi di ben
due attribuzioni che si escludono a vicenda, in attesa di una terza;38 e noto un’escursione in terra ticinese per sanzionare Amerio e Chiesa che hanno dato lieta
accoglienza al libello di Mario Muner,39 di cui Orelli ricorda l’accusa mossa a Contini, di ascrivere indebitamente il Fiore a Dante «soltanto col desiderio di tingere
il poeta della Commedia della pece di libertinaggio». Dopo alcune pagine, le due
analisi divergono sensibilmente. Un’operazione correttoria è avvenuta all’interno
dello stesso lavoro sui materiali del Dossier, come attestano i fogli rifiutati, e prima
ancora le cancellature che essi portano, spesso su pagine intere. Ma qui pongo fine
all’esercizio, di natura comunque secondaria.
7. All’interno di un linguaggio preciso, analitico, con terminologia da linguista,
da botanico che si muove con lente d’ingrandimento e registratore, tra il giardino del poemetto e il parco del poema, per cogliere immagini e suoni, rapide
immissioni espressive (di sapore ludico-critico-polemico) sono intese ad alleggerire la materia densa e ardua: i “morselli” (bocconi), triturati pedagogicamente
(Accertamenti verbali 14), è vero, ma di non sempre facile digestione. Orelli
accentua una pratica degli Accertamenti verbali, utilizzata per gettare un ponte
tra la scrittura più tecnica e l’oralità anche scherzosa: «Ma sì, Dante piglia almeno due rigògoli a un fico», «l’omofonia sommuove l’“orizzontalità” in una
sorta di “marée montante”», «avvio… trapezistico» (Inf. II, 11), «versi salati»
(Par. XVII, 58-60), «ci troviamo lì (come dicono i bambini) con senza la biscia
nell’erba»40 (a proposito di occulto, in Inf. VII, 71-84); «Da fronde a onde, in
chiara assonanza, ombre, antri è certo una bella passerella sonora» (su CCCIII 5:
fior’, frondi, herbe, ombre, antri, onde, aure soavi); ma poi subito, alzando il tono:
«Herbe, ombre. Entra la bilabiale. Ancora molto attiva la vibrante nel passaggio
dall’arsi alla tesi. Nuova metatesi: ERB – BRE. Si afferma l’isosillabismo e più
cospicua si fa la nasalizzazione» (62).41
229
Ottavio Besomi
8. L’applicazione certosina di cui ho parlato in apertura importa che la scrivania
di Ravecchia, per scelta di Orelli, si sia tenuta discretamente in disparte (non
fuori) dal cantiere febbrile del Fiore che si è riaperto tra fine 1900 e inizio 2000,
“dopo la svolta” data alla questione da Contini (Formisano): cantiere ricco e
persino intasato di interventi, congressi, prese di posizione. Anche se dal convegno di Cambridge The Fiore in Context42 (1994) sono emersi «un giudizio
nel complesso negativo sul valore realmente probatorio dei raffronti esibiti da
Contini»,43 e il ridimensionamento impresso alla “regina delle prove” da lui sostenuta e praticata (quella a cui, invece, Orelli si attiene, incrementandola col
surplus dei suoi accertamenti), le edizioni commentate, uscite dopo la proposta
continiana, vanno verso un riconoscimento della paternità dantesca: per Contini, il Fiore e il Detto d’Amore sono «“attribuibili” (nel senso latino di tribuendi)»
a Dante44; per Formisano, «“attribuibili” […] nel senso banale del termine, cioè
di dubbia attribuzione» (dove di fatto sono posti);45 Luca Carlo Rossi e Paola
Allegretti lo collocano invece senz’altro tra le opere di Dante.46
Per Orelli, la dimostrazione vuole essere decisiva; ma c’è da immaginare che
sul Fiore e sul Maestro del Fiore la questione non si chiuda tanto presto, e non
solo perché riproposta in negativo dal volume di Stoppelli; ma perché la riapre
Orelli, quando il suo Dossier verrà fatto conoscere pubblicamente. Intorno a
queste analisi, diversificati e divergenti saranno i giudizi, soprattutto sulla effettiva incidenza metodologica dell’accertamento verbale nella soluzione di un
problema attributivo; sulle proposte di lettura molti potranno concordare; difficile prevedere quanti saranno solidali sulle conclusioni.
Il problema di fondo sta nel distinguere ciò che pertiene alla parole (nel Fiore
e nella Commedia) e ciò che è della langue (nel Fiore, nella Commedia, in altri
testi precedenti e coevi). Gli strumenti a disposizione (le concordanze lessicali)
non bastano; altri (le concordanze foniche e ritmiche) andrebbero inventati, e
forse non sono costruibili; così Orelli supplisce col suo orecchio, dominando,
come forse nessun altro lettore, gli spartiti del Fiore e della Commedia; non agevole, neanche per lui, è l’escursione negli sterminati territori circostanti.
Nessun dubbio, invece, sul valore dei materiali inediti illustrati. Essi meritano senz’altro considerazione, oltre l’assaggio indiziario che qui ne è stato dato
in modo approssimativo.47 La distinzione dei generi creativo e critico va naturalmente sempre tenuta presente, libero ognuno di privilegiare l’uno o l’altro,
anche se Giorgio Orelli è innanzitutto scrittore, e poeta, più che critico, e pur
ritenendo egli che «il poeta sia “avant tout” (Mallarmé) un critico» (Dossier
del Fiore 19).48 Sulla reciproca interferenza e integrazione tra poesia e critica, si
potrà riflettere in generale, ma soprattutto è auspicabile che si operi sui testi, a
vantaggio di una migliore comprensione dell’opera di Orelli, e anche nel campo
della testualità altrui, su cui la sua lettura critica si è esercitata. È difficile trovare
chi abbia lavorato altrettanto, e tanto sistematicamente, sulla propria parola e
su quella altrui.
230
Il lavoro sulla parola d’altri: gli inediti del Fiore
Dopo l’esecuzione al convegno, hanno letto il presente intervento Stefano Barelli, Irene
Botta, Christian Genetelli, Alessandro Martini, Mimma Orelli, Liliana Orlando, Guido Pedrojetta, Franca Strologo, ai quali va il mio ringraziamento per gli utili suggerimenti.
1
Accertamenti verbali, Bompiani, Milano 1978; Quel ramo del lago di Como. Lettura
manzoniana, Casagrande, Bellinzona 1982; Accertamenti montaliani, il Mulino, Bologna
1984; Il suono dei sospiri. Sul Petrarca volgare, Einaudi, Torino 1990; Foscolo e la danzatrice.
Un episodio delle Grazie, Pratiche Editrice, Parma 1992; La qualità del senso. Dante, Ariosto
e Leopardi, Casagrande, Bellinzona 2012.
2
Bibliografia di Giorgio Orelli, a cura di P. Montorfani, collaborazione di Y. Bernasconi,
Edizioni Cenobio, Lugano 2014.
3
Il Fiore e il Detto d’Amore, a cura di L. Formisano, in Dante Alighieri, Le opere. VII.
Opere di dubbia attribuzione e altri documenti danteschi, Tomo I, Salerno Editrice, Roma
2012, p. XXVII.
4
Ne cito solo alcuni: Alessandro D’Ancona, Rodolfo Renier, Gaston Paris, Francesco
Torraca, Guido Mazzoni, Francesco D’Ovidio, Francesco Novati, Arturo Farinelli, Luigi Foscolo Benedetto, Nicola Zingarelli, Pio Rajna, Giulio Bertoni.
5
Il Fiore e Il Detto d’Amore, attribuibili a Dante Alighieri, a cura di G. Contini, Mondadori, Milano 1984 (d’ora in poi: Contini, Fiore 1984).
6
P. Stoppelli, Dante e la paternità del “Fiore”, Salerno Editrice, Roma 2011.
7
Dà i nomi degli uni e degli altri J.C. Barnes, Uno, nessuno e tanti: il “Fiore” attribuibile
a chi?, in The “Fiore” in Context. Dante, France, Tuscany, ed. by Z.G. Baranski and P. Boyde,
University of Notre Dame Press, Notre Dame (Indiana) 1997, pp. 331-362. Li riassume Stoppelli, P. Dante e la paternità, p. 16; presenta criticamente i saggi principali sul Fiore, fino
al 1983, Contini, Fiore 1984, pp. XXVII-XXXIV; interventi intorno alla paternità, ibi pp.
LXXI-LXXX; per le edizioni, ibi, pp. XXIII-XXVI; argomenti interni per la paternità, ibi,
pp. LXXXIII-XCV.
8
Ne do conto più avanti, nota 46.
9
Per questa problematica rinvio alle trattazioni svolte nelle edizioni Contini, Rossi, Allegretti, Formisano.
10
Un sonetto del “Fiore”, in “Paragone. Letteratura”, XXV (1974), 296, ottobre, pp. 3752, poi in G. Orelli, Accertamenti verbali, Bompiani, Milano 1978 pp. 33-50; Tornando al
“Fiore”, in Carmina semper et citharae cordi. Études de philologie et de métrique offertes à
Aldo Menichetti, éditées par M.-C. Gérard-Zai, P. Gresti, S. Perrin, P. Vernay et M. Zenari,
Editions Slatkine, Genève 2000, pp. 261-79; Dante del “Fiore”: son. CVII, in La ricerca e la
passione come metodo. Omaggio a Romano Broggini, a cura di G. Margarini, F. Panzera, A.
Sargenti, Alberti, Verbania-Intra 2005, pp. 471-476. È tornato sul tema in una conversazione
a Chiasso nel 2006: Amore di vecchia nell’ambito di “Chiasso letteraria”, Chiasso, Cinema
Teatro, 20 maggio 2006.
11
“Viceversa Letteratura”, 5 (2011), 12. In una prima versione (accompagna la lettera del
29 ottobre 2010 a Yari Bernasconi) il titolo è Leggendo il “Fiore”; il definitivo è acquisito in
una stesura mandata allo stesso destinatario il 23 gennaio 2011. Il testo Da «Rendevous», in
Studi in onore di Pier Vincenzo Mengaldo per i suoi settant’anni, a cura degli allievi padovani,
I, Sismel, Edizioni del Galluzzo, Firenze 2007, pp. 9-10, è analizzato da Silvia Longhi alle pp.
37 ss. di questi Atti.
12
Può essere utile sentire la voce di Contini fuori campo (filologico), nel colloquio con
Ripa di Meana: «Benché abbia speso molto tempo su questo testo, non mi pare una cosa su
cui scommettere una parte della propria anima. Si tratta di un’operazione scientifica, si tratta
di un’ipotesi di lavoro che era la più economica tra quante se ne possono presentare. […]
Tra i tanti esperimenti che ha fatto Dante, c’è anche quello di questa lingua d’invenzione e,
dal rispetto scientifico, la cosa mi pare assai rilevante» (Diligenza e voluttà. Ludovica Ripa di
Meana interroga Gianfranco Contini, Mondadori, Milano 1989 pp. 129-130).
13
Un esempio di confronto sul filo di lana tra maestro e allievo in G. Orelli, Il suono dei
sospiri. Sul Petrarca volgare, Einaudi, Torino 1990, pp. 25-26, e specialmente nella zona del
231
Ottavio Besomi
libro che tocca le “Correzioni” nel Canzoniere petrarchesco, in particolare alle pp. 105-106,
108, 113, 116: sulla ripetizione evitata, se non intenzionale (Contini) e sulla repetitio che «collabora alla […] tendenza isofonico-isosemica […] di Petrarca» (Orelli).
14
Diligenza e voluttà, pp. 129-130.
15
Contini, Fiore 1984, p. LXXXVIII; Enciclopedia dantesca, II, Istituto della Enciclopedia italiana Treccani, Roma 1970, p. 899.
16
Contini, Fiore 1984, p. LXXXIX.
17
Ibi, p. XC. Altra formulazione in Postremi esercizî ed elzeviri, Einaudi, Torino 1998, p.
24: «Non si trattta di una semplice somma d’indizi, ma di un organismo mnemonico che è
insieme verbale, concettuale (o sinonimico), fonico e ritmico, del tutto assimilabile alla memoria che il Dante della Commedia ha di sé stesso […]».
18
Id., Breviario di ecdotica, Riccardo Ricciardi, Milano-Napoli 1986, p. 56.
19
Li riassumono Contini, Fiore 1984, pp. LXXI-LXXXI; Il Fiore e il Detto d’Amore, a
cura di L. Formisano, pp. XXX-XXXIII.
20
Nell’analisi del son XCII (Menichetti: «Tanto per esser chiaro dirò subito che io, se il
Fiore sia o no di Dante, francamente non lo so. L’argomento forse più forte a sostegno della
tesi di Contini non è d’ordine interno, ma storico-ideologico: è l’allusione all’assassinio di
Sigieri di Brabante per gelosie fratesche […]»; Tra due mondi. Miscellanea di studi per Remo
Fasani, a cura di G. Cappello, A. Del Gatto, G. Pedrojetta, Dadò, Locarno 2000, p. 107),
Orelli replica: «Offro all’amico “friburghese” qualche argomento interno, formale, radicato
nell’essere del dire».
21
G. Orelli, Accertamenti verbali, p. 28.
22
Ibidem. In altra parte del libro, è avvicinato ai due, per il ritmo dattilico, «Campo d’estate già tutto mietuto» di Barile (ibi, p. 162).
23
Id., Il suono dei sospiri, p. 8.
24
«Armare una poesia», così Orelli, «non significa comporre uno spartito sonoro vagamente suggestivo, ma far agire (non lasciar agire) il linguaggio nella direzione desiderata,
mediante una interazione di significanti e significati che renda al massimo concreta (scriviamo pure con la maiuscola, come Valéry) l’Idea» (Id., Accertamenti verbali, p. 147). Si può
richiamare l’avversione manifestata a più riprese da Orelli nei confronti della concezione di
autonomia del significante.
25
G. Orelli, Il suono dei sospiri, pp. 124-162.
26
Il titolo è anticipato nella Miscellanea Broggini (Bibliografia di Giorgio Orelli, 2005.2).
Cfr. Dossier Fiore 196: «Già il trattamento di star 2 (CXXI) fortifica la certezza che stiamo
“Con Dante entro Dante”».
27
Riadatto una citazione di Mallarmé che Orelli utilizza a proposito delle Grazie foscoliane (G. Orelli, Accertamenti verbali, p. 83).
28
La tipologia dei titoli può essere così indicata:
rinvii espliciti a componimenti: 1. Un sonetto del “Fiore” (IV); 2. Il primo sonetto; 39. Gli
ultimi due sonetti
semplice indicazione del numero del sonetto, ad esempio a 8, 16, 29-31
segnalazione del tema: [21] Sonetto del falso montone; 27. Due sonetti della Vecchia;
anche 17, 22, 23
citazione dell’incipit o di un sintagma del sonetto, il caso più frequente: ad es. in 3, 5, 10,
13, 15, 20, 24, 28, 37, 38
messa in evidenza di termini legati da suono e senso: 6. Da “fallato” a “fallito”; 9. “Parlare”, “partire”, “par”
indicazione di problemi critici generali: 34. Un’altra firma dell’autore?; 33. Versi insoliti
(su aspetti metrici); 36. Cercando morselli per Inf. V.
29
Sono 31 casi di messa in parallelo, senz’altra annotazione, di versi del Fiore e della Commedia. La «fascina» proviene da Accertamenti verbali 43-48 con la stessa didascalia e gli stessi
esempi. In realtà qualche ripensamento attenua il piano delle certezze: probabilmente > molto
probabilmente; probanti > illustrative. Manca in Accertamenti il n. 2; non sono ripresi nel Dossier
XXXIV 1- Inf. III, 22; XXXIV, 13-14 - Inf. XVII, 51, sicuramente perché meno stringenti.
232
Il lavoro sulla parola d’altri: gli inediti del Fiore
30
M. Palma Di Cesnola, La battaglia del “Fiore”, in Tra due mondi, pp. 59-102. Già
una trentina di anni prima, il quotidiano ticinese aveva ospitato interventi sulla questione: la
proposta da parte di Fasani di Folgòre da San Gimignano (1° ottobre 1966), l’applauso di
Reto Roedel per la disattribuzione a Dante, demolizione dell’attribuzione (1° ottobre 1966),
il ritiro della candidatura Folgòre da parte di Fasani (4 maggio 1968).
31
Nel senso di “fare fesso”, come lo stesso Orelli chiosa.
32
Boccone: termine del Fiore LXII 3; CIV 14; CV 1; CXXI 7. Il termine (frequente)
“boccone” ricorre, ad esempio, in G. Orelli, Accertamenti verbali, p. 8: «[…] per dire manzonianamente, non mi resta che aprire la bocca secondo il boccone […]».
33
Riferendosi a questo saggio, Contini annota: «Sottile ricerca di moduli fonico prosodici» (Contini, Fiore 1984, p. XXXVII).
34
L’accertamento 13 “Immantenente” è riproposto in Quasi un abbecedario, a cura di Y.
Bernasconi, Casagrande, Bellinzona 2014, pp. 39-42, ridotto da 15 a 4 pagine.
35
La convergenza dei suoni lo porta a valutare la lezione degli editori. Dà la preferenza a /g/ scempia og[g]i dell’edizione Contini, sulla doppia oggi dell’edizione Formisano
[CCXXXI] perché «concede di andar dritto a gioie 12 nella stessa sede ritmica (4a)»; e pensa
a Par. X dove silOGIzzò 138 è con GIOir 148, e in Par. XXIV gioia 89 va con siLOGismo 94.
36
Così Giovanni Pozzi sintetizza il lavoro sulla lettera di Giorgio Orelli: «[…] identifica
dei gruppi fonici significativi per frequenza e legame con determinate sfere di senso e ne
determina la potenza energetica e il suo diramarsi nello spazio testuale: i nuclei e le espansioni.» (F. Soldini, Giovanni Pozzi e Giorgio Orelli lettori reciproci. Testimonianze epistolari, in
“Fogli”, 35 (2014), p. 47, testo B7).
37
Cfr. anche Christian Genetelli in questi Atti, pp. 134 e 137.
38
Fa eco a Contini, Fiore 1984, pp. XXXV-XXXVI, riferendosi a R. Fasani, Il poeta
del “Fiore”, All’Insegna del Pesce d’oro, Milano 1971: «rivela il nuovo (pro tempore) autore:
Antonio Pucci».
39
M. Muner, La dantologia allegrissima di Gianfranco Contini: “Dante lubrificato a ruota
libera”, in “Motivi per la difesa della cultura”, 1965, pp. 324-360; Perché il “Fiore” non può
essere di Dante (e a chi invece potrebbe attribuirsi), in “Motivi per la difesa della cultura”, VII
(1968-1969), pp. 88-105; La paternità brunettiana del “Fiore” e del “Detto d’Amore”, in “Motivi per la difesa della cultura”, IX (1971), pp. 274-320.
40
Sintagma gemello di «con senza guanti» di Dal buffo buio (Sinopie).
41
Altre occorrenze nel Dossier Fiore: (8) «Inf. I, 2 mi ritrovai allunga il suo fil di ferro […]
verso trovai:entrai 9-11»; (11) «Scocca nervoso, degno d’un cavallo selvaggio, Inf. VI, 94»;
(12) «memore dell’incredibile resistenza-persistenza del “caramelmù” in poesia»; (19) «Con
giardino [sul gruppo /ard/], anzi, è come mangiar costine a Camorino»; (19) «accertamenti
di altri funghi commestibili»; (23) «Si dirà che non viene come l’acqua al cavo della mano
una relazione come questa che lega argomento a guerire e guardare»; (45) «Quasi dimentico
di farvi sentire il profumo di Purg. XXVIII ss.»; (96) «Su nïente la dieresi ride anche nella
Commedia Par. IV, 74, XXVII, 94»; (185) «mi chiedo come si possa non assegnare a Dante
un concorso, per dir così, piastrato come tRISTO-faRSITO, l’uno addossato all’altro in fine
dei due ultimi versi»; (208) «Per me, vorrei ripetere con una bambina che non sono nato per
non mangiare il salmone»; (Dossier Petrarca 14): «se dunque, come dicono a Pontida, voliamo
basso (padanamente: più bassi)».
Si veda ancora in altri scritti già a stampa: «La bilabiale sorda /p/, dopo aver strepitato
come deve, cioè sordamente opaca, nel primo lessema, cede di colpo alla puntura /i/ di ilare,
pure sdrucciolo, che in sinalefe becca per così dire la coda a upupa […]» (G. Orelli, Accertamenti verbali, p. 195); «Come la mica su certe autostrade, nel verso […] vediamo per solito
splendere l’espressività» (Id., Il suono dei sospiri, p. 9); l’immagine è anticipata in Nebelzone
(Spiracoli, Mondadori, Milano 1989, p. 80).
42
The “Fiore” in Context. Dante, France, Tuscany, ed. by Z. G. Baranski and P. Boyde,
University of Notre Dame Press, Notre Dame (Indiana) 1995.
43
Il Fiore e il Detto d’Amore, a cura di L. Formisano, p. LIII.
44
Contini, Fiore 1984, p. XX.
233
Ottavio Besomi
45
Nella sezione VII, Opere di dubbia attribuzione e altri documenti danteschi, Tomo I. La
citazione in Il Fiore e il Detto d’Amore, a cura di L. Formisano, p. LXI.
46
Dante Alighieri, Il Fiore. Detto d’Amore, a cura di L.C. Rossi, con un saggio di G.
Contini, Mondadori, Milano 1996; Id., Fiore. Detto d’Amore, a cura di P. Allegretti, in Le opere di Dante Alighieri, Edizione Nazionale a cura della Società Dantesca Italiana, Le Lettere,
Firenze 2011; Il Fiore e il Detto d’Amore, a cura di L. Formisano.
47
Qualche campione potrà essere fornito scegliendo nelle zone più sensibili: sia per dare
una prova dell’operazione specifica di attribuzione, sia per accostare commenti a singoli passi
della Commedia. Ma occorrerà evitare che l’inedito diventi pascolo di saggi sul saggio, facile
modo di ingrassare la bibliografia da parte di aspiranti alla fama di critici sul nome di Dante,
e su quello di Orelli, appaiati. Bisognerà invece trovare forma e modo di far conoscere questi
studi (su carta o in rete) nella loro integrità; la fretta non aiuta, una simile materia non sopporta il calendario dei mesi.
48
Anche in Una poesia di Giovanni Pascoli, in “Cenobio”, LXI (2012), 2, aprile-giugno,
p. 18.
234
Allegato
I
Tavola del Dossier Fiore
1-18
Poscritto [I]
18-20
Poscritto II
21-22
1. Un sonetto del Fiore (IV)
28-43
2. Il primo sonetto
44-48
3. «Verso del fior» (VI)
49-54
4. «Schifo»
55-63
5. «Se mastro Argus[so]…»
64-69
6. Da «fallato» a «fallito»
70-81
7. «Quel romore» e altro (XXVI)
82-89
8. XXXIV-XXXV
90-96
9. «Parlare», «partire», «par» (XXXVIII)
97-100
10. «Quel lavor» (XL)
101-108
11. Un trigramma che fa (quasi) meraviglie (XLVIII, XLIX)
109-112
12. «Per Gesocristo, tra’mi» (LIV)
113-127
13. «Immantenente»
128-131[14]1 «Papalardo» e altro (LXI)
132-136
15. «S’a scacchi o vero a.ttavole giocassi» (LXIII)
137-142
16. LXXIV
143-151
17. Durante (LXXXII-CCII)
152-156 [18] /TRA/ e torsioni (XC)
157-167
19. «Singhier» (XCII)
168-174
[20] «L’undicimilia vergini beate» (XCVI)
175-177
[21] Sonetto del falso montone (XLVII)
[---]2
182-188
22. Sonetto dell’«ipocristo» (CIV)
189-195
23. Sonetto dei truanti (CVII)
196-201
24. «Né di star in deserti né ’n foresta» (CXXI)
202-207
25. »Sobarcolata» (CXXXVI)
208-217
26. Con «madonna»
218-229
27. Due sonetti della Vecchia [CXLVI, CL]
230[27bis]3 Postilla
231-236
28. «tu sì sa’ ben ch’i’ son di stran paese» (CLV)
237-240
29. CLXXIV
235
Ottavio Besomi
241-244
30. CCXXX
245-248
31. CCXXXI
[249-252]4 32. «Ladura» – «dolore» e altro (CCIV)
[---]5
257-266
34. Un’altra firma dell’autore?
258-264
33. Versi insoliti
[---]6
269-271
[segue parte caduta, ultima parte di 35.]
272-273
36. Cercando morselli per Inf. V
274-277 7
278-283
37. «In punto rio» (CCVI)
284-289
38. »Venusso sì montò sus’un ronzino» (CCXVII)
290-298
39. Gli ultimi due sonetti (CCXXXI; CCXXXII)
299-302
40. Una fascina di rimemorazioni
303-304
41. Altri accertamenti
1. dolente è que’ che cade a mie sentenze (CXXVI 14)8
9
[---]
309-310[3]10
310-311
4. Tra «laccio» e «leccio» (CXXIX 8-11)
312-313
5. «[…] la lasciò» (CLXI 9)
313-317
6. «Quand’i’ udì» (CCIII)
317-319
7. LXXXVIII 9-14
319-320
8. «Acontare» – «acontanza» (CLIX)
320-323
9. «Merdaglia» (CLXIX 7)
323-324
10. insin che ’l mar (LVI 8)
324-326[11/10]11 «Quel Socrato» (XLIII-XLIV)
326-329
[12/11] Con «fante» (L)
239-331
[13/12] «di voi»… «di me» (LX)
331-333
[14/13] LXIX 5-6
333
[15/14] CLXIII 5-8
333-334
[16/15] «in saper guadagnar ben süe spese» (CLV 8)
334-336
[17/16] CLVIII 9-14
336-339[18/14]12 LI
340-341
[19/15] II 1-3
341-344
[20/16] VII 1-8
344-346
[21/17] CLIV
346-348
[22/18] Il ritorno di amico (XLVII 9-14)
348-350
[23/19] La sirma di XCV
350-351
[24/20] «Fasciare» (C 13)
351
[25/21] La prima terzina di CV
351-354
[26/22] CXXVI
354-356
[27/23] CXL
356
[28/24] CLXXXV 8-11
356-358
[29/25] CXCVI
236
Il lavoro sulla parola d’altri: gli inediti del Fiore
358-359
359-361
361-364
[30/26] CXCVIII
[31/27] CXCIX
[32/28] CC
Fuori classatore, 5 mappette con materiali inerenti al tema, tutti dattiloscritti.13
II
Tavola del Dossier Addizioni petrarchesche14
1-13[Introduzione]
14-19
1. XIX
20-25
2. XXV
26-31
3. XXXVIII
32-41
4. LXII15
42-49
5. XCVI
50-53
6. «La donna» (CXI)
54-58
7. Due sonetti per Sennuccio CXIII
59-63
0. CCLXXXVII
64-68
8. CXLVII
69-75
9. CLXVI 76-80
10. CLXXVII 81-87
11. CLXXIX 88-105
12. CLXXXVIII 106-108
13. Per una correzione (XXXVI 8)
109-115
14. CLXXXIX
116-120
15. CXCIII
121-127
16. CXCV
128-133
17. CXCVI
134-141
18. CCV
142-149
19. CCXX
150-155
20. CCXLIII
156-166
La sera (CCLV)
167-174
In quel bel viso (CCLVII)
175-184 La vita fugge (CCLXXII)16
185-196
Cipro (CCLXXX)17
183-189
24. CCLXXXV
190-195
25. CCLXXXVI
196-203
26. CCCXI
204-210
27. CCCXXVIII
211-217
28. CCCXXXIII
218-224
29. CCCXXXIV
225-235
30. CCCLXIV
237
Ottavio Besomi
Altre cose leggiadre18
236-238
238-241
241-243
243-244
245-247
247-249
249-252
252-256
256-258
258-260
260-261
262-264
264-268
268-269
270-272
273-276
276-277
278-279
280-282
282-283
283-284
A. XL
B. CCLV
C. LXVII
D. CCXXX
E. CCXIX
F. CCCLVI
G. CXCIII
H. CCCXXII
I. CCLXXI
L. CC
M. LXXXVII
N. ché né ’ngegno né lingue al vero agiunge (CCXXI 14)
O. CLXXV
P. CCX 1-8
Q. CCCXVII
R. CCXXX
S. III
T. XVI
U. CCCLXII
V. «Perle» di XLVI
Z. CCCLXVI
III
Tavola del Dossier Poesie del Pascoli19
1-8[Introduzione]
9-14
1. «Guarda! i cervi brucano lenti»20
15-192. Alba festiva [Myricae, Dall’alba al tramonto, I]
26-403. Patria [Myricae, Dall’alba al tramonto, VII]
41-484. Arano [Myricae, L’ultima passeggiata, I]
49-615. La via ferrata [Myricae, L’ultima passeggiata, VI]21
62-766. Pioggia [Myricae, In campagna, XIV]22
77-867. Ultimo canto [Myricae, In campagna, XVI]
87-948. Il piccolo bucato [Myricae, In campagna, XVII]
95-1049. I gattici [Myricae, Tristezza, IV]
105-11710. Dalla spiaggia [Myricae, Tristezza, XIII]23
118-12711. Il transito [Primi poemetti, I due fanciulli-I due orfani, IX]24
128-14012. La tessitrice [Canti di Castelvecchio, Il ritorno da San
Mauro, III]
238
Il lavoro sulla parola d’altri: gli inediti del Fiore
IV
Tavola del Dossier Vittorio Sereni poeta e traduttore25
1
Citazione da Paul Valéry, La caccia magica, p. 107
2-10
[1] «Ecco le voci cadono…» (Frontiera [53])26
11-19[2] Saba (Gli strumenti umani [136])
20-26[3] Di passaggio (Gli strumenti umani [137])
27-39[4] La spiaggia (Gli strumenti umani [184])
Sereni e Char27
40-46
47-53
54-58
59-60
61-63
64-65
66-75
76-83
1. [Aromates chasseurs - Ebbrezza]
2. [Retour amont – Ritorno sopramonte]
3. [Lied du figuier – Lied del fico]
4. [Septentrion, vv. 9-10]
5. [L’abri rudoyé – Il sito sconvolto]
6. [Le baiser – Il bacio]
7. [Effacement du peuplier – Annullarsi del pioppo]
8. [Le ramier – Il colombo]
Manca il numero del capitolo; così per [18], [20], [21], [27bis].
Fogli mancanti.
3
Si lega al Cap. 27.
4
Recuperato da fogli extravanti non numerati con il n. 32 di Cap., quindi da porre dopo 31.
5
Manca il n. 33.
6
Fogli mancanti.
7
Recuperati da fogli extravaganti, continuità nella numerazione e nel testo.
8
Parziale.
9
Mancano.
10
Parziale.
11
Numero 10 erroneamente ripetuto; fino [17] la numerazione risulta alterata di una
unità; tra [ ] la numerazione corretta e l’originale accanto
12
A p. 336 la numerazione riprende col n. 14; tutta la numerazione successiva, fino alla
fine, risulta alterata di tre unità; tra [ ] la numerazione corretta e l’originale accanto.
13
I. Due copie di Un sonetto del “Fiore”, A. in pulito, B. con larghe zone cancellate; A. e
B. si corrispondono fino a p. 18, A. è completo con le pp. 18-21 (note); B. arriva fino a p. 20,
diversa dalla 2° di A., che rappresenta la lezione ultima corrispondente al testo di “Paragone”
e Accertamenti verbali.
II. Tornando al “Fiore”, pp. 19 con interventi autografi e cancellature. Corrisponde al
testo della Miscellanea Menichetti.
III. A. Morselli del “Fiore”, pp. 18 con ampie cancellature; potrebbe avere il posto in
Dossier Fiore dopo p. 273; B. Per il “Fiore” di Dante, pp. 4; l’inizio corrisponde ad A., ma
subito muta; sicuramente versione successiva in pulito.
IV. A. Con “armadure” di CXXVI e CXXVIII, pp. 8, numerate da 201 a 208, parti cassate; B. 12. “Appartenenza” – “parete” – “aperto” (CXXXIV 4 – 12 ss.), pp. 46 con frequenti
cancellature di pagine intere;
1
2
239
Ottavio Besomi
V. A. Dante nel “Fiore”: son CVII, pp. 6 numerate da 1 a 6; B. “Cosa non è che costi
tanto cara”, pp. 12 numerate da 152 a 163; C. 21. Sonetto del falso montone (XCVII), pp. 4
numerate da 178 a 181; D. 8. “Per lo vento a Provenza che ventava” (XXXIII 2), pp. 2 non
numerate, la seconda con cancellatura e appunti; E. Un’altra firma interna all’autore?, pp. 2
numerate 16-16; F. 5. Verso “madonna”, pp. 11 numerate da 58 a 68; G. 20. “Veracemente ciò
è veritate” (LXXXI), pp. 13 numerate da 147 a 159.
14
G. Orelli, Accertamenti verbali porta due saggi petrarcheschi: Un verso del Petrarca
(pp. 51-65), son. CCCIII, con escursioni in altri componimenti; e Dante del Canzoniere (pp.
67-81), che ritorna, sotto il titolo Dante in Petrarca, e con varianti, in Id., Il suono dei sospiri,
come si dice qui appresso; una prima redazione, più concisa, in “Corriere del Ticino”, 22 giugno 1974, p. 34; sul tema: Dante nel Canzoniere, Milano, Chiesa di San Maurizio, 23 maggio
1979 (Bibliografia di Giorgio Orelli, p. 91). Nel volume Id., Il suono dei sospiri, sono analizzati
i componimenti seguenti, nessuno dei quali ritorna nel Dossier (li segnalo in corrispondenza
dei capitoli): 1. Il suono (3-22): CCCXXXV, CCCXXXVI, IX, CCCIII, CCCXXXIX; il saggio è uscito originalmente col titolo Il suono dei sospiri, in “Strumenti critici”, XVI (1982),
1-2, giugno, pp. 1-33; 2. “Voi ch’ascoltate”(pp. 23-29): I, CCCXXIV; 3. “Ritrarmi accortamente
da lo strazio” (pp. 30-35): II; 4. Karlo, Cristo, Orso, Cino e qualcos’altro (pp. 36-44): XXVII,
XXVIII, CXXXVIII, CCCXXXIV, XXXVIII, XCIII; 5. “Solo e pensoso”(pp. 45-50): XXXV;
6. “Erano i capei d’oro…” (pp. 51-56): XC, CCLXX, LXXX; 7. “I qual parte del ciel…” (pp.
57-62): CLIX, LXXXI; 8. Sonetti del Po e del Rodano (pp. 63-73): CLXXX, CCVIII; 9. Una
leggiadra rete (pp. 74-78): CLXXXI; 10. Sonetto della cerva (pp. 80-83): CXC; 11. Sonetto in
“i” (pp. 84-87): CXCI; 12. Sonetto del “dextr’occhio” (pp. 88-92): CCXXXIII; 13. La man(o)
(pp. 93-97): CCCII; 14. “Donna” (pp. 98-104): CCCXLVII. Non segnalo i numerosi rinvii in
15. Correzioni (pp. 105-16) e Altre correzioni (pp. 116-23); 16. Dante in Petrarca (pp. 124-62);
per gli antecedenti cfr. supra. Altri interventi petrarcheschi: accertamenti su Petrarca con altri
su Dante, Leopardi, Ungaretti, Montale, Sereni, in “Corriere del Ticino”, 6 febbraio 1988, p.
31; Tra Petrarca e Dante, in Omaggio a Contini, in “Poesia”, III (1990), 31, luglio-agosto, pp.
10-12; Per un moderno commento del Canzoniere petrarchesco, in Di selva in selva. Studi e testi
offerti a Pio Fontana, a cura di P. Di Stefano, G. Fontana, Casagrande, Bellinzona 1993, pp.
201-212; Sonda su Petrarca: Come assaporare il distillato del poeta, in “L’Erasmo Bimestrale
della civiltà europea”, IV (2004), 22, luglio-agosto, pp. 61-72; Accertamenti petrarcheschi.
Giorgio Orelli legge Francesco Petrarca, Radio della Svizzera Italiana, a cura di M. Cavadini,
18-23 ottobre 2004. Ricordo anche la conferenza La poesia del Petrarca, nel ciclo Insieme
nella terza età, Lugano, Sala San Rocco, 19 gennaio 1989 (Bibliografia di Giorgio Orelli, p. 94).
15
Col titolo Petrarca, son. LXII, a stampa, con varianti, in “Cenobio”, LIII (2004), 4,
ottobre-dicembre, pp. 291-302.
16
Oggetto di una conferenza tenuta a Bellinzona, Biblioteca Cantonale, 14 ottobre 2004
(Bibliografia di Giorgio Orelli, p. 101).
17
Il blocco da 156 a 196 è stato inserito in un momento successivo: diversa la macchina da
scrivere, con matita diversa la numerazione dei fogli, pur nella stessa posizione e nello stesso
corpo. L’inserto originale, tra 155 e 183, doveva portare tre accertamenti (e non quattro come
ora), come indica la numerazione da 20 a 24.
18
«Raccolgo in queste ultime pagine alcuni accertamenti più rapidi, come se ne fanno
anche aprendo a caso il Libro: cose leggiadre, per dire petrarchescamente, che non hanno
destato particolare attenzione nei commentatori» (236).
19
Su temi pascoliani la Bibliografia di Giorgio Orelli di Montorfani censisce le conferenze
seguenti: Vitalità del Pascoli, Bellinzona, Scuola Cantonale di Commercio, 8 marzo 1957 (Bibliografia di Giorgio Orelli, p. 86); Lettura de Il pioppo, nella conferenza su Clemente Rebora,
Lugano, Biblioteca Cantonale, 30 novembre 1968 (Bibliografia di Giorgio Orelli, p. 89); Una
trama pascoliana, Friburgo; Giovanni Pascoli, Acquarossa, Scuole Medie, 26 febbraio 1988 (Bibliografia di Giorgio Orelli, p. 94); Poesie di Carducci e Pascoli, “Insieme nella terza età”, Lugano
Sala San Rocco, 5 febbraio 1991 (Bibliografia di Giorgio Orelli, p. 86); Lettura pascoliana, Padova, Circolo filologico linguistico padovano, 16 aprile 1997 (Bibliografia di Giorgio Orelli, p. 98).
240
Il lavoro sulla parola d’altri: gli inediti del Fiore
20
G. Pascoli, Poesie e prose scelte, a cura di C. Garboli, Mondadori, Milano 2002, «Poesie giovanili».
21
Una trama pascoliana: da “La via ferrata” è il titolo della conferenza tenuta all’Università
di Friburgo il 19 febbraio 1982 (Bibliografia di Giorgio Orelli, p. 92); con titolo leggermente
mutato (Una trama pascoliana “La via ferrata”) in “Piccolo Hans”, X (1983), 40, ottobredicembre, pp. 122-145 (con forti rimaneggiamenti; il testo del Dossier, molto più breve, è seriore: a p. 54 la citazione da S. Capello, Le réseau phonique et le sens, Clueb, Bologna 1990).
22
Con il titolo Una poesia di Giovanni Pascoli, in “Cenobio”, LXI (2012), 2, aprile-giugno, pp. 7-18 (con forti rimaneggiamenti; la redazione a stampa è posteriore); la redazione di
«Cenobio» conserva il dattiloscritto del testo a stampa.
23
Con il titolo Per una lirica del Pascoli, in “Strumenti critici”, VIII (1973), 21-22, ottobre, pp. 283-290; poi in Accertamenti verbali, pp. 129-145. Le due redazioni a stampa divergono in più punti; la versione nel Dossier si distanzia a sua volta dalle precedenti (cfr. 108 nota
4, rinvio a G. Contini, Leggere Dante, pref. di V. Sermonti, L’inferno di Dante, Rizzoli, Milano
1988).
24
Con il titolo Armare una poesia (“Il transito” del Pascoli), in Accertamenti verbali, pp.
147-158 (con forti rimaneggiamenti).
25
Orelli ha partecipato con Sereni e con altri alla trasmissione Poesie ’70 nell’ambito della
rubrica Lavori in corso, Televisione della Svizzera Italiana, 2 febbraio 1970 (Bibliografia di
Giorgio Orelli, p. 82); segnalo un intervento di Orelli, con altri, a una serata in onore di Sereni
nel 25° anniversario della morte, Varese, Ville Ponti, 26 ottobre 2008 (Bibliografia di Giorgio
Orelli, p. 102). “A Vittorio Sereni” è intestato il componimento Le noci di Germignaga, in
“Verbanus”, IV (1983), 4, p. 11; poi (con modifiche) in Il collo dell’anitra, Garzanti, Milano
2001, p. 35.
26
Si rinvia a V. Sereni, Poesie, edizione critica a cura di D. Isella, Mondadori, Milano
1995.
27
Un accertamento su Char e Sereni, in Per Vittorio Sereni, Atti del convegno di poeti
(Luino 25-26 maggio 1991), a cura di D. Isella, All’Insegna del Pesce d’oro, Milano 1992, pp.
65-79 (l’intervento orale è segnalato in Bibliografia di Giorgio Orelli, p. 96); un breve accertamento su Sereni (con altri su Dante, Petrarca, Leopardi, Ungaretti, Montale) in “Allibisco
all’alba”, in “Corriere del Ticino”, 6 febbraio 1988, p. 31.
241
Ottavio Besomi
Accertamento sul sonetto XL del Fiore.
I
Il lavoro sulla parola d’altri: gli inediti del Fiore
II
Ottavio Besomi
III
Il lavoro sulla parola d’altri: gli inediti del Fiore
IV
Ottavio Besomi
V
PIETRO DE MARCHI
L’orlo della vita di Giorgio Orelli
Notizie sull’inedito e proposta editoriale
Tout ce que l’on peut reprocher à un auteur, c’est de
s’être déclaré satisfait quand on ne croit pas qu’on l’eût
été soi-même. Il faut donc le louer quand on découvre
par un document qu’il ne s’est pas contenté d’un état
qui nous eût nous-mêmes satisfaits.
(Paul Valéry, Tel quel)
1. Nel celebre racconto di Borges intitolato Pierre Menard, autore del “Chisciotte” si può leggere una divertente parodia del lavoro dei filologi. L’io narrante di
quella “finzione” borgesiana incomincia elencando in ordine cronologico l’opera visibile di quel fantomatico poeta simbolista di Nîmes, presunto amico di
Paul Valéry, per passare poi alla presentazione dell’altra opera: «la sotterranea,
l’infinitamente eroica, l’impareggiabile. Che è anche – ahi, limiti dell’uomo! –
l’incompiuta».1
Fatta la tara al tono enfatico e appunto parodico del narratore, resta che il
concetto di opera visibile può venire utile per parlare della raccolta poetica che
Giorgio Orelli annunciò a più riprese come quasi ultimata, addirittura pronta
per la stampa nel giro di una settimana, e che tuttavia non si decise mai a consegnare a un editore, e poi non fece più in tempo a concludere. C’è infatti una
parte emersa, visibile, e una parte sommersa, invisibile, almeno per ora, del lavoro poetico di Giorgio Orelli successivo a Il collo dell’anitra, l’ultima sua raccolta
edita in vita, uscita da Garzanti nell’autunno del 2001.
La parte visibile è costituita dalle poesie che Orelli pubblicò in varie sedi
dopo Il collo dell’anitra, rispondendo a inviti o a sollecitazioni altrui. Tali testi
si trovano ora tutti registrati nella preziosissima Bibliografia di Giorgio Orelli
allestita da Pietro Montorfani, con la collaborazione di Yari Bernasconi:2 s’incomincia con i Versi di fine d’anno del 2003 e con Un gatto del 2004 (ma datata
agosto 2003); e si arriva a La buca delle lettere e a Ragni (2012) e infine a L’altalena, datata 2002, più volte rielaborata, e pubblicata con La goccia nel novembre
del 2013; per concludere con quello che può essere considerato il primo testo
postumo licenziato dall’autore: L’uomo da marciapiede, scritto nella primavera
del 2013. Se non ci fossero stati ritardi nella stampa di Sempre, senza misura, il
libretto di omaggi per gli 85 anni del cugino Giovanni, a cui la poesia era stata
destinata, L’uomo da marciapiede di Giorgio Orelli sarebbe stato pubblicato alla
fine di ottobre dell’anno scorso, giusto una dozzina di giorni prima della sua
scomparsa:
243
Pietro De Marchi
2003
Versi di fine d’anno, in 80 poeti contemporanei. Omaggio a Luciano Erba per i suoi 80
anni, con un saluto di P. Jaccottet, a cura di S. Ramat, Interlinea, Novara 2003, p. 85.
2004
Un gatto, in Un inquieto ricercare. Scritti offerti a Pio Caroni, a cura di G. De Biasio et al.,
Casagrande, Bellinzona 2004, p. 9.
In collegio ad Ascona, in Omaggio alla poesia italiana, in “Microprovincia”, XXVI (2004),
42, pp. 123-124.
2006
Libia, in Per Maurice Chappaz. Testimonianze dal Ticino, a cura di F. Catenazzi e A. Moretti Rigamonti, Armando Dadò, Locarno 2006, p. 39.
2007
«Da Milano a Pavia…», in Il segreto delle fragole 2008, agenda poetica a cura di G. Neri
e F. Alborghetti, Lietocolle, Faloppio 2007, s.i.p.
Da «Rendez-vous», in Studi in onore di Pier Vincenzo Mengaldo per i suoi settant’anni, a
cura degli allievi padovani, SISMEL-Edizioni del Galluzzo, Firenze 2007, vol. I, pp. 9-10
[i. «Possibile che non ci sia…», p. 9; vii. «Né giovane né malbalita…», p. 9; viii. «Non sei
più giovanissima e folletta…», p. 10; xviii. «Sarà che non son io, p. 10].
In collegio ad Ascona, in margine ad un’intervista a cura di A. Vosti, in “La Rivista di
Locarno”, XIV (2007), 11, novembre, p. 11.
2008
Suburbana, in “Azione”, 29 aprile 2008, p. 19.
«Ich bin so wie ich bin…», «Nicht besser als andere Frauen», «Ob witzig tabulos…», in
Giorgio Orelli. Das Deutsche ist reizvoll rauh, von P. Jankovsky, in “Tessiner Zeitung”,
28 novembre 2008, p. 6.
In collegio ad Ascona / In Ascona, im Internat, pp. 200-201; «Abbiamo fatto correre sul
marmo…» / «Wir haben beim Messedienen die Tschikk,…», pp. 202-203; Lombardia /
Lombardei, in G. Orelli, Sagt es den Amsel – Ditelo ai merli, ausgewählt und übersetzt
von C. Ferber, mit einem Nachwort und einem Gespräch mit G. Orelli von P. De Marchi, Limmat Verlag, Zürich 2008, pp. 204-205.
2011
Sasso Corbaro (leggendo il «Fiore»); La buca delle lettere, in “Viceversa”, 5 (2011), pp.
12-13.
244
L’orlo della vita di Giorgio Orelli.
Il traghetto (con tanti auguri a Federico Hindermann), in L’occhio s’imperla. Ventisette
mottetti di Federico Hindermann con dodici contributi augurali in occasione dei suoi novant’anni, [a cura di E. Lombardi], AF Edizioni, Caslano 2011, p. 39.
2012
La buca delle lettere. Ragni, libro d’artista con due poesie di G. Orelli e serigrafia originale di N. Du Pasquier, Edizioni Lithos, Como 2012.
2013
L’altalena. La goccia, libro d’artista con due poesie di G. Orelli e litografia originale a
colori di A. Taroni, Edizioni Lithos, Como 2013.
L’uomo da marciapiede, in Sempre, senza misura. Omaggio a Giovanni Orelli, a cura di P.
De Marchi e F. Pusterla, Edizioni Sottoscala, Bellinzona 2013, p. 58.
Un paio di altri testi, già licenziati per la stampa, sono stati riprodotti dal dattiloscritto o editi in rivista tra dicembre 2013 e fine 2014:
Farfalla, riproduzione del dattiloscritto con firma autografa in margine a P. De Marchi,
Per Giorgio Orelli, in “Cenobio”, LXII (2013), ottobre-dicembre, p. 9.
La buca delle lettere; In collegio ad Ascona; «Né giovane né malbalita…»; «Non sei più
giovanissima e folletta…»; «Sarà che non son io…»; La goccia; Ragni; Farfalla; Il traghetto; Cremona; Lombardia; Sasso Corbaro (leggendo il “Fiore”); L’uomo da marciapiede; L’altalena, in L’orlo della vita, a cura di P. De Marchi e P. Montorfani, in “Poesia”, XXVII
(2014), 289, gennaio, pp. 34-38.
In cusina, in štua, in Prato Leventina, raccolta fotografica a cura di M. Campello-Vicari,
Taverne (Canton Ticino), 2014, p. 7.
La parte invisibile, quella sotterranea, del lavoro poetico dell’ultimo Orelli, è costituita invece da tutte le poesie scritte e non pubblicate dopo Il collo
dell’anitra, tra cui la maggioranza di quelle comprese nel dattiloscritto della
raccolta inedita L’orlo della vita, più altre espunte e cassate, o anche soltanto
temporanea­mente estromesse dalla compagine testuale, tolte dal raccoglitore
che le aveva ospitate in attesa di eventuali riscritture o rimaneggiamenti.
L’orlo della vita, così come ci è rimasto nel dattiloscritto conservato nello studio di Giorgio Orelli, è un’opera ancora in fieri. Si presenta con una fisionomia
incompleta e duplice: in parte ha già la forma di una raccolta poetica strutturata,
organizzata per sezioni o gruppi di testi; in parte ha l’aspetto di un più disordinato collettore di testi ancora in attesa della collocazione più idonea nella serie.
Le parole che Seamus Heaney usò a proposito del suo modo di fare un libro,
per accumulo di testi, per cui a un certo momento si trovava ad avere tra le mani
«un volume di poesia che non è ancora un libro finito, anche se ci si avvicina»,3
245
Pietro De Marchi
potrebbero costituire la più precisa e sintetica definizione anche della raccolta
che Giorgio Orelli ha lasciato incompiuta alla sua scomparsa.
Il dattiloscritto, intitolato L’orlo della vita e autografato nella pagina che funge da frontespizio, comprende le poesie e le brevi prose che si elencano qui di
seguito. Di ogni testo si indica il titolo o il capoverso (e si segnala anche se si
tratta di un testo in prosa):
Due ragni
La buca delle lettere
L’altalena
Con Tullio
In collegio ad Ascona
I “Senza la lontananza”
II “Certe domeniche noi”
III “C’erano i Santi Esercizi, tre giorni”
IV “Di chi sa quale carne era pietanza”
Sasso Corbaro (leggendo “Il Fiore”)
“La bimba sulle spalle del papà”
Linea lombarda
I. “Da Milano a Pavia”
II. “Mi sono fermato una volta”
Traghetto
La goccia
Dorina
Sulla spiaggia
La me mamm, u me pa’
I “La me mamm la m’ha vist in cusina”
II “Mi e ‘l me pa’ (dopo l’infart)”
Una casa a Mascengo in Leventina
Carlin*
Clandestina
Cremona
“La merda che i cani, pardon, i padroni di cani”
“Domàndaglielo al sole”
“È un po’ che non lo vedo”
I “Forse qualcuno in Val Bedretto ricorda Cornelio e Gervaso…” (prosa)
II “E quei due di Faido…” (prosa)
“Aveva bottega di orefice…” (prosa)
Gli occhiali (prosa)
“Gendarmi a Rosagarda non ce n’è più da un pezzo…” (prosa)
II
“Cik, a Locarno, ne abbiamo scoccate”
246
L’orlo della vita di Giorgio Orelli.
Libia
“Giungevano le voci”
Farfalla
“Emma è un uomo mancato”
II “Nel giardino di casa, con sospetta”
III “Irrompe strepitando oltre misura”
IV “La terra trema, pensa”
V “Sembra eccessivo l’odore”
Quei due (prosa)
I. “Forse qualcuno in Val Bedretto ancora ricorda Cornelio e Gervaso…”
II. “E quei due di Faido…”
Gli occhiali (prosa)
ALTRI CARDI
Lettura in un liceo
Natale vicino a Basilea (prosa)
Il chiacchiericcio
RISERVA PROTETTA
1. “Fühlst du dich allein?”
2. “Possibile che non ci sia”
3. “Heiraten möchte ich nicht mehr”
4. “Né giovane né malbalita”
5. “Trotz des Kriegs in Iraq”
6. “So che le donne forti”
7. “Ob witzig tabulos”
8. “Ich bin so wie ich bin”
9. “Tra i crinelli di questa capitale”
10. “Parto, riparto (a parte”
11. “Non sei più giovanissima e folletta”
La divisione in due sezioni, indicata dal numero romano II, scritto su un foglio
che nel raccoglitore si trova tra «Gendarmi a Rosagarda…» e «Cik, a Locarno…»,
sembra il relitto di un ordinamento dei testi provvisorio o comunque precedente
la revisione dell’estate 2013, di cui è testimone più che attendibile Mimma Orelli. Un foglio dattiloscritto sparso, non databile, rinvenuto tra le carte di Orelli,
conserva traccia di una terza sezione (III) che si sarebbe intitolata Sasso Corbaro,
costituita con ogni probabilità da testi di ambiente bellinzonese, a partire dalla
poesia omonima pubblicata nel 2011.
Come si è detto, e come si ricava scorrendo l’indice, in alcuni casi i testi
conservati nel raccoglitore del dattiloscritto sono ordinati in serie o sezioni
provviste di titolo: In collegio ad Ascona; Linea lombarda; La me mamm, u me
pa’; Altri cardi; Riserva protetta. In altri casi le affinità tra gruppi di testi non
247
Pietro De Marchi
sono esplicitate, ma non sono neppure difficilmente riconoscibili: altre poesie
satiriche del tipo dei Cardi; altre poesie in dialetto; cinque prose di ambiente leventinese; poesie raggruppabili sotto l’etichetta di Estive o di poesie del
Quadernetto del mare. In un altro caso ancora, infine, il titolo della serie può
essere congetturato attingendo ai versi riconducibili al progetto di libro L’orlo
della vita, ma esclusi in occasione dell’ultima o di una delle ultime revisioni
della raccolta. Ci si riferisce ai quattro testi numerati II-V, successivi a Emma
è un uomo mancato (poesia, questa, “estiva”, di ambientazione elbana), che
facevano parte di una serie di cinque, verosimilmente intitolata Via Ravecchia:
il titolo e il primo testo della sezione si recupera reintegrando idealmente o
fisicamente nella serie una delle poesie “accantonate”, quella che è intitolata
Via Ravecchia I e incomincia con «Scatta dall’elettezza / di un’araucaria…»
Sul foglio dattiloscritto che conserva tale poesia, accanto al titolo si legge una
glossa autografa a penna: «Uomo da marciapiede». Come interpretare tale
glossa? Giorgio Orelli intendeva forse sostituire Via Ravecchia I con L’uomo da
marciapiede, poesia spedita a Fabio Pusterla nell’estate del 2013 e pubblicata,
come detto, in Sempre, senza misura nel dicembre dello stesso anno? Oppure
aveva immaginato di ribattezzare tutta la serie con quel nuovo titolo? Difficile,
o impossibile stabilirlo. Come che sia, quel che è certo è che Via Ravecchia I è
una poesia in cui compare come protagonista “l’uomo da marciapiede”, così
come, allo stesso modo, ma inversamente, L’uomo da marciapiede è una poesia
ambientata in “via Ravecchia”, se è vero, come è vero, che in un quadernetto
manoscritto – attualmente esposto nella mostra qui accanto – tale poesia è intitolata Primavera a Ravecchia e datata aprile-maggio 2013. Si aggiunga infine
che L’uomo da marciapiede, tra le edite appena postume, è l’unica poesia di
Orelli non compresa nel raccoglitore di L’orlo della vita: e l’unico testimone
dattiloscritto di tale poesia è quello inviato a Fabio Pusterla, che l’ha giustamente restituito ad dominum, o meglio ad dominam, cioè a Mimma. L’assenza
nel raccoglitore di una poesia così bella non può essere considerata prova di un
disconoscimento della stessa da parte dell’autore che l’aveva appena scritta e
licenziata per la stampa, bensì come ennesima dimostrazione che l’allestimento
della raccolta era ancora davvero in progress.
Conferma la condizione di incompiutezza della silloge la presenza nel raccoglitore di alcuni testi in duplice redazione, con varianti non adiafore, di volta in volta nel titolo, nell’esergo, che può esserci o non esserci, nella lezione.
Un esempio: Farfalla, testo consegnato a Montorfani nella primavera del 2011
perché lo pubblicasse nella rivista “Poesia”, ma rimasto inedito, è presente nel
raccoglitore come tale ma anche, senza titolo e con varianti, come quinta poesia
della sezione “presunta” Via Ravecchia. Altro esempio: due delle cinque prose
leventinesi sono presenti in una redazione anteriore con il titolo Quei due e con
un esergo dantesco, e in una redazione più recente senza titolo e senza esergo
(una correzione autografa, testimoniata in un dattiloscritto sparso, aiuta a stabilire la cronologia relativa).
248
L’orlo della vita di Giorgio Orelli.
2. Se lo stato delle cose è quello descritto, si tratta di decidere come pubblicare
l’inedito, non nell’ambito di un’edizione critica, ma all’interno di un volume degli Oscar Mondadori che comprenderà Tutte le poesie di Giorgio Orelli da L’ora
del tempo a L’orlo della vita (l’uscita è prevista per l’autunno del 2015).
Esclusa l’opzione di un “montaggio” del libro che abbia la presunzione di
ricostruire congetturalmente una volontà d’autore che non si è mai depositata in
un indice, se non in quello, precario e provvisorio, deducibile dalla successione
dei testi nel raccoglitore, due sembrano le soluzioni più praticabili. La prima,
meno onerosa in termini di carta stampata, consisterebbe nella riproduzione dei
testi del dattiloscritto di L’orlo della vita con la semplice esclusione delle poesie doppie superate. Questa prima soluzione porterebbe a privilegiare l’inedito
sull’edito, oscurando la parte visibile e pubblica, giunta a stampa, del lavoro
poetico di Orelli negli ultimi dodici anni, dopo Il collo dell’anitra (2001); a meno
che tale oscuramento non venga risarcito raccogliendo in un’apposita appendice quella ventina di testi orelliani già editi.
La seconda soluzione, che infine si adotterà, prevede di dare la precedenza
all’edito, senza per questo deprimere l’inedito, nel quadro di una sistemazione
bipartita dei materiali testuali riconducibili a L’orlo della vita. Trattandosi di un
numero limitato di testi, si potrà per una volta non contrapporre, ma conciliare
da un canto quello che è stato chiamato il “prestigio storico” dei testimoni a
stampa,4 e non importa che si tratti di una storia editoriale molto ravvicinata, e
dall’altro canto l’ultima volontà dell’autore, quella affidata al dattiloscritto, ma
che è ultima volontà solo per cause di forza maggiore.5 Non c’è bisogno di insistere troppo sul fatto che i testi inediti, di un’opera non licenziata per la stampa,
si configurano diversamente rispetto a quelli editi che appartengono allo stesso
progetto di libro. I testi editi sono entrati nel circuito della ricezione, hanno già
“agito” sui lettori in quella particolare forma, mentre i testi inediti hanno necessariamente uno statuto più fluido, in quanto sarebbero stati ancora suscettibili
di intervento da parte del loro autore, a livello tanto della lezione quanto della
loro collocazione nell’insieme macrotestuale.6
Nello stampare L’orlo della vita negli Oscar Mondadori si riprodurranno
dunque, in una prima sezione, le poesie che Orelli pubblicò in varie sedi dopo
Il collo dell’anitra, ordinate secondo la cronologia delle stampe. Nel caso di più
stampe di uno stesso testo si darà la lezione dell’ultima vigilata da Orelli o da lui
approvata, fatta salva la correzione dei refusi.
Così, ad esempio, nel caso di La buca delle lettere si riprodurrà il testo uscito nel libro d’artista delle Edizioni Lithos nel dicembre 2012 e non quello di
“Viceversa Letteratura”, 5 (2011). Si farà eccezione, in virtù dei molti rimaneggiamenti e del cambio di titolo, per la poesia Versi di fine d’anno, uscita nell’Omaggio a Luciano Erba per i suoi 80 anni (Interlinea, Novara 2003) e pubblicata
infine, con il titolo La goccia, in un altro libro d’artista delle Edizioni Lithos
(novembre 2013). In questo caso si pubblicheranno nell’Oscar entrambi i testi:
Versi di fine d’anno e La goccia, con i quali in qualche modo si apre e si chiude
il cerchio delle poesie edite in vita, tra 2003 e 2013. Ad essi seguiranno i pochi
249
Pietro De Marchi
testi postumi, ma già licenziati dall’autore: L’uomo da marciapiede, Farfalla e
Cremona, e infine In štua, in cusina.
Nella seconda sezione verranno ospitati i testi contenuti nel dattiloscritto
di L’orlo della vita, con alcuni minimi interventi editoriali: la sottrazione delle
poesie e delle prose doppie (si darà a testo la redazione più recente); l’addizione
di un testo tratto dalle carte sparse, a colmare una lacuna della serie, e qui alludo
alla poesia di cui si è discusso sopra, Via Ravecchia I.
Questa soluzione bipartita ha un innegabile e duplice vantaggio. Ristampare
tutti insieme i testi pubblicati dopo Il collo dell’anitra significa valorizzare la
“presenza” della poesia di Giorgio Orelli, poeta del “secondo Novecento”, nei
primi dieci-dodici anni del nuovo secolo: con i suoi contributi a miscellanee in
onore di poeti o scrittori italiani o svizzeri, come Luciano Erba, Maurice Chappaz, Federico Hindermann, Giovanni Orelli, o di studiosi come Pio Caroni o
Pier Vincenzo Mengaldo; con le apparizioni, rare, ma significative, di suoi testi in
giornali come “Azione” o la “Tessiner Zeitung”, in riviste come “Microprovincia”, “Viceversa letteratura”, o “Poesia”; in almanacchi letterari (Il segreto delle
fragole, a cura di Giampiero Neri e Fabiano Alborghetti), in libri d’artista (Lithos), e last but not least, in antologie di suoi testi tradotti (Sagt es den Amseln /
Ditelo ai merli). Sappiamo bene quanto le antologie e le traduzioni curate da
Christoph Ferber per Limmat Verlag abbiano di fatto supplito alle mancate
ristampe dei libri di Orelli. E la stessa gratitudine va a Christian Viredaz, che ha
tradotto Sinopie (Empreintes) e i Poèmes de jeunesse (Samizdat).
Ma c’è un altro vantaggio, o un altro valore aggiunto della soluzione che si
ritiene di dover adottare. La lettura, se non sinottica, almeno contrastiva, dei
testi editi e di quelli inediti renderà pienamente ragione della concezione della
poesia che Orelli sentiva più sua e praticava. Quando, alludendo al Valéry di
Varieté che commentava il suo Cimetière marin, Orelli parlava del «travail du
travail»,7 del «lavoro del lavoro», pensava proprio a questo, e cioè al fatto che
un testo non può mai essere considerato davvero “finito”. È noto che ogni volta
che Giorgio Orelli riprendeva in mano un suo testo, lo riscriveva, lo perfezionava, come soleva dire, che si trattasse di una poesia (Le forsizie del Bruderholz)
o di una traduzione da Goethe (Schweizeralpe / Alpe in Svizzera), di una prosa
narrativa (Suite in là con gli anni) o di un saggio di accertamenti verbali (sui primi versi della Commedia di Dante o sull’Infinito di Leopardi). mai scomparso si
legge nella memorabile poesia del merlo morto di Spiracoli («Certo d’un merlo
il nero»). mai finito avrebbe potuto benissimo essere il motto araldico di Giorgio Orelli scrittore, non dimentico di quanto aveva appreso, fin dagli anni della
sua formazione, dalla lettura del memorabile esordio del continiano Saggio d’un
commento alle correzioni del Petrarca volgare: «La scuola poetica uscita da Mallarmé, e che ha in Valéry il proprio teorico, considerando la poesia nel suo fare,
l’interpreta come un lavoro perennemente mobile e non finibile, di cui il poema
storico rappresenta una sezione possibile, a rigore gratuita, non necessariamente
l’ultima».8 E la considerazione vale, con ancora maggior pertinenza, per i testi
non giunti a stampa.
250
L’orlo della vita di Giorgio Orelli.
Confrontando la bibliografia curata da Montorfani e Bernasconi e l’elencoindice del dattiloscritto di L’orlo della vita, si constata che tre sole sono le poesie pubblicate da Giorgio Orelli, in varie sedi, tra il 2003 e il 2013, che non si
ritrovano poi nel raccoglitore, e precisamente: Un gatto [Un inquieto ricercare, 2004], «Sarà che non son io…» [Studi in onore di Pier Vincenzo Mengaldo,
2007] e «Nicht besser als andere Frauen» [“Tessiner Zeitung”, 28 novembre
2008], queste due ultime facenti parte di una serie (Rendevous) che giunse a
comprendere una ventina di titoli, per ridursi poi a undici (con cambio di titolo:
Riserva protetta).
Tutte e tre si ritrovano invece tra le poesie “escluse”, rimaste nei dintorni
del libro in costruzione, in dattiloscritti sparsi ma non dispersi (di essi si darà
notizia nelle Note al testo). Tra le “escluse” o “da escludere”, in questa sorta
di limbo testuale, potrebbe essere collocato anche il testo intitolato Carlin, che
è l’unica tra le poesie contenute nel dattiloscritto di L’orlo della vita ad essere contraddistinta da quell’asterisco che, secondo l’usus di Orelli, indicava la
volontà di accantonare un testo perché ritenuto insoddisfacente o non ancora
pubblicabile. Lo lasceremo invece dove si trova, non potendo essere certi che la
presenza di tale testo nel raccoglitore non sia dovuto a un ripescaggio operato
dallo stesso Orelli.
Ad eccezione delle tre poesie citate sopra, i testi editi in vita o appena postumi trovano dunque riscontro in quelli conservati nel dattiloscritto. Questo
causerà un piccolo inconveniente, e cioè qualche ripetizione, perché in alcuni,
numerati casi (Sasso Corbaro e «Né giovane né malbalita»), avremo, tra le edite
e le inedite, lezioni davvero identiche. L’inconveniente, però, è largamente compensato dai vantaggi di cui si è detto.
Nella stragrande maggioranza dei casi invece le poesie del raccoglitore intitolato L’orlo della vita sono testimoni di una redazione diversa rispetto a quella
delle stampe. E il fatto interessante è che tali “ultime lezioni” del dattiloscritto
non sono sempre successive alle stampe; in qualche caso sono anzi anteriori alla
data di stampa o di diffusione delle redazioni precedenti e teoricamente superate.
Mi limito a un paio di esempi (anche con cambio di titolo e varianti). Incomincio con uno dei casi più complessi, quello che riguarda La goccia, che è già,
come detto, la riscrittura dei Versi di fine d’anno. Della Goccia sopravvivono
nell’ordine almeno:
a) il dattiloscritto preparato per la stampa (autunno del 2011: consegnato ad
Alfredo Taroni e a Elisabetta Motta);
b) un dattiloscritto sparso con delle correzioni autografe;
c) un dattiloscritto, conservato nel raccoglitore di L’orlo della vita, che recepisce
quasi interamente tali correzioni;
d) la stampa di a) priva delle correzioni di b) recepite da c).
251
Pietro De Marchi
Si potrebbe dire che d), cioè la stampa (novembre 2013), è una autorisierte Fassung che convive con la redazione dattiloscritta che rappresenta l’ultima volontà
o “l’altra volontà”.
Un discorso simile vale per L’altalena, licenziata per la stampa da Giorgio
Orelli, insieme a La goccia, nell’ultima settimana della sua vita: il 6 novembre
2013 autografò le copie del libro d’artista edito da Lithos. Bene, nel dattiloscritto è compresa una redazione che probabilmente è successiva, ma non possiamo
affermarlo con assoluta certezza. Anche qui, più che di ultima volontà sarebbe
corretto parlare di «molteplici volontà», o di ultime volontà d’autore, al plurale.9
Un caso leggermente diverso, ma non meno problematico, è rappresentato
da Ragni e La buca delle lettere, i due testi letti da Giorgio Orelli in pubblico,
alla Biblioteca di Bellinzona, il 14 giugno 2013, in occasione della presentazione
del libro d’arte che li comprendeva. Il primo testo, Ragni, così come lo leggiamo
nel dattiloscritto di L’orlo della vita, offre delle varianti rispetto alla stampa e
anche il cambio di titolo, che diventa Due ragni. Si potrebbe pensare a un’ultima
redazione, magari risalente all’estate del 2013; in realtà, a complicare le cose o
a insinuare qualche salutare dubbio sopravviene l’accertamento che nel quadernetto manoscritto sul quale, nel settembre del 2011, Giorgio Orelli ricopiò
tra l’altro una frase di Pessoa («Il mistero non è mai così trasparente come nella
contemplazione delle cose minuscole»)10 appuntando subito sotto alcuni versi
della lunga elaborazione di questo testo («Calano con un nulla / di filo-di-saliva /
per uno spazio esiguo / dove, oscillando, sembrano / saggiare il peso d’essere, /
il trasparente mistero»),11 il titolo dell’abbozzo era già Due ragni. Le nostre certezze vacillano. O meglio, ci convinciamo sempre più dello stato di perenne
mutabilità dei testi dell’ultimo Orelli: sì, come il colore del collo dell’anitra al
variare della luce.
Quanto al secondo testo, La buca delle lettere, che era già uscito in rivista
nel 2011, prima che presso Lithos nel 2012, anch’esso è oggetto di importanti
interventi correttorii. Nei primi mesi del 2013 Giorgio Orelli si era evidentemente messo a ritoccare un testo fresco di stampa (dicembre 2012) e non ancora presentato al pubblico. In questo caso, però, la redazione del dattiloscritto,
anteriore alla fine di maggio del 2013 secondo l’attendibile testimonianza di
Elisabetta Motta,12 non è forse la più felice per via di quella che pare una incertezza sintattica.
Più semplice, per fortuna, il caso di Libia, che è quasi la poesia eponima del
libro. Di questa poesia si è conservato un dattiloscritto sparso datato 2004; abbiamo poi la stampa del 2006; e infine un dattiloscritto, conservato nel raccoglitore e datato 2006, probabilmente, ma non possiamo affermarlo con certezza, di
poco successivo alla stampa. Inoltre, ad arricchire la casistica dei travasi tra prosa e poesia, e viceversa, è riemersa da pochissimo, grazie agli scavi bibliografici
di Pietro Montorfani, una breve prosa del 1998, in cui la poesia era già in nuce:13
La vita? Il mondo? Gli aggettivi che più spesso si accompagnano, fanno sintagma con
questa parola dalle risorse luminose, “vita”, sono (specie dall’altro mondo) serena, lieta,
252
L’orlo della vita di Giorgio Orelli.
bella, dolce, corta – breve; (specie dall’al di qua) trista, crudele, vana – inutile, faticosa,
vile.
Prendo dai poeti. Né Dante né Petrarca stringono a vita un aggettivo solidale come viva;
con la «vita che dev’esser viva, cioè vera vita» la prosa di Leopardi fa pensare a un cielo
invaso a poco a poco dal tramonto più bello.
L’aggettivo forse più ricco che mi sia capitato di cogliere è buffa: «Com’è buffa la vita»,
disse una vecchia sorgendo d’un tratto come uno strano fiore di tra le pietre. Si chiamava
Libia, viveva a Sant’Ilario, villaggio dell’Elba tutto (troppo?) allegrato dai fiori. Torna a
mente quel che scrisse dall’America un emigrante ticinese: «Il mondo è corioso e io non
voglio rovinarmi il fìdaco».
Chiudo con un accenno a un campo di studi ancora del tutto vergine, quello
della ricostruzione delle letture orelliane. L’esplorazione delle riviste a cui Giorgio Orelli collaborò riserverà senz’altro delle sorprese; ma sorprese o conferme
verranno anche dalla perlustrazione della sua biblioteca. Basti un esempio. In
uno dei libri conservati nella biblioteca di Giorgio Orelli, La caccia magica di
Paul Valéry, c’è, tra le tante sottolineate con particolare energia, o evidenziate
con segni a margine, questa frase: «Senza saperlo il Poeta si muove in un ordine
di relazioni e di trasformazioni possibili, di cui egli non avverte o non percepisce
che gli effetti momentanei e particolari che gli interessano in una certa fase della
sua operazione interiore».14 Quasi con le stesse parole di Valéry, Giorgio Orelli
si espresse ancora nel corso di un’intervista televisiva del maggio 2011: «Un
poeta si muove continuamente entro un mondo di relazioni, trasformazioni che
non lo lasciano in pace».15 E in quella medesima occasione Orelli aggiunse che
il lavoro di scrittura e di riscrittura, alla ricerca della parola esatta e della sua
migliore collocazione possibile in un testo (le travail du travail di Valéry) era per
lui più interessante e più importante della pubblicazione.
Forse anche per questo motivo, per questa sua concezione del lavoro poetico come un lavoro non mai finibile, il volume di versi al quale attendeva è
rimasto in bilico, sul confine tra inedito ed edito. E proprio per questa ragione
pare allora filologicamente corretto, ma anche poeticamente giusto, stampare le
une dopo le altre le poesie edite e quelle inedite, che, insieme, testimoniano il
“lavoro sulla parola” dedicato da Giorgio Orelli a questo suo libro di poesia, un
libro finito-non finito, come forse era giusto che fosse, se è vero che «un libro»,
come diceva, «si fa con la vita», e se il titolo, dantesco, che egli aveva scelto da
tempo per quello che sapeva sarebbe stato il suo ultimo era L’orlo della vita.16
J.L. Borges, Finzioni, trad. di F. Lucentini, Einaudi, Torino 1955, p. 39.
Bibliografia di Giorgio Orelli, a cura di P. Montorfani con la collaborazione di Y. Bernasconi, Edizioni di Cenobio, Lugano 2014.
3
S. Heaney, Virgilio nella Bann Valley, a cura di G. Bernardi Perini e C. Prezzavento,
con un contributo di M. Bacigalupo, Tre Lune Edizioni, Mantova 2013, p. 73.
4
C. Ossola, Sul «prestigio storico» dei testimoni testuali, in “Lettere italiane”, XLIV
(1992), 4, ottobre-dicembre, pp. 525-551.
1
2
253
Pietro De Marchi
5
Sulla questione cfr. P. Italia, Pro e contro l’«ultima volontà d’autore», in Ead., Editing
Novecento, Salerno, Roma 2013, pp. 32-37.
6
Per l’invito a tenere distinti editi e inediti, in virtù proprio del diverso, divaricato statuto degli uni e degli altri, cfr. D. Isella, Presentazione a C.E. Gadda, Romanzi e racconti, vol.
I, edizione diretta da D. Isella, Garzanti, Milano 1988, pp. XVIII-XIX (cit. da P. Italia, Pro
e contro l’«ultima volontà» d’autore, p. 83).
7
P. Valéry, Varieté, in Id., Oeuvres, Édition établie et annotée par J. Hytier, Gallimard,
Paris 1957, t. I, p. 1500.
8
G. Contini, Saggio d’un commento alle correzioni del Petrarca volgare, Sansoni, Firenze
1943, p. 7. Il passo si legge anche in Id., Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (19381968), Einaudi, Torino 1970, p. 5.
9
Sul riconoscimento di «molteplici volontà» d’autore si veda ancora P. Italia, Pro e
contro l’«ultima volontà d’autore», pp. 37-38.
10
La frase di Pessoa si legge in F. Pessoa, Il libro dell’inquietudine di Bernardo Soares,
prefazione di A. Tabucchi, cura di M.J. de Lancastre, traduzione di M.J. de Lancastre e A.
Tabucchi, Feltrinelli, Milano 2000, p. 198. È questa l’edizione letta da Orelli.
11
Ringrazio Mimma Orelli, che mi ha gentilmente consentito di consultare i quadernetti
di Orelli, conservati nel suo studio.
12
Ringrazio per l’informazione Elisabetta Motta, che venne a sapere della nuova redazione di questa poesia quando intervistò Orelli nel maggio 2013 (comunicazione personale, mail
del 26 ottobre 2014). Per precedenti incontri cfr. E. Motta, Conversazione con Giorgio Orelli,
in “Atelier”, XVII (2012), 65, marzo, pp. 11-17, e Ead., «Aspetto che si dia tempo al tempo.
Incontro con Giorgio Orelli», in “ClanDestino”, XXV (2012), 3-4, dicembre, pp. 11-15.
13
Giorgio Orelli, in G. Otter, Ritratti della Poesia. I visi comunicanti, Quaderno del circolo degli artisti, Faenza 1998, [s.i.p.]. Segnalo qui che la frase finale, dell’emigrante ticinese,
viene usata da Giorgio Orelli anche come epigrafe di «Riserva protetta», l’ultima sezione di
L’orlo della vita.
14
P. Valéry, La caccia magica, a cura di M.T. Giaveri, Guida, Napoli 1985, p. 119.
15
Stupore e meraviglia, a cura di M. Cavadini, M. Chiaruttini e Enrico Lombardi, RSI,
24 maggio 2011, visionabile in: www6.rsi.ch/home/networks/la2/cultura/Serate-evento/2011/05/13/serata-orelli.html.
16
Riassumendo: nel previsto volume degli Oscar Mondadori, alle quattro raccolte “canoniche”, e cioè L’ora del tempo (1962), Sinopie (1977), Spiracoli (1989) e Il collo dell’anitra
(2001), si faranno seguire tutti i testi riconducibili a L’orlo della vita. Più precisamente, nella
prima parte della quinta sezione del volume verranno raggruppate, in ordine cronologico di
pubblicazione, le poesie anticipate da Orelli in varie sedi tra il 2003 e il 2013, e gli altri pochi
testi che egli aveva già licenziato per la stampa e che sono usciti postumi tra il novembre del
2013 e il dicembre del 2014. Nella seconda parte si faranno conoscere tutte le poesie e le
brevi prose, già edite ma allora per lo più in redazioni diverse, oppure del tutto inedite, che
sono comprese nel dattiloscritto che Orelli tenne fino all’ultimo sulla sua scrivania. L’ordine
in cui i testi saranno pubblicati è quello, reso definitivo solo dalla scomparsa dell’autore, in
cui si susseguono nel dattiloscritto. Delle poesie e delle prose presenti in due luoghi distinti
del dattiloscritto si fornirà a testo solo la redazione più recente, confinando l’altra nelle Note.
Si recupereranno infine, per le ragioni di cui si darà conto, tre delle poesie rimaste anche
fisicamente “nei dintorni” del dattiloscritto, in quanto non più o non ancora comprese nel
raccoglitore, e affidate invece a fogli sparsi ma non strappati o biffati: Via Ravecchia I, Verso
Giubiasco e La vacca. La prima verrà reintegrata nella sede che verosimilmente le apparteneva, a colmare una palese lacuna del dattiloscritto; le altre due stampate in appendice.
254
PIETRO MONTORFANI
«Wer redet, ist nicht tot»
Prime ricognizioni nella bibliografia
di Giorgio Orelli
«Wer redet, ist nicht tot», «Chi parla (chi scrive) non è morto». Quante volte abbiamo sentito pronunciare a Giorgio Orelli questa massima di Gottfried
Benn, secondo verso della poesia Kommt, senza pensare che presto si sarebbe
inverata.1 «Chi parla non è morto» è regola valida infatti per lo scrittore che, da
vivo, si nutre della vita e la celebra nei suoi testi (e attraverso di essi mostra di
essere veramente vivo), ma tanto più vale per chi non c’è più e con i suoi scritti
perpetua, nella mente di chi resta, un’esistenza ricchissima di scrittura e di pensiero. La sopravvivenza verbale oltre la morte, da Orazio in poi, sembra essere
prerogativa soprattutto dei poeti: ce lo ricorda la rivista “Orte” – sulla quale
pubblicò anche Orelli2 – che per il suo centesimo fascicolo, nel 1996, scriveva in
copertina a lettere cubitali: «Die Poesie lebt. Dichter sterben nie» («La poesia
vive. I poeti non muoiono mai»). E come non aggiungere, a corollario di questa
piccola filosofia della “vita viva” dei poeti, l’«Ohne Angst leben», il «vivere senza paura» di uno dei più noti testi di Sinopie?3
Il lavoro sulla bibliografia degli scritti di Giorgio Orelli è iniziato nelle settimane immediatamente successive alla sua scomparsa, al crocevia di riflessioni simili a queste, mossi dal desiderio di verificare quel che rimane quando lo
scrittore non c’è più. Subito è parso chiaro che la raccolta dei materiali avrebbe
dovuto muoversi in due direzioni antitetiche e complementari: da un lato si
trattava di riportare alla luce testi dimenticati da tempo (articoli in quotidiani
e riviste, poesie mai riprese in volume, autocommenti, traduzioni) e dall’altro
di sondare la ramificazione della sua presenza come poeta in lingue o tradizioni lontane sia da quella svizzera che da quella italiana. La bibliografia muove
quindi verso l’interno, rivolgendosi a chi già conosce Orelli, con l’ambizione di
offrire nuovi spunti di ricerca agli esperti in materia, ma si spinge anche verso
l’esterno, fino ai luoghi più estremi nei quali si attestano traduzioni di suoi versi
(Australia, India, America del Sud). Un’operazione, quest’ultima, che mira a
restituire il ritratto di Orelli proiettato su di una scala internazionale, non senza
che questa consapevolezza chiami in causa la nostra responsabilità di studiosi:
se crediamo, in altre parole, che la sua opera meriti di essere condivisa il più
possibile, un buon punto di partenza sarà l’accertamento della reale conoscenza
dei suoi testi presso il più alto numero di lettori.
Rare sono, nella tradizione letteraria italiana, le bibliografie complessive di poeti, una lacuna cui non sarà estraneo il fatto che l’unità minima della voce bibliografica non sia tanto la raccolta di versi quanto la singola poesia, pubblicata più
255
Pietro Montorfani
e più volte lungo l’arco di una vita intera, con o senza il consenso dell’autore, in
tutte le sue possibili manifestazioni (inedita, edita, tradotta, ripresa solo in parte
ecc.). Il caso di Orelli è però singolare e, da questo punto di vista, particolarmente adatto a un esperimento altrimenti ben più oneroso: il suo essere stato lo
scrittore-faro di una minoranza linguistica – con i vantaggi che questa comporta
– e soprattutto la sostanziale sedentarietà della sua vita hanno reso il reperimento
dei materiali un’operazione tutto sommato agevole. Punto di partenza è stato lo
spoglio degli archivi digitali dei quotidiani della Svizzera italiana, integrato con
quanto lo stesso Orelli aveva conservato (in verità non molto) nel suo archivio
personale di Bellinzona. Un ulteriore, prezioso apporto è giunto dallo studio dei
suoi legami con riviste e case editrici, con realtà accademiche in Svizzera e in Italia,
così come con personalità ticinesi attive nelle redazioni radiofoniche e televisive.
Il timore che qualcosa potesse andare perduto ha imposto alla ricerca criteri
di selezione che potrebbero a prima vista parere eccessivi: era davvero necessario prendere nota di tutto? registrare ogni più piccola presenza, anche la più
remota dalla volontà dell’autore? Chi ha fatto questo lavoro ha scelto di non
scegliere, lasciando ad altri l’onere di valutare, di volta in volta, il peso di ciascuna voce. Per limitarci al vasto gruppo delle presenze antologiche, una cosa
è ad esempio il piccolo gruppo di testi che Orelli consegnò a Luciano Anceschi
nel 1952 per la sua Linea lombarda (con inediti del calibro del Frammento della
martora o di L’ora esatta); altra cosa è il suo essere ripreso, quansi en passant, in
manuali scolastici o in pubblicazioni delle quali era a mala pena al corrente. Il
mito della volontà d’autore esce con le ossa rotte da ogni ricerca bibliografica
seriamente intesa, perché illusoria rimane la possibilità di tracciare un confine
netto tra quanto si è inteso pubblicare con consapevolezza e quanto invece è
sfuggito alle maglie persino del più ferreo dei controlli. Il poeta, non finisce di
ricordarci Giuseppe Ungaretti, «torna alla luce coi suoi canti / e li disperde»,
ma in questa dispersione è insito un minimo tasso di tragedia: si perde quanto
si è scritto nel momento stesso in cui questo diventa pubblico. Fortuna è un
latinismo che, almeno in letteratura, conserva il suo valore di vox media, cioè
contemporaneamente positivo e negativo; alcune piccole sfortune editoriali di
Orelli testimoniano questa duplice accezione.4
Se non ci si può illudere di essere riusciti a catalogare tutto, la tensione verso
l’esaustività ha quantomeno il merito di ricordarci l’unità della persona di Giorgio Orelli che, come ogni autore, non si è limitato a scrivere e pubblicare, ma ha
sperimentato una molteplicità di interessi che hanno nutrito costantemente la
sua esistenza e la sua scrittura. Basterebbe pensare alle frequenti collaborazioni
radiofoniche e televisive,5 alle innumerevoli conferenze e lezioni pubbliche delle
quali è stato possibile reperire notizia, o ancora alle sporadiche cronache della
vita culturale di Bellinzona;6 né vanno dimenticate le accese diatribe giornalistiche, a proposito del linguaggio della cronaca sportiva7 o dell’opera di Giuseppe
Bolzani per l’aula magna della Scuola di Commercio di Bellinzona,8 o il salace
botta-e-risposta con Mauro Dell’Ambrogio, sul quotidiano “Il Dovere”, suscitato dalla poesia Foratura a Giubiasco e dai «cervelli asfaltati dei nostri Consigli
256
Prime ricognizioni nella bibliografia di Giorgio Orelli
Comunali»;9 penso, infine, alle numerose interviste dalle quali traspare la sua
figura in una luce di umanità assai simile a quella che tutti ricordiamo.10
Le ricerche per la Bibliografia hanno portato inoltre all’individuazione di
quello che fu probabilmente il primo testo pubblicato in vita da Giorgio Orelli:
la cronaca di una gita scolastica all’Esposizione Nazionale di Zurigo, nel maggio
del 1939, per l’annuario del Collegio Papio di Ascona.11 Lo scrittore diciottenne, già allettato dalle potenzialità del linguaggio metaforico, descrive Zurigo
come «una dama nel più fastoso vestito di gala» e si sofferma sul «lavoro che fa
una piccola nazione per non cedere il passo alle grandi vicine» (con due settenari perfettamente ritmati: «per non cèdere il pàsso / alle gràndi vicìne»). Senza
saperlo, il giovane Orelli si era già messo, con queste pagine, sulla scia del suo
maestro Gianfranco Contini, che dodici anni prima aveva esordito, da studente,
proprio con il resoconto di una gita liceale sulla rivista del collegio rosminiano
di Domodossola.12 È altresì significativo che la prima voce bibliografica non sia
di natura poetica, bensì narrativo-memoriale: l’Orelli dei primissimi anni, nonostante il conferimento del Premio Lugano a Né bianco né viola (1944), si divide
equamente tra poesia e prosa, anzi, la seconda pare pesare quantitativamente
più della prima. Tra il 1942 e il 1946 la Pagina Letteraria del “Corriere del Ticino” ospita a più riprese dei mini-racconti13 che sembrano, con oltre un decennio
di anticipo, i cartoni preparatori per le prose che usciranno in rivista nel corso
degli anni cinquanta e confluiranno più tardi in Un giorno della vita (1960).14
Precoce è pure l’esordio come conferenziere: la fama di poeta e il titolo di
docente di scuola superiore (dal 1945) devono aver favorito un’attività extra-professionale che negli anni giunse a toccare anche le tre serate per settimana. Non
va sottovalutato, da questo punto di vista, l’apporto di Orelli alla divulgazione
alta della letteratura e della poesia italiane fin nei più riposti angoli della Svizzera italiana. Un esempio tra i molti, importante anche per i suoi rapporti con un
certo tipo di critica letteraria e con un certo tipo di prosa narrativa, è la sera del
22 gennaio 1949, quando nella palestra comunale di Mesocco (un piccolo paese
di montagna che contava all’epoca poche decine di abitanti) tenne una lezione
dal titolo Uno scapigliato piemontese. L’autore in questione era Achille Giovanni
Cagna, noto soprattutto per il romanzo Alpinisti ciabattoni (1888) di cui Orelli si
è sempre detto un grande estimatore, ma a quell’altezza cronologica l’interesse per
la scapigliatura piemontese non nasceva da un’intuizione personale, bensì si situava alla confluenza di più letture e di più incontri. Se l’invito a Mesocco sarà stato
del grigionese Remo Fasani, la conoscenza di Cagna non si spiega infatti senza
l’amicizia con Gianfranco Contini, che proprio in quegli anni (almeno dal 1942)
lavorava all’antologia della scapigliatura piemontese che sarebbe stata pubblicata
da Bompiani nel 1953; e dietro Contini si intravvedono Eugenio Montale e Carlo
Emilio Gadda, tra i primi valorizzatori di quel gruppo di scrittori; né va dimenticato, infine, che in quello stesso 1949 Fernando Bonetti discuteva a Friburgo, con
Contini, una tesi sull’opera e la lingua di Giovanni Faldella, fatto di cui Orelli era
certamente al corrente.15 A tutto questo il conferenziere poteva aggiungere la sua
spiccata sensibilità per la dimensione verbale, di cui le pagine degli Alpinisti cia-
257
Pietro Montorfani
battoni sono tutt’altro che prive, e forse anche la comune appartenenza (di Orelli,
Fasani e del pubblico di Mesocco) a un territorio montano, in virtù della quale le
disavventure dei protagonisti del romanzo di Cagna – due sprovveduti turisti di
pianura – non potevano che venire osservate con complice ironia.
Da subito il giovane autore di Né bianco né viola fu insomma la vedetta avanzata, in terra ticinese, di un folto gruppo di letterati e studiosi che avrebbe lasciato il segno nella cultura italiana del dopoguerra. Fu un divulgatore alto per
contenuti, ma democratico nella forma, che non temeva di spingersi in luoghi
generalmente non preposti a quel tipo di discorso sulla letteratura: dal Salone Olimpia di Airolo alla Capanna del Campo Tencia, dalla Sala del Consiglio
Comunale di Rodi-Fiesso alla chiesa del Sacro Cuore di Bellinzona, la voce di
Orelli è risuonata a lungo nelle sedi più disparate,16 trovando la sua ideale collocazione a partire dal 1987 – terminata oramai l’attività professionale – nelle
numerose lezioni per i cicli Insieme per la terza età, a dimostrazione del fatto
che la dimensione orale era per lui non meno decisiva della pubblicazione di un
saggio di accertamenti verbali.17
Nonostante la dimestichezza con gli ambienti accademici, soprattutto in Italia, dove fu spesso invitato per seminari e convegni,18 e nonostante gli apprezzamenti raccolti da più parti con il volume di prose narrative,19 la notorietà di
Orelli al di fuori della Svizzera italiana è legata quasi esclusivamente all’attività
poetica, certo favorita dalle pubblicazioni presso Mondadori (dal 1962) e Garzanti (nel 2001) e dalla precoce stima di critici del calibro di Luciano Anceschi
o Vittorio Sereni. Tutto questo a fronte di una produzione in versi tutt’altro che
ponderosa, anzi, assai selettiva, se in totale non conta che 349 poesie singole
pubblicate in vita – in quotidiani, riviste, plaquettes o raccolte poetiche – e delle
quali soltanto 240 sono entrate a far parte del ridottissimo canone autorizzato
dallo scrittore (si rimanda, per ulteriori ragguagli, alle tabelle dell’Allegato I):
annopoesie pagine
OT
L’ora del tempo 196249 82
SISinopie
197752 85
SPSpiracoli 198968 102
CAIl collo dell’anitra 2001
71
108
Poeta parco per antonomasia, come gli amati Petrarca e Foscolo e, nel Novecento, l’amico Vittorio Sereni, Giorgio Orelli ha lasciato un corpus tutto sommato esiguo di testi, da lui stesso reso ancor più esile dopo la rigorosa selezione operata all’inizio degli anni sessanta per l’antologia mondadoriana. Non
andrebbero comunque trascurate, in sede critica, le altre 109 poesie, un gruppo
che corrisponde circa a un terzo della sua produzione e che si compone per lo
più di versi giovanili non accolti ne L’ora del tempo, ai quali vanno aggiunte le
anticipazioni della raccolta postuma L’orlo della vita (OV) e le poesie pubblicate
una sola volta e mai riprese in volume:
258
Prime ricognizioni nella bibliografia di Giorgio Orelli
anno
poesie
poi in OT
non riprese
NB Né bianco né viola 194430 30
PA Prima dell’anno nuovo 1952 10
3
POPoesie 195359 20
CF Nel cerchio familiare 196011 10
Poesie mai stampate in volume 1944-70
Anticipazioni di OV
2003-13
24
7
39
1
16
22
Tali cifre andranno considerate, come sempre in questi casi, con beneficio
d’inventario, data anche l’abitudine orelliana al riutilizzo e montaggio di materiali già pubblicati per la costruzione di nuove di poesie, come è avvenuto per
«Tutto il verde che scorre fino al grigio…» e «Ma oggi, senza desiderio, avendoti…»
di PA, fuse con modifiche in Lettera da Bellinzona (OT), oppure nel passaggio
di Ancora una vigilia (anticipata nel 1958 su “Botteghe oscure”) a seconda parte
di Prima dell’anno nuovo nella plaquette omonima, o ancora alla sopravvivenza
di pochi versi di La iena (apparsa su “Cenobio” nel 1954) nella assai più tarda
«Rimini s’allontana…» (SP). Colpisce altresì che dopo il 1960 per i testi in plaquette, e dopo il 1970 per le poesie stampate in antologie, riviste o quotidiani,
nessun titolo venga più abbandonato al proprio destino, e tutti vengano anzi
ripresi nelle raccolte degli anni successivi. Le ragioni di questa prassi, probabilmente volontaria, possono essere duplici: da un lato una maggiore disponibilità
nei volumi d’arrivo, che negli anni aumentano seppur di poco il numero delle
pagine (82, 85, 102 e 108), e dall’altro un più ferreo controllo a monte, cioè
una minore disponibilità da parte dell’autore a “cedere” e anticipare testi di
cui avrebbe potuto pentirsi in futuro (o che per vari motivi avrebbero faticato a
trovare cittadinanza in nuove sillogi). Il ridotto numero di queste poesie, sedici
in tutto (qui riproposte nell’Allegato II), conferma la celebre opinione di Gianfranco Contini secondo cui Orelli non sbagliava mai un colpo.20
1941
1944
1944
1944
1945
1950
1953
1954
1954
1954
1954
1954
1960 (?)
1960
1960
1970
Fugacità
Come il sole
La stanza
Evasione
Nel folto del mattino
Maschere di Gonzato
Di camelia in camelia
La iena
Primavera a Nocca
«Come remota sei…»
«Su codesta città…»
«Niente niente…»
Il battello
Passaggio a Milano
Qui conta d’un mancino
Sant’Agata di Tremona
259
Pietro Montorfani
I primi cinque testi, precedenti o coevi alla vittoria al Premio Lugano, rientrano nelle poesie in senso stretto giovanili, e forse proprio per questo furono
presto abbandonati. Medesima sorte ebbero alcuni inediti apparsi in Quarta generazione (a cura di Luciano Erba e Piero Chiara, Magenta, Varese 1954) e così
i pochi altri titoli ospitati per lo più in periodici della Svizzera italiana. Su tutti
spicca, almeno nelle intenzioni, Maschere di Gonzato, non già una poesia autonoma – e perciò riutilizzabile in altra sede – bensì una micro-recensione poetica
di un libretto di disegni del pittore veneto Guido Gonzato, da tempo residente
in Ticino, cui lo stesso Contini aveva voluto premettere un’epistola in versi in
tutto simile a quella che aveva tenuto a battesimo Orelli nei primissimi anni della sua carriera.21 Al di là dei singoli esiti, giudicati più o meno positivamente dal
poeta maturo, di fronte a questi “scarti” è comunque forte la sensazione di una
maggiore vitalità degli anni cinquanta-sessanta rispetto alle stagioni successive,
nelle quali un severo esercizio di selezione è intervenuto a controllare la divulgazione dei testi per la pubblicazione.
All’altro capo della bibliografia orelliana stanno invece quei titoli che, entrati
presto nel circolo delle antologie italiane e straniere, hanno contribuito con il
tempo a costruirne l’immagine di poeta su scala nazionale e (in misura minore)
internazionale. Caso più unico che raro per un autore svizzero di lingua italiana,
Orelli conosce infatti una buona e precoce visibilità anche al di fuori delle due
tradizioni letterarie cui appartiene per diritto: lo attestano almeno la traduzione
spagnola di Natale 1944 nell’antologia Treinta jovenes poetas italianos, stampata
a Montevideo nel 1957, o il fatto che nel 1962 figuri tra i poeti italiani tradotti
per la rivista newyorkese “Chelsea”, mentre sei anni più tardi tocca gli antipodi
su “Poetry Austrialia”.22 Considerando le singole poesie ospitate in volumi o
riviste, pubblicate in lingua oppure in traduzione, senza grandi sorprese il primato delle presenze va – da Sera a Bedretto al Frammento della martora, da Nel
cerchio familiare a Sinopie – ai titoli più celebri e consolidati:
Antologie italiane
Nel cerchio familiare (CF, OT)
9
Frammento della martora (PO, OT) 8
Sinopie (SI)7
Sera a Bedretto (PO, OT)
4
Lettera da Bellinzona (PA, OT)
4
La scolopendra (PO, OT)
4
A Giovanna (SI)4
Ginocchi (SI)4
Moosackerweg (SP)4
Le anguille del Reno (SP)4
Antologie svizzere
Nel cerchio familiare (CF, OT)
4
Frammento della martora (PO, OT) 4
Sinopie (SI)4
Sera a Bedretto (PO, OT)
4
260
Prime ricognizioni nella bibliografia di Giorgio Orelli
Né bianco né viola (NB, OT)
3
Nel mezzo del giorno (SI)3
«Certo d’un merlo il nero…» (SP)3
«Col silenzio di cento ramarri…» (SP)3
Antologie straniere
Nel cerchio familiare (CF, OT)
9
Sinopie (SI)5
L’estate (CF, OT)
5
Ginocchi (SI)4
In ripa di Tesino (SP)4
Frammento della martora (PO, OT) 3
Natale 1944 (PO, OT)
3
A un amico che si sposa (CF, OT)
3
Anche da questo punto di vista, nell’asettica prospettiva di statistiche che
restituiscono un quadro inevitabilmente parziale e falsato (le poesie più antiche
sono quelle che hanno più chances di venire antologizzate nel tempo, così come
le traduzioni tendono a fossilizzarsi attorno a pochi titoli ricorrenti), Orelli si
conferma il poeta del «cerchio familiare», con un’ulteriore testimonianza di
quanto il tormentato confronto con il paese d’origine – segnato da movimenti
alterni di vicinanza e lontananza – e lo snodo cronologico dei primi anni sessanta siano stati decisivi nella sua vita di uomo e di scrittore. A quel tema e a
quegli anni cruciali bisognerà giocoforza tornare ogni qual volta ci si ponga il
problema del suo rapporto con il “lavoro” letterario e con la dimensione più
profonda della parola poetica. Lo scandaglio per la bibliografia ha portato alla
luce, da questo punto di vista, testimonianze notevoli per sincerità e ardore d’esposizione, quasi delle confessioni in presa diretta nelle quali lo scrittore, dopo
essersi chinato umilmente sulla natura misteriosa del proprio lavoro, si presenta
al lettore con il cuore in mano:
Sono indaffaratissimo: la scuola, lo sgombero, e presto il matrimonio. Mentre mi ci vorrebbe calma concentrazione per mettere su un foglio la mia opinione sulla Situazione
della poesia. Certo, non c’è da aspettarsi in questo senso gran che da me, preoccupato
come sono di approfondire i pochi motivi a cui s’affida il significato della mia presenza
sulla terra. Mi pare che nel mio Cerchio familiare almeno tre componimenti mostrino
decentemente, cioè, spero, con voce dimessa ma ferma, l’uomo ch’io sono e sto per
essere, in der Gesellschaft mit den Menschen, besonders im Menschentrubel, come dice
Kierkegaard. Per me, penso semplicemente che non ci sia scampo fuori d’un lavoro verticale: questo è poi l’unico modo di sentirmi vivo, dico contemporaneamente vivo. Ogni
tentativo di allargare il discorso si ripiega inevitabilmente su una situazione personale.23
Il 1960, inaugurato il 1o di gennaio con la presentazione a Milano di Nel cerchio familiare, è l’anno del matrimonio con Miriam De Angeli, l’8 agosto, quindi
di un nuovo trasloco e infine della consacrazione come narratore, a novembre,
grazie alla pubblicazione di Un giorno della vita. Presto nascerà la prima figlia,
261
Pietro Montorfani
Giovanna (1961), e all’orizzonte si intravvede l’uscita per Mondadori dell’antologia poetica dei primi quarant’anni (1962). Su tutti questi eventi, di vera vita,
grava il dolce peso della scuola: «bisogna vivere per poetare, bisogna tenere
ancora un capo. S’intende che i giovani poeti saranno tanto più nuovi quanto più
mostreranno di non essersi accontentati dei famosi “momenti di grazia”. Più
non dico. Non sono aux ordres de l’impatience. Ora devo pensare tre temi per
l’esame di maturità: non bisogna deludere i nostri cari allievi».
Nelle stesse settimane nelle quali risponde all’invito della “Fiera Letteraria”,
Orelli firma la prefazione a Il Silos di Angelo Casé, nella quale ritorna la parolachiave della plaquettes pubblicata da Scheiwiller pochi mesi prima (nostro il
corsivo): «non ci sarà scampo anche per lui fuori del cerchio più noto»,24 e un
paio d’anni più tardi, il 20 ottobre 1963, su invito di Ugo Frey legge alla Radio
della Svizzera Italiana, per la trasmissione Nero su bianco, un testo intitolato Il
mio villaggio, la cui registrazione è purtroppo perduta, ma che potrebbe coincidere con l’autocommento omonimo a Nel cerchio familiare apparso nel 1972
in un volume miscellaneo delle Edizioni Cenobio.25 L’eccezionalità di questo
ritrovamento, che precede di molti decenni la lettura ravvicinata del Frammento
della martora,26 ha suggerito di riportarne il testo per intero nell’Allegato III,
nella speranza che possa essere utilizzato per futuri studi. Saranno sufficienti in
questa sede, a dare ragione del valore di questa testimonianza, i due paragrafi di
apertura e chiusura:
Ci fu un tempo ch’io coglievo pretesti anche futili per non tornare a casa. Parlo d’inverni
fortunatamente lontani. Vivevo solo in città, vorrei dire che resistevo, e quando arrivava
il sabato, al pensiero di prendere il treno e tornare dai miei, in montagna, stavo male.
[…] Non che decidessi senz’altro di non rincasare: la mia decisione era il misero prodotto di lunghe esitazioni, di incerti tormenti per cui mi sentivo sull’orlo quasi dello sperdimento. È una storia curiosa che ancor oggi, benché mi riesca guardarla con un certo
distacco oggettivo, ha punti o aspetti per me misteriosi. Certo è che io non mi volgevo
più al mio villaggio, come a una realtà concreta, umile, quotidiana: vedevo la mia stessa
infanzia separata da me, e la neve era una merce ostile che rendeva più sensibile il vuoto.
[…]
Occorre dire che non è per superbia che ho commentato questa mia poesia? Altrove ho
parlato del mio villaggio, di me e del mio villaggio, sempre cercando di essere onesto, di
non fare il passo più lungo della gamba. Penso che ogni problema stilistico, ogni sforzo
di conoscenza, sia anche un problema morale.27 Ogni scrittore degno di questo nome è
un uomo in media humanitate, affronta sempre un compito che non gli offre altro scampo se non quello di assolverlo onestamente.
Chi abbia un po’ di dimestichezza con la prosa di Gianfranco Contini, sia
essa saggistica o epistolare (con Cecchi, Gadda, Montale, lo stesso Orelli), non
potrà fare a meno di sentir risuonare alcune armoniche: «Penso che ogni problema stilistico, ogni sforzo di conoscenza, sia anche un problema morale» scrive il
poeta bellinzonese; «Ogni problema pedagogico è d’amore, da Platone in giù»
chiosava invece, nel 1941, il filologo di Domodossola sulla rivista “Primato”.28
262
Prime ricognizioni nella bibliografia di Giorgio Orelli
Cresciuto alla scuola del maestro, l’Orelli degli anni sessanta ricorda a se stesso e
ai suoi lettori (di allora e di oggi) come il lavoro sulla parola – certo importante,
decisivo anzi per un autore della sua sensibilità stilistica – non sia che un capitolo, un sottoinsieme, di un “lavoro” assai più vasto e ineludibile che è quello
di trovare il nostro posto su questa terra («l’uomo ch’io sono e sto per essere»).
Non ci si sbaglierebbe di molto nel ritenere questi affondi analitici, esperienziali, ancora un portato dell’esperienza straordinaria degli anni friburghesi, di
quegli incontri eccezionali che hanno contribuito a fare di lui il grande poeta
che è stato.
«Kommt, reden wir zusammen / wer redet, ist nicht tot, / es züngeln doch die Flammen /
schon sehr um unsere Not» (G. Benn, Aprèslude, Limes-Verlag, Wiesbaden 1955, vv. 1-4
di 16, p. 33). Orelli, che pure non ne aveva bisogno, poteva leggerla anche nella traduzione italiana di F. Masini pubblicata da Scheiwiller nel 1963 (e ancora da Einaudi nel 1966):
«Venite, parliamo tra noi / chi parla non è morto, / già tanto lingueggiano fiamme / intorno
alla nostra miseria». Per la centralità di questo “motto” nell’orizzonte poetico orelliano cfr.
P. De Marchi, «Una cosa che comincia con la r in mezzo». Sul tema della morte, in Dove portano le parole. Sulla poesia di Giorgio Orelli e altro Novecento, Manni, Lecce 2002, pp. 23-24: «Il
verso di Benn, nella laconica equazione vita=parola / morte=silenzio, dice innanzitutto […]
“il bisogno di sentirsi vivi attraverso la parola” […] è dal vuoto del silenzio che si origina il
pieno della parola; è dall’incombere della morte che viene la necessità del dire».
2
Giorgio Orelli, herausgegeben von A. Canonica und P. Fröhlicher, in “Orte”, II (19751976), 7, dicembre-gennaio, pp. 25-26. Le poesie proposte in italiano con traduzione a fronte,
tutte prelevate da L’ora del tempo (1962), sono soltanto tre: C’è gente / Menschen gibt’s; Né
bianco né viola / Weder weiss noch violett; «Gli occhi che un poco muoiono se guardano…» /
«Diese Augen sterben ein bisschen…»
3
«Nessuno insomma che desse impressione di noia, / d’ansia o altro disagio» («Ohne
Angst leben», sesto testo di Sinopie, Mondadori, Milano 1977, pp. 21-23, vv. 21-22). Utili in
proposito le parole di Orelli nelle Note al libro: «Vivere senza angoscia: Adorno, o comunque
la Scuola di Francoforte» (p. 89).
4
Tre casi infelici dei più curiosi: nel volume Un teatro per la poesia, pubblicato a Brescia
nel 1990, le celebri forsizie del Bruderholz sono presentate come una «traduzione da Gottfried
Benn», mentre la prima versione della poesia Alter Klang, stampata in una raffinatissima veste
editoriale (in M.S. Merian, Metamorphosis insectorum surinamensium, vol. III, Lausanne, La
“Suisse” assurances, 14 marzo 1986), è impaginata per errore come prosa su due colonne;
infine, nella versione serba di Dejan Ilic la poesia D’autunno risulta montata con un altro
testo di Spiracoli – «Un giorno caldo di luglio un corvo…» – in una sorta di apocrifo pseudoorelliano ad uso esclusivo dei lettori slavi (cfr. U porodicnom krugu. Izabrane pesme, izbor u
prevod sa italijanskov Dejan Ilic, Rad, Beograd 2005, p. 77).
5
I primi contributi per la Radiotelevisione della Svizzera italiana (all’epoca ancora Radio
Monteceneri) datano alla metà degli anni quaranta e continuano con frequenza regolare almeno fino agli anni sessanta. Più sporadici si faranno invece negli anni successivi. Gli interventi – di cui si conservano pochissime registrazioni – sono per lo più in forma di recensioni
librarie, ad esempio sulle Versioni poetiche dal latino e dal greco di Salvatore Quasimodo (18
dicembre 1945), sulle Liriche cinesi curate per Einaudi da Giorgia Valensin e Eugenio Montale (19 febbraio 1946) o ancora sulle poesie di Cardarelli (30 marzo 1950), sebbene non
manchino cronache culturali, presentazioni di mostre d’arte e persino “pezzi” di invenzione,
come lasciano intendere alcuni titoli: Angeli dell’umiltà, sintesi radiofonica a cura di Giorgio
Orelli, 26 ottobre 1946; Le ragazze di Leventina, 8 giugno 1950; I mestieri dell’uomo: il sarto,
1
263
Pietro Montorfani
16 novembre 1950; Ricordo delle vacanze, 11 ottobre 1953; Natale di montagna, 25 dicembre
1954; Allungo in Val Bedretto, 25 novembre 1955. Soprattutto, Orelli fu uno dei protagonisti
della vivace ed encomiabile stagione pedagogica della RSI, come curatore e lettore di corsi radiofonici dedicati alla letteratura italiana: Testi di buona lingua (1946), Lectura Dantis radiofonica (1965, con Guido Calgari e Renato Regli), Come si legge una poesia (1970), Introduzione
alla lettura della poesia (1973).
6
Giorgio Gaber a Bellinzona, in “Cooperazione”, 14 dicembre 1972, p. 3; Il «Sogno» di
Shakespeare (interpretato dal «Gruppo della Rocca»), in “Cooperazione”, 18 gennaio 1973, p. 3.
7
Linguaggio sportivo, in “Cooperazione”, 2 maggio 1970, p. 10. La presa di posizione
orelliana, severa in special modo nei confronti di neologismi e anglicismi, ebbe lunga eco
sulla stampa ticinese. Ancora nel dicembre del 1973 un Dibattito sul linguaggio della cronaca
sportiva fu organizzato, presente Orelli, alla Scuola d’arti e mestieri di Bellinzona.
8
La presentazione ufficiale degli affreschi di Giuseppe Bolzani per l’Aula magna della
Scuola Cantonale di Commercio di Bellinzona avvenne il 15 ottobre 1953, introdotta da alcune parole di Orelli poi stampate in rivista con il titolo Appunti su Bolzani. Da una specie di
conferenza, “Svizzera italiana”, XIII (1953), 102, ottobre, pp. 23-24 (identico ne Il Brontosauro. Numero unico di Adelfia 1953-1954, giornale studentesco della Scuola Cantonale di Commercio di Bellinzona, Tipografia Grafica, Bellinzona, Natale 1953, s.i.p.). La novità dell’opera
di Bolzani e le parole elogiative dell’amico poeta suscitarono un risentito intervento di Valentino Sacchi (Le pitture murali nel salone della Scuola cantonale di commercio, in “Corriere del
Ticino”, 3 novembre 1953, p. 5), cui fecero seguito una risposta di Orelli (Dell’arte e d’altro,
in “Popolo e Libertà”, 5 novembre 1953, p. 2), un nuovo intervento di Sacchi (Le decorazioni
alla Scuola Cantonale di Commercio, in “Popolo e Libertà”, 7 novembre 1953, p. 5) e una
seconda risposta del difensore (Ancora dell’arte e altro, in “Popolo e Libertà”, 10 novembre
1953, p. 2). All’opera pittorica di Bolzani (1921-2002), dal 1951 insegnante presso la Scuola
Magistrale di Locarno, Orelli prestò sempre grande attenzione e l’amico ricambiò con due
disegni per la plaquette Prima dell’anno nuovo, stampata a Bellinzona da Leins & Vescovi nel
dicembre del 1952.
9
Mauro Dell’Ambrogio, che di Giubiasco sarebbe divenuto sindaco nel 1992, lesse la
poesia sul quotidiano “Il Dovere” del 17 novembre 1979, a p. 3, e a quella medesima testata
inviò una risentita puntualizzazione (Il poeta Giorgio Orelli e la piazza di Giubiasco, 21 novembre 1979, p. 5). La breve risposta dello scrittore fu accolta, due giorni più tardi, nella
rubrica Lettere al Dovere, a p. 5: «Devo rammentare a Mauro Dell’Ambrogio che, se anche
l’impersonalità è sempre l’impersonalità di qualcuno, nella mia composizione Foratura a Giubiasco c’è una dilatazione plurale (i nostri Consigli Comunali) che inequivocabilmente s’indirizza a tutta una schiera di “politici” incolti ma molto sicuri di sé quando si tratta di straziare
il nostro paese. Intendo evidentemente “incoltura” nel senso più largo; incolti sono i bottegai
che, mirando solamente al loro avere, hanno incoraggiato lo scempio giubiaschese, e incolti
sono tanti altri cittadini; sicché la “volontà del popolo” rispecchia una ben triste situazione.
Mi spiace per Giubiasco, come per tanti altri nostri paesi e città».
10
Di seguito si segnalano, tra le molte, le interviste più significative: Giorgio Orelli, a cura
di G. Silva, in “Autografo”, IV (1987), 12, ottobre, pp. 55-60; Dopo la lezione, conversazione
con Luciana Saetti, in Foscolo e la danzatrice. Un episodio delle Grazie, Pratiche Editrice,
Parma 1992, pp. 65-76; Si sagesse jeûnait, si paresse veillait. Dix questions à Giorgio Orelli,
in Perspectives tessinoises, a cura di Ch. Viredaz, in “Le Passe Muraille”, III (1994), 11-12,
marzo, p. 13; Un’altalena che s’inciela. Idra a colloquio con Giorgio Orelli, a cura di M. Chiaruttini, G. Fontana e F. Pusterla, in “Idra”, VI (1996), 13, N, giugno, pp. 87-93; I merli di
Ravecchia, a cura di P. De Marchi, in “Cooperazione”, 23 maggio 2001, p. 86; Il privilegio e lo
stupore di essere vivo… A colloquio con Giorgio Orelli, uomo e poeta, a cura di M. Delfanti, in
“Terzaetà”, XX (2002), 2, aprile, pp. 16-19; Giorgio Orelli, a cura di A. Vosti, in “La Rivista
di Locarno”, XIV (2007), 11, novembre, pp. 9-13; «Ascolto il suono delle parole», a cura di
P. Di Stefano, in “Corriere della Sera”, 19 giugno 2011, p. 38; «Aspetto che si dia tempo al
tempo». Incontro con Giorgio Orelli, a cura di E. Motta, in “Clandestino”, XXV (2012), 3-4,
dicembre, pp. 11-15.
264
Prime ricognizioni nella bibliografia di Giorgio Orelli
11
Il contributo, privo di titolo, è pubblicato in “Virtutis Palaestra”, giugno 1939,
pp. 34-36. Il ritrovamento, nell’archivio del Collegio Papio di Ascona, si deve all’acume di
due orelliani di lunga data come Liliana Orlando e Ferruccio Cecco.
12
G. Contini, Gita della II liceale in Valle Antrona, in “Bollettino dell’Associazione Antonio Rosmini e dei Collegi Rosminiani”, V (1927), 18, p. 63.
13
Lo scoiattolo (19 dicembre 1942, p. 3); Nemico degli uomini (16 gennaio 1943, p. 4);
Ampelio (13 aprile 1945, p. 3); Per un’infanzia (31 agosto 1945, p. 1); Vecchia immagine (9
marzo 1946, p. 3). Ai racconti pubblicati sul “Corriere del Ticino” andranno aggiunte, in
quello stesso torno d’anni, alcune prose apparse in altre sedi: Racconto da fare, ne Il Ticino
dei giovani, a cura di F. Filippini, Francke, Berna 1945, pp. 18-24; Ampelio, Luce al pianterreno e Erpete Zoster, sotto l’unico titolo di Disegni giovanili, in Convegno, Istituto Editoriale
Ticinese, Bellinzona 1948, pp. 118-121; Autunno ticinese, in “Radioprogramma”, 14 ottobre
1950, p. 3; Per un diario bellinzonese, in Altri volti, altre voci. Inediti di scrittori della Svizzera
italiana per onorare gli ottant’anni di Francesco Chiesa, Leins & Vescovi, Bellinzona 1951,
pp. 89-91.
14
Lo spoglio delle testate cui Orelli era solito collaborare ha permesso di constatare che
tutti i racconti di Un giorno della vita erano già stati anticipati, in settimanali o riviste, in una
forma sovente prossima a quella definitiva: Conversazione a Prato, in “Cooperazione”, 20
giugno 1953, poi Primavera a Rosagarda, in “Paragone. Letteratura”, V (1954), 54, giugno,
pp. 50-58; Scherzo, in “La Chimera”, I (1954), 2, maggio, p. 10; Suite provinciale, in “Letteratura”, XVIII (1954), 8-9, marzo-giugno, pp. 108-115; Ampelio, in “La Chimera”, I (1954),
3, giugno, p. 8; Un sogno patriottico e Conferenza, in “La Chimera”, I (1954), 7, ottobre,
p. 8, poi montati in Suite militaresca, in “Paragone. Letteratura”, VII (1956), 76, aprile,
pp. 38-48; Serale, in “Paragone. Letteratura”, VI (1955), 62, febbraio, pp. 69-75; Viaggio
d’estate (poi Cristina), in “La Chimera”, II (1955), 14, maggio, p. 5; La morte del gatto, in
“Paragone. Letteratura”, VIII (1957), 86, febbraio, pp. 41-46; Sosta al Lago d’Iseo, in “Palatina”, I (1957), 3, luglio-settembre, pp. 35-41; Un giorno della vita, in “Paragone. Letteratura”,
IX (1958), 102, giugno, pp. 31-40; Pomeriggio d’estate, in “Palatina”, III (1959), 2, lugliosettembre, pp. 32-36; Veronica, in “Il Verri”, III (1959), 4, agosto, pp. 44-51; Gente di lago
(poi Per un filino d’erba), in “L’approdo letterario”, VI (1960), 10, aprile-giugno, pp. 46-49.
L’esperienza di Orelli come prosatore si completa, a stampa, con i non pochi titoli successivi alla raccolta del 1960: L’aria di Altino, in “Paragone. Letteratura”, XII (1961), 134,
febbraio, pp. 54-62; Per la “Suite provinciale”, in “Libera Stampa”, 21 marzo 1961, p. 3;
Detrito d’una suite militaresca, in Numero unico di Adelfia (giornale studentesco della Scuola
Cantonale di Commercio di Bellinzona), Bellinzona 1961 (non reperito); Arrivo a Pruden, in
“Cooperazione”, 23 aprile 1966, p. 7; La dispersione, in “Cooperazione”, 22 aprile 1967, p.
11; Il camoscio, in “La Fiera Letteraria”, 26 dicembre 1971, pp. 16-17; Autunno a Rosagarda,
in Pane e coltello. Cinque racconti di paese, testi di P. Bianconi, G. Bonalumi, P. Martini, Giorgio e Giovanni Orelli, fotografie di A. Flammer, Dadò, Locarno 1975, pp. 111-119; Pomeriggio bellinzonese, in Luci e figure di Bellinzona negli acquerelli di William Turner e nelle pagine
di Giorgio Orelli, a cura di V. Gilardoni, Casagrande, Bellinzona 1978, pp. 59-76; Tre cose in
prosa per un falciatore, in Espaces du texte. Recueil d’hommages pour Jacques Geninasca, par
P. Fröhlicher, G. Güntert et F. Thürlemann, Éd. de la Baconnière, Neuchâtel 1990, pp. 30-31;
Primavera a Rosagarda, in “Idra”, VI (1996), 13, N, giugno, pp. 19-25; Suite in là con gli anni,
in “Quaderni grigionitaliani”, LXXX (2011), 3, settembre, pp. 6-9.
15
La tesi di Bonetti è stata recentemente oggetto di alcuni studi pubblicati sulla rivista “Il
Cantonetto”, VI (2013), 3-4, giugno, pp. 121-139: A. Stussi, Quando uno scrittore dimenticato
incontra un grande critico. Il Faldella di Contini, pp. 121-125; Rapport du Prof. Gianfranco
Contini sur la thèse de M. Fernando Bonetti, pp. 126-128; C. Marazzini, Fernando Bonetti
lettore di Faldella. Una tesi di Contini nel periodo di Friburgo, pp. 129-139.
16
Un prelievo a campione dalla folta lista delle conferenze, sparse su più decenni, darà
ragione della vastità degli interessi e della generosità del relatore: La poesia italiana del Novecento, Biasca, Circolo di cultura, 10 maggio 1944; “Alla sera” di Ugo Foscolo e “L’infinito”
di Giacomo Leopardi, Bellinzona, Scuola Cantonale di Commercio, 26 novembre 1948; Del
265
Pietro Montorfani
tradurre e altre cose, Bellinzona, Sala del Consiglio Comunale, 30 aprile 1952; Con l’Ariosto
nell’isola di Alcina, Locarno, Salone della Sopracenerina, 26 aprile 1961; «Quel ramo del lago
di Como…», Mendrisio, Ginnasio, 15 febbraio 1963; Possibilità di un dibattito tra marxismo
e cattolicesimo, tavola rotonda con V. Gilardoni, G. Orelli e M. Rotondi, Bellinzona, Scuola
Cantonale di Commercio, 9 aprile 1964; Dante nel Canzoniere, Milano, Chiesa di San Maurizio, 23 maggio 1979; La conversione dell’Innominato, Bellinzona, Chiesa del Sacro Cuore, 21
marzo 1984; Il nome di Maria in Dante, Bellinzona, Chiesa del Sacro Cuore, 9 maggio 1985;
Ingorghi vocalici in notturno goethiano, Bologna, Archiginnasio, 16 maggio 1992; La fucina
madrigalesca del Tasso, Lugano, Auditorium Stelio Molo, 8 novembre 1993; Accertamento luziano, Firenze, Palazzo Strozzi, 20 gennaio 1995; Uno scrittore defilato: Robert Walser, Bellinzona, Biblioteca Cantonale, 14 ottobre 2000; La trota tanto attesa, conversazione sulla poesia,
Università di Berna, 12 giugno 2002; La parole che contano. Dialogo tra scienza e letteratura,
Lugano, Liceo Cantonale, 1° dicembre 2005.
17
Questa singolare esperienza di insegnamento, cui Orelli restò fedele per oltre un decennio, è ricordata nell’intervista «Avevo qualche timore iniziale…», a cura di G. Dillena, in
“Corriere del Ticino”, 12 luglio 1988, p. 7. I temi proposti rispecchiano gli interessi orelliani
e in taluni casi preannunciano successivi studi: Lettura di Dante (1987-88); La poesia del
Petrarca (19 gennaio 1989); La poesia contemporanea (18 maggio 1989); Giacomo Leopardi
(settembre-dicembre 1989); Ugo Foscolo (febbraio-marzo 1990); Pagine dai “Promessi Sposi”
(aprile-maggio 1990); Lettura di Dante (settembre-dicembre 1990); Carducci e Pascoli (gennaio-febbraio 1991); “La luna e i falò” di Cesare Pavese (5 marzo 1991); Poesie di Umberto
Saba (9 aprile 1991); Poesie in dialetto ticinese (novembre-dicembre 1991); L’ultimo Montale
(gennaio-febbraio 1992); Cardarelli e Saba (7 aprile 1992); Testi di Delio Tessa (17 novembre
1992); Testi di Virgilio Giotti (15 dicembre 1992); L’Orlando Furioso (gennaio-febbraio 1993);
La Gerusalemme Liberata (marzo 1993); Lezione sulla letteratura (gennaio-marzo 1995); Poesie di Sandro Penna (26 marzo 1996); Letteratura italiana (4 dicembre 1996); Lezione sulla
poesia (26 novembre 1990).
18
La geografia delle collaborazioni di Orelli con università o altre istituzioni culturali
italiane, in un’area di conoscenze e di affetti che ha al suo centro l’ateneo pavese di Maria
Corti e di Cesare Segre, si desume dall’elenco dei suoi interventi: Congresso internazionale
dell’Associazione Italiana Studi Semiotici (Pavia, Teatro Fraschini, 28 settembre 1979); Verso
Mastronardi (Vigevano, 6-7 giugno 1981); Quel ramo del lago di Como (Brescia, Fondazione Gandovere, maggio 1984); Per una lettura lenta della Commedia (Ravenna, 16 settembre
1984); Dante in Manzoni (Università di Pavia, 9 novembre 1984); «Altre cose, altra realtà,
altra verità» (su Gianfranco Contini, Università di Pavia, 4 dicembre 1990); Accertamento
luziano: “Dalla torre” (Firenze, 20 gennaio 1995); Gli ultimi dieci versi del canto X del Paradiso
(Università di Venezia, 15 maggio 1995); L’attenzione alla lettera (Università di Pavia, 9-10
novembre 1995); «Un perenne ronzio» (rileggendo le Grazie del Foscolo) (Venezia, Fondazione Cini, 12 settembre 1998); I primi nove versi della “Divina Commedia” (Pavia, Collegio Ghislieri, 28 febbraio 2007); Seminario sulla sua poesia (Valenza, Villa Groppella / Fondazione
Palmisano, 5-7 maggio 2008).
19
Si vedano, tra le molte, almeno le recensioni di Luigi Baldacci su “Letteratura”, XXV
(1961), 3, maggio-giugno, pp. 77-81, e di Anna Banti su “Paragone”, XII (1961), 138, giugno,
p. 83.
20
«Io trovo assolutamente consolante che un poeta, un vero poeta, abbia scritto soltanto
poesie pubblicabili e non abbia strappato carte poetiche che non gli sono venute. È stato non
per niente avaro di sé stesso, è stato estremamente discreto, non ha avuto impazienza: e questo è un carattere generale di Orelli» (G. Contini, Giorgio Orelli un toscano nel Ticino, a cura
di C. Mésoniat, in “Il Dovere”, 17 novembre 1979, p. 3: poi in Giorgio Orelli poeta e critico, a
cura di C. Mésoniat, interviste a Gianfranco Contini, Giovanni Pozzi, Ezio Raimondi, Andrea
Zanzotto, RTSI, Lugano 1980).
21
«Questi versi, un po’ alla maniera di Eugenio Montale – Keepsake –, sono stati messi
insieme invece di un articolo sopra il libretto – a cura del pittore Bianchi, presso la Casa Editrice Noseda di Como – in cui Gianfranco Contini presenta, con un’estrosa e sottile epistola
266
Prime ricognizioni nella bibliografia di Giorgio Orelli
al lettore, diciotto maschere del pittore veronese Guido Gonzato». Così Orelli nella nota
introduttiva alla poesia, pubblicata su “Popolo e Libertà” del 30 dicembre 1950, a p. 3. Sia
permesso rimandare, per le due epistole di Contini e per i suoi rapporti con Orelli e Gonzato,
al volume delle Poesie, a cura di P. Montorfani, Nino Aragno Editore, Torino 2010.
22
Navidad 1944, in Treinta jovenes poetas italianos, a cura di C. Luisi e J.M. Podestá,
Imp. Libertad (“Cuadernos Julio Herrera y Reissig”, 55), Montevideo [1957], p. 42; Giorgio
Orelli, translated by L. Lawner, in “Chelsea”, V (1962), 11, March, pp. 86-87 (le poesie sono
For a Friend About to Be Married / A un amico che si sposa e In the Family Circle / Nel cerchio
familiare); Giorgio Orelli, in Italian issue, edited by F. May and V. Scheiwiller, translated by
W. de Rachewiltz in association with V. Scheiwiller and M. de Rachewiltz, in “Poetry Australia”, V (1968), 22-23, August, pp. 72-73 (le poesie sono Frammento della martora / Fragment
of the weasel e The trout / La trota). L’amicizia con Scheiwiller sembrerebbe essere il comune
denominatore di queste prime pubblicazioni in lingue straniere.
23
Risposta senza titolo a un Invito al chiarimento della poesia contemporanea, in “La Fiera
Letteraria”, XV (1960), 27, 3 luglio, p. 3.
24
A. Casè, Il Silos, Carminati, Locarno giugno 1960 (ma p. 5). La distanza tra l’Orelli
“esistenzialista” dei primi anni sessanta e il fine – ma a tratti arido – accertatore di fenomeni
verbali degli ultimi anni si misura mettendo a confronto la prefazione del 1960 e il nuovo
testo introduttivo, postumo, per la medesima raccolta di Casé: «Sin dagli inizi, come non accadde a quelli della mia età, la poesia di Angelo Casè s’è appagata di versi regolari e irregolari,
così che un endecasillabo, se torna, può acquistare un lucore insolito: “Era un grandissimo
urogallo e chiaro”. […] Senza trascurare lo spostamento (diciamo) foscoliano di chiaro, direi
che questo verso ha vita lunga grazie al fatto che urogallo consuona con colle del verso precedente, mentre poi si prolunga, quasi per contrazione, con urlo e tiurlì, entrambi non invano
ripetuti. Utilmente sdrucciolo, grandissimo, che raggruma /r/, /g/ e /a/ di uRoGAllo, aspetta
il sibilo e /i/ tonica di impossibile, non per nulla ripreso anch’esso (nell’ultimo verso) […]»
(L’urogallo, il gabbiano, dicembre 2010, si legge ora in A. Casè, Il Silos, con testi di G. Orelli,
Casagrande, Lugano 2015, pp. 61-62).
25
Il mio villaggio, in C’è un solo villaggio nostro, a cura di P.R. Frigeri, prefazione di F.
Filippini, Edizioni Cenobio, Lugano 1972, pp. 137-141.
26
Un’autolettura, in “Quarto. Rivista dell’Archivio svizzero di letteratura”, VIII (2000),
13, giugno, pp. 94-98.
27
Non diversamente dovette esprimersi Orelli in un dibattito pubblico del maggio 1967,
del quale soltanto in tempi recenti è emersa una trascrizione non autorizzata dall’autore (nel
frattempo scomparso): «Non c’è politica dove non c’è preoccupazione di aumentare l’interesse dell’uomo. E non c’è cultura, altrimenti sarebbe una non-cultura, che non si preoccupi di
un aumento della felicità umana. Che cosa è fare della cultura, se non questa che si identifica
con quella parte del progresso umano spirituale che reca un tangibile aumento di felicità. […]
La cultura è ciò che diventa mio tessuto vitale, forma il mio vivere di tutti i giorni» (Politica e
cultura. Due interventi di Giorgio Orelli in un incontro tenutosi a Bellinzona il 24 maggio del
1967, in “Popolo e Libertà”, 13 dicembre 2013, p. III).
28
G. Contini, Risposta a un’inchiesta sull’università, in “Primato”, 15 maggio 1941, poi
in Un anno di letteratura, Einaudi, Torino 1942, infine in Esercizî di lettura sopra autori contemporanei con un’appendice su testi non contemporanei, nuova edizione aumentata, Einaudi,
Torino 1974, pp. 387-389.
267
Allegato I
Presenze antologiche
Raccolte poetiche di Giorgio Orelli
NB
Né bianco né viola (versi del 1939-1943), Collana di Lugano, Lugano 1944
PA
Prima dell’anno nuovo, Leins & Vescovi, Bellinzona 1952
PO
Poesie, Edizioni della Meridiana, Milano 1953
CF
Nel cerchio familiare, Scheiwiller, Milano 1960
OT
L’ora del tempo, Mondadori, Milano 1962
6P
6 poesie, Scheiwiller, Milano 1964
SI
Sinopie, Mondadori, Milano 1977
SP
Spiracoli, Mondadori, Milano 1989
CA
Il collo dell’anitra, Garzanti, Milano 2001
Antologie italiane
LL
Linea lombarda. Sei poeti, a cura di Luciano Anceschi, Editrice Magenta, Varese 1952
L900
Lirica del Novecento, a cura di Luciano Anceschi e Sergio Antonielli, Vallecchi, Firenze 1953
4aG
Quarta generazione, a cura di Piero Chiara e Luciano Erba, Editrice Magenta, Varese 1954
Falq
La giovane poesia. Saggio e repertorio, a cura di Enrico Falqui, Colombo, Roma, 1956
PP
Premesse e promesse della giovane poesia, a cura di C. Galasso e R. Laurano, Cynthia, Firenze 1961
MPS
Manuale di poesia sperimentale, a cura di G. Guglielmi e E. Pagliarani, Mondadori, Milano 1966
Sec
Un secolo di poesia, a cura di G. A. Pellegrinetti, Petrini, Torino 1967
Meng Poeti italiani del Novecento, a cura di P. V. Mengaldo, Mondadori, Milano 1978
Porta
Poesia degli anni settanta, a cura di Antonio Porta, Feltrinelli, Milano 1979
GeLa Poesia italiana. Il Novecento, a cura di Piero Gelli e Gina Lagorio, Garzanti, Milano 1980
Eros
Poesia erotica italiana del Novecento, a cura di Carlo Villa, Newton, Roma 1981
Luzzi Poesia italiana 1941-1988: la via lombarda, a cura di Giorgio Luzzi, Casagrande, Lugano 1989
SeMa Testi nella storia, a cura di C. Segre e C. Martignoni, Bruno Mondadori, Milano 1992
CS
Il canto strozzato, a cura di Giuseppe Langella e Enrico Elli, Interlinea, Novara 1995
KrRo La poesia italiana del Novecento, a cura di E. Krumm e T. Rossi, Skira, Milano 1995
CuG1 Poeti italiani del secondo Novecento, a cura di M. Cucchi e S. Giovanardi, Milano 1996
SeOs
Antologia della poesia italiana, a cura di C. Segre e C. Ossola, Einaudi, Torino 1999
Majo
Poesie e realtà. 1945-2000, a cura di Giancarlo Majorino, Marco Tropea, Milano 2000
PNI
Poesia del Novecento italiano, a cura di Niva Lorenzini, Carocci, Roma 2002
CuG2 Poeti italiani del secondo Novecento, a cura di M. Cucchi e S. Giovanardi, Milano 2004
DL
Dopo la lirica, a cura di Enrico Testa, Einaudi, Torino 2005
Calcio Il calcio è poesia, a cura di Luigi Surdich e Alberto Brambilla, Il Melangolo, Genova 2006
DP
Dentro il paesaggio. Poeti e natura, a cura di Salvatore Ritrovato, Archinto, Milano 2006
269
Pietro Montorfani
Poesie di Orelli in antologie italiane (a)
1
Risveglio
1
NB
LL
L900
4aG
Falq
PP
MPS
Sec
Meng
1952
1953
1954
1956
1961
1966
1967
1978
1
2
«Autunno, il treno lacera...»
1
NB
2
3
Sera a Bedretto
4
PO/OT
3
4
La pietra nelle nuvole
1
PO
6
5
La trottola
3
PO/OT
11
5
6
Carnevale a Prato Leventina
3
PO/OT
7
Campolungo
3
PO/OT
1
1
3
1
2
8
Passo della Novena
1
CF/OT
9
Frammento della martora
8
PO/OT
4
10
Dove i ragazzi ammazzano il gennaio
2
PO/OT
7
11
L’ora esatta
2
PO/OT
8
12
Frammento di un andante affettuoso
3
PO
9
13
Di febbraio
2
PO/OT
10
14
Natale 1944
3
PO/OT
12
15
Lettera da Bellinzona
4
PA/OT
8
16
«Selva non è che timida biondeggi...»
1
PA
5
2
3
2
3
4
5
17
«Che cosa credi mi distragga? Forse...»
1
PA
10
Prima dell’anno nuovo
1
PA/OT
11
19
Davanzale
2
PO
1
20
Augen, sagt mir, sagt, was sagt ihr
2
PO
21
La scolopendra
4
PO/OT
9
Lo stagno
1
PO/OT
7
23
Quartine d’alba di primavera
1
PO
6
24
«Colgo questo paese...»
1
OT
12
25
Primavera a Nocca
1
/
13
14
dai «Rametti per una pattinatrice»
1
/
Fanciullo del paradiso
1
CF/OT
28
Nel cerchio familiare
9
CF/OT
29
L’uomo che va nel bosco
1
CF/OT
30
Il viaggio
1
OT
31
A mia moglie, in montagna
2
OT
32
Alla mia bambina / A Giovanna
4
6P/SI
33
Di passaggio a Villa Bedretto
1
6P/SI
34
«In poco d’ora»
1
6P/SI
35
A Giovanna, sulle capre
1
6P/SI
36
In riva al Ticino
1
SI
270
3
1
22
26
2
4
18
27
1
4
2
2
2
3
4
Prime ricognizioni nella bibliografia di Giorgio Orelli
Porta
GeLa
Eros
Luzzi
SeMa
CS
KrRo
CuG1
SeOs
Majo
PNI
CuG2
DL
Calcio
DP
1979
1980
1981
1989
1992
1995
1995
1996
1999
2000
2002
2004
2005
2006
2006
1
2
2
3
4
3
3
5
1
1
7
6
4
1
8
1
2
9
3
10
2
11
12
13
14
2
2
1
15
16
17
18
19
1
20
21
22
23
24
25
26
27
5
1
1
4
1
4
1
2
4
28
29
3
30
2
31
5
1
5
3
32
1
33
6
4
34
3
35
7
36
271
Pietro Montorfani
Poesie di Orelli in antologie italiane (b)
37
A Lucia, poco oltre i tre anni
2
SI
38
Memento ticinese
3
SI
39
Dopo Lucca
2
SI
40
Sinopie
7
SI
41
Ginocchi
4
SI
42
«Ohne Angst leben»
1
SI
43
Punto indietro
2
SI
44
Dal buffo buio
3
SI
45
A un mascalzone
2
SI
46
Se
1
SI
47
«Lucia ha un po’ di febbre,...»
1
SI
48
Ricordi di M.
1
SI
49
In memoria
1
SI
50
Foratura a Giubiasco
1
SI
51
A Vittorio Sereni
1
CA
52
Alter Klang
1
SP
53
Verso Basilea
2
SP
54
Moosackerweg
4
SP
55
A Leonardo Boff
1
SP
56
«Col silenzio di cento ramarri...»
2
SP
57
Ricordi di C.
1
SP
58
Per la madre di mia moglie
2
SP
59
Stop
2
SP
60
Partita di ritorno
1
SP
61
Funerale in campagna
1
SP
62
Nebelzone
1
SP
63
Le anguille del Reno
4
SP
64
Sulla salita di Ravecchia
1
CA
65
In memoria
1
CA
66
«Mi viene in mente quando eri...»
1
CA
67
«Non so come tu possa...»
1
CA
68
«“Sono pensando”...»
1
CA
272
LL
L900
4aG
Falq
PP
MPS
SEC
Meng
1952
1953
1954
1956
1961
1966
1967
1978
5
6
7
Prime ricognizioni nella bibliografia di Giorgio Orelli
Porta
GeLa
Eros
Luzzi
SeMa
CS
KrRo
CuG1
SeOs
Majo
PNI
CuG2
DL
Calcio
DP
1979
1980
1981
1989
1992
1995
1995
1996
1999
2000
2002
2004
2005
2006
2006
4
7
7
3
37
4
38
3
10
5
2
2
7
39
8
1
8
5
40
2
41
2
42
6
3
8
6
43
5
44
6
45
4
46
4
5
47
9
48
49
6
50
8
11
6
51
5
52
6
12
1
53
12
54
10
55
9
9
56
10
10
58
11
11
9
57
59
1
60
7
61
5
12
13
6
62
13
63
14
64
15
65
16
66
17
67
18
68
273
Pietro Montorfani
Poesie di Orelli in antologie svizzere (a)
1
C’è gente
1
Con
Zappa
TT
BV
TL
LS
Orte
Süd
1948
1954
1961
1964
1970
1976
1976
1976
NB/OT
2
Assenza
1
NB/OT
3
Né bianco né viola
3
NB/OT
1
1
2
4
Sera a Bedretto
4
PO/OT
4
5
Carnevale a Prato Leventina
2
PO/OT
3
6
Per Agostino
1
PO/OT
1
7
Campolungo
1
PO/OT
2
8
Ottobre
1
PO
9
Passo della Novena
1
CF/OT
10
Frammento della martora
4
PO/OT
11
Natale 1944
1
PO/OT
12
Lettera da Bellinzona
1
PA/OT
4
5
6
13
«Che cosa credi mi distragga...»
1
PA/OT
2
14
Prima dell’anno nuovo
2
PA/OT
3
2
15
«Gli occhi che un poco...»
1
PO/OT
16
Funerale in laguna
1
PO/OT
17
«Colgo questo paese...»
1
OT
18
Dicembre a Prato
1
CF/OT
19
Nel cerchio familiare
4
CF/OT
20
L’uomo che va nel bosco
1
CF/OT
21
Nel dopopioggia
1
CF/OT
22
Brindisi del primo fieno
1
OT
2
23
A mia moglie, in montagna
1
OT
3
24
La trota
1
OT
25
«Calmo, limpido il mare...»
1
SI
26
Nel mezzo del giorno
3
SI
27
Dopo Lucca
2
SI
28
Due passi con Lucia, d’autunno
1
SI
29
Sinopie
4
SI
30
Ginocchi
2
SI
31
Punto indietro
1
SI
32
Dal buffo buio
1
SI
33
A un mascalzone
1
SI
2
SI
34
L’estate a Prato Leventina
35
In memoria
SI
36
4 agosto 1976
SI
274
1
3
7
1
1
1
1
3
2
Prime ricognizioni nella bibliografia di Giorgio Orelli
Nessi
GR
SI
DLS
CA
RBL
Aman
VA
VS
GB
WSS
MPS
PSI
PCLT
1986
1986
1986
1991
1997
1998
2001
2003
2006
2007
2010
2013
2014
2014
1
2
1
1
3
1
5
4
5
6
7
8
3
9
2
1
2
1
2
10
11
12
13
14
15
16
1
17
18
3
2
19
20
2
21
22
23
4
1
1
24
4
25
5
26
3
27
3
8
4
4
28
1
29
2
30
2
31
6
32
5
33
7
5
34
6
35
7
36
275
Pietro Montorfani
Poesie di Orelli in antologie svizzere (b)
37
Foratura a Giubiasco
2
SI
38
In ripa di Tesino
2
SP
39
«Certo d’un merlo il nero...»
3
SP
40
«Col silenzio di cento ramarri...»
3
SP
41
«Ah dopo tanti bianchi il lillà...»
1
SP
42
Odette
1
SP
43
A un bambino
1
SP
44
Le forsizie del Bruderholz
1
SP
45
A un amico siciliano, con leggerezza
1
SP
46
«Che ridere Maria ch’eri dal ciuccio...»
1
SP
47
«Come quando di là dal Gottardo...»
1
SP
48
«Maria che nel suo dolce stile...»
2
SP
49
Sulla salita di Ravecchia
1
SP
50
«Non conosco l’azzurro...»
1
CA
51
Per zia Anna
1
CA
52
Raccontino 1947
1
CA
Con
Zappa
TT
BV
TL
LS
Orte
Süd
1948
1954
1961
1964
1970
1976
1976
1976
Antologie svizzere
Con
Convegno, pagine inedite di autori ticinesi, Istituto Editoriale Ticinese, Bellinzona 1948
Zappa Poeti contemporanei. Piccola antologia, a cura di F. Zappa, Edizioni Risveglio, Lugano 1954
TT
Le Tessin des Tessinois, a cura di A. Parola, Cahiers de la renaissance vaudoise, Lausanne 1961
BV
Bestand und Versuch, a cura di Bruno Mariacher e Friedrich Witz, Artemis, Zürich 1964
TL
Tessiner Liriker, a cura di H. Hinderberger, «Schweizer Monatshefte», L (1970), 2, febbraio
LS
Lirik in der Schweiz – heute, «Welt im Wort», III, 3 (1976)
Orte
Giorgio Orelli, a cura di Aldo Canonica e Peter Fröhlicher, «Orte», II (1976), 7, gennaio
Süd
Südwind, a cura di Carlo Castelli e Alice Vollenweider, Artemis, Zürich 1976
Nessi
Rabbia di vento, a cura di Alberto Nessi, Edizioni Casagrande, Bellinzona 1986
GR
Grenzraum, a cura di Alberto Nessi, Ex Libris, Zürich 1986
SI
Svizzera italiana, a cura di Giovanni Orelli, Editrice La Scuola, Brescia 1986
276
Prime ricognizioni nella bibliografia di Giorgio Orelli
Nessi
GR
SI
DLS
CA
RBL
Aman
VA
VS
GB
WSS
MPS
PSI
PCLT
1986
1986
1986
1991
1997
1998
2001
2003
2006
2007
2010
2013
2014
2014
1
1
37
12
6
9
1
38
8
6
39
7
3
40
10
41
11
42
5
43
1
44
3
45
4
46
4
5
47
3
48
2
49
3
50
4
51
1
52
Antologie svizzere
DLS
Dizionario delle letterature svizzere, a cura di Pierre-Olivier Walzer, Dadò, Locarno 1991
CA
Cento anni di poesia nella Svizzera italiana, Armando Dadò, Locarno 1997
RBL
Littérature de Suisse italienne, «La Revue de Belles-Lettres», CXXII (1998), 2-4, ottobre
Aman Poesie e prose dalle letterature svizzere, a cura di S. Aman, «Hesperos», II (2001), 2, dicembre
VA
Voci e accordi, a cura di D. Bonini e R. Schürch, Armando Dadò, Locarno 2003
VS
La voce dei segni, poesie nella lingua italiana dei segni, Alla chiara fonte, Viganello 2006
GB
Die Gotthardbahn in Literatur und Kunst, a cura di H.P. Häberli, Zürich 2007
WSS
Wenn ich Schweiz sage... Schweizer Lyrik im Originalton von 1937 bis heute, Merian, Basel 2010
MPS
Moderne Poesie in der Schweiz, a cura di Roger Perret, Limmat Verlag, Zürich 2013
PSI
La poesia della Svizzera italiana, a cura di Giudicetti e Maeder, L’ora d’oro, Poschiavo 2014
PCLT Petit canon littéraire tessinois, Editions d’en bas, Lausanne 2014
277
Pietro Montorfani
tedesco
Poesie di Giorgio Orelli
in antologie e riviste straniere (a)
1
Sera a Bedretto
1
2
Carnevale a Prato Leventina
2
3
Campolungo
1
4
Frammento della martora
3
5
Dove i ragazzi ammazzano...
2
6
L’ora esatta
2
7
Di febbraio
1
8
Natale 1944
3
inglese
IL
S.01
EL
CH
ME
AUS
TAP
SN
FPS
IPT
BUC
2000
2001
2013
1962
1966
1968
1970
1971
1971
1979
1981
1
4
1
2
3
9
Lettera da Bellinzona
1
10
Prima dell’anno nuovo
2
11
La scolopendra
2
12
Quartine d’alba di primavera
1
13
Torcello
1
14
«Colgo questo paese...»
1
2
15
Primavera a Nocca
1
1
16
L’estate
5
17
Nel cerchio familiare
9
18
L’uomo che va nel bosco
1
19
A un amico che si sposa
3
20
La trota
1
21
Di passaggio a Villa Bedretto
1
22
A Giovanna, sulle capre
1
23
Nel mezzo del giorno
1
4
4
2
1
2
5
1
2
1
3
3
1
5
2
24
Frammento dell’ideale
1
4
25
Secondo programma TV
1
2
26
Strofe di marzo
1
1
27
Sinopie
5
28
Ginocchi
4
29
Dal buffo buio
2
30
Se
1
31
L’estate a Prato Leventina
1
32
Per Agostino
1
33
In memoria
1
34
In ripa di Tesino
4
35
«Certo d’un merlo il nero...»
2
278
1
3
4
3
1
Prime ricognizioni nella bibliografia di Giorgio Orelli
inglese
spagnolo
altre lingue (ceco, ebraico, hindi, croato, ungherese)
MSL
ROS
FAB
KE
FSG
CO
TJ
SUI
CUA
MIK
EBR
HIN
FO
SLO
DI
MA
MU
1984
2000
2004
2012
2012
2013
1957
1992
2007
1984
1975
1988
1998
1999
2007
2005
2013
1
5
1
1
1
4
1
3
2
2
1
1
4
2
1
1
1
2
1
3
2
1
2
5
3
6
2
3
3
1
2
3
4
1
5
3
6
7
4
2
1
279
Pietro Montorfani
Poesie di Giorgio Orelli
in antologie e riviste straniere (b)
tedesco
inglese
IL
S.01
EL
CH
ME
AUS
TAP
SN
FPS
IPT
BUC
2000
2001
2013
1962
1966
1968
1970
1971
1971
1979
1981
36
Ascoltando una relazione...
1
37
Verso Basilea
1
38
Moosackerweg
1
39
Alla piccola Eloisa
1
40
D’autunno
1
41
Kawasaki
1
42
Funerale in campagna
1
43
Le anguille del Reno
2
44
Le forsizie del Bruderholz
2
45
«Che ridere Maria ch’eri...»
1
1
46
«Verrà verrà la cimpripessa...»
1
2
47
«Non si calcola il danno...»
1
3
48
«Tenerissima hai visto...»
1
4
49
Sulla salita di Ravecchia
1
50
In memoria
2
51
Imber
1
52
Per zia Anna
1
53
Da molti anni
1
54
«Quelle farfalle brune...»
1
2
3
Antologie e riviste straniere
IL
Italienische Lirik des 20. Jahrhunderts, a cura di Manfred Lentzer, Erich Schmidt Verlag, Berlin 2000
EIS
Schweiz.01, a cura di Markus Bundi e Marco Sagurna, «Eiswasser» VIII (2001), 1, gennaio-giugno
LIC
Die Erschliessung des Lichts, a cura di Federico Italiano e Michael Krüger, Hanser Verlag, München 2013
CH
Giorgio Orelli, a cura di Lynne Lawner, «Chelsea», V (1962), 11, marzo
ME
Modern European Poetry, a cura di Willis Barnstone et al., Bantam, New York 1966
AUS
Italian Issue, a cura di Frederick May e Vanni Scheiwiller, «Poetry Australia», V (1968), 22-23, agosto
TAP
Translations by American Poets, a cura di Jean Garrigue, Ohio University Press, Athens 1970
SN
Symposium on Nationalism and World Literature in Review, «Books Abroad», XLV (1971), 2, primavera
FPS
From Pure Silence to Impure Dialogue, a cura di Vittoria Bradshaw, Las Americas, New York 1971
IPT
Italian Poetry Today, a cura di Ruth Feldman e Brian Swann, New Rivers Press, Moorhead 1979
BUC
Giorgio Orelli, a cura di Lawrence Venuti, «Buckle», V (1981-1982), 1, autunno-inverno
MSL
Anthology of Modern Swiss Literature, a cura di Herbert M. Waidson, Wolff, London 1984
ROS
The Rose in Contemporary Italian Poetry, a cura di Thomas E. Peterson, Gainesville 2000
FAB
The Faber Book of Twentieth-Century Italian Poems, a cura di Jaime McKendrick, Faber, London 2004
280
Prime ricognizioni nella bibliografia di Giorgio Orelli
inglese
spagnolo
altre lingue (ceco, ebraico, hindi, croato, ungherese)
MSL
ROS
FAB
KE
FSG
CO
TJ
SUI
CUA
MIK
EBR
HIN
FO
SLO
DI
MA
MU
1984
2000
2004
2012
2012
2013
1957
1992
2007
1984
1975
1988
1998
1999
2007
2005
2013
1
2
2
2
4
3
2
8
6
5
9
4
5
3
10
1
Antologie e riviste straniere
KE
Modern and Contemporary Swiss Poetry, a cura di Luzius Keller, Dalkey, Archive Press, Champaign 2012
FSG
The FSG Book of Twentieth-Century Italian Poetry, a cura di Geoffrey Brock, FSG, New York 2012
CO
Giorgio Orelli, a cura di Marco Sonzogni, «Contrappasso» (Sydney), III (2013), 3, agosto
TJ
Treinta jovenes poetas italianos, a cura di C. Luisi e J. Maria Podestà, Imp. Libertad, Montevideo 1957
SUI
Antologia de la poesia suiza contemporanea, a cura di M. Jurado Lopez, Ed. Aguaclara, Alicante 1992
CUA
Poesie di Giorgio Orelli, «Cuadernos de filologia italiana», XIV (2007), 14, gennaio-dicembre
MIK
Stastna setkani: moderni italska poezie, traduzione in ceco di Vladimir Mikes, Edice Klin, Praga 1984
EBR
Versione ebraica di L’estate (1957) su un quotidiano israeliano della metà degli anni Settanta
HIN
Italavi bhasha pavesh, manuale di lingua italiana in hindi a cura di Madan Lal, New Delhi 1988
FO
Traduzioni in croato di poesie europee sulla rivista «Forum» (Zagabria), XXXVIII (1998), 11-12
SLO
Traduzioni in croato a cura di Tvrtko Klaric sulla rivista «Hrvatsko Slovo» (9 aprile 1999)
DI
Traduzioni in bosniaco/croato a cura di Tvrtko Klaric, «Diwan» (Gradacac), X (2007), 21-22, giugno
MA
Traduzioni in ungherese a cura di Ferenc Szenasi, «Magyar Naplò», XVII (2005), 6, giugno
MU
Traduzioni in ungherese a cura di Ferenc Szenasi, «Müùt», LVIII (2013), 38, aprile
281
Allegato II
Poesie pubblicate una tantum
Come il sole
Sei come il sole, Grazia, che, sciogliendo
il ghiaccio sulle vette,
allor che ardente brilla,
una timida azzurra soldanella
d’un tratto fa spuntar dall’umidore:
dolce miracol di divinità.
(“Schweizerischer Studentenverein”, XI (1941), 10, giugno, p. 487)
Fugacità
Basta, stasera, un volo di libellula,
un abbaio lontano,
perché di gioia il cuor e di dolore
si colmi.
Potrebbero più rapidi i pensieri
in me sorger, svanire?
Altro fumo così sal dietro il fumo
dai comignoli spersi,
e, sorta appena l’alba, il dì si spegne!
(“Schweizerischer Studentenverein”, XI (1941), 10, giugno, p. 509)
La stanza
Stride la carrozzella è primavera
e il fanciullo strappato dalla madre
agli innocenti giochi si lamenta.
(Anche l’erica smunta
s’avvivi,
se guardi le conchiglie
che fanno da cornice
al ritratto dei Morti).
(“Corriere del Ticino”, 11 marzo 1944, p. 4)
283
Pietro Montorfani
Evasione
Col mio intatto dolore
nel bosco fanciullo
a un concavo grido mi sveglio.
Luna è dolce al palato.
Sciolgo gli occhi dai fili-della-Vergine.
(“Corriere del Ticino”, 11 marzo 1944, p. 4)
Nel folto del mattino
Nel folto del mattino
nasce grido ogni voce:
il verde dei miei occhi
s’esaspera, le nuvole si gonfiano,
primavera si muta
in estate che muore.
(“Belle lettere”, I (1945), 1, gennaio-marzo, p. 31)
Maschere di Gonzato
Il Toni tace e giudica. Remoti
trapezi, lembi della vita, dietro,
uomini pirotecnici. Pierot
s’intenerisce per un po’ di luna
che gli cresce sul capo. Pulcinella
s’è sorpreso in giardino poco fa.
(Pinocchio sorrideva innamorato).
Nel suo castello la Signora aspetta
che il Carnevale abbia di lei pietà.
E ognuno è solo. Anche il Prologo, il Vecchio,
la Mascherina dal cappello rosso
e l’Altro con il fiore in mano. Al circo
resta un pagliaccio e spara al suo feticcio.
(“Popolo e Libertà”, 30 dicembre 1950, p. 3)
284
Prime ricognizioni nella bibliografia di Giorgio Orelli
Di camelia in camelia
Di camelia in camelia − bella riva!
soffiata quasi in un nembo di polline
a precipizio sulla nostra vita −
m’accompagni il tuo lungo sguardo bruno
fino al colle gremito d’insetti
dove riaprirà persiane verdi
l’organino di un bimbo solingo
striato al petto dalla meraviglia
del sole.
Di camelia in camelia le taciute
parole ricompongano quell’aria
fedele,
m’accompagni il tuo lungo sguardo bruno.
1953
(“Svizzera italiana”, XIII (1953), 101, agosto, p. 28)
La iena
Gente è venuta. S’è bagnata i piedi
nel mare. Come per la prima volta.
Gente vestita della festa. In fretta
se n’è andata.
Occhi denti nel sole.
(«Rosetta, porta via gli sdraî, che aspetti
la tramontana?»),
occhi denti nel sole-melagrana
e braccia:
già ravvolte le tende al loro palo.
E noi adesso che facciamo qui,
uomini soli con le nostre membra
dai precisi confini?
La sabbia è sabbia. Ma questa, che giunge, la iena,
nessun m’avverte che è un cane.
Però, come tu dici, amico, andiamo,
buttiamo i nostri scheletri sul letto.
Rimini, fine d’estate 1952
(“Cenobio”, III (1954), 3-5, maggio-luglio, p. 174)
285
Pietro Montorfani
Primavera a Nocca
Bella è davvero questa primavera,
tutto questo che poco o molto ci riguarda.
Dietro il fumo che sale gentile
dall’orto c’è una calma
di bruni… Là s’appaga
nel suo blu vecchio un coccio di catino.
Tra verdi franchi s’apre il volto onesto
d’una casa.
Solo, levato su un balcone,
ravvolto nel suo sogno-impermeabile,
certo aspetta la pioggia:
dàtegli, al ragazzetto, un uovo almeno
di latta colorata, che lo possa
riempire d’orina,
gettare sulla strada al primo abbietto
passante.
Au bois il y a un oiseau − torna l’andante
affettuoso − son chant vous arrête
et vous fait rougir.
(Quarta generazione, Magenta, Varese 1954, p. 146)
Dai Rametti per una pattinatrice
I
Come remota sei
m’orienta la tua sciarpa,
i desideri miei
la tua fuga non tarpa.
Fèrmati, parpagliola,
ricomponi il tuo viso.
Ho nel tuo ghiaccio inciso
la più dolce parola.
IV
Su codesta città
il cielo è latte vecchio,
286
Prime ricognizioni nella bibliografia di Giorgio Orelli
lo smisurato orecchio
d’un mondo che si sfa.
Poi verde ed altro che
fiorisce nella luce,
un nulla riconduce
i miei passi da te.
VI
Niente niente… E le mani
nasconderle non puoi.
Dimmi quello che vuoi,
adesso, non domani.
(Quarta generazione, Magenta, Varese 1954, p. 146)
Passaggio a Milano
Ma dentro il suono di campane
a mezzogiorno
Milano è la madre
che allatta il figlio voracissimo.
La morte spia dai cortili patrizi
un asinello che non ha più fame
del suo padrone.
E il verticale scrolla
decrepito da sé nuove canzoni.
Sporca e innocente come una moneta
stende la figlia all’obolo
una mano, dall’altra
colgo il pianeta della mia fortuna.
1951
(Omaggio a Milano di poeti contemporanei, Scheiwiller, Milano 1960, p. 54)
287
Pietro Montorfani
Qui conta d’un mancino
Certi mancini, io ne conosco uno
altissimo, giocatore di bocce,
nella bocciata imprime − sul capo quel soffio
di capelli sì come nuvoletta
salita dalla forte nuca − imprime
alla boccia un tal giro, una virgola tale
ch’è stupore generale
vederla andare a segno.
Questo vecchio mancino, che al contrario
del cavallo tassesco
memoria di sue palme ancora serba,
una sera che eravamo pochi
di sotto il tiglio a guardare la gara,
falliva tutte le bocciate, e uno,
un giovinotto, gli disse: «Oramai
sei vecchio, non becchi più nulla».
«Tu quando avrai i miei anni sarai buono
solo per farne clarinetti».
Questa fu la risposta del mancino.
(“Quartiere”, III (1960), 10, dicembre, p. 19)
Battello
Viva nel lago vivo, non guardare;
se c’è qualcosa che molto rimpiangi,
se c’è qualcuno di cui soffristi,
pensato o sognato, il distacco,
tu non guardare il battello che passa,
spento nel lago spento dell’infanzia.
(Foglio volante stampato a mano da Libero Casagrande nei primi anni sessanta)
288
Prime ricognizioni nella bibliografia di Giorgio Orelli
Sant’Agata di Tremona
«Sant’Agata, ti prego, fammi passare il catarro».
Essa è là, siciliana in Isvizzera, molto diversa da come
la dipinse Sebastiano del Piombo:
ferma come una siciliana
rimasta sola nella cucina straniera
dove due lauree (Catania) della madre
sembrano appese da anni, e servono,
devono certo servire ai lombardi
della Svizzera: sappiano
del passato decoro, del presente
del passato, se mai…
E ancora sagre con suoni distanti,
così dolci. Si pensa ad una Svizzera
filtrata.
Poco importa, mia cara,
se oggi non scorgiamo la Madonnina del Duomo:
basta che mi ricordi le limpide notti
quando tu non venivi coi grandi
su questo poggio a veder bombardare Milano.
(“Cooperazione”, 21 febbraio 1970, p. 7)
289
Allegato III
Il mio villaggio
Ci fu un tempo ch’io coglievo pretesti anche futili per non tornare a casa. Parlo d’inverni
fortunatamente lontani. Vivevo solo in città, vorrei dire che resistevo, e quando arrivava
il sabato, al pensiero di prendere il treno e tornare dai miei, in montagna, stavo male.
Volevo molto bene anche allora ai miei famigliari, e sempre, di settimana in settimana,
sentivo ravvivarsi nell’intimo il desiderio di rivederli, di rivedere casa mia, il mio paese.
Era una sorta di rito che si ripeteva da anni, e ogni anno s’apriva la grande estate, la cara
stagione che dava consistenza ai miei ricuperi, che incoraggiava in me l’illusione d’avere
anch’io qualcosa d’irrapinabile, una segreta, vera proprietà. Non era dunque per motivi
propriamente familiari che m’accadeva, a fine settimana, di prendere il telefono e dire,
per esempio, ai miei: non aspettatemi, sto qui con un amico che ha bisogno di me…
Facevo un ritratto dell’amico, che c’era davvero (ora potrei convincermi che è un amico
perso: sono anni, ormai, che ci limitiamo a salutarci per strada), di qualche anno più
giovane di me, con una faccia così lunga e magra che era come se lo vedessi sempre solo
di profilo; ma che avesse bisogno di me, no, questa era una balla da fra’ Luca scaturita
dalla mia inquietudine. Non che decidessi senz’altro di non rincasare: la mia decisione
era il misero prodotto di lunghe esitazioni, di incerti tormenti per cui mi sentivo sull’orlo
quasi dello sperdimento. È una storia curiosa che ancor oggi, benché mi riesca guardarla
con un certo distacco oggettivo, ha punti o aspetti per me misteriosi. Certo è che io non
mi volgevo più al mio villaggio, come a una realtà concreta, umile, quotidiana: vedevo
la mia stessa infanzia separata da me, e la neve era una merce ostile che rendeva più
sensibile il vuoto.
Non pensavo alle valanghe, che dalle mie parti non han mai fatto disastri. Pensavo:
cosa faccio, quando esco di casa? con chi potrò parlare? Vedevo un paese di case quasi
tutte vuote, di case stranamente in attesa, stranamente vive in un’attesa di morte.
Il mio villaggio m’appariva come un luogo in cui i morti erano più vivi dei vivi; dalla
qual cosa derivava non solo un’infinita pietà dei vivi e di me, sì anche, anzi soprattutto,
uno stato d’animo per cui mi sentivo come al margine del nulla, in un’aria non giusta,
in una luce non giusta, eccessiva, che tingevano d’assurdo il quotidiano, in modo insopportabile (come insopportabili sono certi disturbi detti, se non erro, psicomotorii,
che precedono e accompagnano ogni esaurimento nervoso rispettabile). So bene che il
mio stato d’animo e l’esasperazione dell’insofferenza discendevano anche da un amore
sostanzialmente sbagliato della vita. Posso dire che non amavo, non concepivo la vita né
dannunzianamente né hemingwaianamente, bensì piuttosto nel senso suggerito da una
frase di Leopardi, questa: «La vita debb’esser viva, cioè vera vita, o la morte la supera
incomparabilmente di pregio».
Ho, in seguito, meditato sovente su questa affermazione, cercando di illuminare
quelle quattro parole che l’iniziale v legava come in una formula matematica: vita viva –
vita vera. Ma il fatto sta che la parola stessa vita sembrava a disagio nella mia mente: era
291
Pietro Montorfani
nella mia mente al modo d’una trota che non raggiunge la misura tra le mani d’un pescatore indeciso (in questi casi, sapete bene, accade non di rado che la trota fugga da sé,
torni al suo fiume, salvando se stessa… e il pescatore). Bisognava, per sentirmi di nuovo
«tranquillo» tornando al mio paese, restituirmi a un amore più discreto della vita; e fu
allora, tra l’altro, che certe parole lette nei libri cominciarono ad essere non più soltanto
parole per me, ma vitale nutrimento, verità che attraversano la mente come lame. Finalmente mi dicevo non invano che «maturare è tutto», che un «paese ci vuole, non fosse
per il gusto d’andarsene via» (Shakespeare e Pavese, come molti sapranno).
Fu allora che capii meglio il primo canto dell’Inferno di Dante e mi resi più esattamente conto dei trabocchetti crociani: capii la paura e la speranza dell’altezza, gustai la
straordinaria bellezza del canto. (Mi ricordo che cominciai a guardare con occhi diversi
le montagne del mio paese, e i fili a sbalzo…). Allora mi parve chiaro quel che succede in
Petrarca, quando, rifacendosi a un verso di Virgilio («majoresque cadunt altis de montibus umbrae»), scrive «cade / da gli altissimi monti maggior l’ombra»; cioè perché l’aggettivo alto diventi altissimo: e come da Virgilio e dal Petrarca si possa giungere a Dino
Campana («Noi vedemmo sorgere nella luce incantata / Una bianca città addormentata /
Ai piedi dei picchi altissimi dei vulcani spenti…»). Venne anche il giorno che fu di
nuovo possibile per me scrivere del mio paese: scrissi una poesia di nemmeno trenta
versi, ma che mi sembrava lunghissima. Sono quattro strofe, o meglio momenti, diversi e
inseparabili. Nella prima c’è soprattutto immobilità, tutto sembra raggelato in una luce
funerea (ma scrivendo «in questa conca / scavata con dolcezza dal tempo» pensavo a mia
madre): «Una luce funerea, spenta / raggela le conifere / dalla scorza che dura oltre la
morte, / e tutto è fermo in questa conca / scavata con dolcezza dal tempo: / nel cerchio
familiare / da cui non ha senso scampare».
Il secondo momento è occupato dai morti più vivi dei vivi. C’è un interno leventinese
e un’allusione al mito (diciamo così) della razza bruna. (Le capre ingorde che accade di
vedere d’inverno a Prato Leventina sono quelle dei dalpesi. Prato è il paese che per anni
fu onorato dalla presenza della più bella vacca del cantone. Eccetera, eccetera):
«Entro un silenzio così conosciuto / i morti sono più vivi dei vivi: / da linde camere
odorose di canfora / scendono per le botole in stufe / rivestite di legno, aggiustano i
propri ritratti, / tornano nella stalla a rivedere i capi / di pura razza bruna».
Il terzo momento comincia con un ma abbastanza improvviso (e isolato): pensare
uno che, come per richiami interni, contempla. Io contemplo la vita, voglio dire una vita
fuori di me, di ragazzi che sono anche proiezioni di me stesso ragazzo (ricordo non solo
il gusto che tutti i ragazzi di questo mondo hanno dell’avventura, ma anche la situazione
particolare dei pochissimi ragazzi del mio paese, la loro noia, il loro cercare e inventare
e ubbidire ai richiami, ai carillons più impreveduti): «Ma, / senza ferri da talpe, senza
ombrelli / per impigliarvi rondini; / non cauti, non dimentichi in rincorse, / dietro quale
carillon ve ne andate, / ragazzi per i prati intirizziti?» È una sorte d’«allegro moderato»,
cui segue un movimento molto lento. Infatti, l’ultima parte si compone di versi brevi e
lunghi separati da punti fermi di natura più rilfessiva che contemplativa.
Scrivendo quei versi con gli «oggetti» a due a due («La cote è nel suo corno», «Il
pollaio s’appoggia al suo sambuco»), pensavo anche a certi dipinti di Morandi, che è il
pittore da me preferito. I falangi sono quei ragni dalle gambe lunghe, a me molto familiari (soprattutto mi tennero compagnia in servizio militare, durante la guerra, ossia durante la non-guerra, negli interminabili servizi di guardia). La clausola, che culmina nella
parola vita, è necessariamente sospesa: «La cote è nel suo corno. / Il pollaio s’appoggia
al suo sambuco. / I falangi stanno a lungo intricati / sui muri della Chiesa. / La fontana
con l’acqua si tiene compagnia. / Ed io, restituito / a un più discreto amore della vita…»
292
Prime ricognizioni nella bibliografia di Giorgio Orelli
Occorre dire che non è per superbia che ho commentato questa mia poesia? Altrove
ho parlato del mio villaggio, di me e del mio villaggio, sempre cercando di essere onesto,
di non fare il passo più lungo della gamba. Penso che ogni problema stilistico, ogni sforzo di conoscenza, sia anche un problema morale. Ogni scrittore degno di questo nome
è un uomo in media humanitate, affronta sempre un compito che non gli offre altro
scampo se non quello di assolverlo onestamente.
[Pubblicato in C’è un solo villaggio nostro, a cura di Pier Riccardo Frigeri, prefazione di
Felice Filippini, Edizioni Cenobio, Lugano 15 agosto 1972, pp. 137-141. Corrisponde
forse (o in parte) a Il mio villaggio, contributo per la trasmissione Nero su bianco, a cura
di Ugo Fasolis, Radio della Svizzera italiana, 20 ottobre 1963].
293
GIOVANNI ORELLI
Una testimonianza
1. Caro Giovanni, la tua lunga militanza di scrittore e di insegnante ti ha reso un
autorevole e attento osservatore dei fatti di cultura. Cosa è oggi la cultura italiana
in Svizzera, quali i suoi tratti riconoscibili e quanto puoi riconoscerti nelle generazioni di insegnanti e intellettuali che operano nel paese?
La domanda è gigante (cosa vuol dire essere svizzero, che rapporto c’è tra-fra
lingua e dialetti?) È complessa e, volendola rispettare, bisognerebbe lavorarci
su più giorni, e magari precipitare nel libro breve: concediamolo. Non lo farò.
Mi limito a restringere la “nozione cultura” (termine anche da noi cotto in
tantissime salse) al pur vastissimo settore della lingua. L’italiano. Non oso giudicare se il Ticino faccia molto o a sufficienza o poco per difendere e valorizzare
la SUA lingua, nel dialogo confederale. Per ragione di lavoro (insegnante) in
vita ho dovuto dar molti (troppi) giudizi (le note) e ora, vecchio, vorrei un poco
frenarmi. Ma svizzeri di lingua tedesca e di lingua francese difendono le loro
parlate, contrastando forse più di noi ticinesi l’invadenza dell’inglese. Hanno
ragione o sono un po’ troppo nazionalistini? Non ricordo più chi, tempo fa,
faceva l’esempio, per il nostro computer, dei Francesi che dicono ordinateur; e
gli spagnoli computadora. I ticinesi, ma anche molti italiani (sto ai pochi giornali
che guardo) sono convinti che usare (“dent per dent”, “int par int”, ogni tanto)
la parola ingese e non la nostra, faccia più chic, più “moderno”, più “su”.
2. È noto il tuo lungo impegno nella società e sui mezzi di comunicazione, dalla radio, alla televisione ai quotidiani. Come è avvenuto questo dialogo, quali i fatti che
hanno attirato la tua riflessione ? E oggi, che una distanza forse maggiore separa le
generazioni di un tempo, quale è la possibilità di un “dialogo” con i più giovani?
Se parto dalla parola “impegno” (parola che pure conta nella mia vita: che l’abbia onorata non giudico, né quanto al bene né quanto al male) posso così semplificare. Intanto nella mia vita gli impegni importanti non sono stati molti. Uno
di somma importanza è quello del pater familias. Per la formazione dei figli, tre,
l’apporto della madre è fondamentale, e quello di mia moglie è stato intenso ed
esemplare. I figli sono, e credo di non sbagliare, migliori dei genitori. Poi ci sono
pochi impegni, che qui dirò per praticità abbreviativa, pratici.
Quanto al lavorare, che non ho mai scansato, in età giovanile, e anche dopo,
nella stagione buona, l’estate, c’erano i lavori del contadino su in montagna.
Come falciatore mi meritai uno dei più graditi consensi della mia vita: quello
295
Giovanni Orelli
di un “professionista” della falce che vedendomi falciare su una scarpata mi
interpellò, prendendomi per uno di loro, e parlando bergamasco, con «di dove
sei tu?» Poi venne la narrativa, la prima. Eccetera.
I giovani? Quelli di un minoranza che non so quantificare mi sembrano in
alcune cose più fortunati di me: per esempio parlano bene, disinvolti, anche se
scivolano volentieri nel discorso “elegante” ma anche inconsistente. Io e anche
altri eravamo, ai nostri tempi, ecco, più impacciati. Salto qui l’argomento, qualche argomento, della loro e della mia narrativa. Sì, il mestiere è complicatino.
Uso volentieri la parola “mestiere” perché è bene imparare bene il mestiere che
si vuol fare o che si deve fare. Per quel che riguarda il mio, fare l’insegnante, al
centro la lingua italiana, mi interessava sì leggere Dante (il numero 1) o il non
facile Gadda, ma anche mi premeva far fare ginnastica con nomi e verbi, e non
solo al passato remoto e gerundio, che il dialetto non usa ecc. ecc.
3. L’alta Leventina (Bedretto) e poi, dagli anni sessanta, Lugano. Di ciò testimoni
in uno dei romanzi più importanti che la cultura della Svizzera italiana ha prodotto
negli anni sessanta, L’anno della valanga (Mondadori, Milano 1965) Cosa ha significato l’appartenenza a questa “doppia” patria nella tua formazione e nella tua azione?
Le mie patrie si riducono a due, Bedretto e Lugano. Negli anni dell’infanzia,
patria amata, oltre la Svizzera, era la Francia del nord-est, dove li maschi della
valle andavano circa dai Morti a Pasqua a fare i marchand d’ marrons, a vendere
castagne arrostite. Dal ’39 in poi, mio padre dovette sostituire Saint-Dizier con
Zurigo; e Zurigo mi è sempre stata città cara (liebe). Grasshoppers compreso.
4. Veniamo al rapporto con tuo cugino Giorgio, su cui verte questo convegno: con
lui hai condiviso radici montanare e dimensione umanistica. Ragioni familiari e
letterarie hanno nutrito il vostro rapporto durante lunghi anni: in che modo? e
quali le differenze fra voi?
Con il cugino Giorgio abbiamo sempre parlato dialetto, anche se si parlava quasi sempre di cose letterarie, Jakobson o Benedetto Croce. Perché tanto per lui
quanto per me le occasioni per parlarlo si facevano, si fanno, sempre più rare.
Quanto al carattere, fra di noi le differenze erano minori rispetto alle somiglianze. Lui era molto disinvolto, ironico, cittadino anche, vestito con cura. Io un po’
più “dialettale”.
5. Giorgio Orelli è forse stato più poeta e critico, tu hai frequentato con maggiore
equilibrio prosa e poesia. Entrambi, accanto alla lingua avete poi avuto il dialetto.
Cosa induce uno scrittore ad affidare la testimonianza della propria presenza all’una
o all’altra via? cosa reca in dono quel duplice registro linguistico? Quali i pericoli?
296
Una testimonianza
Il dialetto era istintivamente adottato anche perché credevamo nelle risorse del
dialetto per il nostro scrivere. Per spiegarci certe parole italiane, per penetrare
meglio una parola tra le altre che una lingua come quella italiana, nel suo vasto
arco dal raffinato al popolare elargiva. Giorgio era forte anche nell’anneddotica,
nei ritratti, nel muoversi come faceva dal divertente al malizioso, nel valutate (dal
generoso all’impietoso) scrittori (un po’ più sul generoso) le donne: diciamo un
po’ come il don Giovanni del Da Ponte-Mozart: «d’ogni forma e d’ogni età».
6. Per Giorgio e per te la letteratura è stato nutrimento quotidiano, “sale della
terra” (per ricordare il titolo dell’ultimo bel film di Wenders) e la vostra passione
ha contagiato i più giovani. Cosa cela la parola “letteratura”?
La nostra era effettivamente una passione. Ma dire che abbia contagiato i più
giovani è affermazione eccessiva. Ha forse “provocato”, stimolato qualche giovane, per certi “contenuti” per alcune scelte linguistiche, per un certo gioco
stilistico. Faccio un esempio mio. Il libro Un eterno impefetto, Garzanti 2006, è
una raccolta di poesie con titoli grammaticali, che sembrano rubati a una grammatica. Una di queste poesie (abuso anch’io, come tantissimi di questo termine?
una volta un po’ più raro e impegnativo?), p 117, ha per titolo Sdrucciole (parola
comune usata a scuola) e non l’aristocratica “proparossitone”. In questo mio
testo di 12 versi ci sono 27 parole sdrucciole; con cui mi “diverto”, oltre che con
altri divertimenti come le rime e altri giochini.
La smetto di divertirmi perché c’è anche, nel dodicesimo verso, l’ultimo,
un innocentissimo errore, uno dei 200… errori del giorno. Un errore che oso
attribuire al tipografo: ed è un non errore, una svista: io finivo il testo dedicato
a Eloisa e Abelardo, ma il te, pronome di Eloisa, va scritto senza accento, e non
con l’accento, come nel libro. Perché il tè con l’accento è un’altra cosa. Scrivo
queste banalità-ovvietà per invitare alcuni (spero pochissimi) lettori a non automaticamente inveire contro l’autore se trova un errore.
Giovanni Orelli
P.S. Per alcune questioni qui di necessità appena accennate mi permetto di rimandare
con altro al Carteggio 1900-1941 tra Brenno Bertoni e Francesco Chiesa, da me curato
insieme con Diana Rüesch, Casagrande, Lugano 1994; con un occhio all’Introduzione
e al commento alle lettere. In particolare quella del 28 maggio 1925, che ha per tema
l’infelice risultato della votazione sulle assicurazioni sociali. Alla circostanziata lettera
del Bertoni risponderà il Chiesa, 29 maggio, per un totale consenso col Bertoni e per
fare un ritratto durissimo all’indirizzo dei politici («… la grande maggioranza dei nostri
dirigenti non sentono e non sanno che cosa è la Svizzera né cosa è il Ticino. Tutto da
rifare, anzi da fare»).
297
Studi
14. Eugenio Treves, Niccolò Barbieri detto il Beltrame, comico del secolo XVII. Saggi dispersi e
inediti, a cura di G. Baldissone, pp. 48, euro 15,49.
15. Federico Maria Giuliani, Diritto e pensiero. Prolegomeni, pp. 48, euro 10,33.
18. Pasquale Grignaschi, Vita quotidiana durante la campagna di Russia (1942-1943). Il diario
fotografico inedito di un alpino sul Don, con un testo di M. Rigoni Stern, pp. 200, euro 20,66.
20. Sentieri poetici del Novecento, a cura di G. Ladolfi, pp. 136, euro 12,91.
21. Piermario Ferrari, Ragioni e passioni politiche. Gli editoriali di “Città dell’Uomo” 1995-2000,
con testi di L.F. Pizzolato e B. Sorge, pp. 80, euro 12,91.
23. Pier Paolo Saviotti, Lucia Simonin, Vera Zamagni, L’Istituto Guido Donegani. La storia delle
ricerche dall’ammoniaca ai nuovi materiali, a cura di V. Zamagni, pp. 296, euro 20,66.
24. Giuliano Ladolfi, Per un’interpretazione del Decadentismo, introduzione di E. Gioanola, pp.
64, euro 10,33.
25. Gian Maria Capuani, Claudio Malacrida, L’autonomia politica dei cattolici. Dal dossettismo
alla Base: 1950-1954, pp. 96, euro 10.
26. Maria Pia Alberzoni, Città, vescovi e papato nella Lombardia dei comuni, pp. 296, euro 25,82.
27. Sentieri narrativi del Novecento, a cura di R. Carnero e G. Ladolfi, pp. 104, euro 12,91.
28. Giuseppe E. Sansone, Poesia catalana del Medioevo. Antologia, pp. 256, euro 25,82.
29. Per una teologia del cuore. Studi offerti a monsignor Renato Corti nel decennio del suo episcopato novarese, con un testo introduttivo del cardinale C.M. Martini, a cura di P.D. Guenzi, pp.
256, euro 20,66.
30. Carte di viaggi e viaggi di carta. L’Africa, Gerusalemme e l’aldilà, Atti del convegno, Vercelli 18
novembre 2000, a cura di G. Baldissone e M. Piccat, pp. 146, euro 20.
31. Rileggiamo i classici, a cura di R. Carnero e G. Ladolfi, pp. 160, euro 15.
32. Nicolò Barbieri, L’inavertito, a cura di G. Baldissone, con un saggio di I. Scanzio, pp. 176,
euro 20.
33. Giuseppe Anceschi, Maestri di un’Italia civile, pp. 256, euro 20.
34. Carlo Dionisotti, Boiardo e altri studi cavallereschi, a cura di G. Anceschi e A. Tissoni Benvenuti, pp. 232, euro 20.
35. Gli Amorum libri e la lirica del Quattrocento con altri studi boiardeschi, a cura di A. Tissoni
Benvenuti, pp. 264, euro 20.
36. L’oro e l’alloro. Letteratura ed economia nella tradizione occidentale, a cura di G. Ioli, pp. 168,
euro 20.
37. «Parlar l’idioma soave». Studi di filologia, letteratura e storia della lingua offerti a Gianni A.
Papini, a cura di M.M. Pedroni, pp. 376, euro 20.
38. Sentieri narrativi stranieri contemporanei, a cura di R. Carnero e G. Ladolfi, pp. 112, euro 15.
39. Carlo Mario Maria Bolchi, Satana, le fiere e gli angeli. Il Vangelo secondo Marco, con una
nota di G. Piana, pp. 232, euro 20.
40. Tina Matarrese, Parole e forme dei cavalieri boiardeschi. Dall’Inamoramento de Orlando
all’Orlando innamorato, pp. 224, euro 20.
41. Sentieri poetici stranieri contemporanei, a cura di F. Italiano e G. Ladolfi, pp. 112, euro 15.
42. Marco Corradini, La tradizione e l’ingegno. Ariosto, Tasso, Marino e dintorni, pp. 220, euro
15.
43. Sentieri poetici nelle arti contemporanee, a cura di G. Ladolfi e F. Italiano, pp. 96, euro 12.
44. Il principe e la storia, a cura di T. Matarrese e C. Montagnani, pp. 592, euro 30.
45.Ada Ruschioni, Dante e la poetica della luce, pp. 142, euro 15.
46. Le parole del sacro. L’esperienza religiosa nella letteratura italiana, a cura di G. Ioli, pp. 288,
euro 20.
47. Giuseppe Anceschi, Corti e cortigiani. Arte di governo e buone maniere nella vita di corte, pp.
152, euro 15.
48. Speciale tg. Forme e tecniche del giornalismo televisivo, a cura di G. Simonelli, pp. 344, euro 28.
49. Corpi letterari. L’esperienza sportiva nella cultura contemporanea, a cura di G. Baldissone e E.
Tortarolo, pp. 168, euro 15.
50. Letteratura e sport. Per una storia delle Olimpiadi, a cura di G. Ioli, pp. 304, euro 20.
51. Piermario Ferrari, Passioni per il pensiero. Dialoghi e percorsi, presentazione di E. Masseroni,
pp. 192, euro 20.
52. I luoghi di Nicolò dell’Abate. Pitture murali e interventi di restauro, a cura di A. Mazza, pp.
320, euro 25.
53. Boiardo, Ariosto e i libri di battaglia, a cura di A. Canova e P. Vecchi Galli, pp. 552, euro 30.
54. Filippo Fonio, Le storie di san Giuliano Ospitaliere, presentazione di G. Baldissone, pp. 212,
euro 30.
55. Parole nel vento. I migliori saggi critici su Bob Dylan, a cura di A. Carrera, pp. 232, euro 18.
56. Le biblioteche scolastiche. Un microcosmo?, a cura di T. Paracino, pp. 60, euro 10.
57. Gli spazi della letteratura, a cura di R. Carnero e G. Ladolfi, pp. 96, euro 15.
58. Silvio Biancardi, La chimera di Carlo VIII (1492-1495), II ed. con presentazione di G. Andenna, pp. 824 + XXXII, euro 25.
59. Luigi Rossi, Il Piemonte in Europa. 500 anni di emigrazione dalla valle Vigezzo: la famiglia
Farina e l’acqua di Colonia, presentazione di M. Bresso e T.A. Migliasso, con sintesi in tedesco,
pp. 172, euro 22.
60. Cavalcare la luce. Scienza e letteratura, a cura di G. Ioli, con un testo di R. Levi Montalcini, pp.
160, euro 20.
61. Filippo Maria Ferro, L’anima dipinta. Scritti di arte lombarda e piemontese da Gaudenzio
Ferrari a Ranzoni, introduzione di G. Romano, pp. 280, euro 20.
62. Giuliano Ladolfi, Per un nuovo umanesimo letterario, pp. 96, euro 15.
63. Per Elio Gioanola. Studi di letteratura dell’Ottocento e del Novecento, a cura di F. Contorbia,
G. Ioli, L. Surdich, S. Verdino, pp. 480, euro 40.
64. Miscellanea boiardesca, a cura di C. Montagnani, pp. 136, euro 18.
65. Boiardo, il teatro, i cavalieri in scena, a cura di G. Anceschi e W. Spaggiari, pp. 288, euro 22.
66. Marcello Venturi: gli anni e gli inganni, a cura di G. Capecchi, pp. 280, euro 20.
67. Poesia civile. Contributi per un dibattito, a cura di G. Baldissone, pp. 80, euro 12.
68. Boiardo a Scandiano. Dieci anni di studi, a cura di A. Canova e G. Ruozzi, pp. 176, euro 20.
69. Le muse cangianti. Tra letteratura e arti figurative, a cura di G. Ioli, pp. 120, euro 20.
70. Speciale tg. La messa è finita, a cura di G. Simonelli, quinta ed. aggiornata, pp. 296, euro 28.
71. Lettura dei Canti di Giacomo Leopardi, a cura di E. Fumagalli, C. Genetelli, G. Pedrojetta, pp.
232, euro 20.
72. Davide Maggi, La valutazione della performance nelle aziende pubbliche locali. Rapporti tra
organi di governo e dirigenti, pp. 116, euro 15.
73. Mario Apollonio, Dante. Storia della Commedia, a cura di C. Annoni, pp. 800 c., euro 48.
74. Elisabetta Filippini, Questua e carità, pp. 256, euro 25.
75. Narrare la città. Tratti identitari, linguistici e memoria della tradizione a Novara, a cura di G.
Ferrari e M. Leigheb, presentazioni di P. Garbarino e C. Petrini, pp. 120, euro 16.
76. Pietro Pedeferri, Titaniocromia (e altre cose), con un testo di M. Corti e una poesia di A.
Merini, pp. 176, euro 15.
77. Discutere e agire. Una sperimentazione di democrazia deliberativa a Novara, a cura di G. Balduzzi e D. Servetti, pp. 132, euro 15.
78. Prigione di trincee, in preparazione.
79. Gina Lagorio. «Respirare Piemonte», pp. 160, euro 20.
80. Cristina Salanitri, Scienza morale e teoria del diritto naturale in Guglielmo di Ockham, pp.
224, euro 20.
82. Laura Angela Ceriotti, Food strategy e multifunzionalità nella filiera corta del riso, pp. 208,
euro 18.
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Pietro Micca 24, 28100 Novara, tel. 0321 612571 fax 0321 612636 www.interlinea.com