IL CORRIERE DIPLOMATICO Regia di Henry Hathaway (1952
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IL CORRIERE DIPLOMATICO Regia di Henry Hathaway (1952
IL CORRIERE DIPLOMATICO Regia di Henry Hathaway (1952) Washington, 1950. l’Europa è divisa tra controllo americano e sovietico, grazie al controspionaggio il Dipartimento di Stato americano riesce ad intercettare un messaggio che rivelerebbe dei piani estremamente pericolosi per la stabilità politica mondiale (la data dell’invasione della Yugoslavia da parte dell’Unione Sovietica). Il corriere diplomatico Mike Kells viene quindi ingaggiato al fine di partire alla volta di Parigi per poi raggiungere Salisburgo, dove l’agente e amico Sam Carew, solitamente d’istanza a Bucarest, deve consegnargli la documentazione segreta. Sull’aereo per Parigi Mike incontra una fatale ed avvenente Joan Ross, vedova americana di un console statunitense, che sembra non perdere troppo tempo a cadere ai suoi piedi, dimostrandosi incantata dal suo fascino. L’idillio però non sembra decollare; una volta giunto in Austria, Mike prende il treno per Zagabria, nel quale ha appuntamento con Sam, misteriosamente accompagnato dalla bionda Janine. Lo scopo dell’incontro è naturalmente lo scambio dei documenti, ma qualcosa va storto. Attraversando una galleria al buio e provocando un black out, le spie sovietiche riescono a gettare dal convoglio Sam, uccidendolo quindi prima che egli possa parlare con Mike. Deciso a scoprire cosa sia accaduto e chi sia la donna misteriosa, quest’ultimo, aiutato dal servizio segreto dell’esercito americano, segue a ritroso le tracce dell’amico ucciso. Arriva così a Trieste, dove incontra nuovamente Joan e cerca di scoprire la vera identità di Janine, che si dice amante di Sam, ma che in realtà viene smascherata dall’intelligence come collaboratrice del servizio di spionaggio sovietico. Mike subisce il suo fascino, la ragazza sembra innocente e tra mille peripezie, inseguimenti e corse mozzafiato, la matassa si dipanerà, le autentiche spie si riveleranno come tali, il piano verrà alla luce e il protagonista riuscirà, in un romantico happy end, a scovare il microfilm che conteneva i documenti segreti e a strappare la bella (Janine) dalle grinfie del Nemico. Il Corriere diplomatico è un film girato nel 1952 dal marchese Henri Leonard de Fiennes, in arte Henry Hathaway, regista dei più conosciuti, fra i tanti: I Lancieri del Bengala, Il Grinta e Il Solitario del Rio Grande. Ispirato al romanzo Sinistre Errand, di Peter Cheney, uscito poi in Italia con i titoli Missione pericolosa e A colpi di mitra, il film ha tutti gli ingredienti per essere considerato una vera e propria spy story. In quel periodo la settima arte si nutriva di generi cinematografici ed aveva superato quella fase degli anni Trenta in cui la sua funzione consisteva solo ed unicamente nel divertire gli spettatori e nel far dimenticare la triste realtà con cui erano costretti a confrontarsi quotidianamente. Questa produzione commerciale di stampo hollywoodiano, per quanto si esprima in un discorso filmico dallo schema abbastanza classico, ha in sé una forte originalità, soprattutto nel delineare il protagonista, Tyrone Power, in quegli anni già noto al grande pubblico. In questa pellicola egli interpreta il ruolo di un agente fascinoso e sprezzante del pericolo, che ricopre in nuce la figura della spia americana che verrà dal freddo e che, nei successivi Sessanta e Settanta, entrerà in forma stereotipata nell’immaginario collettivo grazie alle sue armi migliori: un’accattivante ironia e una abile astuzia nel confrontarsi non solo con le spie sovietiche, ma anche con le più affascinanti icone dell’universo femminile. Il Corriere diplomatico appartiene ad un periodo precedente, è una delle prime pellicole ad affrontare in modo palese e non convenzionale le tensioni della guerra fredda e Tyrone Power, pur non indossando il classico trench beige e il cappello a falda, risulta molto più verosimile di un James Bond, nei panni di un eroe involontario coinvolto, alle volte sembra suo malgrado, ad inseguire in false piste, donne fatali, sagome di uomini, in pedinamenti mozzafiato e spericolati ed improbabili salti da auto in corsa. L’ambientazione stessa è verosimile, non solo perché il film non è stato girato interamente negli studios, ma perché a fare da sfondo al plot è dapprima una timida Salisburgo e poi una vivacissima e contemporanea Trieste, occupata dagli Alleati, che all’interno del suo Territorio Libero, focalizzato da un primo piano chiarificatore e palesemente esplicito, vanta un covo di spie sovietiche e americane non di poco conto. Trieste, una città ricca di etnie e popoli, che fino a qualche anno prima convivevano sotto un'unica bandiera austriaca nell’interesse economico del Porto Franco, una città rivendicata e voluta dagli jugoslavi alla fine del secondo conflitto e che, due anni più tardi dell’uscita del film, sarebbe stata reintegrata nello Stato italiano, ma ancora degna di essere definita quindi “cortina di ferro” di un’Europa ormai divisa politicamente e ideologicamente in due blocchi. Quella che il giornalista americano Walter Lippmann chiamò intelligentemente Guerra Fredda e che sappiamo esser nata dopo la fine della seconda guerra mondiale continuò per decenni, alimentando le forze profonde che nutrivano la tensione tra Est e Ovest, consumandosi nella realtà di ogni giorno e in qualsiasi città di confine. Per fortuna fu una guerra, per l’appunto, mai combattuta sul campo, vissuta nel conflitto ideologico fatto di propagande, spionaggio, appoggio economico o militare (si pensi al piano Marshall che, tra il 1948 e il 1952, intervenne attivamente per accelerare la ripresa economica dei paesi dell’Europa occidentale, cercando contemporaneamente di contenere gli aiuti degli schieramenti comunisti e rafforzando così un legame d’interdipendenza con gli stessi Stati Uniti d’America). Ci insegna Propp che in ogni favola l’eroe cerca il proprio oggetto del desiderio e che per sopperire alla mancanza iniziale dello stesso, deve subire diverse peripezie, superando ostacoli, confrontandosi con gli alleati, lottando con il Male per poi far trionfare il Bene. Senza soffermarci in parallelismi tra favola e film già da altri ampiamente affrontati e discussi, ci interessa evidenziare che in questa pellicola, come in tutti i film di genere, tutta la trama ruota, vive e si nutre nella ricerca del messaggio in codice - il piano da rubare -, della formula da decifrare, da analizzare, da comprendere prima che sia troppo tardi, prima che la fine si avvicini. Questa era la grande paura, sentita, in misura maggiore, all’interno della dimensione americana, che svelava una crisi d’identità notevole da parte di una comunità che non riusciva a riconoscersi più come una volta. Negli anni Quaranta e Cinquanta la caccia alle streghe e ai simpatizzanti del partito comunista da parte del senatore McCarthy riuscì a soffocare e perseguitare qualsiasi forma d’arte e di espressione che poteva essere ritenuta pericolosa per il potere dominante, perché non assoggettata a quest’ultimo e quindi pericolosamente indipendente, minacciosa perché poteva aprire un varco ai comunisti e consentire la loro invasione del territorio americano. La sottile ombra d’angoscia che la guerra fredda proiettava e l’effettivo pericolo che la Cina rappresentava durante quegli anni intervenendo attivamente alla guerra di Corea, dal 1950 al 1953, subentrarono in una clima già teso. Assieme alla tensione che nasceva da una situazione di politica estera delicata, affiancava il timore dell’invasione una paura ancora più inquietante. Essa si esplicava nel sospettare il nemico da qualunque parte, nascosto, infiltrato, mimetizzato nella propria società e nelle propria comunità. Per questo bisognava essere vigili ed attenti e per questo, riferiti a quel periodo, sono numerosissimi i giuramenti di fedeltà alla bandiera americana e le denunce che trascinano in tribunale con l’accusa di filocomunismo qualsiasi americano medio. Hollywood non ne fu immune. Il cinema venne gravemente influenzato dal nuovo ruolo che l’America, da sempre investita nel ruolo di paladina di giustizia, democrazia e libertà, assunse in qualità di potenza imperiale in tutto il mondo. E le produzioni hollywoodiane esprimevano questi sentimenti, basti pensare che quattro anni dopo la presentazione del Corriere diplomatico uscì nelle sale L’invasione degli ultracorpi, nel quale il regista Don Siegel palesò in una prospettiva futura, ricoperta di patina fantascientifica, gli effetti della paura d’omologazione umana. Il film di Hataway anticipa un po’ i tempi, ma ha l’arguzia di focalizzare i punti caldi, le situazioni reali in cui si potevano concretizzare e vivere le situazioni d’intrigo internazionale più sofisticato. Se le spie riescono, nella dimensione diegetica ma anche in quella reale, a mimetizzarsi nella stazione di Salisburgo, in un’Austria divisa tra il controllo americano e quello sovietico, o a generare un black out ed ammazzare un uomo a bordo di un treno diretto a Zagabria, il nemico, l’altro, il diverso, lo sconosciuto può essere chiunque e ovunque. E’ facile capire come anche la Trieste di allora, piena di americani, inglesi, titini, antititini, italiani, nostalgici filoaustrungarici, non avesse nulla da invidiare ad una Vienna o ad una Istanbul. Il microfilm, vero protagonista della pellicola, contenente un piano completo di una probabile invasione della Jugoslavia, che genererebbe una crisi internazionale, può quindi venir custodito da un'inconsapevole portinaia di un palazzo di via Capitolina, mentre un apparente venditore di orologi fasulli, contatto tra il protagonista e l’amante dell’amico spia ucciso, può venir investito di notte da un'auto in piena corsa, in piazza Hortis. Così la bella Piazza Grande, l’antico castello di San Giusto, le Rive, il Ponterosso con la chiesa di Sant’Antonio Nuovo, il tribunale e il Teatro Romano fungono da sfondo e da protagonisti, immersi nella realtà diegetica del primo caso e nella realtà storica nel secondo. Quel realismo che è ancora presente in Hathaway, sfumerà nel sorriso sornione di chi avrà licenza di uccidere.