Wired for sex - Dipartimento di Scienze sociali e politiche

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Wired for sex - Dipartimento di Scienze sociali e politiche
WIRED FOR SEX
Pornoperformatività in rete
Emanuela Ciuffoli
Introduzione
“Sexercise yourself!” sembra oggi essere l’imperativo di una società che
non ha solo moltiplicato, come già espresso da Foucault, la discorsività sul
sesso, ma che propone piuttosto una pornificazione delle pratiche di
costruzione della relazione all’altro e al proprio sé. Le palestre più in voga
propongono corsi di lap dance per tonificare i glutei e accrescere la
consapevolezza, i filmini hard fanno la fortuna di personaggi come Paris
Hilton o Pamela Anderson, il sex design offre soluzioni chirurgiche per la
“messa in forma” dei genitali: la performatività corporea è sempre più
connessa alla messa in scena della sessualità. Lauren Langman (2008)
interpreta questa varietà di processi e fenomeni culturali – recuperando
l’analisi dell’opera di Rabelais effettuata da Bachtin e gli studi di Marcuse
sulla “desublimazione repressiva”- nell’ottica di una carnevalizzazione
della società, vale a dire di una espressione assieme trasgressiva e
desublimata di istanze che, pur eccessive, aggressive e scatologiche,
finiscono con l’essere trasformate in strumenti del/dal sistema dei
consumi. Insieme parte integrante dell’attuale sistema produttivo ed
escrescenza che non può essere mai completamente rimarginata, il porno
mantiene con il sistema culturale in cui è inserito anche degli spazi di
frizione e incandescenza che ne fanno uno strumento creativo e irredento
di agency, come testimoniato dai numerosi progetti di pride porn o DIY
(acronimo di “Do It Yourself”, con cui si indica, in questo caso, una
modalità autoproduttiva di materiale X-rated) riscontrabili in rete.
Da tempo difatti il web si è configurato come lo spazio prediletto per la
diffusione di immaginari sessuali che mescolano il piacere del protocollo
(Pixxxel project) - la perfetta combacianza di sintagma e paradigma – a
produzioni scabre, volutamente negligenti e disadorne, imperfette come
l’esistenza di ciascuno di noi. In questo empornium ad alto tasso
tecnologico, l’economia spinge sempre di più su pratiche mediate di
costruzione del sé attraverso il consumo libidinale (Lyotard, 1978) della
propria e altrui biografia (Hard scanning), generando una erotica da (inter)
connessione che coinvolge in particolar modo le donne (Faster Pussycat!
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Link! Link!) in una ridefinizione del rapporto ambiguo e trasversale che
lega l’immagine del corpo al corpo dell’immagine.
La revisione delle politiche e delle estetiche dei corpi e dei generi
transitano dunque intrecciando autoproduzione, performance sessuale,
biografia, seguendo tragitti che sfumano dal conciliante al distonico, dal
soft al delirante. Il netporn secerne difatti soggettività conflittuali e
contraddittorie, difficilmente mappabili se non cedendo a cartografie irte di
buchi neri, tagli desideranti, incandescenze. Di qui la sua vicinanza alla
science fiction, entrambi generi capaci di coniugare vertiginosamente
freddezza hitech e immaginari scorticanti, alterità e possibilità, leggerezza
e irrespirabilità. Generi accomunati da logiche ri-combinatorie in cui la
ripetizione si configura sempre come una sfida alla plasmablità infinita del
corpo e dell’immagine.
1. PiXXXel project
Una pornomusa a cubetti posa ammiccante mostrandosi nuda su un
letto, adagiata su un tavolo da biliardo, in piedi accanto ad una finestra. La
quadrettatura di pixel trasforma il corpo della donna in una ironica
costruzione di Lego “per adulti”. Fatta a dadini la Venere hard rimbalza sul
web, tra un blog e un altro. Così composta, la carne si fa oggetto di visual
design, esaltando la relazione tra lo sguardo e la tecnologia che lo perturba.
Per il terzo numero di Amusement Magazine (novembre/dicembre 2008,
amusement.fr), il fotografo francese Jean-Yves Lemoigne propone un
servizio, Pixxxel, interamente dedicato alla pornificazione degli
immaginari digitali e alla pixellizzazione degli immaginari sessuali.
L’operazione è di una immediatezza e di una efficacia straordinarie. Dopo
anni di riflessioni teoriche su corpi disincarnati, cybersex e lussurie da
connessione, questo soft-core “al cubo” enuncia con sintesi superba il
legame indissolubile che il porno intesse con i processi di esibizione del
codice. Poiché il porno, per motivi di censura, è sovente stato costretto ad
intrecciare con i protocolli, siano essi normativi che estetici, un rapporto
quanto mai stretto, che continua a passare reversibilmente dalla completa e
pedissequa adesione alla trasgressione più feroce.
Il perverso è colui che applica la legge alla lettera (Deleuze, Guattari,
1972; Lacan, 1978), colui che sfugge il regno della metafora per portare ad
una perfetta coincidenza tra le proprie pratiche e il funzionamento della
Legge. A=A. Il regno dell’hard fonda la sua capacità di proliferazione
2
sull’esaltazione della tautologia, sistema di senso talmente nitido da finire
con l’essere sempre prossimo al collasso.
Ecco cosa visualizza quindi il servizio fotografico di Lemoigne: la
“digitalizzazione del desiderio” attraverso la binarizzazione protocollare
della carne. Blocchetti di 0 e 1 si incarnano sullo schermo svelando la
spinta indicibile del nostro rapporto all’altro: farlo a pezzi. Per poi
montarlo e rismontarlo infinite volte come Poupée bellmeriana. Fare del
corpo una immagine a mattoncini, rendere l’altro e, sempre più spesso, noi
stessi, una scultura malleabile e proteiforme su cui proiettare frammenti di
godimento e desideri di metamorphing. Il dispositivo di sessualità
teorizzato da Foucault si abbina infatti quotidianamente a tecnologie di
rappresentazione che contribuiscono alla accelerazione di quel “reflexive
project” (Giddens, 1991) instabile e mosso mediante cui il soggetto
contemporaneo agisce la “ri-creazione” del sé.
L’ambito del BDSM (Bondage Dominazione, SadoMaso) è forse quello
in cui questa “sessualizzazione” del codice appare in tutta la sua forza
fondativa. Occorre infatti saper godere del protocollo fino a trasformarlo in
una sorta di elemento terzo che triangola il rapporto sessuale mediandolo e
accelerandone le direttrici che lo sconnettono dal coito. Si può quindi
pensare di estendere a una discreta parte di netporn ciò che afferma
Burroughs quando, nel prefare il ballardiano La mostra delle atrocità,
scrive che “le radici non sessuali della sessualità qui sono esplorate con
una precisione chirurgica” (2001, p.7).
2. Empornium
La democratizzazione dei mezzi di produzione e distribuzione di
prodotti mediali ha avuto come effetto anche l’abbassamento dell’età di chi
produce materiale hard. L’immagine ormai antiquata del vecchio
imprenditore sporcaccione che si contorna di conigliette è infatti stata
sostituita da una molteplicità di figure imprenditoriali che comprendono
anche giovani studenti/esse del college. H bomb, rivista soft core prodotta
dagli allievi di Harvard e, soprattutto, la più celebre Boink. College Sex By
The People Having It, dei colleghi della Boston University, sono anche
online (boinkmagazine.com) ed hanno fatto parlare gli Stati Uniti per il
loro utilizzare i luoghi del sapere come set per shooting a luci rosse. Il
fenomeno editoriale studentesco è indice, a suo modo, di quella che viene
definita la “pornificazione” della cultura contemporanea. Se da sempre,
infatti, l’hard ha assorbito dalle produzioni mainstream titoli, narrazioni e
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simboli – parodiati con ironia e ironica sfacciataggine – ora accade più
spesso che siano i generi di massa e ambiti come l’arte e la moda a
sfruttare gli stilemi del porno per le loro produzioni. Dalla collezione di
Versace intitolata Bondage, negli anni ’80, il sado-chic e, più in generale, il
porno chic, sono stati sdoganati, entrando a far parte di una discorsività
allargata e globalizzata. Tale processo ha però portato anche, in molti casi,
ad una normalizzazione del genere, ad un appiattimento delle
rivendicazioni politiche del porno anni ’70, a favore di più annacquate
estetiche connesse alle logiche del consumo di massa. Si assiste così ad un
proliferare di porno per tutti i gusti: una customizzazione che mira a
connettere l’immagine hard ad istanze di ogni genere. Zenporn.com offre
una spruzzatina new age a foto soft core, mentre fuckforforest.com sposa il
sesso a richieste ambientaliste. Titillating tofu eaters1 è il divertente
sottotitolo del sito vegporn.com, interamente dedicato alla pornografia
vegana, dove è possibile acquistare vibratori a energia solare e preservativi
eco-compatibili. Un porno “sostenibile”, insomma, che racconta in modo
divertito come il web sia una sorta di sconfinato empornium digitale, in cui
l’hard si mescola ai life-style in modo da raggiungere capillarmente ogni
nicchia di mercato. Ne risulta spesso una richiesta d’appartenenza che
trasforma il desiderio del singolo in pratiche comunitarie. Il consumo di
sesso deve potersi connettere ad ogni identità: ecco quindi spiegata anche
la proliferazione di forum e siti teocon americani in cui si tenta
un’applicazione di “canoni cristiani” alla rappresentazione esplicita.
xxxchurch.com è un progetto ormai attivo da alcuni anni: sul sito si può
acquistare il kit per le pornodomeniche in parrocchia: giornate dedicate
alla lotta contro la dipendenza da consumo di materiale hard, incontri
impiegati a spiegare con dovizia le supposte insidie nascoste dietro a siti,
blog e sexcommunity. Uno dei più alti esempi di cortocircuito da
pornificazione è forse mybelovedesgarden.net, dove è possibile esplorare il
vasto catalogo di lingerie e sex toys “rispettosi del credo”: espressione
traducibile in una ridicola cancellazione della carne delle modelle ritratte
sulle confezioni. Genitali e seni vengono difatti sfumati così da garantire
una opacità in qualche modo più consona ai dettami religiosi. Come a dire
che l’hard è hot solo fino al momento in cui “mette a fuoco” le membra e
photoshop può più che l’astinenza. Per chi crede che la fede sia questione
di editing...
Molti sono i casi, invece, in cui i le immagini porno vengono ad
affiancarne altre relative agli interessi del blogger o dell’utente che le
Perdendo purtroppo parte dell’effetto sonoro, la frase si potrebbe tradurre in
italiano con: “Titillanti mangiatori di tofu”.
1
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mette online: graffuck.com abbina ad esempio testi hard a fotografie di
opere di urban communication come stencil, graffiti e stickers.
Drivenbyboredom.com, invece, mescola scatti hard e gallery di feste ed
eventi. Alcuni esempi a testimonianza della diffusione di un porno spurio,
sottratto alle classiche cornici e spesso incastonato in contesti indie o
alternativi. Un porno che gioca di sponda, saltabeccando da Flickr a blog
di ogni genere, vaporizzato tra le maglie irregolari del web. Un porno
sempre più personal - come suggerito dall'indagine di Federico Ferrazza
(2008) - che attecchisce in ogni mezzo di comunicazione e diviene pocket,
un porno portatile come nel caso dell’iPhone (tra tutti i siti fornitori di
prodotti hard dedicati al cellulare della Apple si consulti, per una veloce
comprensione della tipologia di servizio, iphoneporngrid.com). Così la
notizia strillata dai quotidiani2 di un crollo della percentuale di accessi a
siti hard a favore di un incremento esponenziale della fruizione di social
network come Facebook appare cieca rispetto ad una realtà, quella del
porno, già da tempo fortemente ibrida e intimamente connessa a tutte le
pratiche di file sharing. Tanto che forse non ha neppure più senso parlare di
porno amatoriale (argomento centrale, invece, per i porn studies3, fino ad
un paio di anni fa) ed operare una distinzione sulla base del livello di
professionalizzazione e di industrializzazione dei mezzi di produzione e
diffusione dei testi. Piattaforme come redtube o youporn hanno enfatizzato
il ruolo attivo degli utenti, assurgendosi in poco tempo a paradigma di
riferimento anche per l’industria dell’hard mainstream – ormai in
affannosa rincorsa dei pullulanti fenomeni editoriali online - e palesando
tra l’altro la forte adattabilità del porno ad estetiche rifratte, orizzontali,
vocate al decoupage.
Si legga, ad esempio, l’articolo del Time dedicato all’argomento:
time.com/time/business/artiche/0,8599,1678586,00.html
3
L’espressione indica un insieme di approcci transdisciplinari nati attorno al porno
non solo in quanto genere testuale, ma piuttosto come insieme di pratiche e
tecnologie del sé. Maggiormente diffusi in ambito statunitense, i porn studies si
collocano spesso all’intersezione tra gli studi di genere e i media studies (con
particolare rilevanza, soprattutto inizialmente, nell’ambito degli studi sulla
cinematografia). Per un approfondimento sui diversi approcci teorici all’argomento
si consigliano il volume a cura di Linda Williams, Porn Studies (2004, Duke
University Press, Duram and London), l’interessante e innovativa raccolta a cura di
Katrien Jacobs,, Marie Janssen e Matteo Pasquinelli C’lick me: a Netporn Studies
Reader (2007, Institute of Network Cultures, Amsterdam) e la ben documentata
ricerca di Pietro Adamo Il porno di massa. Percorsi nell’hard contemporaneo
(2004, Raffaello Cortina Editore, Milano).
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Libido streaming: l’espressione coniata da Monica Baroni (2006) in una
sua riflessione su genere e tecnologie ben sintetizza dunque il modo in cui
l’economia libidinale turbocapitalistica, essenzialmente fondata sulla
produzione e il consumo di desideri individuali, si attui mediante modalità
di fruizione di rete caratterizzate da accelerazione, mutevolezza, assenza di
censura. Testualizzati, gli immaginari sessuali si uploadano e si
downloadano in un flusso digitale che trasforma la condivisione in un
processo erotizzante. Sharing is sexy è, non a caso, il nome scelto da un
porno-collettivo queer con base a San Diego, che esalta il piacere
orizzontale dato dall’appiattimento delle gerarchie e dalla
compartecipazione alla proliferazione di iconografie di ogni sorta. Erotica
da consumo mediato, intinta nel sapore ambiguo di un’intimità dislocata e
reticolare. Sessualità virale che spinge alla medialità e alla (meta)
produzione interattiva come nella diffusa pratica del tributo4.
Pop porn, porn flakes (pornflakes.it): ingredienti ormai a larga
diffusione per un utilizzo ludico, provocatorio, a tratti compiaciuto e
sardonicamente beffardo delle ricette che mescolano sesso, politica,
economia nella f/cucina del visuale contemporaneo.
3. Hard Scanning
La scansione tecnologica di lacerti di biografia avviene soprattutto sulla
soglia. Sul bordo l’io abbraccia la delizia equivoca del denudarsi
rimanendo velati.
In aeroporto, ad esempio, la radiografia del bagaglio trasforma in una
immagine in technicolor una incrostazione di vissuto. Allo stesso modo
sulle interfacce delle piattaforme online – vere e proprie soglie digitali -,
sui profili di Facebook e degli altri social network, gli individui inscenano
le loro predilezioni sessuali, lo stato sentimentale, le preferenze. Così lo
scanning è assunto dal soggetto stesso, che offre la propria bioradiografia
come innesco relazionale. “Il coming out – afferma Lancaster – è diventato
una caratteristica generale della cultura politica americana. Chiunque può
Pratica che prevede che l’utente di un’immagine hard la stampi e, per celebrarne
il gradimento, la bagni con il proprio sperma per poi uploadare in rete una seconda
immagine a testimonianza dell’avvenuto contagio tra liquido organico e immagine
iniziale. Spesso il tributo prevede anche effetti di “postproduzione”. Si potrebbe
pensare il tributo, ironicamente, come una trasposizione organica dei feed con cui
si gerarchizzano i contenuti di piattaforme quali YouTube.
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emergere dalla negazione, evasione, e dal segreto, per abbracciare
un’identità pubblica. Dobbiamo tutti decidere per noi stessi cosa significa
essere un uomo o una donna, essere neri o bianchi, avere un corpo
piuttosto che un altro. Tutti si dichiarano, oggi” (cit. in Baroni, Gribaldo,
2008, p.65). La coazione al dirsi compone in qualche modo però anche le
tracce dell’instabilità del soggetto stesso. Ormai detto, estroflesso in un
suo abbozzato doppio virtuale, il soggetto infatti è obbligato a relazionarsi
a sé anche come oggetto. È il soggetto a istituire quindi la propria
“oggettità”, a pretendere il diritto al farsi feticcio. Così il gioco di
costruzione sceneggiata del proprio io online muta anche il genere porno,
irradiandolo di una personalizzazione sempre più manifesta. Siti come
deviantnation.com accompagnano le foto hard delle ragazze a note di
profilo. In altri casi è possibile leggere i post delle protagoniste e dei
protagonisti degli scatti e dei video su Twitter. Il feticcio smette in tal
modo di essere ventriloquo e prende a parlare con sillabe proprie,
fondando il proprio valore sull’accostamento di pose fotografiche e
accenni biografici. In qualche modo il racconto del sé consente
all’immagine di garantire la consistenza del vissuto, trasformando le
pratiche di ego-casting in strumenti di fidelizzazione degli utenti.
Micronarrazioni irrorano le gallery suggerendo universi di interessi,
atteggiamenti e consumi.
Il cut up zigzagante e sincretico di immagini, suoni, citazioni testuali,
commenti, affermazioni con cui ognuno di noi apparecchia il proprio
tavolo binario è strumento seduttivo, con cui si incita al gioco sessuale del
mangiare e del farsi mangiare. Ma è forse proprio il mostrare con serena
sfacciataggine questo processo metabolico, a fare del porno un genere
tanto attaccato e denigrato. Occorre in questo senso rimarcare come siano
ancora molto vivi i tentativi censori nei confronti dell’hard, considerato
sovente principio eziologico di buona parte di crimini a sfondo sessuale. Se
l'Italia tenta di superare la crisi economica con gli introiti della pornotax,
molto recentemente alcuni stati si sono dotati di leggi antipornografia che
spesso nascono dalla spinta emotiva connessa ad efferati casi di cronaca.
La Gran Bretagna, ad esempio, ha inserito nella discussione sul Criminal
Justice and Immigration Act, una serie di misure che intendono punire il
consumo di immagini che ritraggono scene violente, di necrofilia e di
zoofilia, siano esse reali o simulate5. La qualificazione delle immagini,
La legge è stata approvata in seguito all’omicidio di Jane Longhurst ad opera di
Graham Coutts, il quale ha più volte affermato di aver sviluppato una dipendenza
da pornografia gore su internet, sostenendo che, se non fosse esistito il web, la
donna sarebbe ancora viva. Molto peso nella vicenda ha avuto la madre della
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definite degradanti e abominevoli, indica la soggettività e l’intento
moralizzatore della crociata antiporno portandoci però a porre un
interessante interrogativo: il testo hard esegue l’individuo, forse, così come
lo si può dire di un’applicazione informatica?
La risposta, obbligatoriamente ambigua, in alcune righe di Cioran:
«ogni desiderio umilia l’insieme delle nostre verità, e ci obbliga a
riconsiderare le nostre negazioni (…). Nella vita di tutti i giorni si
alternano la cosmogonia e l’apocalisse: creatori e demolitori quotidiani,
pratichiamo su scala infinitesimale i miti eterni; e ogni nostro istante
riproduce e prefigura il destino di seme e di cenere attribuito all’Infinito»
(1996, p.95). La macchina desiderante, sostengono Deleuze e Guattari
(1972), non funziona che guastandosi. In questo movimento ondulatorio e
irredento che randomizza priorità e valori, l’individuo è insieme innesco e
ingranaggio di un processo che gli appartiene solo nella misura in cui se ne
lascia perturbare. Il desiderio spinge infatti il soggetto alla rottura, lo
avviluppa in una grammatica barbara, che oscilla volentieri tra il
parossismo e la negligenza. Così è l’immagine a fare irruzione, a mettersi
in anticipo sul soggetto stesso, a precederlo di un soffio.
Il porno concede ad ognuno di esperire gli eccessi e la
contraddittorietà della relazione mediate al sé e all’altro, oscillando
vertiginosamente tra estetiche liminali e piena conformità alla
codificazione mainstream. Ma l’(im)pertinenza non s’appoggia
semplicemente al genere, essa è piuttosto affidata ai corpi, alla loro
singolarità. Corpi ispidi, levigati, rissosi o capricciosi. Corpi
eccentrici, normalizzati, fruscianti o sardonici. Corpi spinti da
immaginari che minacciano fusioni illecite, sostenuti da pratiche
irredente o, più semplicemente, ubriacati di desiderio. È questa
panoplia di corpi granulari a concedere posizioni non pacificate, a
rompere le metafore fluide lasciando che lo sguardo s’inceppi sulla
viscosità del piXXXel.
4. Faster Pussycat! Link! Link!
vittima, che è riuscita a far firmare da più di 50.000 persone una petizione contro il
genere hard. In Australia, invece, il governo ha introdotto misure che tentano di
limitare il consumo di pornografia da parte degli aborigeni considerandolo diretta
causa dell’ingente quantità di violenze perpetrate sui minori e le donne all’interno
di questa minoranza.
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Le amazzoni erotiche dei film di Russ Meyer oggi imbracciano il mouse e
apparecchiature digitali. Si mostrano su siti come suicidegirls.com,
deviantnation.com o ishotmyself.com e cavalcano il web sulla spinta
dell’appropriazione (o, almeno, della rielaborazione) del genere hard.
Per molti versi eredi di Annie Sprinkle, numerose donne sono infatti al
contempo produttrici e consumatrici di immagini porno. Le sfumature,
concernenti le motivazioni che spingono ad una sempre più diffusa attività
femminile nell’industria dell’hard, sono innumerevoli. Esibizionismo,
curiosità, business, noia, piacere, attivismo politico: le variabili che
concorrono al consumo e alla produzione spaziano da motivazioni
psicologiche a interessi economici e rivendicazioni politiche. Ciò rende
impossibile ingabbiare in una lettura unica la relazione che intreccia
attualmente le donne al porno. Se da un lato è sempre più diffuso un
atteggiamento compiacente, alla Girl gone wild, attraverso cui le ragazze
pornificano i propri atteggiamenti e comportamenti per aderire ad un
modello femminile più aggressivo ed esplicito, dall’altro emergono sempre
più produzioni di pride porn, in cui il genere è utilizzato proprio per
decostruire immagini femminili stereotipate e banalizzanti. In molti casi il
riferimento è al post-porn modernism e al pensiero di tutte quelle attiviste
che hanno trasformato il loro corpo in un campo di esplorazione per
testualità inedite e inaudite.
Sex worker, porn performer, artista poliedrica e provocatrice, Annie
Sprinkle è la madre del post porn. La sua biografia Post- porn Modernist.
25 anni da puttana mediale (2005), racconta infatti la volontà di
allontanarsi dal porno mainstream per avviare una decostruzione critica del
genere a favore della rappresentazione di desideri altri, differenti. I suoi
progetti, assieme a quelli di Veronica Vera e altre artiste/attrici, puntano a
scorticare i codici dell’industria dell’hard a favore di produzioni
eterodosse, sguince, irregolari. Tale processo è stato da alcuni anni
trasformato in fenomeno di costume dall’attività di marketing
dell’industria culturale, che ha mostrato particolare attenzione alla liason
dangereuse tra donne e genere X. Basti ricordare il Porno Manifesto di
Ovidie (2003), star dell’hard francese, le confessioni autobiografiche della
Breillat o le fortunate pagine del recente Zone umide.
Musa a se stessa, la donna intende ora essere oggetto e soggetto della
rappresentazione, posizionandosi contemporaneamente davanti e dietro la
macchina fotografica o la telecamera, esplorando i propri desideri e
moltiplicando sessualità e godimento. La revisione delle politiche dei corpi
passa dunque attraverso la negoziazione, assieme problematica e
cospiratoria, di uno dei generi più carichi di stereotipi maschilisti. Gli
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approcci, in questa direzione, sono multiformi e spesso anche in conflitto
tra loro: alcuni progetti prediligono un’azione abrasiva, che procede per
spellamenti dei dualismi ed effrazione dei luoghi comuni; altri prediligono
il mimetismo e giocano simulando la posizione del dominante.
Girlswholikeporno.com, per anni uno dei più interessanti laboratori digitali
di attivismo femminista intorno all’hard, si è in qualche modo
cristallizzato ultimamente in una dolente sospensione, rilasciando però
spore creative che si sono insinuate in altre realtà editoriali, pratiche e
teoriche che, come nel caso di postporno.blogspot.com mirano “alla
risessualizzazione della sfera pubblica e alla rilettura del discorso
normativo”6 ponendo quale obiettivo della propria azione la decostruzione
di ruoli e morfologie. Gioiosamente destabilizzante anche O.R.G.I.A.
(Organización Reversible de Géneros Intermedios y Artisticos;
besameelintro.blogspot.com), progetto di rielaborazione pop, acida e
promiscua dei confini tra generi (nel doppio significato di genre e gender),
linguaggi e forme espressive
Dunque la donna non è più solo oggetto del discorso pornografico –
condizione che per anni ha incendiato il dibattito tra femministe radicali e
femministe liberali, soprattutto negli Stati Uniti-, poiché essa stessa si
riposiziona scegliendo la reversibilità dei ruoli, l’instabilità dello sguardo
e, in alcuni casi, del limite tra i generi.
«Are you a man or a woman?» «Yes»7. Beatriz Preciado spalma
testosterone in gel sulle sue braccia: unguento che texturizza il suo corpo
nella direzione di quel Manifesto Contra sexual, che l’ha resa controversa
protagonista delle riflessioni queer degli ultimi anni. Poiché il sabotaggio
delle dicotomie esistenti vira spesso verso l’emergere di un terzo termine
che non si lascia collocare nelle griglie interpretative esistenti, producendo
una slabbratura di significato che passa per l’alterazione del corpo e del
desiderio.
I contorsionismi dei generi di massa, la moltiplicazione delle pratiche e
delle tecnologie di engendering (de Lauretis, 1987) consentono pertanto di
mescolare la riflessione su transessualità / transgenica / transgenere e di
organizzare una performatività sempre mancante o in eccesso, ad ogni
modo tenacemente votata alla perlustrazione del limite. Tra schermo e
carne prende forma un “materialismo radicale” (Baqué, 2004)
completamente intinto nella trasformazione epistemologica imposta
dall’innestarsi delle tecnologie digitali sugli immaginari popolari.
Traduzione mia di parte della dichirazione d’intenti inserita nel blog.
“Sei un uomo o una donna?” “Sì”. Frammento di dialogo dal film Gendernauts di
Monika Treut, 1999.
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7
10
Tra le numerose net-artist che si sono focalizzate su tale processo, Shu
Lea Cheang ha saputo sospingere l’attenzione verso l’ambito delle
modificazioni/manipolazioni genetiche e del loro innestarsi su orizzonti
erotizzati dalle tecnologie e cybercorpi fluidificati dalle reti. L’opera a cui
mi riferisco è I.K.U8, nelle parole dell’artista stessa, un «pastiche
intenzionale di Blade Runner” (T.d.A)9. Il primo comincia difatti
esattamente dove il secondo finisce: un origami abbandonato su un
corridoio, un ascensore. Tra le pieghe di un cartaceo unicorno la pellicola
si condensa in una produzione digitale che rende al film di Scott quella
sessualità volutamente mantenuta ai margini («This was not called love. It
was sex» sono, non a caso, le frasi che punteggiano ossessivamente le
scene hard della pellicola).
«Early in the 21st century, the GENOM CORPORATION advanced the
sexual revolution into the gen-XXX – a being virtually identical to a
human – known as an I.K.U. coder (…)10». «Iku» è il termine giapponese
per «orgasmo»; i replicanti della Cheang sono infatti «XXX data hunter»,
creature
specializzate
nell’esplorazione
della
sessualità
e
nell’immagazzinamento di informazioni connesse al piacere sessuale. Tali
dati vengono inizialmente stoccati nella memoria dei replicanti, in seguito
inseriti in microchip che, connessi ad un server mediante il Net Glass
Phone, consentono agli utenti di ottenere stimoli sessuali e piacere senza la
necessità del contatto con altri essere umani. La frizione corporea è, in
questo caso, completamente sostituita da un processo di connessione
reticolare che invia i segnali di godimento direttamente al cervello. Ad un
eccesso di astrazione corrisponde però l’esigenza della penetrazione, gli
IKU coders possono infatti ottenere i dati esclusivamente penetrando gli
umani con il loro braccio/fallo/scanner. Si inverte così la relazione uomotecnologia, giacché il primo «diventa insomma, per così dire, l’organo
sessuale del mondo della macchina» (McLuhan, 1968, p. 56). D’innanzi
alle innumerevoli critiche e analisi culturali focalizzate sull’obsolescenza
del corpo, l’immaginario fantapornografico riconduce il sapere ad
un’aptica in cui è il simulacro a toccare, a incunearsi nel corpo.
Il film è stato presentato e premiato al Sundance Film Festival del 2000. Le
citazioni in lingua inglese che spiegano la narrazione sono tratte dall'introduzione
testuale al film stesso.
9
Dall’intervista “Shu Lea Cheang. Un genre en soi”, in X-ELLES. Le sexe par les
femmes, Art Press, Paris, maggio 2004.
10
“All’inizio del ventunesimo secolo la GENOM CORPORATION promosse la
rivoluzione sessuale attraverso il gen-XXX – un essere virtualmente identico ad un
umano – chiamato I.K.U. coder (…)” (T.d.A).
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Abbandonati gli scenari statunitensi del film di Scott, l’artista taiwanese
mette in scena le proprie Reiko – questo il nome delle sexy-replicanti – in
un’ipotetica New Tokyo, dove dovranno, tra sushi-bar e club di lap dance,
collezionare il maggior numero di informazioni sessuali. Caratteristica
fondamentale del corpo mutante delle Reiko è l’essere sempre
modificabile in base ai desideri del cliente: vulvamorphosis che consente
l’accettazione dell’alieno cancellando il processo di alienazione
(Sobchack, 2002). La modificazione corporea rimane infatti connessa alla
volontà e all’immaginario dell’altro, rinforzando l’evidenza di uno
scivolamento storicamente affermatosi da un’erotica della bambola
(magnificamente condensata nelle giunture mobili della Poupée di
Bellmer) ad un’erotica ipertecnologica del clone e della protesi (Baqué,
2002)11. Pornografia e fantascienza condividono in effetti soprattutto
questo: «il tentativo dell’immagine stessa di considerarsi corpo e di
smontarsi-rimontarsi, di funzionare come un’eterna dissolvenza,
scomposizione e ricomposizione di sé» (Ghezzi, 1984, p. 10). In questo
senso va allora letta la scelta della Cheang di girare in digitale, ma di
rendere l’immagine visivamente affine al formato 35 mm. Consistenza e
granulosità pellicolari per un testo «infestato», semanticamente e
strutturalmente, dall’immaginario hi-tech delle manipolazioni genetiche e
dall’effervescenza delle reti.
Nel film l’attività delle Reiko è ostacolata da Tokyo Rose, una
replicante-virus della BIO LINK Corporation (un’azienda concorrente) che
assorbe e ruba i dati immagazzinati nel Reiko Biomatic Disk: il politico,
come affermato precedentemente, è economico (anche nel senso
etimologico del termine, come qualcosa, cioè, che afferisce il domestico e,
per estensione, il sé).
In seguito all’attacco virale, la Reiko si ricarica masturbandosi,
configurandosi quindi come macchina celibe: meccanismo reiterativo che,
fondendo erotismo e pulsione di morte, tortura e meraviglia, si dispiega
nell’apoteosi del “circolo vizioso”, poiché l’algoritmo che lo muove non
conosce sfinimento (Carrogues, 1989; Deleuze, Guattari, 1972)12.
Indubbia, in questo processo, l’influenza del videogioco. Si potrebbe pensare
infatti una rilettura di IKU utilizzando come punto di partenza i game studies.
12
Nel suo studio dedicato a un insieme di macchine fantastiche presenti in
letteratura (la Colonia Penale di Franz Kafka, l’Eva futura di Philippe A.M.
Villiers, ecc.), Carrogues prende in prestito la definizione di macchina celibe da
Marcel Duchamp e ne elenca così le caratteristiche: “Una macchina celibe è
un’immagine fantastica che trasforma l’amore in meccanica di morte”, essa “si
presenta innanzitutto come una macchina inverosimile”, la cui logica “si fonda su
una base matematica” (1989, pp 17-18). Deleuze e Guattari, mutuano il concetto
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12
La macchina celibe, di cui il porno è attualissimo esempio, gioca così
sul creare e disfare connessioni, sul funzionamento autoreferenziale, la
spinta alla replicazione e la simultanea affermazione sul mercato. In questo
panorama discorsivo ad alto tasso tecnoerotico il consumo si innesta
pertanto sulla dissipazione in un movimento circolare e auotogenerativo.
Per la Cheang, l’attingere a due generi, la science fiction e il porno, che
presentano notevoli affinità concettuali e formali nel loro approccio al
corpo, serve soprattutto a sottolineare come la soglia tra simulazione e
stimolazione (sin-ulation) sia labile e continuamente posta in questione. La
replicazione degli orgasmi e dell’eccitamento garantita dagli I.K.U. chip si
inscrive nella ripetizione più hard, nella reiterazione ossessiva della copia,
così capace di annullare la differenza, la genealogia tra l’originale e la sua
riproduzione. «Amo questo senso della ripetizione, l’idea di una nonsceneggiatura o di una sceneggiatura decisamente orientata (T.d.A)13». Nel
porno, così come nella science fiction, «si afferma un più radicale e
strutturale capovolgimento, per cui il modello appare essere già un
‘doppio’, è insomma il replicante a essere il fulcro e l’orizzonte della
fabula» (Ghezzi, Ivi, p. 10). «L’invasione degli ultracorpi» è, in questo
caso, consegnata ad una deflagrazione di digi-corpi avatarici su cui giocare
l’ambiguità del godimento e della sua trasposizione in testo: la
«copulazione degli ultracorpi». Copulazione sempre sottratta alla
procreazione, votata piuttosto alla rigenerazione epide(r)mica, virale,
polimerizzata. Tra una replica e l’altra scarti di senso che consentono al
fantaporno di fare della reiterazione lo strumento capace di consegnare la
visione ad una pressione profondamente corporea: dalla retina alla materia
grazie a quell’effetto pulsativo intelligentemente preconizzato da Duchamp
nella sua opera rotatoria Anemic cinema.
Ma IKU, questo va sottolineato, forse perché frutto di una
sperimentazione artistica e di una riflessione sui generi operate da una
donna, è scevro di quell’iconografia gore che da alcuni anni costituisce il
principale elemento di connessione tra hard e fantascienza. Esso si sottrae
volutamente alla saturazione di gesti e segni per riconsegnarsi piuttosto a
modalità espressive calibrate, spesso vicine ad uno stile che si potrebbe
definire «elettro-minimal», in cui il corpo e lo spazio sono «architettati»,
concepiti per i protocolli informatici e le interfacce digitali. La Cheang
sfugge così al rischio sempre presente del collasso del genere,
per porre in relazione la dimensione produttiva del desiderio e quella
dell’antiproduzione (nei loro termini, quindi, le macchine desideranti e il corpo
senz’organi).
13
Dall’intervista della Cheang precedentemente citata.
13
svincolandosi dalle modalità esacerbate di narrazioni strutturate su corpi
violentemente battuti, sfondati, squassati.
La morte, sia essa individuale o della specie, è il fantasma sempre
evocato, il fulcro e l’approdo di qualsiasi anatomia. La morte è la
condizione principale di qualsiasi parallelismo tra hard e fantascienza,
poiché se il primo «è una forma dolce, conviviale dello sterminio. (…) di
uno sterminio assolutamente positivo, di una positivizzazione perfetta
dell’inumano» (Baudry, 1997, p. 230, T.d.A), il secondo pulsa sotto
l’incubo della catastrofe e dell’annichilimento dell’umanità. Così entrambi
i generi spingono e poi richiamano l’essere umano dall’abisso che lo sta
per inghiottire, trattenendolo per un lembo, esponendolo nei suoi eccessi,
scrutandolo in tutta la sua umettata oscurità.
Allora il corpo, come testimoniato da buona parte dell’arte
contemporanea, volge volentieri al postumano non solamente per il suo
rifiuto dell’innato e del naturale, ma anche per la sua insistenza su alcune
caratteristiche dell’umano, lascivamente condotte al parossismo. Così
l’ingordigia genitale dei replicanti “sfonda” il concetto di umanità
esacerbandone metonimicamente una sola peculiarità. L’immaginario
ballardiano connesso alla macchina, all’hardware, cede la scena ad una
complessa relazione tra wetware e software. Siamo, come sostenuto da
Terri Senft, “pornographized cyborg” (terrisenft.net): creature pigmentate
da iconografie hard e inesorabilmente connesse a forme di sessualità
sempre più digitalizzate, soggetti immersi in una pornoperformatività
plurale e mobile.
Non a caso proliferano i siti e le produzioni artistiche incentrati
sull’impatto delle bioscenze e delle tecnologie digitali sul desiderio. Su
humanupgrades.com14, viene pubblicizzata la Lust surgery, una forma di
chirurgia dedicata alla lussuria: clitoridi palmari, lingue vaginali,
multicapezzoli. Le derive teratogene fantascientifiche, che da sempre
figurano il corpo come un pluriverso esacerbato ed instabile, si innervano
su panorami ipersessuati, modellando i corpi attraverso morphing estremi.
Il concubinaggio tra le tecnologie dell’immagine e quelle medicali
perviene ad inusitate videoscopie della carne (si pensi alle “vulvascopie” di
alcuni film porno) ma anche alla creazione di corpi in cui le modificazioni
fisiche e genetiche sono orientate alla feticizzazione estrema del
frammento: XXX-files.
Nonostante l’apparente ufficialità della homepage, il sito è l’esito di un
esperimento/provocazione ideato da un artista ceco.
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