LA PARALISI DELLA CRITICA: LA SOCIETÀ SENZA OPPOSIZIONE

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LA PARALISI DELLA CRITICA: LA SOCIETÀ SENZA OPPOSIZIONE
LA PARALISI DELLA CRITICA: LA SOCIETÀ SENZA OPPOSIZIONE
CRISI DELLA RAPPRESENTANZA COLLETTIVA E RETE DELLE SOLITUDINI
Ciclo di quattro giornate seminariali - per una nuova consapevolezza - curate dalla Fiom-Cgil Roma e Lazio
http://www.fiomromalazio.it/2016/02/informatica-e-non-solo-ciclo-di-4-giornate-seminariali-curate-dalla-fiom-roma-e-lazio/
14 Marzo 2016 | La teologia del capitalismo (e della tecnica) | 2a giornata
Appunti – di Lelio Demichelis
* docente di Sociologia economica presso l’Università degli Studi dell’Insubria
La fine delle ideologie. E delle idee.
L’immaginazione al potere: era lo slogan scritto sui muri di Parigi, nel maggio del 1968. Celebre, innovativo.
Rivoluzionario soprattutto, perché investiva la sfera culturale prima che politica o sociale. Perché
rivoluzionaria era l’idea di portare al potere non un’ideologia, una classe sociale ma l’immaginazione:
concetto insieme vago, indefinibile ma tremendamente affascinante. Allora sembrava che l’Utopia –
vecchia conoscenza degli uomini e delle società - rinascesse a nuova vita. In realtà, quella è stata l’ultima
volta che gli uomini l’hanno desiderata e cercata. Perché l’immaginazione andata poi al potere non è stata
quella degli uomini (come soggetti che pensano la loro Utopia), ma quella pensata e indotta da tecnica e
capitalismo, traducendola (e tradendola) da immaginazione auto-noma (la vecchia idea di Progresso) a
immaginario etero-prodotto: la tecnologia come nuovo feticcio, l’innovazione tecnica (abbandonatea
l’innovazione sociale e politica) come unica innovazione possibile. Tecnica e capitalismo che hanno saputo
trasformare l’essenza critica del Sessantotto (usando le parole di Marco Revelli) “in modalità di
funzionamento del nuovo modello produttivo – traducendo l’antropologia della rivolta in antropologia del
nuovo stile di produzione”, perché, come sosteneva Herbert Marcuse “la società industriale avanzata
riduce al silenzio e concilia con sé l’opposizione”. Anestetizza il conflitto, induce alla collaborazione e alla
cooperazione per sé, producendo l’egemonia di sé.
La Grande Narrazione di tecnica e mercato. 1
Con il 1989 è finita anche la storia (secondo F. Fukuyama) perché sono morte anche le ideologie
novecentesche (il marxismo),con la vittoria del liberalismo e della libertà (in realtà del capitalismo). E
l’Utopia è morta perché il suo essere un buon posto dove vivere insieme è stato sostituito da una infinità di
micro-utopie individuali o di gruppo/ceto (benessere, consumismo, edonismo, televisione, pc e rete,
telefonini, videogiochi, social network basati sull’amicizia), l’Utopia divenendo qualcosa di diverso da ciò
che era (oggi è merce e non più progetto, è consumo e non più durata, è virtualità e non più possibilità
reale). Ma una società senza Utopia (o senza un sogno, un progetto di sé e per sé) è una società morta. E la
società attuale è appunto una società morta perché svuotata di Utopia e riempita da illusioni/allusioni di
utopia o di utopie che sono non-luoghi (come i centri commerciali: perfetti, protetti, razionali), non-luoghi
di utopia che non sono Utopie; e di offerte di libertà individualizzate, gli uomini soli ma connessi (l’utopia
della connessione e la rete come utopia).Le Grandi Narrazioni del ‘900 – il marxismo ma anche lo stato
sociale – sono state sostituite da una Grande Narrazione individualista e individualizzante oltre che di
libertà, ma è una falsa libertà (funzionale a tecnica e mercato), una illusione di libertà.
Il bisogno di essere connessi (di condividere, di collaborare), di non essere soli (e di non essere lasciati soli)
sono tratti tipici della specie umana, ma oggi è la tecnica che si propone come cura della solitudine e del
nichilismo che essa stessa ha creato (La società non esiste, esistono solo gli individui - M. Thatcher). E se la
socializzazione è qualcosa di sempre più tecnico, ovvero se passa attraverso mezzi tecnici; se
comunicazione, conoscenza, informazione transitano nella tecnica; se anche il linguaggio è tecnico (la
tecnica modifica il linguaggio) allora non saranno più comunicazione sociale, conoscenza collettiva,
informazione democratica, ma qualcosa di soprattutto funzionale alla tecnica (brevità, istantaneità,
semplificazione) proprio perché esistono solo in forma tecnica - e allora non di società si dovrà parlare, ma
di integrazione crescente degli individui negli apparati.
La Grande Narrazione di tecnica e mercato. 2
Perché nasca il sogno, o il bisogno (o il desiderio) di un’Utopia occorrono due condizioni, ha scritto Z.
Bauman.
La prima: la consapevolezza che il mondo non stia procedendo nel modo migliore e che dunque serva una
critica severa e una revisione generale del modello applicato.
La seconda: la convinzione “di essere all’altezza del compito”. Ovvero, la determinazione, la coscienza
appunto (collettiva, più che di classe) che gli esseri umani – razionali, dotati di libero arbitrio - sono in grado
di potercela fare a migliorare il mondo. O almeno, di provarci. Oggi invece, vivremmo – nella
interpretazione baumaniana - una utopia da cacciatori, dove persone, imprese, stati si muovono
spostandosi continuamente da un terreno di caccia ad un altro (la globalizzazione, appunto). Una società
dove la caccia (la competizione, la produttività) “è un’occupazione a tempo pieno, consuma una gran
quantità di attenzione e di energie, non lascia quasi tempo per qualsiasi altra cosa; e perciò impedisce di
rendersi conto che si tratta di un compito senza fine… La politica, che ha ridotto le sue responsabilità
riconosciute alle questioni di pubblica sicurezza e per il resto ha dichiarato la sua ritirata dai doveri
dell’amministrazione sociale, ha efficacemente desocializzato i mali della società e tradotto l’ingiustizia
sociale in inettitudine o negligenza individuale. E tutti i possibili conflitti, demandati al mercato per la loro
soluzione, “al massimo conducono a una ricerca ancora più febbrile di istruzioni, di competenze e strumenti
forniti dal mercato per migliorare se stessi e la propria immagine”.
La Grande Narrazione di tecnica e mercato. 3
La società di massa individualizzata – diversa da quella concentrata di gran parte del ‘900 - di oggi ha
scardinato le vecchie classi, le ha frantumate, ha creato una infinità di appartenenze/identità individuali. Di
nicchie sociali, di micro-comunità. Piccoli gruppi, addirittura individui che vivono se stessi in modo
solipsistico, come classe individualizzata in sé e per sé, in modo egoistico, competitivo, anti-politico e
politico allo stesso tempo. Il tutto, però, integrato, in rete, retificato.
Una frammentazione sociale che fa seguito alla frammentazione del lavoro: dal fordismo concentrato di un
tempo al fordismo individualizzato di oggi (precarizzazione del lavoro, lavoro finto-autonomo, lavoro
uberizzato, lavoro in rete, ecc.), così come appunto si è passati dalla società di massa concentrata
(ideologie, consumi, grandi fabbriche) a quella individualizzata, una molteplicità di individui che fanno e
pensano individualmente ciò che tutti fanno e pensano (dalla radio alla tv alla rete).
Ha scritto Michel Maffesoli: «Il nostro corpo sociale ormai non è più coeso, ma diviso in tribù che
condividono un identico gusto sessuale, musicale, sportivo o religioso. E ognuna di esse si aggrega intorno a
personaggi-totem, che svolgono una funzione effimera e insieme trascendente, funzionando da cassa di
risonanza per tutto quello che il gruppo condivide. (…) La fede ingenua nel progresso non appartiene più
neanche ai bambini (…) Harry Potter vive un percorso iniziatico fatto di prove, insidie mai completamente
superate, a conferma del fatto che il lato oscuro è parte della realtà e il trionfo del male è sempre
possibile».
La Grande Narrazione di tecnica e capitalismo. 4
Egemonia (Silvano Bellini, Dizionario di politica) come capacità di direzione intellettuale e morale, prima
che politica, “in virtù della quale una classe dominante, o aspirante al dominio, riesce ad accreditarsi come
guida legittima, si costituisce in classe dirigente ed ottiene il consenso o la passività della maggioranza della
popolazione alle mete impresse alla vita sociale e politica di un paese”. Egemonia. Perché – secondo
Gramsci – in una società di classe il prevalere e il predominio di una classe sulle altre si può esercitare in
due modi, il dominio e l’egemonia. Oggi, egemonia dei mercati, della Silicon Valley, delle tecnocrazie, del
tecno-entusiasmo sempre e comunque. Assenza di pensiero critico.
Perché il dominio – esercitato dagli apparati coercitivi della politica - e l’egemonia (che serve a produrre il
consenso necessario ad esercitare il potere) si integrano e tanto maggiore è il consenso tanto minore deve
essere il dominio fondato sulla forza; e viceversa. Anzi, scriveva Gramsci, la conquista del potere nelle
società industriali è del tutto inutile ed anzi impossibile se la forza politica che ambisce a farsi stato non
diventa prima egemone – come blocco sociale alternativo (in termini di progetti, di idee e di modelli di
società) rispetto al blocco dominante. Gramsci esprime questo concetto con le metafore della guerra di
posizione e della occupazione graduale delle casematte del campo avversario da parte del soggetto
rivoluzionario”. E’ inutile un conflitto frontale con l’avversario di classe, meglio l’erosione del suo potere
egemonico, o dei suoi saperi, delle sue culture dominanti, delle condotte sociali che insegna e prescrive.
Oggi si deve riconoscere che il capitalismo ha conquistato l’egemonia occupando progressivamente le
casematte (cultura e valori) del socialismo.
La Grande Narrazione di tecnica e capitalismo. 5
Oggi gli intellettuali organici della società industriale e del consumo sono gli uomini dell’organizzazione e
della psicologia del lavoro, del marketing, della pubblicità, delle public relations, dei media, dello spettacolo
e del divertimento, della televisione e oggi della rete e del virtuale, sono i guru della tecnologia, i signori del
silicio (Morozov), i padroni della Silicon Valley e quindi dell’immaginario collettivo e che dicono a ciascuno
che ha/è un capitale umano da spendere nel mercato, che deve essere non se stesso ma imprenditore di se
stesso, che deve fare della sua vita una incessante start-up. Sono loro i costruttori, gli organizzatori sociali,
gli ideologi, i persuasori permanenti. Sono loro che producono i saperi fondamentali che fanno funzionare e
governano la società, saperi che sono oggi tutti dentro alla vita pratica cioè al fare (e non al pensare e al
pensarsi) della società.
Ma come si è ottenuto questo consenso della classe che doveva abbattere o democratizzare il capitalismo,
con il capitalismo? Gramsci citava il generale De Cristoforis che nel libro Che cosa sia la guerra scriveva che
per distruzione dell’esercito nemico non si deve intendere la morte dei soldati, ma lo scioglimento del loro
legame come massa organica. E oggi? Chi ha l’egemonia? La tecnica & il capitalismo. E la classe operaia si è
sciolta perché l’apparato tecnico, col suo funzionamento tecnico non poteva non scioglierla; perché
l’apparato – dalla catena di montaggio alla rete – deve suddividere, frammentare, individualizzare e
flessibilizzare per poter poi meglio ricomporre le forze suddivise.
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Il sogno oggi realizzatosi del capitalismo (ma un incubo per la democrazia e la libertà, per quanto il rapporto
tra democrazia e libertà sia sempre difficile e complesso e tuttavia inscindibile: non può esservi democrazia
senza libertà né libertà senza democrazia) è uno stato e un uomo individualizzato e isolato ma sempre più
integrato e connesso, pensato, gestito e organizzato come impresa, soggetto agli e promotore degli
automatismi di mercato; un nuovo stato capitalista (evitando il vecchio capitalismo di stato ma anche la
regolazione del capitalismo da parte dello stato, se non nel senso di produrre de-regolamentazione o di
salvare comunque con denaro pubblico quei soggetti privati too big to fail).
Uno stato capitalista (Habermas) e capitalisticamente pedagogico, che educa ciascuno al capitalismo come
unica economia possibile e all’essere impresa come unica forma di vita, ma anche e sempre più come unico
processo culturale, essendo ormai lo stato non più soggetto terzo che persegue l’interesse generale e
semmai la conciliazione tra capitale e lavoro o tra capitale e cittadinanza, ma è anch’esso (s)oggetto
capitalista che persegue e promuove un interesse solo privato e privatizzante; uno stato cioè (s)oggetto di
parte e per la parte capitalistica del mondo, come ha dimostrato l’Europa salvando le banche e dannando i
cittadini togliendo loro (deliberatamente) diritti e reddito e welfare.
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E dunque, è l’ipotesi che si avanza, religione tecno-capitalista, con il proprio culto (lo diceva già Benjamin), i
propri riti (il mercato, lo scambio, la competizione economica, il consumo e il consumismo), i propri templi
(le borse, le fabbriche, i supermercati/outlet), le proprie rappresentazioni (la pubblicità, le immagini e gli
immaginari collettivi), i propri simboli (i prodotti, le merci), la propria narrazione e le proprie favole (la
mano invisibile, la rete come libera condivisione, l’intelligenza collettiva), i propri totem (ancora le borse, il
denaro, la rete stessa come entità quasi-divina e soprattutto sacra, e i propri tabù (lo spread, il dover
essere connessi).
Il tutto per riprodurre e replicare all’infinito comportamenti e motivazioni forti, dando un ordine generale e
un senso omologante e integrante e comunitario alla vita di ciascuno, che acquisisce così un proprio ruolo
come fedele (produttore, consumatore, spettatore, nodo della rete), rassicurante all’interno di un mondo
in sé incessantemente mutevole e de-strutturante (il mercato, la competizione, la rete); producendo una
propria verità, l’unica possibile e l’unica ammissibile, trasmessa attraverso una pedagogia-catechismo
continua, che inizia nella scuola e in quella scuola che è oggi la rete. Il potere religioso del tecno-capitalismo
è appunto e soprattutto nella sua capacità teologica (e teleologica) di organizzare integrando e di
organizzare le singole parti organizzandosi come Tutto/Uno.
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Un potere di organizzazione che prima suddivide il lavoro e isola gli individui (divide) per poi integrare e
connettere ciascuno nell’insieme, nel Tutto/Uno dell’apparato organizzante (et impera). Perché la
convergenza degli apparati in apparati più grandi (Anders) e l’integrazione sia verticale che orizzontale è
parte strutturale e strutturante di ogni apparato organizzativo, soprattutto se tecnico. Perché ogni divisione
implica poi sempre una totalizzazione e lo ricordava non solo M. Foucault ma anche Jacques Ellul ne Il
sistema tecnico; lo scriveva J.K. Galbraith nel Nuovo stato industriale (quando il potere è esercitato da un
gruppo, esso non solo passa all’organizzazione, ma vi resta definitivamente. Perché la parola più
importante è appunto coordinazione ed essa implica che i singoli si persuadano a mettere a parte i propri
fini e obiettivi personali per perseguire quelli dell’organizzazione, qualunque organizzazione sia), lo
sosteneva ovviamente già Adam Smith con i suoi spilli e perché la divisione del lavoro e di ogni insieme in
una serie di operazioni semplici sarebbe un dispendio folle di utilità e di profitto se allo stesso tempo il
processo tecnico non determinasse una sorta di concatenazione e di crescente sincronizzazione di tutte le
tecniche (e di tutti gli uomini) prima frammentate e suddivise. Producendo infine quella Unità, come la
definisce Ellul, cioè quella riconduzione di tutto ciò che è stato suddiviso/individualizzato all’Uno
dell’apparat0, Unità che cessa di essere una costruzione metafisica o una preoccupazione dei filosofi,
essendo ormai prodotta dal sistema e l’Unità risiede in quella totalizzazione.
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Organizzare, integrare. Mobilitare tutti alla produzione e al consumo (il principio di organizzazione delle
macchine è il massimo rendimento possibile – Anders - o la massima produttività possibile, che non ha
limiti dipendendo dalla velocità crescente di funzionamento dell’apparato tecnico e di divisione del lavoro e
del tempo), allo scambio e soprattutto alla competizione economica.
Costruire una grammatica del fare e dell’avere che si sostituisca a quella dell’essere, producendo una
narrazione comune (ieri si diceva: spirito del tempo o carattere sociale o norma sociale) tecno-economica
che dia un unico senso e una unica direzione di marcia al tutto e a tutti. Dare forma tecnica ed economica
agli uomini e alla società. Produrre le necessarie mappe cognitive e concettuali, di senso, relazionali,
emozionali, affettive entro cui far vivere e navigare, negando in ogni modo che possano esserci isole
sconosciute (ancora l’Utopia) al di fuori di quelle date dall’apparato tecnico e dal mercato. Tradire il
soggetto illuministico (sapere aude! diceva Kant per uscire da una condizione di minorità) in homo
oeconomicus e ora in homo technicus. Spostare la vita nel mondo virtuale/artificiale facendo credere che
anche nel mondo artificiale tutto sia naturale (rete come ambiente o come ecosistema, i comportamenti
collettivi in rete come sciame, le reti virtuali come quelle neuronali, i social network come equivalenti della
socialità innata degli uomini, le cloud/nuvole dove conservare la nostra memoria). Rendere egemonica la
logica del profitto e dell’impresa e la volontà di potenza degli apparati tecnici.
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Legare insieme direzione di fabbrica e operai, secondo Frederick Taylor e la sua organizzazione scientifica
del lavoro. Sognare la fabbrica integrata e sincronica, secondo Henry Ford e intanto con-catenare il lavoro
nella catena di montaggio. E oggi la rete, forma suprema per legare insieme e connettere le parti e gli
individui all’apparato senza far vedere la rete che lega e connette e la rete-catena che incatena, ovvero la
rete è la vecchia catena di montaggio con altra forma e con altri mezzi. Integrare, connettere e far
connettere, far condividere, ma soprattutto sincronizzare. E controllare e sorvegliare tutti e ciascuno (oggi,
Big Data – con il data mining divenuto il nuovo mezzo di produzione e di profitto). Moltiplicare la
suddivisione del lavoro e l’isolamento individuale con il personal computer (con l’illusione offerta di essere
padroni dei mezzi di produzione) e oggi con lo smartphone che, analogamente alla vecchia catena di
montaggio preclude ancora di più la rappresentazione e la comprensione dell’intero apparato e delle suo
modalità di funzionamento - e soprattutto l’immagine dell’effetto generale che l’apparato produce. La
suddivisione del lavoro e della vita, la frammentazione della conoscenza e dell’informazione impediscono di
vedere l’insieme nel quale si è inseriti/integrati, quindi si rimuove ogni pensiero critico (o lo si marginalizza)
facendo considerare l’esistente come unica realtà possibile e immodificabile.
Dunque, alienazione anche in rete.
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L’apparato tecno-capitalista è questo sapere e questo potere di organizzazione, è un insieme di incessanti
discipline dentro la grande biopolitica tecno-capitalista
(discipline e biopolitiche secondo Michel Foucault). Con la propria teologia tecnopolitica (tutto è tecnica e
capitalismo, nulla deve essere fuori da questo Uno-Dio che non ammette il due, il tre, non accetta diversità
e molteplicità, anche se incessantemente le crea per poterle poi ricomporre dentro di sé).
L’evangelizzazione del mondo in nome della religione del dio-mercato e del dio-tecnica si è ormai conclusa
e ciascuno deve vivere a immagine e somiglianza di questo doppio dio, in realtà un dio unico e assoluto.
Che ha le sue Tavole della Legge e ha fatto apprendere a tutti la sua ideologia, riassumibile in questo
slogan: credere, obbedire, connettersi e competere. Credere nel mercato e nella tecnica come unico
mondo reale e di senso e obbedire adattandosi al tecno-capitalismo e ai suoi modi di funzionamento;
connettersi con l’apparato/potere pastorale perché si deve credere che da soli si è nessuno; per poi però
competere con tutti e contro tutti, facendosi impresa e imprenditori di se stessi in un mondo-impresa
globale. Perché mentre il mondo della globalizzazione esplode in mille frammenti come effetto dello stesso
apparato, unico, unitario e omologante è invece l’apparato tecno-capitalista, ormai appunto globale. E
basta rileggere la prima parte del Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels (1848) – una perfetta
analisi di quella globalizzazione come di questa - per capire che la modernità liquida non è nata con
Bauman.
Le macchine del potere.
Le macchine al potere.
Dunque, non gli uomini ma due diverse macchine sono oggi al potere: il capitalismo (la macchina del potere
del mercato, delle oligarchie e/o delle élite, degli oligopoli, dei tecnici/esperti, dell’industria educazionale e
dell’industria dello spettacolo, dei mass media e delle agenzie di informazione e di rating e dello storytelling
capitalistico e dei motori di ricerca come aggregatori, manipolatori, padroni dell’informazione e della
conoscenza) & la tecnica come apparato (il potere delle macchine di determinare modi di vivere, forme di
relazione, linguaggi e discorsi, il passaggio da una intelligenza sequenziale a una simultanea e da una
cultura di approfondimento a una di semplificazione). Due macchine di potere e di sapere, due poteri
pastorali che creano gregge-integrazione-connessione con l’apparato e per l’apparato, due macchine
religiose oggi globali perché non esiste e non deve esistere altra realtà al di fuori di quella prodotta dalle
due macchine in sincrono.
Macchine che ormai procedono appunto in automatico, come è nella tendenza strutturale di ogni
macchina/apparato, cioè in modo autopoietico, autoreferenziale, a pilota automatico perennemente
inserito e (apparentemente) non-disinseribile, come aveva sentenziato il presidente della Bce, Mario Draghi
parlando dei mercati (e occorrerebbe invece democratizzare anche le banche centrali, Bce compresa, che
non possono essere poteri autonomi come vorrebbe il neoliberismo ma devono tornare ad essere
poteri/mezzi sotto-posti al demos e al government).
Sistemi autopoietici
Meccanismi di sapere/potere: e poteri e saperi di organizzazione, di integrazione, per legare insieme e far
connettere tra loro le parti dell’apparato e con l’apparato, questo lo stile di vita da dover apprendere:
secondo la legge ferrea dell’effetto rete, un nuovo termine per ridefinire il vecchio conformismo: per cui
una tecnologia - e ogni tecnologia tecnica è in primo luogo una tecnologia di organizzazione/integrazione ha tanto più valore quanto maggiore è il numero delle connessioni che riesce a generare, perché quando
molte persone usano uno stesso medium di connessione, altre sono invogliate a farlo.
Perché il sistema diventi autopoietico occorre tuttavia una adeguata e preliminare pedagogia che ne
permetta l’accettazione/introiezione da parte di ciascuno e l’infinito auto-adattamento di ciascuno,
ciascuno condividendo esistenzialmente l’autopoieticità del sistema in cui è inserito.
Secondo un principio che vale oggi per la rete ma che valeva appunto anche ieri: come per Frederick Taylor,
che aveva già compreso come tutti i mutamenti organizzativi devono essere compiuti all’inizio con lentezza
e coinvolgendo poche persone ma poi, superato il punto in cui (scriveva) da un terzo ad un quarto dei
dipendenti di un’impresa o di un sistema organizzativo sono stati persuasi ad accettare il nuovo sistema
ecco che il meccanismo di integrazione si capovolge e rovescia le opinioni di coloro che usano ancora il
vecchio sistema, che anzi si mostrano ansiosi di prendere parte ai vantaggi ottenuti da chi si è già adeguato
ai nuovi sistemi.
Sistemi autopoietici. Definizione.
Niklas Luhmann (1927-1998). Prendendo spunto dalla rivoluzione informatica dell’ultima parte del ‘900
definiva una società-computer o una società-robot che - a differenza dei modelli e delle metafore
settecentesche della società-macchina (la società intesa cioè come una grande macchina, in cui ogni pezzo
è coordinato, legato, integrato con gli altri e con l’insieme) o della società-organismo (la società come un
organismo biologico e vivente, dove ogni parte è come un organo vitale, esistente solo in relazione e in
funzione degli altri e dell’insieme) – ha la caratteristica di escludere ogni ipotesi di un organismo/soggetto
individuale o collettivo con funzioni di governo e di organizzazione (il demos, un sovrano, eccetera), in
quanto è essa stessa capace, per definizione, di svolgere tali funzioni organizzative e ordinatrici, ponendosi
così nella condizione di essere allo stesso tempo soggetto che ordina e oggetto dell’ordine da esso stessa
prodotto.
Prendendo spunto dalla biologia, Luhmann definisce così i sistemi autopoietici come quei sistemi
organizzativi capaci cioè di guidare autonomamente e in automatico i propri processi interni ed esterni di
funzionamento e di organizzazione. Analogo il concetto di autoreferenzialità, per cui tale è un sistema
capace di “costituire in proprio, quali unità funzionali, gli elementi di cui è composto e se attiva in tutte le
relazioni fra questi elementi un rinvio a tale autocostituzione, che viene quindi in tal modo continuamente
riprodotta”.
Sistemi autopoietici.
Un esempio di sistema autopoietico potrebbe essere il mercato capitalistico, ritenuto capace di autoorganizzarsi sulla base della mano invisibile di Smith o del pilota automatico richiamato dal presidente della
Bce, Mario Draghi nel corso della crisi del 2008, per definire il comportamento immodificabile, in
automatico appunto, dei mercati finanziari. O la rete, apparentemente senza centro, senza vertice e
soprattutto ritenuta capace di replicarsi infinite volte in modo appunto autopoietico.
Il concetto di autopoiesi, comunque, riprende la metafora naturalistica dell’organismo sociale (oggi
dell’ecosistema informatico) e la applica appunto anche ad un sistema di macchine o di apparati tecnici (la
rete, ancora: comunque qualcosa di artificiale) che in tal modo funzionerebbero indipendentemente (in
modo quindi neutro, ovvero intrinsecamente razionale) dalla volontà umana, senza necessità di una politica
(come invece riteneva ad esempio Platone) capace di guidare verso il bene comune.
E ancora: se è vero il concetto di autopoiesi, che ne è del libero arbitrio e dell’autonomia dei soggetti? E la
tecnica è davvero neutra – i suoi effetti dipendono da come la si usa – oppure è di parte e produce
comunque effetti che non sono neutri (G. Anders: le forme tecniche tendono a divenire forme sociali)?
Interazione/integrazione
Vi è una sostanziale differenza tra i concetti e le pratiche sociali/economiche/di rete di inter-azione e
integr-azione: l’inter-azione presuppone una volontarietà (o almeno una consapevolezza) della
azione/cooperazione con gli altri; l’integr-azione produce invece una identificazione con l’organizzazione
nel quale si entra, eliminando quanto è possibile soggettività e identità.
L’integrazione tende a far identificare la parte con il tutto, il lavoratore con l’impresa, il nodo con la rete, il
consumatore con il brand (il prosumer). L’interazione permette di fare insieme senza dimenticare
soggettività, autonomia, responsabilità (la parte lavora nel tutto dell’impresa mantenendo una propria
identità/diversità dal modello-impresa, in rete si agisce senza conformismo, il consumatore rivendica la sua
sovranità).
L’interazione presuppone la democratizzazione dell’apparato/società in cui si è inseriti. L’integrazione è
chiesta dove si nega questa democratizzazione (impresa, società, rete, ecc.).
La differenza tra inter-azione e integr-azione esiste anche a proposito di altri comportamenti e processi
sociali: gli immigrati, ad esempio, o gli stranieri, o coloro che sono diversi per idee, comportamenti,
abitudini, tendenze sono persone con cui inter-agire, dialogando e confrontandosi; oppure sono da far
integrare nella comunità che li accoglie, facendoli diventare come gli altri?
Auto-nomia/Etero-nomia
Altra differenza, quella tra i concetti di auto-nomia e di etero-nomia: che sono i due poli concettuali che
designano la capacità/condizione di avere la propria norma (nomos) di pensiero, azione, comportamento in
se stessi (auto-nomia) o di averla o di cercarla negli altri (etero-nomia); e questi altri possono essere gruppi,
masse ma anche apparati di organizzazione. Nell’età infantile l’eteronomia è condizione normale per lo
sviluppo di un bambino, che dipende in molti modi dai genitori e dall’ambiente in cui cresce; nell’età adulta
significa invece la incapacità di maturazione e di individuazione (il concetto di individuazione definisce la
capacità di costruire se stessi in modo autonomo).
Ovviamente, ogni autonomia pre-suppone una relazione con gli altri nella forma della inter-azione,
dell’essere in-comune con gli altri accettando/riconoscendo la loro diversità, altrimenti il soggetto sarebbe
solo un eremita e l’eremitaggio o l’isolamento non sono sinonimo di autonomia. L’inter-azione con gli altri e
con l’ambiente produce auto-nomia. L’integr-azione è invece una modalità organizzativa che produce
etero-nomia.
La democrazia, il capitalismo e la tecnica. 1
La democrazia: concetto complesso, come ha scritto Gustavo Zagrebelsky, ma che comunque ha in sé,
come proprio elemento-base, il riconoscimento di un ruolo e di una funzione attiva nelle decisioni che li
riguardano da parte dei cittadini (e cittadino è a sua volta concetto diverso da individuo e persona, e oggi
nodo di una rete). Nella democrazia, ancora Zagrebelsky ci si deve poter attivare, mentre nelle altre forme
politiche si è invece attivati da qualcuno/qualcosa di esterno, di etero-normante, di etero-attivante.
L’essenza della democrazia è in questa possibilità e capacità di ciascuno di attivarsi; senza questa possibilità
non c’è democrazia. Qualcosa che poi necessita di spazi dove potersi attivare (famiglia, gruppi, impresa,
rete, società - altrimenti non è democrazia) e soprattutto di tempo e di tempi individuali e sociali di autoattivazione perché la democrazia presuppone partecipazione e manutenzione altrimenti muore.
Ma oggi ad attivare gli individui e l’insieme degli individui è qualcosa di assolutamente esterno alla
democrazia, appunto il mercato capitalista & l’apparato tecnico: mercato e apparato tecnico che sono
forme economiche e soprattutto tecniche di attivazione degli individui e della collettività e che funzionano
(moda, pubblicità, istruzione, divertimento, spettacolo, dover essere connessi, la Silicon Valley)
prescindendo dalla democrazia e dalla politica come auto-governo della polis.
La democrazia, il capitalismo e la tecnica. 2
Se la democrazia moderna (ancora Zagrebelsky) è in primo luogo la scelta dei fini e poi la predisposizione
dei mezzi per raggiungere tali fini, ovvero il governo della polis è conseguenza della volontà politica
espressa dai cittadini, della loro libera scelta espressa in un pensiero pro-gettante, capace di immaginare e
poi di costruire assetti sociali, economici e civili nuovi e possibili, allora oggi questa possibilità/capacità è
stata tolta agli individui riuniti in società e trasferita ai mercati e alla tecnica, dunque si è ormai fuori dalla
democrazia e si è entrati, senza accorgersene, in una non-democrazia ipermoderna.
Non ci sono più progetti umani ma progetti/obblighi/necessità economiche (la globalizzazione, la flessibilità
e la produttività del lavoro) e tecniche (la rete, la connessione incessante, l’integrazione), e questi sono
diventati i soli progetti possibili degli uomini, ciascuno essendo attivato a perseguirli credendo (l’attivazione
si produce non tanto grazie a ordini espliciti quanto per manipolazione e per induzione/imitazione di
comportamenti necessari – ancora l’effetto rete, il conformismo e l’identificazione, la pedagogia economica
e tecnica) che siano anche propri personalissimi progetti di ciascuno (con la combinazione di discipline
diventate autodiscipline o per l’azione di discipline aperte (di fatto, l’industria culturale di Horkheimer e
Adorno) secondo lo stesso Foucault, cioè meno evidenti, meno stringenti delle discipline chiuse ma dentro
alla grande biopolitica del tecno-capitalismo).
La democrazia, il capitalismo e la tecnica. 3
La scelta (la possibilità di scegliere autonomamente, democraticamente, consapevolmente) si è trasferita
altrove, a un pilota automatico o ad un algoritmo, ma soprattutto a mercato e apparato tecnico; la
conoscenza per poter scegliere (per avere una autentica possibilità di scegliere) è solo quella offerta dai
motori di ricerca o dal sistema pedagogico di scuola e industria culturale, dallo spread o dagli indici di borsa
o delle agenzie di rating; e tutto si riduce alla necessità dell’adattamento di ciascuno alla realtà prodotta dal
mercato e soprattutto dalla tecnica come apparato. Nessuna libera scelta; solo adeguamento, adattamento
o congruità di ciascuno.
Di più: gli spazi per la democrazia sono stati deliberatamente ridotti o inglobati nella stessa rete e
identificati con la rete (le retoriche di una rete libera e democratica), ma soprattutto sono evaporati i tempi
e il tempo necessari per una attivazione democratica e per una partecipazione/manutenzione duratura alla
polis, in rete tutto si risolve in commenti da blog e da twitter, a partecipazione a campagne di
coinvolgimento su temi spesso di poco conto e senza durata e senza progettualità, senza capacità di
guardare avanti immaginando e tutto si esaurisce in breve tempo superato dalla partecipazione compulsiva
ma fintoattiva subito seguente – perché la rete vive di velocità e di istantaneità, mentre la democrazia
necessita di durata, di lentezza e di lungi-miranza.
La democrazia, il capitalismo e la tecnica. 4
Certo, gli uomini sono sempre convinti (ancora le potentissime retoriche della rete) di poter scegliere
liberamente (come consumatori sovrani, come lavoratori autonomi, come nodi di una rete libertaria e
anarchica, usando software liberi, scrivendo parole in libertà in un blog, eccetera), ma in realtà non è mai
così perché, come anticipava Jacques Ellul (2009), «ogni nuovo elemento tecnico, ogni nuova innovazione
tecnica è solo un mattone dell’edificio dell’apparato, un ingranaggio del sistema tecnico. Ed è quindi
perfettamente inutile pretendere che il computer applicato alla dimensione politica possa diventare un
organismo di decentralizzazione, di diffusione, di personalizzazione delle informazioni e di agevolazione del
controllo politico. Si tratta di una utopia volta a tranquillizzarsi e a permettere quindi al sistema informatico
di realizzarsi. Ci troviamo qui in presenza di un fatto di importanza decisiva: l’uomo rifiuta radicalmente di
conoscere il processo, e ponendo la questione in termini metafisici e assoluti, si convince che tutto sia
ancora possibile (…) e che il nuovo fattore tecnico sia liberatore. Così tranquillizzato lascia progredire il
meccanismo e poi, quando vede il risultato, dice: Ma questo non era ciò che avevamo previsto. Il danno è
fatto». Analogamente la rete, che al suo nascere prometteva una società della conoscenza, meno fatica nel
lavoro e più tempo libero, producendo l’esatto contrario.
La democrazia, il capitalismo e la tecnica. 5
Vincendo - il neoliberismo con le sue oligarchie, con i mercati, con i governi tecnici e con le larghe intese,
ma soprattutto mediante la mutazione culturale e antropologica che il tecno-capitalismo ha saputo indurre
nell’avversario - la vecchia lotta di classe (come ha magistralmente analizzato Luciano Gallino). Ormai del
tutto desocializzato, de-politicizzato, individualizzato, disperso e disarticolato e sempre più integrato a sé
come apparato perché spogliato – l’avversario - di ogni possibile coscienza di classe per sé e in sé, oltre che
di ogni autonomia e di ogni progettualità diversa da quella dell’apparato. Una lotta di classe (quella vecchia,
secondo Marx) che le oligarchie, il consumismo, i super-ricchi, il capitalismo, l’idea della fine della storia e
oggi la rete hanno fatto abilmente credere come cosa del passato, una lotta antimoderna, da rottamare,
superata dalla postmodernità e dal postfordismo; vecchia perché sublimata nella rete come luogo della
perfetta libertà e della perfetta democrazia (magari con un tocco di anarchia capitalista) e insieme della
marxiana intelligenza collettiva finalmente realizzatasi della rete (rete capitalistica e non comunistica,
perché la rete non è un bene comune ma un bene proprietario e privato e appropriante della conoscenza e
della vita intera messa in rete, rete anch’essa quindi alienante e di classe anche se questa logica
proprietaria e appropriativa vive e si consolida grazie alle retoriche della condivisione, della connessione,
del free e del wiki.
La democrazia, il capitalismo e la tecnica. 6
Perché il tecno-capitalismo, prima che produttore di merci, di denaro e di consumi è stato un potente
generatore culturale, è un potentissimo costruttore e divulgatore di pedagogie di massa e di processi
culturali (perché è culturale prima che economico e possiede e replica e riproduce la propria pedagogia nel
suo quotidiano funzionare), di significati e di verità (di grammatiche, di vocabolari, di discorsi/narrazioni),
senza le quali mai avrebbe ottenuto l’egemonia. Perché il capitalismo (il tecno-capitalismo) è quanto di
meno naturale e di più artificiale vi possa essere, è corpo estraneo alla società ma è divenuto tuttavia la
forma unica della società-non-più-società di oggi.
Scrive Evgeny Morozov: il concetto di democrazia è trasformato e l’idea di uguaglianza «su cui si fonda la
ricerca di Google è decisamente superficiale: certo, chiunque può votare ciccando del ‘link’, ma chiunque
disponga delle risorse per moltiplicare i link, magari pagando certi siti influenti perché inseriscano un
collegamento alle sue pagine o ingannando il sistema attraverso l’ottimizzazione del motore di ricerca ha
molto più potere di chi queste cose non può o non sa farle. E’ il contrario del principio una persona, un
voto. Nella migliore delle ipotesi, è più simile a un’oligarchia che a una democrazia. Inoltre, l’algoritmo di
Google che stabilisce l’ordine dei link considera come minimo altri duecento fattori – per esempio, la
velocità di caricamento del sito – nonché il numero di altri siti che rimandano a una data pagina». Di più: «il
suo ethos commerciale è in costante contraddizione con le sue responsabilità pubbliche, e finora il primo
ha sempre prevalso». Perché la rete è capitalista per natura, per teologia e teleologia.
Perché le religioni. 1
Le religioni dei Grandi Dei secondo Ara Norenzayan, per il quale si deve alla religione appunto dei Grandi
Dei il passaggio dalle società organizzate in piccoli gruppi della preistoria umana (dove il controllo e
l’aggregazione/integrazione erano facili: piccoli gruppi, alta fiducia, alta cooperazione) alle grandi società
moderne dove milioni di sconosciuti collaborano tra loro grazie appunto alla presenza di un grande occhio,
soprannaturale ma fortemente vincolante e capace di legare tra loro e quindi far cooperare questi
sconosciuti, creando paura/timore (di Dio) ma anche benevolenza e amore (il paradiso) e insieme fiducia
reciproca tra uguali e fedeli di una stessa religione.
Un processo di socialità/cooperazione costruito secondo gli otto principi definiti da Norenzayan, per cui: chi
è integrato/legato e sorvegliato e controllato si comporta bene; la religione è più nel contesto e
nell’ambiente sociale che nelle singole persone; l’infermo è più potente del paradiso (ovvero le discipline e
la paura e la minaccia come regola di assoggettamento); fidati di coloro che si fidano di Dio; nelle religioni
le azioni contano più delle parole; gli Dei devono essere oggetto di adorazione e quindi: Grandi Dei per
Grandi Gruppi; e infine: i Grandi Gruppi religiosi cooperano per competere. Grandi Dei, dunque e grandi
religioni prosociali.
Perché le religioni. 2
Grandi Dei, ma non necessariamente un Dio astratto e lontano, quanto umano (simile ad una persona) e
soprattutto personalissimo (il proprio dio personale anche se è comune a molti). Grandi Dei con un grande
occhio, perché sarebbe vero - e confermato dalla psicologia sociale - che facendo aumentare la sensazione
panottica di essere osservati (oggi ad esempio mediante videosorveglianza, ma si potrebbe allargare il
fronte allo spionaggio in rete) aumenterebbero le tendenze prosociali (in realtà questa consequenzialità è
tutta da dimostrare se è vero che la videosorveglianza non accresce la prosocialità ma può benissimo
convivere, come oggi nel neoliberismo, con una società ipercompetitiva - invece che cooperativa - e
deliberatamente asociale).
Mentre non bastano i Grandi Dei in sé, ma occorre attivare, certo grazie alla loro presenza, anche
meccanismi di fiducia e di documentazione/memoria della reputazione degli altri - e forse questa potrebbe
essere la ragione per cui la rete è vista anche come grande memoria/documentazione e grande contenitore
della reputazione degli altri, di cui si vuole conoscere tutto, violando la loro privacy, di fatto opponendosi al
diritto all’oblio (ancora la ipercompetizione asociale e anticooperativa, ma competitiva che impone di
conoscere tutto della concorrenza).
Perché le religioni. 3
Otto principi dunque perfettamente applicabili alla religione capitalista e tecnica.
Il Grande Dio è oggi il tecno-capitalismo, che integra e controlla e crea incessanti meccanismi di
cooperazione/connessione/rete perché ciascuno si comporti bene (sia docile, direbbe Foucault), sia
integrato e controllato nella sua produttività/utilità; Dio di una religione che è nel contesto più che nelle
persone (è la globalizzazione e la rete, dove ciascuno è appunto nodo e non persona/soggetto); dove
l’inferno (la disoccupazione, la precarizzazione, l’esclusione del non essere connessi, l’austerità merkeliana)
è ovviamente peggio del paradiso ma è meglio per educare, addestrare, disciplinare; dove si deve imparare
a fidarsi di coloro che si fidano di Dio, quindi del denaro, della mano invisibile, della rete e della sua falsa
condivisione; dove il fare conta più delle parole (cioè della riflessione e del ragionamento, dell’essere se
stessi, della responsabilità, dell’auto-nomia); dove Dio deve essere oggetto di adorazione (i mercati, le
borse, come templi e come luoghi sacri non profanabili dal popolo e dalla democrazia, la rete stessa, anzi la
Rete).
Un Grande Dio appunto globale/universale e insieme virtuale, oltre la realtà reale, assoluto ma quasiumano e quotidianamente accanto a ciascuno, tanto personalizzato da seguire ciascuno incessantemente
come pc o smartphone e presente come app o come motore di ricerca nel suo apparato personale; Grande
Dio per permettere la nascita di un Grande (Grandissimo, Globale) Gruppo (1,4 miliardi gli utenti di
Facebook); affinché in questo Grande Gruppo che è la più grande comunità di massa individualizzata mai
realizzatasi nella storia, tutti possano (debbano) competere e insieme essere connessi, presupposto perché
sia un Grande Gruppo di fedeli come richiesto dal Grande Dio/Apparato.
La teologia tecnica e capitalista
Perché il potere religioso tecno-capitalista non è quello del partito che diventa stato ma dell’apparato che
diventa società e stato, amministrati, governati attraverso una moltiplicazione di poteri e di saperi
tecnocapitalistici. Per una divisione incessante delle parti che permette di unire e omologare e totalizzare
senza smettere mai di differenziare. Che differenzia senza mai smettere di unificare e di omologare.
Perché l’occidente e il tecno-capitalismo che ne è l’essenza sono basati sul Due (Roberto Esposito) e sulla
teologia politica che è diventata oggi teologia tecnica, sempre facendo proprio (incorporando a sé) ciò che
inizialmente era altro da sé, quest’ultimo restando allo stesso tempo incluso ed escluso – incluso perché
incorporato nel nuovo organismo ed escluso perché privato del suo contenuto, non più utilizzabile come
tale. Sul due che diventa uno, sulla base della propria struttura di potere fondata sulla connessione
disgiuntiva dell’Uno e del Due secondo lo schema teologico politico hegeliano. Dove la connessione prevale
sempre però sulla disgiunzione, dove la totalizzazione si serve della suddivisione per realizzarsi.
Il neoliberismo
Uomo particolare, l’homo oeconomicus. Come intetizzato da Foucault nel Corso dedicato alla nascita della
biopolitica.
Così, nel neoliberismo americano si assiste al tentativo di applicare l’analisi economica a contesti, mondi,
sistemi, condotte, comportamenti che prima non erano legati al mercato e che anzi, per il sistema
democratico non dovevano essere legati al mercato né interpretati secondo le logiche di mercato: dal
matrimonio al crimine, dalla cultura all’istruzione, alla educazione dei figli e alla famiglia. E’ davvero
applicabile questa logica economica (economicistica) a contesti non economici? Sì, risponde il neoliberismo
americano, che inizia a lavorare su queste tesi soprattutto negli anni ‘60 del ‘900, partendo dalle riflessioni
di von Hayek (padre storico del neoliberismo degli ultimi trent’anni). E che arriva a identificare l’oggetto
dell’analisi economica con ogni condotta razionale.
E tuttavia, per neoliberisti come Gary Becker questo non è ancora sufficiente, l’analisi economica può e anzi
deve spingersi oltre le condotte ritenute razionali, abbracciando anche le condotte non-razionali. E così,
ogni condotta capace di rispondere in maniera sistematica alle modificazioni nelle variabili dell’ambiente,
dovrà potersi riferire a un’analisi economica. Ovvero, commenta Foucault: «L’homo oeconomicus è colui
che accetta la realtà. E la condotta razionale è dunque ogni condotta che risulta sensibile a modificazioni
nelle variabili dell’ambiente e che risponde ad esse in modo (…) sistematico».
L’ordoliberalismo
Ordoliberalismo. Quando la Germania rinasce dopo la seconda guerra mondiale, si pone il problema di
essere diversa dalla Germania nazista.
Dicono i liberali tedeschi, nella rilettura di Foucault: «Facciamo allora il contrario, ed esigiamo
dall’economia di mercato molto più di quanto le era stato richiesto nel XVIII secolo, allorché le si chiedeva
di dire allo stato che da un certo limite in poi, nel caso di un determinato problema e oltre i confini di un
dato ambito, esso non sarebbe più potuto intervenire. Ma non è ancora abbastanza, dicono gli ordoliberali.
Dal momento che ormai è accertato che lo stato è portatore di un’intrinseca difettosità, mentre nulla prova
che l’economia di mercato abbia simili difetti, chiediamo all’economia di mercato di fungere, di per sé, non
tanto da principio di limitazione dello stato bensì da principio di regolazione interna dello stato, in tutta
l’estensione della sua esistenza e della sua azione. In altri termini (…) gli ordoliberali sostengono che
bisogna (…) porre la libertà di mercato come principio organizzatore e regolatore dello stato, dall’inizio
della sua esistenza sino all’ultimo dei suoi interventi. Detto altrimenti: uno stato sotto la sorveglianza del
mercato, anziché un mercato sotto la sorveglianza dello stato»
Rete neoliberista & ordoliberale
Se, scrive Morozov, tutte le conquiste della democrazia sociale (dalla sanità all’istruzione pubblica, dalla
cultura come valore e non come bene/merce/evento) «sono indebolite dal proliferare di soluzioni in forma
di app personalizzate che mirano a sbarazzarsi delle istituzioni sostituendole con interazioni fluide e
orizzontali basate su una logica di mercato», ebbene «i costi sociali di un simile approccio, anche se sono
ancora invisibili, non sono di poco conto: la trasformazione in app del problem solving riduce la salute da
questione politica e pubblica – un progetto in cui punti di vista contrastanti su come migliorare il mondo
devono contendersi l’appoggio dei cittadini impegnati – a un progetto puramente privatizzato, nel quale i
cittadini si trasformano in anonimi attori di mercato, incoraggiati a risolvere i problemi del loro corpo nel
modo che preferiscono e con mezzi propri. (…) Il concetto stesso di bene comune diventa obsoleto. (…)
Opporsi alla tecnologia, in questo caso, non significa opporsi alla scienza o all’illuminismo, ma
semplicemente all’intrusione delle logiche neoliberiste nell’ambito della salute. (…) La Silicon Valley e molti
neoliberisti considerano [inoltre] l’università come un gigantesco spreco di risorse. Gli studi durano troppo,
costano troppo e promuovono una quantità di idee pericolose (cioè inutili) delle quali il mercato non ha
bisogno. E le capacità che servono davvero, quelle si possono trovare su internet».
Il ‘discorso’ del tecno-capitalista. 1
A supporto di quanto analizzato fino ad ora, vale ricordare lo psicanalista Jacques Lacan e la sua riflessione
su quello che aveva definito come il discorso del capitalista. Inteso come nuova modalità di realizzazione
della norma sociale del capitalismo. Basata non più sulla disciplina e sulla inibizione della libido ma su altre
configurazioni normative, più giocate sul godimento, sull’accesso immediato agli oggetti del desiderio che il
capitalismo crea incessantemente per convalidare se stesso. Ovvero, il capitalismo produce non solo fatica
e pesantezza, ma è produttore anche o soprattutto di godimento (diverso dal piacere, paradossalmente più
lento del godimento, per definizione immediato e veloce/facile da raggiungere). In questo lacaniano
discorso del capitalista, prodotto dal capitalismo per produrre capitalisti asociali e de-socializzati, ciascuno
agisce appunto non più perché dominato dalla presenza di un padrone, ma nella illusione di essere libero di
poter raggiungere la sua personale e narcisistica realizzazione (le retoriche, ancora, del lavoro free-lance
che sarebbe autonomo, libero, creativo, indipendente e non invece comunque subordinato). Discorso che si
declina attraverso quella che Lacan chiamava l’astuzia del capitalismo, ovvero la creazione della finzione
dell’Io. E allora è proprio qui, «nel discorso capitalista, dove il potere assume la forma dell’economia, fa
tutt’uno con l’economia, che si mettono assieme vanità del godimento e capriccio della merce; è qui nel
discorso che pone l’inutilità della mediazione sociale, la insignificanza del campo delle istituzioni e che
riduce l’umano ad una fittizia e disinibita unità mimetica di godimento che comincia a sedimentare la cifra
dello smarrimento del soggetto contemporaneo» (Chicchi). Un discorso capitalistico che apparentemente è
stato spazzato via dalla crisi del 2007/2008 e dalle successive politiche di austerità. Basate invece su colpa e
penitenza.
Il ‘discorso’ del tecno-capitalista. 2
Ma mentre il discorso del capitalista si è fatto dunque residuale coinvolgendo attivamente solo la
superclasse dei ricchi ancora più ricchi, un altro discorso continua a produrre i propri effetti, indifferente
alla crisi: un discorso prevalente e che va considerato precedente a quello capitalista, ovvero il discorso
dell’apparato tecnico o del tecno-capitalismo. Un discorso (o una narrazione) in gran parte sovrapponibile a
quello capitalista, per quanto visto fino ad ora, ma che è più forte e più pervasivo, più narrativo rispetto a
quello capitalista.
Se, infatti quello capitalista soffre delle crisi ricorrenti e dei cicli economici, il discorso della tecnica non
conosce soste, è unilineare, non subisce crisi. Se incertezza, insicurezza, paura, inquietudine, precarietà
sono i tratti caratteristici dell’ultima modernità, se il godimento offerto dal discorso del capitalista è sempre
passibile di voltarsi nel suo contrario (appunto, come ora, in crisi e quindi nell’opposto del godimento,
dunque in colpa e penitenza), il discorso della tecnica (essere connessi, essere in un social network, avere
tanti amici, poter dire mi piace, dire la propria opinione in un blog, poter fare ciò che piace senza limitazioni
producendo una sorta di godimento tecnico dove appunto la connessione è la cifra, la grammatica e
insieme il vocabolario del discorso), ebbene questo discorso tecno-capitalista non conosce pause né
retromarce.
Rileggere P.P. Pasolini
Scriveva Pier Paolo Pasolini (ed era il luglio del 1974): «Mai un modello di vita ha potuto essere
propagandato con tanta efficacia che attraverso la televisione. Il tipo di uomo o di donna che conta, che è
moderno, che è da imitare e da realizzare, non è descritto o decantato: è rappresentato! Il linguaggio della
televisione è per sua natura il linguaggio fisico-mimico, il linguaggio del comportamento. Che viene dunque
mimato di sana pianta, senza mediazioni, nel linguaggio fisico-mimico e nel linguaggio del comportamento
nella realtà. (…). I comunisti che si illudono che (…) si comincino a raccogliere le messi che essi hanno
seminato, non si accorgono che la partecipazione delle masse alle grandi decisioni storiche formali è in
realtà voluta dal potere; il quale ha appunto bisogno di un consumo di massa e di una cultura di massa. La
massa partecipante, inoltre, anche se formalmente comunista o progressista, è manipolata dal potere
attraverso l’imposizione di altri valori e di altre ideologie: imposizione che avviene nel vissuto, e nel vissuto
avviene dunque anche l’adozione» (Ampliamento del bozzetto sulla mutazione antropologica in Italia –
1975-2012). Altri valori e altre ideologie che erano il clericalismo da un lato e il progressismo dall’altro.
Valori e ideologie che oggi sono mercato e tecnica, mercato e rete. Perché l’analisi di Pasolini è perfetta
anche per la mutazione antropologica prodotta dalla rete, il linguaggio televisivo si è evoluto (involuto) in
quello in rete e della rete e mai un modello di vita come quello oggi della rete ha potuto essere
propagandato con tanta efficacia attraverso la rete stessa.
Vecchia e nuova alienazione
Il tempo (ciò che è, la sua organizzazione, la sua velocità, la sua intensità e il suo ritmo) lo abbiamo
venduto, alienato proprio nel senso giuridico e contrattuale di ceduto a qualcuno/qualcosa che non siamo
noi e non è un altro soggetto. Non lo abbiamo fatto consapevolmente, non siamo andati da un notaio per
stipulare il contratto di alienazione del bene-tempo. Ma è accaduto. Gli acquirenti sono il mercato e la
tecnica (e la rete), che hanno risolto a loro favore la vecchia questione se le macchine siano appendici degli
uomini (come dovrebbe essere, dando gli uomini il tempo alle macchine) o se siano gli uomini ad essere
appendici delle macchine, funzionando alla velocità imposta dalle macchine. Mercato e tecnica sono gli
imprenditori del tempo, sono i mezzi di produzione e di consumo della nostra vita, e noi non siamo più
proprietari del tempo, nel senso che non siamo più noi a costruirlo socialmente. E questo ha prodotto
un’altra forma di alienazione. Conseguenza inevitabile della prima.
Oggi siamo alienati anche (anche, perché la vecchia alienazione non è morta, anche se è ben mascherata)
dal tempo oltre che dallo spazio. Il tempo è dettato dall’apparato, ciò che produciamo nel tempo non ci
appartiene (neppure nella sharing economy o nel favoleggiato postcapitalismo), né ci appartiene la rete,
siamo alienati dagli altri perché non abbiamo più tempo per costruire relazioni e perché è questo che serve
all’apparato (divide et impera).
Tempo: sua accelerazione infinita e inarrestabile (questo impongono le macchine e il mercato a produttività
crescente), sua intensificazione (un altro modo di fare accelerazione) e quindi: alienazione.
Modello Amazon
La rete è sempre stata vista e soprattutto percepita come un luogo e un tempo ad alta creatività,
conoscenza, intelligenza collettiva (quasi che in rete si materializzasse il general intellect di Marx), libera
condivisione e collaborazione; addirittura come una comunità. Ma la rete non ha permesso solo di rendere
il lavoro più leggero, liquido, immateriale, meglio integrato e più razionale, ma anche di renderlo ancora più
integrante, pesante, intensificato.
Grazie alla rete, “migliaia di individui e di piccole o piccolissime imprese riescono oggi a co-creare i loro
prodotti, ad accedere ai mercati e a soddisfare i clienti come in passato solo le grandi imprese potevano
fare; e grazie a questo meccanismo, consumatori e utenti assumono a loro volta un ruolo attivo nel ciclo di
creazione del valore” (C. Formenti), producendo di fatto un taylorismo mentale o digitale che suddivide il
lavoro, lo frammenta nuovamente, anche o soprattutto grazie alla rete, in attività parziali, per poi
ricomporlo appunto in sistemi maggiori. Inoltre, vecchie mansioni di basso profilo, sia operaie che
impiegatizie, sono oggi svolte grazie a sistemi informatici, ma non modificano né arricchiscono il contenuto
della mansione, semplicemente lo fanno svolgere in modo digitale. Di nuovo: il vecchio fordismo non è
morto, ma si è incorporato nella rete e nelle nuove tecnologie. Fordismo individualizzato.
In più, caso non isolato, spesso le nuove tecnologie e i nuovi modi di organizzare il lavoro e il consumo si
traducono nel modello Amazon. Ovvero, orari di lavoro
sfiancanti, obiettivi di produzione eccessivamente ambiziosi, controllo ossessivo e insistito dell’azienda,
mobbing e accuse tra colleghi come filosofia di vita aziendale.
Il modello Uber
Il modello Uber nasce dalla diffusione della logica della esternalizzazione di attività e mansioni e dalle
politiche in atto da due decenni di riduzione dei costi del lavoro.
L’uberizzazione del lavoro – uberizing economy - si diffonde nel mondo. Altri la definiscono gig economy,
dal termine che definisce una performance artistica o musicale e che ora denomina un lavoro temporaneo,
di brevissima durata, come ad esempio consegnare pacchi per Amazon, nella logica del ‘Lavori quando vuoi,
per quanto tempo vuoi’, come recitava l’annuncio del servizio. Di fatto, molti scelgono questo tipo di lavoro
perché hanno assunto la flessibilità come forma di vita e non accettano più un lavoro stabile o perché
devono cercare di sopravvivere in tempi di crisi del lavoro. Diversi i settori della uberizing economy: da
Wag!, l’Uber dei dog sitter a Coders Clan, l’Uber di coloro che stendono programmi informatici; da Food
Now, per la consegna a domicilio del cibo a TaskRabbit.com, per trovare lavoratori disposti a svolgere
piccole commissioni, come ritirare la biancheria in lavanderia o annaffiare le piante nelle case in assenza dei
proprietari.
Caratteri d questa economia: connettività via smartphone, geolocalizzazione, surge pricing (prezzi al rialzo
se aumenta la domanda). Problemi: quale regime fiscale applicare (è una forma di lavoro nero?), quali
contratti di lavoro (spesso del tutto assenti), quali diritti dei lavoratori? Su tutto la questione: se si tratta di
lavoro libero (grazie anche a slogan come: Il boss ora sei tu), oppure di una nuova forma di lavoro
subordinato/fordista.
Vetrina e vetrinizzazione.
Dalla vetrina alla vetrinizzazione di sé. Il concetto di vetrinizzazione – secondo Vanni Codeluppi - consente
di interpretare in modo unitario processi diversi e diversi fenomeni sociali. Effetto dei meccanismi di
progressiva spettacolarizzazione che negli ultimi due secoli, ma in particolare dal ‘900, ha investito i
principali ambiti delle società occidentali: gli affetti, il corpo, l’attività sportiva, i mass media, il tempo
libero, i luoghi del consumo, gli spazi urbani, la cultura che diviene evento. Una vetrinizzazione di sé che
inizia appunto con la comparsa, nel ‘700 della vetrina: che metteva in scena e valorizzava oggetti in
precedenza inerti e passivi e che solo aspettavano di essere comprati. Da allora, la merce, il bene si
presentano allo spettatore/consumatore in modi particolari e sempre più coinvolgenti/emozionali e
discorsivi. La merce produce appunto un linguaggio e una comunicazione. Un discorso collettivo.
Nel ‘900, secondo Codeluppi, i mass media hanno rafforzato sempre più il modello comunicativo della
vetrina, passando da un modello di fruizione collettiva (manifesti, cinema e poi radio e televisione) a uno
basato sul consumo solitario (internet, paytv, e-commerce) - per approdare poi, con la trasformazione
crescente anche degli uomini in merce che deve essere venduta nel mercato, alla vetrinizzazione di sé, al
mettersi in pubblico/vetrina per essere visti, osservati, giudicati, comprati. Spettacolarizzando se stessi e
mercificando se stessi. Una sorta di applicazione del marketing e della pubblicità per se stessi.
Tecnica e capitalismo
Scriveva Erich Fromm: “Costruendo la nuova macchina dell’industria, l’uomo fu così assorbito dal nuovo
compito che questo divenne la meta preminente della sua vita. Le sue energie, che una volta erano
dedicate alla ricerca di Dio e alla salvezza eterna, furono ora dirette verso il dominio sulla natura e verso
sempre crescenti comodità materiali. Egli cessò di usare la produzione come mezzo per una vita migliore,
ma ne fece un fine in se stesso, un fine cui era subordinata la vita. Nel processo di una sempre maggiore
divisione e meccanizzazione del lavoro e nelle sempre maggiori dimensioni degli agglomerati sociali l’uomo
stesso diventò una parte della macchina piuttosto che il padrone. Scoprì che lui stesso era una merce, come
un investimento; suo fine diventò avere successo, cioè vendersi sul mercato il più vantaggiosamente
possibile. Il suo valore come persona sta nella sua possibilità di vendersi e non nelle sue qualità umane di
amore e di ragione o nelle sue capacità artistiche. La felicità si identifica col consumo di merci più nuove e
migliori, con la passiva ricezione di musica, cinema, svago, sesso, liquori e sigarette. Non avendo un senso
dell’io se non quello datogli dal conformismo con la maggioranza, egli si sente insicuro, ansioso e dipende
dall’approvazione altrui. E’ alienato da sé, adora i prodotti delle sue stesse mani e i capi che si è dato, come
se essi fossero sopra di lui invece che fatti da lui. E’ in un certo senso ritornato indietro a dov’era prima
della grande rivoluzione umana iniziata nel secondo millennio prima di Cristo”.
Scriveva a sua volta Günther Anders: “Il trionfo del mondo degli apparati consiste nel fatto che esso ha
cancellato la differenza tra forme tecniche e sociali, rendendone infondata la distinzione. (…) l’ideale
dell’apparato è tanto più perfettamente realizzato quante più energie e rendimenti una struttura riunisce in
sé. In effetti, i singoli apparati in senso letterale restano incapaci di funzionare in modo sensato finché non
vengono coordinati in un tutto perfettamente funzionante come l’apparato”.
Sharing economy
Se andiamo ad analizzare con spirito critico – come sempre si dovrebbe fare – questa mitizzata sharing
economy ci accorgiamo che la realtà è – ancora una volta - diversa dalla promessa; che spesso è
semplicemente una maschera al vecchio sfruttamento del lavoro del capitalismo 0.0; che è un’economia
del tutto capitalistica; che produce oligopolio (Uber, Airbnb); e che, soprattutto la condivisione è permessa
solo se passa attraverso la rete e l’infinita connessione, integrazione, organizzazione di tutti e di ciascuno
permessa dalla rete stessa, dove qualcuno trae profitto per sé dalla condivisione degli altri.
Sharing economy che è passata dalla generosità e dall’altruismo di quel che è mio è anche tuo all’egoismo
interessato di quel che è tuo è mio, mentre i valori non commerciali evocati dalla parola condivisione sono
stati ridotti ad un esercizio di pubbliche relazioni o forse meglio di purissimo (e vecchio) marketing; con una
rete che sempre meno è un mezzo di comunicazione, condivisione vera e di conoscenza (lo era agli inizi) e
sempre più è un mezzo tecnico e capitalistico di connessione, di incessante messa al lavoro, di sfruttamento
della ricchezza anche sociale e delle conoscenze altrui. La sharing economy ha tradito le sue promesse ed è
diventato terreno di caccia di miliardari, finanzieri e capitalisti che cercano di far penetrare i valori del
mercato sempre più all’interno della vita personale di ciascuno, generando il contrario della condivisione:
deregolamentazione, nuovo consumismo e nuova precarizzazione del lavoro.
Condivisione?
In realtà la condivisione e l’aiuto erano pratiche antiche. La rivoluzione francese – in altro modo - era nata
anche per realizzare un principio di fraternità e di solidarietà. Il welfare pubblico post-1945 era basato
anch’esso sulla condivisione (la redistribuzione della ricchezza dall’alto verso il basso della società, la
creazione di uguali punti di partenza per tutti, le assicurazioni sociali come forma di partecipazione e di
condivisione sociale dei rischi), oltre che sulla fraternità/solidarietà inter-generazionale. E anche il ’68 è
stato rivoluzionario verso la società di classe e verso i suoi falsi bisogni, in nome di una diversa solidarietà e
di una nuova condivisione. Ma tutto questo è stato progressivamente rimosso, cancellato.
La modernità liquida si è sostituita (dice Bauman) a quella pesante (anche se, in verità questa modernità
liquida è molto più pesante della precedente), il lavoro è passato dall’essere un diritto a essere una merce,
lo stato sociale è stato ridotto e privatizzato, ciascuno è lasciato solo. Rete e globalizzazione hanno
liquefatto la società aperta, ma per compensare emotivamente e relazionalmente gli individui isolati dai
processi tecnici e di mercato ecco la rete che lega e apparentemente non lascia soli, ecco l’ideologia della
condivisione-che-non-è-vera-condivisione, la fabbrica come comunità di lavoro e da cui deve essere
ovviamente eliminato il conflitto e quindi l’immaginazione di cose diverse, il nuovo paternalismo
imprenditoriale e il welfare aziendale (o sharing), il populismo tecnocratico, la favola della rete libera e
democratica. Se la rete de-socializza, la rete poi comunitarizza e dà l’illusione della condivisione.
Rete come mezzo di connessione
Niente di nuovo, in verità, ma fatto apparire come nuovo (ancora, lo storytelling del tecno-capitalismo). Lo
aveva intuito Henry Ford, già cento anni fa, quando scriveva: “Nelle nostre prime prove noi ritenevamo
necessario raggruppare nello stesso impianto le linee di produzione e di montaggio, ma poi, con
l’esperienza, abbiamo imparato che la fabbricazione di ciascuna delle parti che compongono il prodotto
finito costituisce un settore distinto e può effettuarsi dovunque si presenti la convenienza, visto che il
montaggio finale può avvenire in qualsiasi posto. Tutto ciò ci ha dato la misura della flessibilità della
produzione moderna”. E ancora: “una amministrazione efficiente si basa sulle registrazioni, sulla
progettazione, sullo studio delle operazioni e su buoni sistemi di comunicazione e non necessariamente
sulla possibilità di supervisione diretta e locale”. E oggi questo buon sistema di comunicazione/connessione
si chiama rete. Con una serie di vantaggi per il tecno-capitalismo: fine del conflitto sociale e del conflitto tra
capitale e lavoro (oggi tutti siamo ormai persuasi di dover essere imprenditori di noi stessi), fine di Grandi
Narrazioni alternative (al più, una Piccola Narrazione da social street, giusto per sopravvivere e sentirsi nonpiù- soli o meno-soli), fine della progettazione sociale (al più, e ancora: da social street), fine della società
aperta e moltiplicazione delle comunità (che sono pratica diversa e opposta alla società).
Anni Ottanta, ancora. 1
Gli anni ’80 sembrano essere tornati di moda. Almeno stando ai social network. Nostalgia, o piuttosto e
meglio: affinità elettiva con gli anni ’80. Che sono stati la risposta alla tristezza degli anni ’70, un decennio
con due crisi petrolifere (1973 e 1979), domeniche senz’auto e Natale senza luminarie per risparmiare, anni
di scoperta della crisi ecologica e del concetto di limite (il Club di Roma), di stagflazione e disoccupazione.
Gli anni ’80 erano l’opposto, offrivano leggerezza, spensieratezza, illimitatezza e voglia di non pensare,
cancellavano l’idea di limite e di responsabilità. Erano gli anni di Margaret Thatcher (che diceva: la società
non esiste, esistono solo gli individui; e forse la famiglia) e di Ronald Reagan che offrivano il più cinico
capitalismo come novità virtuosa e come riscoperta dell’individuo capace finalmente di tagliare tutti i lacci
e lacciuoli (come li definiva Guido Carli alla fine degli anni ‘70) dello stato sociale e che lo tenevano
imprigionato dalla culla alla bara impedendogli di essere libero e di cercare se stesso. Neoliberismo che non
è un’ideologia economica ma politica e culturale per trasformare la società in mercato, sostituire il sovrano
economico a quello politico (e al demos) e per creare un uomo nuovo, flessibile e competitivo e convinto
dell’assenza di alternative.In questo senso, quella per gli anni ’80 non è solo nostalgia ma la voglia di
replicarne l’essenza esistenzialistica.
Anni Ottanta, ancora. 2
Allora nasceva l’edonismo reaganiano, brillante neologismo per dire che i valori dominanti erano (dovevano
essere) appunto individualismo esasperato, autopromozione di sé, rifiuto della solidarietà e accettazione
della competizione e dell’arricchimento facile. Oggi, quell’edonismo si è tradotto nell’edonismo
tecnologico, nell’innovazione tecnica come unica forma possibile di innovazione (dimenticata, invece,
l’innovazione e la progettualità sociale e politica), ovviamente di individualismo. L’ideologia è la medesima.
Lo storytelling è il medesimo o modificato di poco - perché anche in rete (e nonostante le retoriche sulla
condivisione, dell’amicizia e del social che sembrano servire in realtà ad altro), la società non esiste, ma
esistono solo gli individui; semmai la community.
Ancora: ieri l’ottimismo era indotto dai media (tv commerciale in particolare, l’impero di Berlusconi nasceva
in quegli anni), oggi è l’ottimismo della Silicon Valley, dei tecno-entusiasti sempre e comunque. Ieri la
televisione commerciale oggi i socialbusiness network. Nessuna nostalgia, dunque per gli anni ’80. Ma la
riscoperta forse di quei (dis)valori, necessari anche oggi per uscire dalla crisi (e insieme accentuare
l’egemonia di neoliberismo e della Silicon Valley). Appunto: dall’edonismo reaganiano all’edonismo
tecnologico (un’altra forma di disimpegno dalla politica e dal futuro; e di falso individualismo). Dal Drive in a
YouTube. Dalla televisione alla rete. Da Dallas a Grey’s Anatomy (ma anche, in un certo senso, a Don
Matteo). Dal piccolo è bello al dover essere imprenditori di se stessi.
Bibliografia
G.Anders, "L’uomo è antiquato" (2 volumi) ed.Bollati Borlinghieri
M.Focault, "Sorvegliare e punire" ed.Einaudi
J.Ellul, "Il sistema tecnico" ed.Jaca Book
E.Morozov, "I signori del silicio" ed.Codice
L.Demichelis, "La religione tecno capitalista" ed.Mimesis
U.Galimberti, "Psiche e Techne" ed.Feltrinelli