il viaggio - Sandra D`Urzo

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il viaggio - Sandra D`Urzo
Sandra D’Urzo
IL VIAGGIO
CENTO GIORNI A SUD DELL’ANIMA
Sotto l’equatore. Mi sfuggono molte cose, ma so che il mio viaggio per le terre e i mari del mondo
si svolgerà tutto sotto l’equatore. Non sono mai stata dal lato che dorme quando io sono sveglia e
vive sotto le stelle di un cielo sconosciuto, sepolto al di là della sottile linea orizzontale che invece
accompagna e delimita la mia vita da tanti anni.
Nel mio piccolo immaginario, questa fetta della terra gode da sempre di un posticino privilegiato,
per il solo fatto di chiamarsi il sud del mondo.
E’ settembre, ho appena festeggiato i miei ventott’anni, che mi sono risuonati nelle orecchie in
modo strano, forse perché ognuno di noi almeno una volta ha pensato all’età che avrebbe avuto
nel fatidico duemila, e ora che mi sono piovuti addosso una calda sera di settembre mi sento un pò
vuota e stordita, a tre mesi e mezzo dalla fine dell’anno.
Non é stato per una scommessa a carte e neppure per l’ossessione di dover collezionare gesta
eroiche e memorabili, credo piuttosto che il mio giro del mondo in cento giorni sia nato lentamente
da un timido sogno.
Oggi lascio un lavoro, la certezza e le persone che amo ma vedrò altri cieli e altri occhi, e dormirò
al riparo sotto il tetto di estranei; davanti a me prenderanno forma le mappe geografiche ed i
percorsi che sto tessendo con la stessa passione con cui un visionario legge il futuro nelle linee di
una grande mano colorata, trasformando le distanze in giorni e notti di continua scoperta.
Da : Sandra
Oggetto : AFRICA
Data : 25 Settembre 2000 16 : 05 : 54 PM
E’ sera, e sono qui con la voglia di raccontare i miei pensieri africani, prima che mi scivolino via.
Sto naufragando in Africa Orientale, sto esplorando posti in fondo al mondo arrivandoci piano
piano con le mie gambe, altre volte mi fermo a guardare l’Africa che ti passa davanti, milioni di
aspetti diversi dello stesso posto, in continuo perdersi e ritrovarsi, alla ricerca di immagini che
ricorderò a lungo.
Coi pensieri e le sensazioni che l’Africa ti provoca dentro potrei riempire centinaia di pagine: invece
quello che vedo e’ talmente forte e profondamente diverso che non riesco a mettere insieme
neppure due parole. Per ora le pagine dei miei quadernetti sono rimaste bianche e impolverate.
Il viaggio e’ duro, le distanze tra un posto e l’altro sono enormi e lungo strade sgangherate e
polverose, ma poi arrivano momenti che ripagano della fatica, delle maledizioni che mi manda la
mia schiena e del mio viso scrostato dal sole.
Ogni mattina mi sveglio eccitata con l’idea che qualcosa, di bello o di doloroso, succederà. Mi
sento un pò bambina, con gli occhi disorientati e sfocati, travolti da orizzonti troppo grandi e senza
punti di riferimento.
“L’Africa, vecchia com’è, rende tutti bambini”, diceva Hemingway, forse é così, o forse ci sono
radici tanto profonde che qui si riesce a trovare una parte di sé che altrimenti rimane
addormentata.
La vita scorre ovunque, anche nei posti più sperduti dimenticati dalle mappe più dettagliate, nelle
città o nelle capanne e non ha il sapore della miseria: la ricchezza qui sta negli sguardi, nei sorrisi
dei bambini che inseguono il tuo autobus perché sei l’unico “diverso”, nei baobab grandi come
elefanti, nei colori, nella musica, nelle case di paglia e di fango, nei fuochi che si accendono la sera
accanto alle capanne.
Ieri sono stata in una scuola sperduta dove insegnano due ragazzi che ho conosciuto, che
emozione vedere I bambini ballare e cantare in classe per darmi il benvenuto!
E com’è difficile mostrare le conchiglie che avevo raccolto a chi non ha mai visto il mare,
raccontare che l’acqua e’ infinita a chi deve andare a cercarla ogni mattina in fiumiciattoli
rinsecchiti, spiegare che l’Italia e’ più lontana del villaggio vicino e non e’ l’America, dire che il
mondo e’ grande e che non siamo che puntini che si muovono su una mappa di chiazze
colorate…e com’è bello ricevere un applauso ad ogni risposta!
Ho visto città con dedali di vicoli puzzolenti, minareti che sbucano da angoli nascosti, odori
pungenti e gente che va e viene, mangia, trasporta, fatica, dorme, ride, compra e vende in
un’umanità che vive appiccicata stretta stretta. Donne bellissime nelle loro tuniche colorate che ti
vendono noccioline, manghi e noci di cocco magari al suono del rap afro-americano dei loro fratelli
oltreoceano.
Ho visto il “tetto d’Africa”,il Kilimanjaro che se ne sta li’ in mezzo a chilometri di terra
arida,assediato solo da pazzi furiosi il cui sogno e’ di piantare una bandierina a seimila metri di
altezza…Io me ne sono rimasta a guardare gli spazi orizzontali, ho misurato con lo sguardo e con
le sensazioni, ho visto come lo misurano gli animali, lo delimitano, lo proteggono: famiglione di
elefanti, bufali, giraffe e gazzelle, e poi ancora leoni, sdraiati all’ombra della loro preda come se
fossero in un documentario di Quark, e poi sabbia, sabbia e ancora sabbia.
Non ti puoi immaginare come qui possano vivere i Masai, nomadi della terra spaccata e signori del
deserto, che sono riusciti ad addomesticare l’ambiente e a trovare un equilibrio che gli permette di
allevare greggi e costruire capanne. E’ buffo, e’ come se il loro equilibrio fosse fatto di opposti : si
vestono con drappi rosso fuoco e si riempiono di gioielli fatti da loro dalla testa ai piedi in un posto
che non ha neppure l’essenziale, figuriamoci il superfluo. E’ quando la natura non ti aiuta che si
inventano cose bellissime….Forse é lo spostarsi continuamente gli permette di rimanere uguali a
se’ stessi in tutti gli angoli di questo paese. E a non fermarsi mai a pensare che la vita, quaggiù, e’
proprio dura.
A volte penso che malgrado tutto questo mi mancano mio padre, mia madre, i miei fratelli, i miei
amici, una casa, una doccia calda, un gelato alla frutta, una chiacchierata, una coccola….
Non so se arriverò alla fine di questo viaggio, per ora lo vivo al ritmo dilatato delle giornate
africane, senza fretta, o come dicono qui, acunamatata.
Un abbraccio lungo tre mesi a tutta la mia tribù.
IL GRIDO D’AFRICA
Un giorno intero su un autobus africano fa capire di più che un mese passato in qualche albergo.
Nessuno ti sa dire quando partirà, e quindi potrebbe arrivare a destinazione anche tre giorni dopo,
perché c’è sempre posto per uno in più e non manca mai il tempo per aspettarlo….Ieri siamo stati
fermi per sette ore perché, siccome pioveva e una delle finestre vicino all’autista era
completamente rotta, la partenza era stata rinviata per andare a convocare “d’urgenza” - termine
molto relativo da questa parti - un falegname che si prestasse a rattoppare alla bell’e meglio il
vetro mancante con un pezzo di legno; dopo aver accuratamente preso le misure e, con l’aiuto di
ben due assistenti, averne disegnato la sagoma, il falegname ci ha messo circa due ore per
produrre l’opera d’arte e altre due per montarla con tutto il villaggio che gli stava intorno.
In compenso, certo, non c’era da annoiarsi; in quell’attesa infinita sei parte del gioco, non puoi
astrarti in un isolamento da libro o da walk-man e sei costretto a vagare in un limbo con un’umanità
varia e divertente. Ognuno ha la sua storia da raccontare, il commento pronto e la domanda da
fare in una overdose di comunicazione, sotto ogni forma.
Sì, perché la comunicazione non é solo quella codificata da grammatiche, da regole ed eccezioni,
ma é anche quella mimica colorata degli occhi e del corpo; é un sorriso o una pacca sulla spalla, é
una risata contagiosa che ti fa ridere a crepapelle.
Mentre io mi davo ad acrobazie linguistiche impastando contemporaneamente quattro o cinque
lingue in conversazioni buffissime con gente sorridente, mi sono accorta di una donna seduta
vicino a me, in assoluto silenzio, con due bambini in braccio.
Non parlava, eppure il suo grido di dolore si elevava al di sopra di tutte le altre voci, muto ma
disperato: aveva un viso da madonna nera e due gemellini, tre anni in due, uno sano e l’altro
molto, molto malato.
Uno seduto in braccio, felice e coccolato, l’altro per terra, sporco e trasandato.
Per la madre ne esisteva solo uno, quello forte e sano, quello che probabilmente ce l’avrebbe fatta
a conquistarsi un posticino su questa terra, mentre l’altro, quei dieci chili di sofferenza senza
futuro, rappresentavano sicuramente un’ulteriore fardello per chi ha come unico scopo l’arrivare a
domani: meglio allora difendersi come si può, non affezionarsi e conservare tutta l’energia per uno
solo.
E’ la quotidianità della morte che qui ti assale, e ci sono contrasti in questo continente che
neanche la fantasia può elaborare.
La realtà che vedo è straziante e dolce allo stesso tempo, la gente soffre e muore perché questo
bellissimo paese è anche l’ospedale del mondo e il cimitero dell’Europa ricca e indifferente. Qui
non si protegge il più debole, qui la malattia non é guaribile, é letale.
Mi frullano in testa i dati asettici da censimento dell’Unicef, undici milioni di bambini muoiono nel
primo anno di vita, centosettanta milioni sono denutriti e uno su dieci é handicappato. Cifre da
brivido, ma senza memoria.
Ci sono invece immagini, scatti e impressioni che rimangono maledettamente incollati alla pelle, un
centoventicinquesimo di secondo che passa all’eternità, il grido della bambina del Vietnam o l’urlo
di Munch.
Nessuna immagine mi ha ferito di più di questo destino in carne e ossa; nessun dolore mi é
sembrato più ingiusto di imporre ad una madre il sacrificio di uno dei suoi figli, nati dallo stesso
embrione, e condannarla a stare lì a vedere la vita di uno dei due finire.
Quale volontà cinica e crudele fa giocare insieme la vita e la morte per poi sorteggiare un’altra
vittima di quest’assurda gara?
D’ora in poi iI viso di quella madonna nera tormenterà le mie notti e si rifletterà ogni giorno nella
mia coscienza scossa.
“Sulla mia fame, la polvere di sedici anni
errabondi, e l’inquietudine di tutte le strade
d’Europa e il rumore delle grandi città;
e le città battute dalle onde di mille
passioni nella mia testa.
Il mio cuore é rimasto puro come
Il vento dell’Est nel mese di marzo”
L.Senghor
PESCATORI
Alle cinque del pomeriggio rientrano i pescatori. Tornano tutti insieme, come una compatta flotta
che di giorno si è sparpagliata in mille frammenti colorati, affrontando ognuna le mille trappole e
insidie che il mare tende a chi si avventura tra le sue onde, e la sera sente simultaneamente il
richiamo della costa e la sicurezza della terraferma, lasciandosi alle spalle l’immensa solitudine del
mare.
Li osservo in lontananza, piccoli gusci di noce con una veletta legata ad uno stuzzicadenti, spinti
dal vento del tramonto; tutta la spiaggia si anima improvvisamente:accorrete accorrete che tornano
i marinai, vecchi e bambini allestiscono velocemente banchetti sui quali distribuire ciò che il mare
pescoso ha regalato oggi, mentre le donne iniziano a preparare la cena pestando la manioca.
La simbiosi di questi villaggi con il mare è totale, è genesi, è fatica ed è futuro.
Io che da sempre subisco il fascino del mare, mi commuovo davanti ai suoi riflessi colorati, ai muri
bianchi, confusa tra le stelle che già a quell’ora punteggiano di luci il cielo e le onde che rotolano
silenziose al mio fianco. E’ la magia di guardare per ore una superficie che spalanca infinite vie
all’orizzonte ed è lui, il mare, che mi dà le stesse emozioni dell’amore.
Gli ultimi giorni li ho trascorsi qui, sulla costa della Tanzania, tra posti che si chiamano Bagamoyo
e Pangani, a sentire il polso profondo dell’Africa nella polvere di questi villaggi sperduti, lontana dal
fragore dei turisti di Zanzibar.
Qua e là ci sono resti di antiche colonizzazioni tedesche, che avevano piantato qui le loro radici,
edificando sulla pietra la conquista di questa terra d’oro e di spezie, ed il dominio sui popoli dalla
pelle di ebano e il sorriso di avorio. Polvere di altre epoche sedimenta tra le strade di questi
paesini, mentre le fortezze ed i palazzi sulla riva, ormai corrosi dal tempo e dalla natura
prepotente, servono soltanto ad orientare lo sguardo dei marinai.
Da questi porti sono salpate innumerevoli imbarcazioni di schiavi in rotta per le Americhe; si è
contrattato su donne in cambio di sacchi di sale e sete in cambio di zanne di elefanti; lungo queste
strade sterrate ha errato Livingstone, già stanco e malridotto, nel suo peregrinare in cerca della
sorgente del Nilo o di chissà quali altri misteri del continente nero.
Intorno a me c’é gente disponibile e gioviale, che obbedisce solo al ritmo di una vita semplice,
dettata inesorabilmente dal giorno e dalla notte; bambini che non mi mollano un attimo e vecchietti
con la storia scritta sulle rughe che giocano a carte coi loro ultimi anni.
Vedo le piroghe in costruzione, ricavate da tronchi d’albero tutto d’un pezzo, che riposano accanto
alle capanne in attesa di essere pronte per il mare: sono impressionanti, lunghe lunghe e scavate
con mezzi tutt’altro che tecnologici.
Mi sono venute in mente le imbarcazioni che da bambina avevo visto tante volte al museo del
Congo, vicino a casa mia, e di una in particolare, che misurava ventidue metri, nella quale
entravano cinquanta persone, costruita per l’arrivo del Re del Belgio in visita nella sua colonia, che
ai miei occhi increduli e al mio metro di altezza erano quanto di più smisurato potessi concepire.
Stasera ho la stessa sensazione perdendomi nella volta smisurata che il mio sguardo cresciuto
abbraccia sotto al cielo stellato.
Provo a mangiare qualcosa che sia diverso dal solito piatto di riso e fagioli: qui sulla costa la
tradizione culinaria è rimasta tenacemente legata agli antichi scambi di merci tra Africa , India e
Medio Oriente, quindi si trovano anche intrugli conditi al curry, riso cotto con il latte delle noci di
cocco e condito con banane dolcissime. La base dell’alimentazione è costituita da yucca, frutta
esotica, derivati vari delle palme e carne di pecora o di gallina.
Una notevole varietà rispetto alla dieta monotematica dell’interno: dove l’acqua scarseggia anche il
riso è un lusso, così spesso mi tocca ingurgitare un pappone della famiglia della polenta, non
proprio una delicatesse per il palato, bianco e insapore ma un palliativo che sazia la fame; lì dove
scarseggia anche il cibo, e un vuoto gonfia i ventri dei bambini, l’ugali è senz’altro una manna del
cielo.
Stringo i denti e ingoio senza masticare: la mia fame stasera è violenta perché quella maledetta
profilassi antimalarica mi ha spezzato in due negli ultimi giorni, ho l’impressione di ingoiare acido
invece di pasticche terapeutiche e la lista delle controindicazioni mi ha fatto rabbrividire,
prevedendo possibili alterazioni del sistema nervoso, crisi epilettiche e perdita del colore rosso
dallo spettro visivo…
L’unico motivo per proseguire questa cura infernale è perché le zanzare, anofele o no, ci si
mettono davvero d’impegno a torturarmi tutta la notte e a ridurre le ore di veglia ad una battaglia
impari tra me, vittima sacrificale, ed uno sciame assassino di insetti.
Mi butto sotto zanzariere inevitabilmente bucate, escogito sistemi ingegnosissimi per attirarle fuori
dalla stanza, ma proprio non c’è verso, sono vaccinate da tempo contro le inutili tattiche dei turisti
ingenui.
A Bagamoyo tra qualche giorno inizia un festival di danza e di musica africana, che si svolge
nell’unico edificio collettivo esistente, affrescato coi colori dell’arcobaleno e frequentato dalle
cinque generazione del paese.
Le tradizioni artistiche qui vengono tramandate con passione e orgoglio di padre in figlio o di bocca
in bocca; mi sembra di assistere ad un viaggio iniziatico nel mondo della musica africana nel quale
si mescolano costumi moderni e antico folclore.
Provo a ricordarmi dei nomi di musicisti africani che ascolto in Italia, e con imbarazzo non riesco a
metterne insieme neppure dieci: eppure l’Africa è grande, il ritmo delle percussioni risuona dal
Mediterraneo al Capo di Buona Speranza, Da Bamako a Johannesburg e dal Golfo della Guinea
alle isole dell’Oceano Indiano.
Khaled e Ismail Lo, Yussou ‘Ndour e Cesaria Evora ce la fanno ad attraversare i mari mentre tanti
altri suoni di artisti africani nascono e muoiono in queste terre.
Malgrado le tradizioni musicali siano profonde, le radio diffondono melodie che non c’entrano
niente con questo posto, il pasticcio di sonorità che si ascolta in giro, piano piano si inciderà sui
ritmi primitivi e strapperà la memoria della gente.
Qui non c’è nessun Ry Cooder a recuperare vecchietti sdentati e piazzarli sui palchi di mezzo
mondo a intonare canzoni cubane; ogni tanto La Repubblica o Panorama distribuisce qualche
compilation africana nella speranza di incrementare le vendite, ma i singoli musicisti hanno nomi
così impronunciabili, tipo M’bady Kouyaté o Mbongeni Ngema, che passano direttamente nell’oblìo
generale.
Forse questo é il problema dell’Arte africana in generale, gettata sui mercati e sulle piazze di tutta
la terra con l’appellativo di “arte etnica” e svenduta nei ristoranti sotto forma di statuine longilinee e
animaletti di legno.
L’arte indigena, quella spesso chiamata arte “povera” o primitiva, è un’arte senza artista, percepita
dal resto del mondo come produzione di opere con una qualità estetica di cui però l’artista è solo lo
strumento. Perché se la tecnica viene tramandata e gli oggetti scolpiti si assomigliano da secoli,
allora evidentemente i nomi di chi li produce sono intercambiabili…
Mombasa è la città pulsante del Kenya. Ci sono arrivata dopo dieci ore di dala-dala,il pulmino di
dieci posti -ufficiali- che è diventato uno dei simboli nazionali del Kenya,una sorta di discoteca
ambulante con i decibel così forti che il governo ha dovuto ricorrere ad un singolare provvedimento
per diminuirli in tutto il paese, ma che ha pur sempre un ragazzino che sbraita a squarciagola il
nome della destinazione per strappare clienti al pulmino davanti a lui. Clacson, ammasso di carne
umana, musica, si parte!
Finalmente si vedono le luci della città, e il dala-dala si imbarca per attraversare la lingua di mare
che si infila tra la terraferma ed il centro di Mombasa. Il traghetto sembra un pezzo di città che sta
traslocando, c’è gente che compra e vende, mangia, beve e dorme, fatica e aspetta…ci sono odori
nauseabondi di carne putrefatta, accanto a me le donne servono la zuppa preparata nelle carriole
e non mi sembra la misura più igienica del mondo, ma probabilmente qui gli anticorpi hanno
braccia e gambe da pugili.
Di giorno mi perdo tra i vicoletti di una città che potrebbe perfettamente stare in Medio Oriente o in
qualche altro stato islamico, ma alzando lo sguardo mi accorgo che minareti e campanili
disegnano con le loro sagome uno skyline armonioso, senza sovrastarsi, così come immagino
fossero costruite le città conosciute nei Balcani, dove invece ora restano in piedi solo brandelli di
edifici, con in cima una croce o una semiluna sconsacrate.
Incuriosita dalle voci bellissime che ho sentito passando davanti ad un edificio che assomigliava
più ad una sala concerti che a un luogo di culto, entro in punta dei piedi tra una folla nera nel pieno
di una messa gospel: che emozione, tre o quattrocento voci che cantano, pregano e piangono
nella sola lingua che la fede unisce, quella della musica. Sembrava di essere in un bolla di sapone
che si gonfiava poco a poco con il fiato appassionato di tutti quei fedeli, lievitando lentamente
verso le sfere più alte dello spirito.
Ho raccolto tutte le mie forze per non piangere, ma le mie braccia si sono confuse tra le altre
trecento alzate al cielo in un abbraccio collettivo, unite in quel battesimo che non ho mai avuto e di
cui ora forse sentivo il bisogno.
Tornata in albergo ancora un po’ stordita da quell’evento, mi sono buttata sul letto con la seria
intenzione di dormire dalle sei del pomeriggio fino all’indomani, quando mi chiamano dalla
reception per dirmi che qualcuno mi stava aspettando nella hall: rispondo che proprio non poteva
essere, non ero io quella che cercavano perché avevo scambiato due parole solo con un tassista e
con il bigliettaio del museo. E riattacco. Dopo due secondi, risquilla e la voce al telefono mi prega
di scendere, c’é un signore là sotto cerca proprio una Miss. D’Urzo.
Credo di aver fatto una faccia inverosimile quando ho visto quel giovane distinto, incrociato un paio
di ore prima nella fila per cambiare soldi, con un sorriso a trentasei denti e una limousine
parcheggiata davanti all’entrata.
Non ho ancora capito bene se si sia fatto a tappeto tutti gli alberghi “bianchi” di Mombasa - alla
domanda che mi rivolse di sfuggita nella fila avevo risposto evasivamente che alloggiavo in un
edificio bianco, che in una città tutta color calce non era una grande indicazione… - oppure se più
realisticamente abbia pagato qualcuno per seguirmi: fatto sta che il figlio di uno sceicco dell’Oman
molto gentilmente mi chiedeva se poteva invitarmi fuori a cena. Quando gli risposi che poteva
congedare il suo autista, diligentemente in attesa nella limousine, e che l’Oman purtroppo non era
contemplato nella mia rotta di viaggio, ha rincarato la dose assicurandomi che il suo animo era
molto più nobile e poetico dei suoi pozzi di petrolio: quando stavo sul punto di scoppiare a ridere
per tutta quella scena, ma gli occhi di tutto l’albergo addosso me lo impedirono, ha iniziato a
declamare poesie recitate a memoria nella speranza di toccare il cuore con versi ardenti.
Così quel pomeriggio ho rinunciato ad un futuro da donna dello sceicco bianco, alla promessa di
vivere in un castello coi rubinetti d’oro e le fontane coi cigni all’ingresso, tra tappeti di seta e la
compagnia delle altre sue mogli.
I MASAI
Tocca tirarlo forte, per un paio di volte, quel dannato filo di accensione del motore diesel, prima
che dia finalmente il rumore sordo al quale le donne Masai accorrono e che risuona fino ai villaggi
vicini. Si mettono tutte in fila, munite dei loro bidoncini gialli, come se quel suono atteso con ansia
fosse un richiamo più forte delle campane della domenica.
Accorrono anche le bestie, istintivamente, fiutando nell’aria una fonte di vita, senza la quale si
ritroveranno stecchite sulla sabbia nel giro di tre giorni.
La pompa che si è azionata grazie al motore estrae l’acqua dalla terra.
Konina e Nailepu, due giovani donne che ho conosciuto e accompagnato qui, ammirano il pozzo
con un misto di incredulità e di timore e, con un gesto tenerissimo rivolto a quella divinità dei tempi
moderni, accarezzano il motore con il loro panno tradizionale, lasciando forse anche qualche
offerta.
Un po’ più in là si intravedono ancora le carcasse mezze putrefatte delle mandrie dei Masai di
questa steppa cruda, a metà tra il Kenya e la Tanzania, e i pochi pastori che si aggirano hanno lo
sguardo liquefatto dal caldo e dalla rabbia di aver perso, negli ultimi mesi, centoquarantatre vacche
delle centocinquanta che avevano.
Si appoggiano ai loro bastoni, e riflettono sul futuro.
Un tempo la vita era facile - prova a spiegarmi uno di loro in un inglese masticato appena in un
bocca sdentata - era corta e dura ma semplice e onesta.
Non lo sarà mai più, aggiunge.
I Masai, un tempo rinomata tribù di guerrieri dallo sguardo fiero con le mandrie prospere che si
portavano dietro nei loro spostamenti, finora impermeabili ai meccanismi di sviluppo moderni,
devono inventarsi un altro modo di sopravvivere.
La siccità degli ultimi due anni li obbliga a guardarsi intorno e a lottare tenacemente per la propria
identità, adeguando la loro cultura alla rivolta dell’ambiente.
In questa regione semi arida una stagione delle piogge mancata non è di per sé un dramma, ma
quattro stagioni secche consecutive sono una tragedia.
Nel mondo dei Masai, uomini e bestiame hanno un legame inscindibile e formano un sistema
economico chiuso. Latte, sangue e ogni tanto carne costituiscono il cibo, accanto al mais e ai
fagioli che si coltivano qua e là.
Vendere una sola vacca sana prima significava non solo mangiare per un mese ma anche
comprare qualche pentola e mandare i bambini a scuola; oggi una mucca vale sì e no diecimilalire,
neanche il cibo di una settimana.
L’equazione di base dà un solo risultato: la fame.
Alcuni ragazzi italiani che mi hanno ospitato in questa zona e lavorano per organizzazioni che
sviluppano reti idriche, mi dicono con rassegnazione che, malgrado gli sforzi, i Masai dovranno
rinunciare alla vita nomade e diventare stanziali, mettendosi a coltivare la terra.
Ma un Masai che fa l’agricoltore è come un leone in gabbia, è una condanna.
E come fa un popolo che è nato con la lancia in mano e un lampo negli occhi quando guarda
l’orizzonte a zappettare la terra spaccata di un’orticello di cinque metri quadri?
Lo farà, mi rispondono, quando li vedi, quei guerrieri alti con le loro mandrie decimate, camminare
per mesi coi piedi straziati per raggiungere Nairobi e pascolare nel traffico impazzito e nella
spazzatura, allora capisci che lo farà.
Ma il giorno in cui gli uomini torneranno nel Kijiado - la terra di origine - senza l’ultima vacca per la
sussistenza, le donne Masai staranno raccogliendo i frutti della loro piccola rivoluzione: non si
dànno per vinte e una parte dell’acqua raccolta in quei bidoncini gialli la piazzano sul dorso di
un’asino e la portano fino al villaggio dove possono annaffiare le fragili pianticelle di spinaci
appena piantate. E questo è il primo passo.
Il secondo passo di questa rivolta della sete è quello felpato del cammello.
Una delle organizzazioni internazionali ne ha introdotti quaranta e dati in mano alle donne,
sperando che ne facciano buon uso.
“Un cammello si porta sempre dietro il deserto”, e quindi soltanto più siccità, fu la prima reazione
alla vista di quelle buffe creature, gobbe e sgraziate.
Poi i bambini hanno iniziato ad assaggiarne il latte, dal sapore diverso, ma non poi così
disgustoso, e le donne videro la loro stoica resistenza al caldo.
Tocca trovargli un posto e legarli a quel collo alto alto, ma questo non è un problema.
L’immagine della forza quasi mistica che irradia il Masai con il suo bestiame è stata così sostituita
da quella meno poetica ma più realistica della donna che porta a spasso un cammello.
Fino a quando ai Masai toccherà allevare cammelli e coltivare cavolo nessuno lo sa, ma un giorno,
sopravissuti a questa dura prova inflitta da madre natura, torneranno ad errare per il mondo
africano, con addosso solo un panno rosso e la ritrovata libertà.
Da : sandra g.
Indirizzo : sandra
Oggetto :africa !
Data : 2 ottobre 2000 13 :16 :34 PM
Bellissima, grazie dei tuoi messaggi pieni di sole e di terra spaccata. ti immagino vagabonda tra sabbia e sorrisi in un
continente che scotta chi non vi é preparato. Mi fa piacere saperti in viaggio, goditelo tutto, che sia tutto quello che vuoi,
un’avventura, un ritrovarsi.
Ti abbraccio dal fondo del grigio londinese con un grande sorriso solo per te…
ps. Ho messo il tuo nome come password al lavoro, così, per avere accesso a tutte queste cazzate che sembrano
importanti, riesco a cambiare la distanza focale e accorgermi che i problemi veri sono altrove, non dietro una scrivania, e
che il mondo é grande…
VERITA’ E BUGIE
Sono passate più di tre settimane dal giorno in cui sono arrivata in Africa, ho perso il conto dei
chilometri percorsi e del numero esatto degli alberghi, pensioncine e bettole dove ho dormito.
Ricordo invece tutti i visi che, per qualche ora o giorno, mi hanno accompagnato per un pezzo di
strada o condiviso il sapore di un caffè.
Facce allegre, stanche e curiose tutte avvolte dallo stesso colore che ha un viaggio in un
continente così profondamente diverso e unite da una grande solidarietà e comunione di spiriti.
Lungo la strada si rinnovano taciti accordi, ci si perde e ci si ritrova in continuazione sentendosi
fragili e insicuri finchè c’è un altro viandante che ti prende per mano e ti porta con lui alla prossima
tappa; ma la solitudine che sento è quella che ho scelto io, una liberazione dell’anima da vincoli e
costrizioni; non è lo sconforto di camminare o di mangiare da sola, ma è un’energia che mi
riempie, l’Africa che ho intorno è il fondale dei miei pensieri, sono i bambini che mi inseguono
ovunque e le parole di simpatie che mi regalano.
“Da sola” è l’espressione che uso mediamente venti volte al giorno in risposta a chi non capisce
dove siano finiti i miei compagni, mariti o loro sostituti, e presto l’indagine svolta sul mio volo
solitario per le terre e i mari del mondo si ferma difronte ad un grande dubbio, se cioè sia sintomo
di follia totale oppure semplicemente un’usanza diversa da quella di qui…In ogni caso spesso
puntualizzano che sono una donna, sono straniera, potenzialmente in pericolo, quindi devo
accettare senza obiezioni l’aiuto di chi ha la pelle più scura della mia.
Mi è difficile a volte spiegare con parole o con gesti che ognuno ha le sue aspirazioni e illusioni per
viaggiare, e le mie stanno nella convinzione che il mio lavoro sia fatto soprattutto di confronto, che
l’architettura non è pura estetica ma è conoscenza dei bisogni della gente, è immergersi e
interpretare le esigenze di vita e provare in ogni modo a trovare soluzioni alla miseria umana che ci
circonda.
Ed è davanti alle realtà più insopportabili che occorre saper ascoltare e assorbire ogni stimolo dei
sensi, mescolandosi alla quotidianità.
Un giorno, ancora in Kenya, mi sono svegliata sotto un cielo plumbeo e grigio, che si adeguava
perfettamente al mio stato d’animo, sentendo improvvisamente il bisogno di una casa: avevo
voglia di rivedere Angela e Marceau, due ragazzi incontrati a Zanzibar tre settimane prima.
Quell’isola dell’Oceano indiano era stata il mio primo approdo in Africa e per loro una fuga dalla
città dove lavoravano, una boccata d’aria che gli era costata due giorni di andata e due di ritorno
sui sei di vacanza che avevano racimolato.
Una follia, ma per quel mare e quel nome esotico, Zanzibar, non si tornava indietro.
Avevamo trascorso sull’isola, tra spezie e noci di cocco, due giorni interi insieme:
abbastanza, su una spiaggia deserta, per costruire un’amicizia sincera e franca, malgrado
nessuno di noi fosse in grado di dire quando ci saremmo rivisti, in quel groviglio di vite spaesate
che formavamo. L’ultima sera in spiaggia, con in mano un miscuglio di liquori improvvisato da
Marceau che ci fece diventare sentimentali, promisi che ci saremmo rivisti presto. Non li avevo più
sentiti da allora, persa nel mio vagabondaggio alle prime armi, ma sapevo che se fossi passata
dalle parti di Arusha, in Tanzania, mi avrebbero accolto a braccia aperte.
Così ho fatto, lasciandomi alle spalle il Kenya e proseguendo verso la frontiera.
Il confine tra Kenya e Tanzania si attraversa in boda-boda, in bicicletta.
Che sudata, ragazzi, quattro chilometri di maratona prima che chiudano il passaggio fino
all’indomani, io su una bici e un ragazzino con il mio zaino in spalla su un’altra, a pedalare verso
un puntino luminoso all’orizzonte.
L’ultimo autobus che dalla frontiera va fino ad una cittadina chiamata Moshi, in Tanzania, è quello
che al calare del sole apre le porte al contrabbando di benzina.
Da un lato all’altro della frontiera un esercito di donne agguerrite e decise a tutto pur di sfamare la
famiglia ha messo su un business per guadagnare duecento lire a viaggio.
Se va male, ci fanno scendere e ci sequestrano le taniche, mi dicono; se va proprio male saltiamo
tutti in aria, penso io.
Scrutando nell’oscurità ci sono bidoni pieni dappertutto, sotto i vestiti delle donne, sotto i piedi e
sopra le teste…Siamo una miccia pronta ad esplodere, ma io vorrei morire per una causa un po’
più nobile di questa, non essere ricordata come la kamikaze del petrolio, morta tristemente per una
monetina gialla.
Il viaggio dura due ore lunghissime e la nostra carovana della benzina ha carburante sufficiente
per arrivare in Sudafrica, ma ci siamo fermati invece all’ombra notturna di una grande montagna.
Sollevata ma indolenzita mi sono gettata sul primo ostello incontrato, e mi addormento.
Quando mi sono risvegliata col sole in faccia e con gli occhi gonfi di sonno che ancora non riuscivo
a mettere a fuoco, ho avuto il sospetto di non essere sola.
Dall’ottavo piano di uno squallido edificio, avevo davanti a me un gigante bianco, il Kilimanjaro.
Il giorno dopo sono finalmente arrivata ad Arusha, una cittadina seduta nella steppa dei Masai, con
ha tutta l’aria di essere nata ai piedi di un’enorme edificio: il bunker delle Nazioni Unite, che ospita
il Tribunale Penale Internazionale contro il genocidio in Ruanda, che è un nome troppo lungo da
dire cinquanta volte al giorno e, siccome tutto qui ci ruota intorno, si chiama semplicemente l’ICTR.
Angela, Alex e gli altri ci lavorano da sei mesi e fanno parte di quella stirpe di avvocati in erba che,
invece di occuparsi di assicurazioni e divorzi all’italiana, hanno deciso che forse la verità qui ha
bisogno di loro e che le ingiustizie sono anche altre, sono quelle che per esempio hanno portato al
massacro a colpi di machete di quattro milioni di persone in poco tempo, messo a ferro e fuoco
interi villaggi e trasformato i fiumi prosciugati in maree umane di un popolo in cammino.
Oggi tocca a loro raccogliere le prove della barbarie, contare uno per uno i corpi nelle fosse
comuni e descrivere scrupolosamente i teschi impalati lungo le strade dei trionfatori, e portare poi
sul banco degli imputati tutti quelli che hanno tinto di sangue la propria arma e, con follia
disumana, sgozzato il nemico.
In un lavoro macabro e paziente, tessono le fila delle colpe altrui e la ragnatela sarà completata
solo il giorno in cui gli accusati saranno dietro alle sbarre a fare i conti col proprio passato.
Ed il Ruanda ha un passato talmente orribile che il resto del mondo ha preferito dimenticarsene,
tanto se già è difficile piazzare quel puntino nel posto giusto sulla mappa gigantesca dell’Africa, nel
dubbio se confina con il Camerun o con l’Angola o con nessuno dei due, figuriamoci impelagarsi
tra quelle tribù di gente senza nome, che se non muore in guerra ha il doppio di possibilità di
morire di stenti.
Mi sono presentata direttamente al servizio di accoglienza del palazzone U.N., extension 455
please, sperando che nel frattempo Angela non fosse stata spedita a regolare i conti di qualche
altro paese disastrato sull’altra faccia della terra.
In quel momento dovevo senz’altro fare una certa compassione, perché la segretaria chiedeva in
continuazione se mi servisse un bicchier d’acqua o altro e io dovetti risponderle che, malgrado
venissi da lontano, non ero una profuga in cammino da cinque giorni e cercavo semplicemente
un’amica.
Non credo di averla convinta finché non è scesa Angela, calata da chissà quale piano di
quell’immenso edificio, ad abbracciarmi ed infilarmi nei meandri del tribunale.
Mezz’ora dopo avevo già conosciuto tutto lo staff con cui lavorava, una simpatica torre di Babele
che, il giorno in cui si fosse stancata di cause e sentenze, avrebbe potuto inaugurare i primi giochi
senza frontiere dell’Africa orientale.
Alex, un australiano di origine greca, mi ha accompagnato a casa sua e di Angela, una villetta in
uno dei quartieri residenziali di Arusha, e con la generosità meravigliosa di chi ti conosce da
appena dieci minuti, ti dà le chiavi di casa sua e una stanza tutta tua…
Il mio bisogno di un tetto abitato era talmente grande e l’ospitalità così calorosa che non ho potuto
fare a meno di abbracciare Alex stretto stretto.
Da quel giorno, il nostro ménage à trois si è rivelato un formidabile equilibrio di personalità e un
connubbio così divertente che ne ricordo ogni minuto: gli orari sfasati tra lavoro e gite, le
discussioni sulla vita africana e le spaghettate last minute con una tavolata di amici: inoltre fare la
spesa con Angela nei mercati locali era un’esperienza memorabile, si contrattava su tutto, per
necessità o per scherzo, dal cibo fino all’aria che respiravamo. Tre cipolle per due, quattro
peperoni al prezzo di uno e dieci ingredienti che, con un po’ di fantasia, potevano vagamente
assomigliare ad un piatto del nostro paese.
Tanto, tra un australiano, una maltese e uno delle isole Mauritius, sfidavamo chiunque dei presenti
ad esprimere giudizi poco rispettosi su quell’intruglio italo-africano di nostra creazione.
E la nouvelle cuisine globale - cioè quella fusione di sapori così alla moda nei ristoranti di tendenza
in tutto il mondo, che mescola senza ritegno curry e mascarpone, zenzero e peperoncino - era in
nostro alibi per i più dubbiosi.
La casa dove abitavamo era una modesta casetta con giardino fiorito e alberato con specie che
confondevano le mie già scarse nozioni di botanica.
Come tutte le case “dei bianchi” e della classe medio-alta africana, era stata fornita “accessoriata”
di domestica e di guardiano notturno, come se facessero parte dell’arredo fisso e fossero
essenziali quanto l’acqua e la luce elettrica.
Paulina, la domestica, era una donna giovane ed energica che gesticolava abbondantemente per
farsi capire mentre il guardiano aveva la faccia patibolare e gli occhi da cane bastonato, che
facevano una pena infinita, e nessuno aveva avuto il coraggio di rifiutargli quelle poche briciole che
gli permettevano di sopravvivere;
credo che Alex e Angela spendessero la metà del loro stipendio tra le lezioni di inglese di Paulina
e le medicine contro la malaria e la tubercolosi per quel disgraziato di cui nessuno sapeva il nome.
L’ordine di sgombero da quella famiglia idilliaca non sarebbe mai arrivato e sarei potuta rimanere
ancora mesi a cullarmi tra quelle mura, ma non so esattamente in quale momento ho sentito
nuovamente l’inquietudine prevalere sulla sicurezza e il mio sguardo ansioso guardare oltre il
giardino. Era segno che dovevo andarmene.
Con un nodo in gola e un buco nello stomaco, Alex mi ha accompagnato una mattina afosa
all’affollatissima stazione degli autobus in partenza verso il sud.
NGORO-NGORO
Alex aveva pensato proprio a tutto. Con la sua precisione anglosassone e l’entusiasmo di chi non
va in vacanza da tre anni aveva caricato la nostra vecchia land-rover di tutto quello che gli veniva
in mente e che molto, molto lontanamente ci sarebbe potuto essere utile; dovetti ripetergli circa
venti volte in quei preparativi frenetici che avevamo affittato quel macchinone solo per due giorni e
che dopodomani alle otto di sera doveva stare perfettamente parcheggiato ad Arusha davanti
all’ufficio della dubbiosa agenzia che ce l’aveva affittato.
Ma niente da fare, i sedili posteriori ospitavano, credo, tutti lo scibile umano per colmare le mille
lacune e domande che potevano sorgere andando ad esplorare quella zona dove si dice l’Uomo
abbia fatto i suoi primi passi da “eretto” e dove continuano ad abitare migliaia di specie che
camminano, strisciano e saltano: il cratere del Ngoro-Ngoro, che sorge vicino alla Valle del Rift, la
spina dorsale a forma di lunghissima crepa che spacca l’Africa dagli altipiani del Medioriente fino al
Mozambico, trasformandosi di volta in volta da gole profondissime a valli fertili.
Ci accompagnavano naturalmente la Teoria dell’evoluzione di Darwin, vari volumi dell’Enciclopedia
Britannica, guide su come riconoscere fauna e flora di tutta l’Africa orientale e naturalmente mappe
che coprivano le strade dall’Egitto allo Zimbabwe, nel caso dovessimo perderci, non si sa mai.
Eravamo entrambi eccitati all’idea di quella piccola avventura, io per le immagini invecchiate di
paesaggi mozzafiato che avevo visto e Alex perché da quel momento non avrebbe più chiuso
occhio finché non avesse visto l’impronta del primo uomo “bipede”, calco o copia che fosse.
Partimmo all’alba, con un mezzo che era a metà tra una biblioteca ambulante (un’altra proposta
era stata quella di dirottare il nostro viaggio verso i paesini dell’entroterra e di organizzare
conferenze sull’evoluzione ai bambini in piazza..) e un magazzino di vestiti adatti ad ogni stagione.
Ottenere quel fuoristrada non proprio ultimo modello era stata comunque un’impresa: il giorno
prima mi ero presentata - con l’ingenuità tutta occidentale di chi pensa che organizzare un safari
sia questione di pochi minuti e una discreta manciata di dollari - in un’agenzia di Arusha che
godeva un pò meno della fama generalizzata di trappole per turisti; il proprietario, coi suoi
centoventi chili ben distribuiti, era un’omaccione dall’aria così mite che non sapevo mai se il suo
sorriso beato era affermativo o se non avesse capito un bel niente di tutto quello che gli dicevo, e
“yes!” come risposta a “quanto costa?” non era esattamente un buon segno.
Fatto sta che il mio dubbio si é chiarito molto presto, quando l’indomani mattina all’ora
dell’appuntamento, ci siamo ritrovati in tre, io, Alex e il mio zaino.
Un’ora, due, del nostro uomo nemmeno l’ombra.
A quel punto Alex mise da parte la sua filosofia zen e, pervaso da un sentimento di profonda
rabbia per quello che era successo, tirò giù dal letto l’intero staff dell’agenzia richiamando a
rapporto anche il boss, uscito di corsa dalla messa, quella domenica mattina, dove stava
probabilmente espiando i suoi peccati.
Poi, senza perdere un minuto la calma da gentleman dell’ottocento che lo distingue, ha iniziato un
processo sommario con tanto di imputati, di avvocato - lui - e di cliente da risarcire - io -, che ha
avuto come risultato una macchina “chiavi in mano” per l’indomani, a un prezzo vantaggioso,
senza più ricorsi né appelli.
Il mio difficilissimo compito, a quel punto, era quello di convincere un giovane avvocato con un
ferreo senso del dovere che i crimini contro l’umanità non sarebbero rimasti impuniti se si fosse
assentato per due giorni e che il tribunale sarebbe sopravvissuto fino al suo ritorno. Che fatica,
ragazzi, vincere una causa contro un avvocato.
Osservare per due giorni animali in libertà è un’esperienza senz’altro emozionante ma credo
fermamente che, se in quel momento non avessi avuto quei quaranta libri, che tanto avevo
criticato, per colmare la mia ignoranza abissale sul mondo animale e come utile distrazione in
quella macchina infuocata, sarei scesa, a mio rischio e pericolo, dopo i primi dieci esemplari di
quel regno a quattro zampe.
Bufali, elefanti, leoni, giraffe dal passo elegante, gazzelle che zompettavano veloci e altri animali
somiglianti a caproni che schizzavano da tutte le parti al nostro passaggio rumoroso.
Noi assorbivamo ogni cosa con il nostro sguardo avido e con gli altri quattro sensi, increduli nel
vedere davanti a noi quello che ci sembrava l’immagine esatta dell’Arca di Noé, senza che nulla, a
parte le quattro ruote sotto di noi, potessero farci credere di trovarci in un’epoca più recente del
Pleistocene.
Per l’immensa gioia di Alex abbiamo assoldato una guida locale che a prima vista ci era parsa
piuttosto preparata, per accompagnarci alla Gola di Olduvai a vedere uno strano essere dal cranio
oblungo che é stato definito il primo ominide dell’Africa orientale risalente a qualcosa come cinque
milioni di anni fa;
Il poverino non aveva ancora finito le presentazioni che Alex, con la sua vocazione di paleontologo
mancato, lo ha assalito di domande che gli covavano dentro sicuramente fin dall’infanzia; dopo un
serrato dibattito sui massimi sistemi e sull’origine della vita, eravamo tutti d’accordo nell’essere
infinitesimali davanti alla Storia e solidali nel sentirci fragili di fronte al mistero che ci circondava.
Ogni testa pensante può elaborare teorie sull’universo ma l’archeologia resta una scienza asettica,
non conosce monarchi o popoli, ignora le religioni e le dottrine, non mette in relazione guerre o
trattati, ma traccia invece il lento progresso dell’Uomo e in ogni epoca la relazione col suo habitat.
Homo abilis, erectus, sapiens, ognuno coi suoi oggetti abbozzati, ossa e pietre, impronte e fossili a
mostrare ai nostri piccoli occhi come si condensava la vita 100.000,un milione o due milioni di anni
fa.....
Divorati dalla curiosità e dal caldo, siamo scivolati dentro a quell’incredibile gola per tutta la
giornata e, quando finalmente il sole ci diede tregua fondendosi lentamente nell’orizzonte, ci
avviammo verso l’unico albergo di tutto il parco.
Lungo la strada del ritorno ci siamo fermati ad osservare lo strano fenomeno di una duna di sabbia
nera a forma di spicchio di luna che da anni si muove sospinta nella direzione che decide il vento:
venti metri l’anno, disperdendo un pò del suo carico di sabbia a ogni metro percorso; mi sono
arrampicata sul suo fianco, mi sono rotolata nella sabbia perdendomi nei miei pensieri insieme a
lei e mi ci sono rispecchiata dentro come una sorella che, come me, percorre un pezzetto della
crosta terrestre, nella direzione che solo il vento può prevedere.
Quando ci credevamo ormai a poca distanza dal nostro rifugio per la notte, la macchina ha
improvvisamente iniziato a singhiozzare e tre metri dopo si é definitivamente collassata.
Riproviamoci in discesa...riaccendi, frizione, prima, seconda, mammaaaaa!
Niente da fare. Sconsolati, Alex da un’occhiata al serbatoio di riserva, l’unico funzionale che
secondo l’agenzia conteneva sì e no sessanta litri, e tristemente costata che non solo é
completamente vuoto ma che probabilmente non ne conteneva più di quaranta.
Bella situazione, a secco in un parco della Tanzania, a due chilometri da un tetto, al buio, con
trecento leoni che ci guardavano leccandosi i baffi...
La nostra salvezza é arrivata un’ora dopo, sotto forma di camion con due simpatici personaggi che
non hanno mai riso tanto come quella sera e per tutto il resto del tragitto che ci ha portato fino a
casa.
"Lei é all’orizzonte
mi avvicino di due passi
lei si allontana di due passi.
Cammino per dieci passi
e l’orizzonte si sposta
dieci passi più in là
Per quanto cammini
non la raggiungerò mai.
A che serve l’utopia?
Serve proprio a questo:
a camminare"
E.Galeano
POLVERE DI CONCHIGLIE
Che non sarebbe stata una passeggiata, questo lo sapevo.
Che sarebbe stata una deviazione assurda era altrettanto chiaro, ma non ho mai avuto la pretesa
che il mio percorso fosse lineare o sensato.
Da giorni avevo deciso che le cartine geografiche mi avrebbero mostrato solo da dove arrivavo ma
non dove sarei andata in seguito, poiché il mio dito impreciso o i centimetri di un righello non
sarebbero comunque riusciti a colmare la distanza che mi separava dai luoghi reali dove sarei
approdata.
In una tasca tenevo stretto il filo della strada per paura di perderlo o di spezzarlo, srotolavo
lentamente i chilometri dietro di me e a volte mi giravo a guardarli, osservando la sottile linea scura
che tagliava valli aride e sabbiose fino alla linea dell’orizzonte, come un gomitolo che si posa sulla
superficie sgretolata della terra; nell’altra contavo le conchiglie che mi restavano, come reliquie
lasciate dall’oceano che avevo toccato, e che qui sembravano provenire da un altro pianeta.
La strada mi pesava, quella sera. Vibravo di un tremore nervoso, sentivo il respiro della solitudine
che mi soffiava sul collo, la faccia impregnata di fuliggine, le mani vuote, le vene scoperte.
Mi sentivo fragile. Il mio corpo era nudo ed il mio spirito si era smarrito da qualche parte; ero
immersa nell’Africa profonda, scrutavo il suo viso nero stellato e mi persi nel buio che avvolgeva la
strada, fuori e dentro di me.
Volevo qualcuno accanto a me, quella sera. Invece mi ritrovavo con una manciata di conchiglie in
una tasca e un indirizzo sbiadito segnato su un pezzetto di carta nell’altra.
Ci volle coraggio, quella sera, per ricomporre i ricordi e andare avanti.
Le indicazioni che Jackie mi aveva lasciato quando ci siamo salutate al mare erano precise: sei
ore di autobus da Arusha a Babati, una sosta sulla piazza del mercato invasa da tutti i beni
commestibili del mondo, sacchi di iuta stracolmi di spezie, caschi di banane di ogni misura e vari
animali schiamazzanti con le zampe legate che si affacciavano ai finestrini del nostro mezzo in
cerca di un acquirenti, poi altre due ore fino a Endasak, il minuscolo paesino dove lei e suo marito
Geoff insegnavano da un anno.
Non sapevano neppure loro come ci erano finiti, in quel posto dimenticato dalle mappe
geografiche, lontano e bisognoso di tutto.
Ma la “Peace corps”, l’associazione americana di cui facevano parte, aveva deciso di allungare
una mano caritatevole mandando due emissari proprio lì, a Endasak, frazione di Katesh, provincia
di Hanang, Arusha, Tanzania.
E comunque loro erano contenti, a servire un compito difficile in un paese di sabbia ingrata, sotto il
cielo azzurro che sembra lo specchio senza fondo di un’esistenza ridotta ai minimi termini.
I loro racconti sulla scuola mi avevano commosso e incuriosito, forse volevo dare un volto e un
sorriso a quei bambini di tre generazioni - dai tre ai sedici anni - che ogni mattina, tenendosi per
mano, camminavano per un paio d’ore dalle casette scrostate di terra cruda dei villaggi vicini per
raggiungere un edificio di mattoni in cima alla collina, la loro scuola.
E colmare così per un momento una sete diversa da quella solita, la sete del sapere: imparavano
rapidamente, mi avevano raccontato, in swahili e in inglese, due lingue entrambe lontanissime dal
loro alfabeto tribale.
Alcuni mesi prima di partire, avevo partecipato al progetto di una scuola a Dar es Salaam, la città
sulla costa, e anche per questo volevo proprio arrivarci, a Endasak.
L’autobus era gremito all’inverosimile e, con le tre ore di ritardo accumulate tra i vari mercati, mi
sono sentita veramente persa: le indicazioni sul foglietto portavano in cima alla collina, alla scuola,
e alle otto di sera erano diventate piuttosto inutili.
Non avevo la minima idea di dove abitassero i miei due eremiti, e il buio totale si aggiungeva alle
mie già scarse speranze di trovarli quella sera...
A un’ora e mezzo di strada da Endasak, nel villaggio più vicino, era salito con mio grande stupore
un ragazzo che da lontano aveva l’aria di essere bianco, miracolosamente bianco, ma non ci
credevo troppo per paura che, insieme ai laghi e ai palmeti, i miraggi fossero una malattia
contagiosa di quella zona.
Fine della corsa, scendere. Scattai in piedi e dal fondo dell’autobus vidi quella testa alta che stava
scendendo, dovevo fare qualcosa, in quel momento quell’angelo biondo era la mia unica salvezza;
nella confusione generale provai a sbracciarmi in tutti i modi per richiamare la sua attenzione e
chiedergli aiuto.
Credo di essere stata abbastanza chiara nei miei disperati gesti da naufraga perché il mio uomo mi
stava pazientemente aspettando, mi sorrise e prese il mio zaino.
Mi fece entrare in un posticino mal illuminato - del resto in tutto il paese mancava la luce elettrica ma senz’altro lui lo conosceva bene, visto che ci accolsero calorosamente e due secondi dopo ci
ritrovammo seduti di fronte ad una tazza di tè bollente e un chapati, una frittella dolce. Gli spiegai
in inglese che ero in viaggio da circa undici ore, che ero venuta a trovare i miei amici che
insegnavano lì e che non avevo la minima idea a quell’ora di dove potessi trovarli; Walter parlava
bene kiswahili, lavorava da tre anni con una ONG come biologo, ma in inglese invece aveva un
forte accento che in un lampo mi divenne familiare; gli chiesi da dove veniva e quando mi disse
"Holland" non avevo più dubbi che fosse stata la mamma ad inviarmi quell’angelo biondo! Feci una
grande risata e attaccammo a parlare allegramente nella mia lingua materna, l’ultima che mi
sarebbe venuta in mente di sfoggiare fino a dieci minuti prima, nell’angolo più remoto dell’Africa
orientale.
Walter allora mise in moto il tam-tam del passaparola che rende famosi quei popoli: sfilarono
gruppi di curiosi e, mentre le donne ci preparavano da mangiare, si piantò davanti a noi il capo del
villaggio, richiamato da tutto quel baccano. Dopo la cerimonia dei saluti iniziò la fase dei
riconoscimenti: Walter doveva cioè tradurre al capo tribù la mia descrizione delle caratteristiche
fisiche inconfondibili dei miei amici, barba occhialetti lui, rossa con le lentiggini lei. Ci mise un pò a
capire, forse ai loro occhi anche noi bianchi, non importa se biondi rossi o castani, ci assomigliamo
tutti, ma alla fine annuì.
Brindammo con quello che offriva la casa, e provai con ogni sforzo a ridere delle battute di quei
simpatici personaggi, che Walter faceva finta di tradurmi, ma di cui in realtà non capiva più della
metà. Erano già le dieci di sera, e con una leggera apprensione chiesi perché nessuno si muoveva
in direzione della casa che cercavo..
Walter mi disse che era tutto a posto, avevano inquadrato perfettamente i miei amici e la loro casa,
ma c’era un piccolo problema tecnico, non c’era nessun mezzo di trasporto per portarmi lassù e tre
chilometri in salita in bicicletta era un’esperienza memorabile che non avevo voglia di ripetere; non
c’era nessuno, a Endasak, che possedeva una macchina, un camion o un pulmino, ma,
improvvisamente a un ragazzino era saltato in mente che il farmacista del paese possedeva un
motorino e che, coincidenza del destino, era anche il vicino di casa di Jackie e Geoff.
Capii solo in seguito che “vicino di casa” da queste parti coincide con il signore che abita in cima
alla montagna vicina.
La soluzione ai miei problemi arrivò un’ora dopo, sotto forma di due ruote sgangheratissime con un
motore roboante piantato nel mezzo.
Non so se per incoscienza o per la vaga convinzione che, se quel bolide apparteneva al
farmacista, potevo considerarmi in buone mani, salii insieme a Walter salutando con grandi
abbracci praticamente tutto il paese che in quelle ore si era unito alla nostra ricerca, pregando, in
caso ci fosse successo qualcosa, di riportarci subito nella farmacia del legittimo proprietario.
Quando finalmente siamo arrivati a destinazione, dopo buche, slalom e che-qualcuno-ce-la-mandibuona, Jackie e Geoff per poco non sono svenuti dalla sorpresa di vedere due pazzi che giravano
in moto come se stessero facendo la Paris-Dakar e che tra di loro parlavano in olandese. Gli
assicurai che ero proprio io quella con cui avevano passato tre giorni sulla costa di Pangani, quella
delle gite in barca e delle conchiglie trovate in spiaggia; alla fine di tutta la storia raccontata a due
voci con Walter, scattò l’applauso e Jackie stappò l’unica bottiglia di vino che avevano.
La mattina seguente, dopo una doccia di cinque litri d’acqua costituita da una specie di sacco a
forma di zampogna ( in versione più tecnologica, fatta di cellule che assorbono i raggi solari )
appesa ad un chiodo, siamo andati a scuola.
Erano le otto, l’ora della campanella; mi ero svegliata però molto prima, verso le sei e un quarto,
quando alzando gli occhi vidi di soprassalto una decina di faccette e di manine appiccicate al vetro
della mia stanza, incorniciate da una finestra troppo piccola per contenerle tutte, e sentivo le risate
sommesse ed i sussurri di bambini.
Geoff mi disse poi che la tentazione di costruire un recinto intorno alla casetta stava diventando
fortissima, in quel mondo dove la sfera privata é il regno di tutti, ma in fondo in fondo i bambini
erano il loro mondo e tra un anno gli sarebbero mancati quei marmocchi che gli saltavano nel letto
un’ora prima di sedersi dietro ai banchi.
Così da un anno i piccoli maestri si erano privati, oltre che della luce elettrica, del gas e dell’acqua,
anche di qualunque forma di proprietà privata.
Prima mi é toccata la terza media, la classe di Jackie dove, tra un goodmorning teacher e uno
scambio di shikamoo e marhaba, cioè la forma rispettosa di saluto tra bambini e adulti, si sarebbe
svolta, tra la meraviglia generale, la lezione di scienze naturali. Ma quello era un giorno speciale.
Jackie mi presentò, disse che venivo dall’Italia ed avevo fatto molta strada per andarli a trovare, e
questo bastò per scatenare la curiosità irrefrenabile di quei bambini che contavano sulle dita di una
mano gli stranieri che avevano visto affacciarsi nei loro dodici anni e quindi non si fecero sfuggire
l’occasione: mi tempestarono di domande di ogni tipo, ingenue, intelligenti, buffe, timide o
disinvolte, spontanee e incontenibili, e dovetti fare ricorso a tutte le nozioni di storia e di geografia
che mi restavano, sgranando gli occhi verso Jackie davanti alle domande più difficili e usando un
gessetto colorato per disegnare sulla lavagna meglio che potevo il mio paese.
In quello che sembrava un quiz televisivo pieno però di emozione vera, ricevevo un applauso a
ogni risposta, giusta o sbagliata che fosse.
Il pomeriggio mi sono ritrovata davanti ai bambini delle elementari, le cui impronte digitali si erano
stampate sui vetri di casa nel mio dormiveglia: potevamo comunicare solo a gesti e sorrisi, ma
senza pensarci troppo, mi diedero il benvenuto nella lingua più diffusa e sincera che conoscevano,
intonando canti e ballando le loro canzoni tradizionali. In quel momento ero io, solo io, ad
applaudire entusiasta.
L’indomani ripartimmo insieme, io, Jackie e Geoff, un venerdì pomeriggio, in direzione di Babati, la
cittadina più vicina dove loro potevano comprare i viveri necessari per qualche settimana, ed io
avrei potuto continuare verso sud, verso Dodoma, capitale della Tanzania.
Ci sedemmo sul ciglio della strada, aspettando che qualche anima buona ci desse un passaggio
prima che il sole squagliasse definitivamente i nostri corpi in una pozza di sudore e il nostro spirito
bruciasse nel tramonto senza nuvole.
Cosa ci facesse sulla nostra strada un prete anglicano di San Francisco, con la faccia bonaria di
chi si sente in pace con se stesso e prosegue allegramente con le sue prediche in una terra
lontana, rimarrà per sempre un mistero scritto da qualche parte sotto la sabbia; so solo che quel
personaggio dal folclore country americano, che beveva senz’altro troppo per dimenticare quanti
chilometri lo separavano dalla sua parrocchia di signore benestanti, ci portò a destinazione,
inondandoci di parabole e di prediche sulla sua vita. Lasciai che se la sbrigassero Jackie e Geoff
ad intrattenere la conversazione con il loro compatriota, io negli occhi avevo ben altro, avevo i
bambini, Fatima, Amina, Asha, Hamisi, Jamila, Miraji,Tabu, Shamila e tanti altri; avevo ritrovato la
mia energia e il filo della strada persa qualche giorno prima.
La linea segnata in rosso sulla mia cartina, che taglia verticalmente tutta la Tanzania, é
classificabile come una mulattiera percorsa da camion a cinque rimorchi e mezzi pesanti di ogni
tipo: la strada é ridotta così male che quando scendi non sai sei stato colto da un attacco
fulminante del morbo di Parkinson o se é solo il motore che si agita come un miscelatore per
cocktail; spesso l’autista é costretto a sbandare sulla sabbia piuttosto che percorrere la “strada”
vera e propria e quando scendi hai difficoltà a stare in piedi sulla terraferma. Difficile pensare che
questa dovrebbe essere un’arteria principale di un paese dove tutto viaggia sulla strada, merce,
uomini e animali...
Dopo la notte in un guesthouse poco raccomandabile, col secchiello d’acqua nell’angolo che deve
bastare a lavarmi fino a domani, riesco ad ottenere un passaggio con uno di quei fuoristrada
dell’ONU che ogni tanto sfrecciano anche lungo le strade sterrate, aria condizionata, radio
satellitare e sedili impeccabili; peccato che la legge del contrappasso ha voluto che si bucasse una
ruota proprio mentre pensavo alla mia giornata fortunata, e che la solidarietà qui é direttamente
proporzionale al bisogno, quindi chi si può permettere di chiedere aiuto via radio non é considerato
tra i primi sulla lista...Cinque ore dopo arrivammo a Kondoa, e sapevo di avere ancora tanta, tanta
strada davanti a me.
Dodoma é la tipica città nata per volere di un manipolo di gente al potere, disegnata in fretta e in
furia tra tavoli di disegno e scrivanie, come una partita a stratego e battezzata come nuova capitale
per il solo fatto di trovarsi nel baricentro esatto del Paese, non importa se nella regione tra le più
aride e inospitali della Tanzania.
Un’unica strada asfaltata, un ufficio postale, due banche e tre chiese, un paio di alberghi e un
ospedale circondati da una pappa urbana di palazzi che crescono fregandosene dei piani
regolatori, di orientamenti, e senza dare retta alla logica di qualche burocrate con manie di
grandezza. E del resto questa cittadina pigra e sonnolenta non ha proprio nessuna voglia di
assumersi la responsabilità di capitale o di dover somigliare per forza alla babilonia vitale e
esplosiva che é la sua rivale sulla costa, Dar es Salaam.
Ogni città ha il suo ruolo, qui si lotta per l’acqua ma si beve il vino coltivato in piccoli appezzamenti
nella regione e, poiché tutte le strade di terra e di mare portano a Dar es Salaam e non a Dodoma,
la gente ha imparato a sbrigarsela da sola.
Marco e Francesco vivono a Dodoma da tre anni, provando a fare progetti con la gioventù locale.
Marco é riuscito, con enorme fatica e con la dedizione di chi non si arrende davanti alle avversità
della natura, a coltivare un orto intorno alla sua casa che vagamente gli ricorda quello della sua
campagna senese, in versione più esotica: pomodori e papaya, zucchine e banane, manghi e
basilico che resistono agli assalti di serpenti e di strane malattie tropicali. Improvvisiamo una cena
a base di spaghetti alle delizie del giardino e, mentre lavavo le verdure con una strana polvere
contro il colera, gli dico che, se era riuscito in quel miracolo della botanica, mettere uno sull’altro un
pò di mattoni con della malta era un gioco da ragazzi.
“Vuoi venire a vederlo con noi, domani, il nostro “gioco da ragazzi”?" mi chiese Marco, alludendo al
Centro Giovani che stavano progettando, sul quale voleva chiedermi dei consigli spassionati;
decisi così di passare un paio di giorni con loro, approfittando anche lì di un’ospitalità inattesa,
disegnando edifici che forse un giorno vedranno la luce. Immaginai i contorni di una città diversa
scrivendo pensieri sulle nuvole africane.
Oggi non passerà mai, pensavo una domenica a Dodoma, interrogandomi su come avrei potuto
passare il tempo. Ho finito i libri e non c’è un’anima in giro.
Cammino nella calura del pomeriggio guardandomi intorno, ma vedo solo la mia immagine riflessa
nella vetrina di un negozio: ho la faccia abbrustolita e i capelli di paglia, un impasto di polvere e
sabbia di uno strano colore. Ero sul biondo, un tempo…
Decido che forse é il caso di dedicare questo pomeriggio interminabile al nido sulla mia testa: entro
in una specie di parrucchiere locale, tra gli sguardi curiosi e l’aria divertita dei bambini; faccio del
mio meglio gesticolando con una mimica degna di Marcel Marceau tentando di spiegare che vorrei
soltanto che quella massa informe tornasse ad essere lo spaghetto liscio di sempre...Buio totale,
non c’era verso di capirsi. Quando già mi sentivo persa tra oli, creme e balsami, treccine finte e
spray nauseabondi, mi sono armata di carta e penna e ho disegnato meglio che potevo il mio
semplice desiderio: e donne capirono, mollarono le forbici e poi scoppiammo tutte in una risata
liberatoria e contagiosa.
LA LEGGE DELLA GIUNGLA
Nel parco di Ruaha crescono baobab, grandi come cattedrali, ancorati alla terra rossa, e branchi di
animali che ti passano davanti come in un circo, mettendo in scena numeri da applauso.
Chris sta seguendo un gruppo di quindici leoni che non mangiano da dieci giorni, se ne stanno lì
mezzi distrutti sotto gli alberi, ma lui sa che prima o poi la fame potrà più del caldo e della fatica e
che verso sera inizieranno la caccia.
Le persone vicino a me tornano qui ogni anno, a seguire i leoni, per assicurarsi forse che la legge
della giungla esiste davvero e non è una delle tante invenzioni televisive: io invece non avevo la
minima intenzione di assistere ad uno spettacolo di sbranamento e di sangue ma, si sa, nella
giungla nulla é prevedibile.
I leoni attaccano piano piano, strisciando in silenzio verso la preda e mimetizzandosi con la
savana.
Poi c’è un attimo, una frazione di secondo, in cui la strategia della lumaca si trasforma nell’attacco
fulmineo alla zebra, il corpo si contrae e i muscoli si tendono per aggrapparsi sulla schiena, con
una morsa infallibile le strozza la giugulare mentre la zebra lotta con tutte le sue forza in un fragore
di ossa rotte.
Poi arrivano i rinforzi e altri quattordici leoni le sono addosso, e inizia così lo spettacolo straziante
di un’inutile lotta alla sopravvivenza.
Il ruggito di un leone affamato é un tuono dello stomaco, è il rumore assordante della terra, è una
caverna che sputa rabbia e fame.
Le mie narici si dilatavano all’odore acre della polvere e del sangue.
La vita di una zebra in pasto a quindici leoni si consuma in dieci minuti di orologio.
Sia fatta la legge della giungla, cruda, spietata e inarrestabile.
Poi i leoni dai musi rossi tornano all’ombra dell’albero sotto un sole ormai tiepido e, per un attimo,
mi sembra di rivedere ancora quella zebra solitaria e impalata trasformarsi da arlecchino del regno
animale, che si divertiva a confondere e ingannare gli altri con le sue strisce, in una carcassa
esanime.
Gli stomaci si sono ormai placati e nell’aria resta solo un grande silenzio.
COCA-COLA E CHAMPAGNE
Nel gioco dell’oca avrei perso tutto, a questo punto, tornando al punto di partenza, senza
scorciatoie e senza poter cambiare le regole del gioco. Il mio punto di partenza in Africa é stato
Dar-el-Salaam, ed ora eccomi qua di nuovo, stancamorta ma con il sudatissimo timbro della
Repubblica del Malawi stampato a tutta pagina sul mio passaporto. Mi é costato due notti in
bianco, 1500 chilometri di strada non preventivata e gli ultimi scellini che mi restavano. Eppure
stasera mi infilo sotto alla zanzariera sentendomi più leggera, con la sensazione di avercela fatta
anche stavolta, dicendomi che in fondo gli imprevisti fanno parte delle regole del gioco, sono come
i jolly che ti capitano tra le mani e ti fanno raddoppiare la vincita o perdere tutto. Ed il mio viaggio é
tutto tranne che una corsa contro il tempo, e l’importante per me é restare in gara.
L’altro ieri fa ero ancora nel sud della Tanzania, e ora rivedo,come in un flash back, ai tre giorni
surreali passati in quella zona, ospite di Chris nel Parco Naturale di Ruaha : il parco é segnato con
due stelline sulla mia mappa, lungo la strada che mi sta lentamente portando a sud del paese,
vicino al confine con il Malawi da dove, tra qualche giorno, prenderò l’aereo per Johannesburg, e
poi dritti fino all ‘Australia.
Esistono solo due "lodges," sorta di capanne costruite in mezzo a una delle nature più affascinanti
che abbia mai visto, per accogliere turisti che possono permettersi trecento dollari a notte per
dormire in tende di lusso, accompagnati da banchetti intorno al fuoco acceso mentre si
raccontano, come ai tempi coloniali di Hemingway e Karen Blixen, le emozioni e i brividi provati
durante il giorno, la caccia del leone o l’avvistamento di un rinoceronte. Dal momento esatto in cui
ho deciso di passare a trovare Chris, amico e proprietario di uno di questi villaggi, é iniziata la mia
personale "caccia all’uomo", con una serie di tappe di viaggio più o meno difficili sulle vaghe
indicazioni telefoniche datemi da un amico comune : "Vai fino ad una cittadina chiamata Iringa, lì
troverai un vecchio coi baffi seduto de fronte alla chiesa, digli di portarti al mercato dove, in cambio
di qualche spicciolo, ti lascerà al signor Fusi, un amico di Chris. Se hai fortuna, un furgone di viveri
partirà per il parco la sera stessa, altrimenti dovrai aspettare il prossimo carico e sperare che ti
portino con loro lasciandoti al cancello di ingresso. Dovrai poi trovare il modo di avvertire Chris e
farti venire a prendere, non entrare nel parco da sola e porta con te una torcia.
Buona fortuna, Sandra" . Click. Non ce la farò mai, é stato il mio primo e unico pensiero, dopo aver
memorizzato quelle parole sibilline e prima di mettermi in cammino come fa l’animale che segue le
tracce della sua preda.
Per fortuna le indicazioni erano più precise di quanto immaginassi, e dopo tre ore di sassi, buchi e
crateri evitati per miracolo lungo il folle percorso che seguivamo nel letto di un fiume in secca, tra
odori di intrugli speziati e di carne cruda, fui scaricata rapidamente, come un pacco arrivato a
destinazione, prima ancora di poter ringraziare il mio Caronte per la traghettata su un fiume
inesistente.
"Karibu,karibu sanaa !" , welcome ! welcome !, furono le prime parole che sentivo provenire da un
buio fittissimo e impenetrabile, il buio delle notti senza luna, mentre in lontananza qualcuno si
stava avvicinando con una lampada ad olio in mano. Rimasi lì impalata per secondi lunghissimi,
avevo paura di fare un passo in qualunque direzione mentre davo una forma malvagia agli animali
di cui sentivo il suono troppo vicino, e per un momento, stringendo i pugni terrorizzata, mi sembrò
che le voci amiche si allontanassero ; cinque minuti dopo mi ritrovavo come per incanto seduta a
capotavola, con il sorriso di Chris dall’altro lato dei suoi diciotto ospiti e una cena da fiaba servita
tra bicchieri di cristallo e tazzine di porcellana di Limoges. Il banchetto era iniziato con un soufflé
di melanzane e basilico e, da quanto lessi sul menù, sarebbe continuata con linguine in salsa rosa,
petti di pollo al vino bianco e con un sorbetto al limone : abracadabra, una cena degna di un
ristorante da Guide Michelin traslocata in mezzo al nulla della savana africana, sulla sabbia, a tre
ore di sassi da Iringa, dove dubito comunque che si possa trovare anche un solo degli ingredienti
in tavola, nel buio più totale rischiarito solo dal fuoco acceso e da qualche fioca torcia. Più mi
strofinavo gli occhi e davo pizzicotti sulle gambe, più iniziavo a credere seriamente al festino
surreale che mi si presentava davanti, al quale partecipavano donne vestite e improfumate, e si
brindava con calici di Sauvignon al mio arrivo inaspettato. Intuii, dall’espressione meravigliata con
la quale Chris e tutti quei signori tirati a lucido ascoltavano increduli il mio viaggio rocambolesco,
che doveva esserci senz’altro un modo meno masochista di arrivare nel bel mezzo del regno
animale, e non aveva nulla a che vedere con personaggi improbabili seduti davanti ad una chiesa
né con crociate su mezzi di fortuna : si chiamano invece jet e charter privati, gli strumenti che l’élite
del mondo usa per avventurarsi nel continente nero. Gente che da ogni angolo del mondo viene
qui per vivere il brivido della “vita selvaggia” circondata però da tutti i conforts della vita di
Manhattan, polvere e giungla tutto il giorno e tè coi biscottini alle cinque del pomeriggio.
Tre giorni sono passati in fretta in mezzo agli avventurieri di lusso, che sfoggiano binocoli a
infrarossi per osservare gli animali notturni, fanno colazione a letto in capanne decorate come se
fossero appena uscite da una rivista di arredamento, con le lenzuola profumate di gelsomino, e si
fanno servire un dry whisky con ghiaccio la sera.
A me il privilegio di dormire, invece, insieme a Chris e altri tre africani, sotto a un milione di stelle e
avere, come filtro tra il sonno e il cielo, solo una sottile zanzariera appesa a quattro paletti di legno
e il letto del fiume come giaciglio. La notte nella savana é piena di rumori di animali, Chris me li
elencava uno per uno anche quando i suoni si mescolavano o si perdevano in lontananza :
"Questa che ulula é la iena… ascolta il giaguaro ! Senti il sibilo sulla tua destra ? E’ quello di un
uccello notturno, fa questo verso solo quando sente la pioggia : domani pioverà".
Riconosceva proprio tutto, Chris.
Sul fuoco bruciavano ceppi enormi e fumanti fino al mattino, i tre uomini al mio fianco dormivano
beatamente abbracciati ai loro fucili mentre io mi rigiravo provando a prendere sonno, sperando
che in quelle notti nessun predatore nei dintorni sentisse fame, i serpenti fossero in letargo e gli
insetti velenosi svolazzassero da altre parti, lontani da noi. Mi sentivo infinitamente vulnerabile, lì
fuori, e infinitamente sola, io e gli alberi, io e il caldo, io e il silenzio. La notte passava lenta, la volta
celeste era il mio tetto e il fuoco acceso l’abbraccio caldo della buonanotte. Poi fu il turno dell’alba
piena di colori e di luce, accecante come un’esplosione improvvisa che ridava senso alla vita.
L’ultima notte, quando finalmente i miei sonni diventarono meno tormentati e iniziavo a sentirmi in
simbiosi con il fiume, col fuoco e le stelle, facendo sogni pieni di baobab in fiore, Chris mi svegliò di
scatto ripetendomi più volte le stesse due parole, scandite lentamente e categoriche:” DON’T
MOVE!”. Non mi mossi.
Impietrita, il mio sangue si coagulò e smisi anche di respirare finché lo scorpione che passeggiava
zig zagando tra le mie gambe si allontanò dirottando nella sabbia la sua incursione notturna. Che
dannata paura, seguire a dieci centimetri di distanza le abitudini di un animaletto squamoso,
vederlo correre e fermarsi sul mio corpo, e pregare solo di non sentire mai la sua coda conficcarsi
nella mia pelle.
La mattina seguente lasciai alle spalle quel posto di trofei e champagne, dopo aver salutato con un
forte abbraccio Chris, l’uomo che mi aveva ospitato, nutrito, insegnato mille cose sull’Africa e infine
anche salvato dal morso uno scorpione: memorizzai il suo viso, la sua pelle chiara scrostata dal
sole, mentre mi allontanavo seduta sul grosso camion della Coca-Cola che faceva avanti e indietro
tra il parco di Ruaha e Iringa, rifornendo di bollicine gli angoli più remoti della Tanzania: l’autista
era un simpatico baffone con la pancia che penzolava sotto ad una camicia a fiori e, in cambio di
una mano per sistemare lattine piene e vuote sul suo furgone, mi offrì volentieri un passaggio fino
in città.
Quattro interminabili ore di tragitto, scolandomi una lattina su due, in compagnia di molte altre
donne e uomini, ammucchiati come sardine sul tettuccio del camion, in viaggio verso il sole che si
stava alzando.
Poi, giorno dopo giorno, si é avvicinata la data di partenza dall’Africa. Dopo Ruaha era iniziato
mentalmente il conto alla rovescia, non tanto perché volessi lasciare l’Africa quanto perché avevo
imparato a misurare le distanze non in ore ma in giorni e settimane di viaggio spesso a singhiozzi,
in terre di volta in volta colpite da siccità o inondazioni, su autobus soppressi di punto in bianco o
congestionati all’inverosimile.
Era già venerdì e martedì mattina
sarebbe decollato l’aereo da Lilongwe, in Malawi, per il
Sudafrica. Il Malawi, sulla carta, mi sembrava uno staterello piccolo piccolo, schiacciato tra due
vicini molto più imponenti, il Mozambico e la Zambia, con un lago stretto e lungo accanto: mai
sentito parlare della sua capitale, Lilongwe, ma mi aspettava un volo da quel pallino quasi
introvabile sulla carta.
Malgrado fossi partita dall’Italia con una bella collezione di timbri e visti nuovi di zecca sul
passaporto, non ero però riuscita ad ottenere quello del Malawi, e la mia preoccupazione, fino a
quel momento inesistente, era aumentata solo all’avvicinarsi della frontiera e all’incubo crescente
di ritrovarmi davanti ad una sbarra metallica chiusa.
Quella mattina, scaricata tra tonnellate di coca-cola a una manciata di chilometri dalla frontiera,
sono sprofondata nella disperazione quando un signore in divisa, con aria solenne e irremovibile,
mi fece intendere che non mi sarei avvicinata di un passo al Malawi senza il timbro necessario. Ed
io, naturalmente, ero senza uno stralcio di documento utile; rimasi lì, afflitta, davanti a due autobus
strombazzanti in partenza, uno verso il sud e l’altro al nord, e me non rimase che un’unica scelta:
ripercorrere verso nord, in tempo record, i chilometri che mi separavano da Dar-el-Salaam, per
fortuna su una delle due sole strade asfaltate di tutto il paese, correre all’ambasciata, col nodo in
gola e la lingua a terra, sperando che qualcuno mi desse retta.
Sono arrivata davanti ad un palazzetto con uno strano stemma verso le otto di sera, dove l’addetto
ai visti, Mr. Malinké, mi diede il benvenuto sfoggiando un sorriso a trentasei denti, di quelli che in
bocca ad un africano sono così contagiosi e disarmanti che in pochi secondi ti fanno passare
l’ansia, la rabbia e la voglia, irrefrenabile fino al secondo prima, di mettere a fuoco l’intera
ambasciata. Piazzò un timbro che compete in dimensione col mio diploma di laurea e si congedò
augurandomi “Safari djambo, miss Sandra", buon viaggio. Ringraziai e lasciai di corsa
l’ambasciata di un paese che ho tagliato da cima a fondo in una sola, lunga notte.
Arrivata a Lilongwe avevo praticamente perso l’uso delle gambe, per un attimo pensai che lo
scorpione mi avesse punto davvero e forse il veleno stava solo ritardando di ventiquattr’ore il suo
effetto, prima di riuscire, con sforzi disumani, ad uscire dalla posizione fetale nella quale mi ero
rannicchiata e addormentata durante l’interminabile tragitto. Provai a guardare fuori ma l’unica
cosa che vidi era il solito via vai frenetico di gente ammassata tra gli autobus in partenza e in
arrivo, le zampe di pollo che si spargono ungendo i finestrini e turbanti di donne ondulare sotto un
sole anemico e fuligginoso; mi sentivo impregnata fino alla nausea di odori, suoni, urla dei
mendicanti e cori stanchi di bambini, la fatica abitava il mio corpo e i miei pensieri. Non ne potevo
veramente più. Bussai alla porta di un grande albergo, rimasi a lungo sotto la doccia calda, per
togliermi via la stanchezza, sedendomi poi in trance davanti alla prima televisione satellitare
incontrata dopo settimane.
Ora ho un ricordo vago anche di quelle dodici ore da rimbambita, trascorse nella camera d’albergo,
in crisi di astinenza da schermo digitale: una notte intera tra i video clip su MTV e BBC news, tra
e-mail e squallidi telefilm.
Non so dire se il "mio mondo", di cui avevo lentamente rimosso molti aspetti, iniziasse a mancarmi
sul serio, o se era solo la stanchezza ad impedirmi di reagire: so soltanto che mi sono
addormentata con il telecomando in mano e un’overdose di immagini danzanti negli occhi.
Da : Hristina
Indirizzo : sandra
Data : 26 Ottobre 2000 16 :58 :34 PM
Ehi, ciao anima persa del deserto ! le tue lettere mi trasmettono sensazioni talmente forti, che mi fanno piangere o ridere
e mi fanno perdere nelle emozioni con te. Da adesso ti toccherà una strada più facile e spero che riprenderai un pò del
tuo respiro sospeso. Lo sai che tornerai un altra persona da questo viaggio, vero ? forse sarai te stessa veramente. Non
dimenticarti che sta viaggiando con te uno spiritello che ti vuole tanto, tanto bene !
JO’BURG
Il mondo intorno a me é cambiato completamente. L’Africa che ho percorso per un mese e mezzo
é sparita non so dove, al posto della savana sono spuntati chilometri di autostrade e tubazioni,
ponti e fili elettrici, antenne satellitari, paraboliche,canali e condotte sotterranee, neon e grosse
insegne luminose.
Gli specchi impeccabili dei grattacieli riflettono un continente irriconoscibile.
Che spavento non avere più le sensazioni che finora mi hanno accompagnato fedeli, la musica
delle strade polverose e l’odore del chapati al mio risveglio : tutto si é stemperato, suoni e profumi,
tutto sembra scivolavare via sotto ai miei piedi e la mia voce si perde balbettando cose
incomprensibili, poiché le poche parole di kiswahili che ho imparato da altre parti non servono a
niente a Jo’burg.
Dove sono finite le capanne senza chiave, le tonnellate di riso e fagioli, le scuole senza maestri ?
Ridatemi le mie strade polverose, l’ombra dei baobab, un bambino da consolare, un ospedale da
mettere in piedi, un vecchio che invoca aiuto.
Non é facile descrivere come dei cambiamenti così radicali si percepiscano immediatamente nel
corpo e nella mente : mi accorgo che il colore della mia pelle, che lentamente si é amalgamato
sulla tela colorata del paesaggio africano, ora mi da fastidio come una cicatrice che stona col
resto, segnando l’appartenenza ad una razza, quella bianca. Il mio corpo mi pesa e mi sento
stramente a disagio.
La storia recente del Sudafrica ha disegnato un mondo semplificato a due soli colori, il bianco e il
nero, tutto il resto non conta : degli anni del potere bianco e dell’apartheid restano sempre vivi il
senso di umiliazione di chi é stato oppresso per secoli e si é tenuto l’odio dentro troppo a lungo.
Non so molto del Sudafrica, la mia conoscenza naviga su velieri che doppiavano il mitico Capo di
Buona Speranza, ricorda canzoni di chi ha prestato la sua voce agli schiavi e ai diseredati, ai
cercatori d’oro e coltivatori di canna da zucchero, e si ferma davanti ad un ometto sempre
sorridente, anche nel carcere dove ha trascorso vent’anni della sua vita : Nelson Mandela e i ghetti
neri, la dignità di un uomo che stringe fiero la mano di un signore bianco e impacciato, padrone
della sua terra, quasta é in sintesi l’immagine che mi guida .
Tutto questo mi spiazzava. All’improvviso mi sentivo come un bambino che si ritrova da solo a
giocare in un giardino che non riconosce, non é quello sotto casa, e non sa se mettersi a piangere
o a giocare. Ma non era ora di piangere, così misi in spalla lo zaino e imboccai l’uscita
dell’aeroporto.
C’era Adi ad aspettarmi, l’avevo chiamata due giorni prima da Lilongwe per assicurarmi di non
restare da sola sulla pista di atterraggio di Johannesburg, città che tutti mi avevano dipinto come
un inferno, la patria del crimine e dell’aggressione gratuita, facendo a pezzi anche il mio solido
scetticismo per quelli che spesso reputo inutili allarmismi o semplici paranoie. Lì però non c’era da
allarmarsi, c’era da scappare punto e basta se la rete di solidarietà creatasi intorno a me, una
specie di italian connection tra i miei amici e le loro conoscenze nel mondo, non avesse funzionato
di nuovo a meraviglia fornendomi un prezioso indirizzo nella città dove più di tutte ne avevo
bisogno. Adi conosceva Hristina, e Hristina é un’amica insostituibile, così in simbiosi con tutte le
mie avventure che si é guadagnata il soprannome di " spiritello bulgaro" , per le sue origini e la sua
capacità di leggermi nel pensiero.
Adi e Hristina avevano preso strade diverse fuggendo nello stesso momento dallo stesso paese, la
Bulgaria del dopo-crollo del muro di Berlino, dirigendosi in punti tra loro lontani del mondo.
Da allora si erano un pò perse di vista, ma anche adesso era bastata una telefonata da un capo
all’altro della terra, da Roma a Jo’burg, per mettere in piedi una di quelle indimenticabili
dimostrazioni di ospitalità tra amici : ci eravamo appena conosciute, io e Adi, ma chiacchieravamo
come se avessimo fatto l’asilo insieme, le raccontai che ero stata per ben tre volte a Sofia negli
anni ’80 per via di una mia amica d’infanzia trasferitasi lì con la famiglia e, la prima volta, per la
folle idea di mia madre che in un momento di ispirazione aveva deciso, nell’inverno senza neve del
1983, di andarcene a sciare in Bugaria, le cui montagne a suo dire non avevano nulla da invidiare
alle nostre Dolomiti :
non aggiunse che al di là del Vitosha, praticamente l’unica montagna
attrezzata con impianti di risalita intorno a Sofia, non c’erano molti altri splendori da vedere, ma era
per lei l’occasione di intrufolarsi nel paese forse più chiuso dell’ex - all’epoca fiorente- blocco
Sovietico. A noi tre bambini le classi di sci, a lei le escursioni organizzate ai monasteri ortodossi.
Una settimana sarebbe passata in fretta tra neve, icone e cori bulgari se al terzo giorno mamma,
spinta dalla solita irrefrenabile curiosità che la distingue, non aveva saputo trattenere le domande
rivolte chiunque le potesse rispondere in una delle cinque lingue che conosce, al personale
dell’albergo, alla gente in fila per il pane, ai passanti alla fermata dell’autobus…Qualcuno corse a
denunciarla, con il pretesto che chiedeva troppo. Vennero ad identificarla tre poliziotti in divisa, la
portarono via la sera mentre, cenando tranquilli nel ristorante dell’albergo, stavamo raccontando di
battaglie di neve e di cadute catastrofiche fatte sulle piste da sci . Durante la notte dell’arresto fu
accusata di spionaggio ed in commissariato dovette tirare fuori i migliori argomenti per convincerli
che i tre bambini con cui viaggiava non erano un’abile copertura per il suo mestiere, e qualificarsi
testardamente come una turista solo interessata a conoscere la vita e la cultura di un altro paese.
Per fortuna credettero a questa versione dei fatti e mollarono l’osso.
Alla fine del mio racconto eravamo arrivati a casa di Adi, dove iniziarono le presentazioni della
consistente famiglia che ci viveva, suo marito, suo figlio, i genitori, il suocero e due amici di
famiglia ospiti fino a data indefinita: una simpatica dinastia di medici bulgari, che ora prestavano
servizio in una regione che di certo aveva bisogno di loro più di molte altre aree del mondo.
Davanti a un piatto di moussaka mi rivelarono con sincerità disarmante dei problemi e le
contraddizioni del paese, da loro scelto come “paese di adozione”, del vivere in un bunker di lusso,
delle uscite solo nei posti “bianchi” e vigilati ventiquattr’ore su ventiquattro.
Mi accorsi solo la mattina seguente di trovarmi in un posto chiamato
Krugersdorp, uno dei
quartieri-satellite cresciuti intorno a Jo’burg, fatto di villoni con tanto di giardino esotico, filo spinato
e telecamere a circuito chiuso per sorvegliarne ogni movimento. L’indomani Adi mi lasciò alla
partenza dell’autobus turistico messo a disposizione dal comune: era “safe” mi disse, anche se mi
fece promettere di non scendere per alcun motivo al mondo.
“Nel centro di Jo’burg non si cammina né di notte né di giorno”, mi spiegò, “qui ti chiudi in
macchina tra casa e lavoro, e col buio non ti fermi davanti ad un semaforo rosso neppure se vedi
tua madre che sta attraversando la strada”. Il concetto era chiaro ma ciò nonostante mi sedetti un
pò inquieta sul sedile posteriore dell’autobus: non avevo mai preso un city-bus in vita mia, ancor
meno uno su cui eravamo solo in tre, l’autista, la guida ed io. Attraversammo i quartieri ricchi in cui
mi colpì la massiccia presenza di alberghi lussuosi completamente vuoti, poi quartieri più discreti
coi negozi e le shopping-malls dove si mescolavano ancora bianchi e neri, infine il ghetto di
Soweto, una specie di “legoland” fatto di cinquecentomila cubetti in miniatura, una casetta per
ogni famiglia, tra le quali i ragazzini giocano a pallone e le donne stendono i panni.
Mi venne da associare la città ad un’enorme scacchiera, caselle bianche e caselle nere, su cui
figure più o meno potenti si spartiscono il territorio e si ingoiano a vicenda finché una nuova partita
si apre e tutto ricomincia da capo.
Ad un certo punto passammo sotto ad un cavalcavia interminabile, fatto di archi e buchi dentro ai
quali stava rannicchiata una strana fauna: gente vestita di piume e di stracci, una corte dei miracoli
sbucava dietro a banchetti arredati con teschi di animali e pelli maculate. Chiesi alla guida chi
fossero quegli strani individui.
“Sick people” tagliò corto: d’accordo, che non fossero sani come pesci lo avevo intuito anch’io, ma
non poteva essere tutto lì, pensai, e data la mia insistenza proseguì a raccontare degli “stregoni”
annidati là sotto e dei malati che ogni giorno fanno ricorso ai loro rimedi. Si era aperta una nuova
realtà davanti ai miei occhi, avevo scoperchiato, nel ventre stesso della città, il gran pentolone
africano in cui ribolle un miscuglio di magia nera, riti vudù, feticismo e stregoneria.
Domandai ad Adi e sua madre, appena rientrate dal servizio in ospedale, quanto fossero diffuse
quelle pratiche medievali in una città dall’apparenza moderna e attrezzata.
Con rigore scientifico mi esposero i fatti: le statistiche parlano di 35% di sieropositivi a Jo’burg, una
donna su quattro é stata violentata e il governo ha respinto la legge che prevede la
somministrazione di AZT alle donne incinte per evitare la trasmissione del virus da madre a figlio.
Poi passammo alle conseguenze: ogni giorno nel Sudafrica il numero di persone contagiate dalla
malattia varia tra 1500 e 1700, una lotta contro i mulini a vento visto che per questa e per altre
malattie più o meno gravi molti preferiscono risparmiare sulle spese mediche e affidarsi alle
formule magiche degli stregoni: scacciare il malocchio con talismani a forma di zampa di gorilla é
considerato un metodo più efficace delle terapie intensive in ospedali che la gente non può
comunque pagare. L’importante allora non é guarire, ma credere di guarire.
L’Africa intera, a quanto pare, si affida ancor oggi agli “spiriti dell’ombra”, figure sovrannaturali
capaci di sovrastare gli elementi naturali: si venerano pietre, sacrificano piante e animali, pregano
un’infinità di divinità buone e cattive.
Le alternanze politiche, i conflitti tribali e le guerre civili si creano e avvengono su un terreno
favorevole al proliferare di pratiche magiche, integrate e tutti i livelli della vita pubblica e privata. E
proprio tutti, dai capi di Stato all’uomo della strada, hanno consultato almeno una volta uno
stregone e seguito pratiche magiche per guarire strani mali, interrogare il futuro o assicurarsi il
potere: Mobutu, dittatore defunto dello Zaire, non muoveva un passo senza il suo marabout, o
stregone personale, che gli preparava tre volte al giorno un “filtro magico”, da ingoiare tra una
coppa e l’altra di champagne, per proteggerlo dagli oppositori al suo regime e da altre forze occulte
che tramavano nell’ombra contro il suo regno. Liquidi giallognoli e appiccicosi e viscidi unguenti
sono considerati spesso la chiave del potere.
Si dice che in Africa il futuro non é in mano a chi impugna il fucile ma a chi impugna il bastone
magico…Il risvolto drammatico sta nella combinazione dei due: gli eserciti dei bambini-soldato,
addestrati in Liberia o nella Sierra Leone, combattono ubriachi di cannabis e di sostanze alcoliche
considerate immunizzanti contro le pallottole.
Un vademecum fatto di kalachnikov, oppio e zuppe di ragno, nell’illusione che per magia cambi la
traiettoria di una pallottola.
Notte insonne.
Mi sento triste, stanotte. Da sotto alle mie palpebre laghi salati inondano il mio viso.
Ma mio viso ormai é solo un ricordo, é diventato l’Africa intera, é quello di vecchi rugosi, malati,
infermi, bambini zoppi, ventri gonfi, mendicanti e puttane, bianchi negri meticci, saggi e ciarlatani. Il
mio profilo segue i bordi del mondo che mi ha avvolto.
Chiudo gli occhi perché la realtà dolorosa non mi invada, ma non ci riesco, scivola sotto le mie
ciglia e si diluisce nel mio sguardo: ogni tanto poi salta fuori prepotente, cinica e scottante, e ogni
volta io mi ritrovo disarmata a leccarmi le ferite.
Provo pena, rabbia, compassione, colpa, angoscia e smarrimento per le troppe miserie che non
avrei voluto vedere. La mia tristezza stanotte é di avere tutta l’Africa addosso e di sprofondare
sotto al suo peso.
Da : Sandra
Oggetto: IN VOLO PER L’AUSTRALIA
Data : 30 Ottobre 2000 16:22:32 PM
Diciotto ore di aereo, 10.500 chilometri e nove ore di fuso orario, finche' non inventano le vacanze
sulla luna questo e' probabilmente il posto più lontano dove posso arrivare. Australia.
Johannesburg-Sydney, un lungo volo che ti fa capire che stai andando in un altro mondo, a
contatto con realtà opposte non solo dal punto di vista geografico.
Anzi, forse queste due città hanno solo il cielo e le stelle dell'emisfero sud in comune.
Jo'burg e' una città che si regge sull'odio che si è inciso nei cuori della gente, o sei bianco, o sei
nero o non sei nessuno, vivi in case sprangate ingabbiato nella propria paura, ti chiudi in macchina
e non ti fermi ai posti di blocco.
Ho visto i ghettos "black", quelli famosi nelle canzoni africane perché e' da li' che i leader neri
hanno iniziato a rivendicare terra e libertà per il loro popolo, a dire che le miniere del Sudafrica
hanno le mani insanguinate e che l'unica faccia del diamante che non brilla e' quella dell'uomo
nero che l'ha trovato.
Il paese ha ascoltato, ha reagito e ha perso. Ha perso la scommessa in una società più giusta e
con questo il suo futuro...Non credo che sia futuro un posto dove il 40% ha l'AIDS e la salute viene
affidata a stregoni zulu che per la strada ti curano con la pelle di lucertola o con la zampa di ragno
da appendere in casa contro il malocchio; dove una donna che non riesce ad avere figli si rivolge
ad un incantatore di serpenti piuttosto che a un ginecologo e muore con un cobra avvinghiato al
collo.
Nessun posto mi e' sembrato cosi' lontano dall’altra Africa" come questa città che ascolta la
cronaca di CNN piuttosto che il ritmo del djambe', che ha fili spinati al posto delle capanne senza
chiave e che avrà pure imparato a guadagnare di più ma ha dimenticato cos'è VIVERE.
Venticinque giorni di nave,10.500 chilometri da casa, una valigia piena di speranze e promesse,
una moglie, otto fratelli e due figli, un mestiere e un indirizzo a cui mandare soldi e futuro.
Sydney, Australia.
Mio nonno e' sbarcato qui quasi 50 anni fa con la convinzione che costruire un continente ignoto
fosse più facile che ricostruirne uno distrutto dalla guerra .
E allora al lavoro, a battere il ferro nei capannoni industriali del porto, quelli che ora sono i loft
molto "trendy" o ristoranti italiani alla moda, nei quali ci trovi la mozzarella di bufala o i cannoli
siciliani, e a vendere gelati sulla spiaggia nei week-end.
Camminando sul molo pensavo a tutto questo, cercando di immaginare com'era allora questo
molo senza statua della Libertà ad accogliere gli emigrati e colmare la delusione delle strade che
non erano esattamente d'oro come qualcuno mormorava...
Sydney e' bellissima, si respira quella sensazione di allegria e di ottimismo, le famiglie per strada
sembrano uscite dallo spot della Corn Flakes o dal True man's Show e ti viene da chiedere
all'autista dell'autobus se ha vinto alla lotteria stamattina o se e' proprio cosi' di natura, per il
semplice motivo che essere nati su quest'isola aiuta, e viverci e' una scelta, non una condanna
come in altre parti del mondo.
Bianco o nero o multicolore, c'è posto per tutti qui...Anche per un’infiltrata come me, in fondo
ognuno ha le proprie ragioni per essere qui ed io ho le mie...
BREAD AND HAMMER
Il giorno della partenza volle sapere la traduzione esatta di solamente due parole : bread and
hammer. Pane e martello si traducevano così, gli risposero, nella lingua del Nuovo Mondo. Era un
uomo che dosava le parole, mio nonno, ed il giorno che salpò per l’Australia, il 7 ottobre del ’49,
pensò di ridurle all’essenziale per sopravvivere su quell’isola enorme, che non riusciva ancora a
collocare precisamente, persa come appariva nei mari del sud ; memorizzò dunque le sole due
che gli
sembrarono utili per dare senso alla sua vita laggiù, ridotte all’ attrezzo per lavorare il ferro ed il
pane che voleva ricevere in cambio. Tutto il resto lo avrebbe imparato in seguito, le conversazioni
superflue per adesso potevano aspettare.
Era irrequieto e non amava gli addii, così, quel giorno, salutò con un abbraccio la moglie e fissò
dritto negli occhi i due figli adolescenti, prima di scomparire senza più girarsi sul ponte di una nave,
tra le più grandi che si fossero viste ormeggiate nei porti del sud Italia, tra mercanzie e bauli che
venivano caricati a mano nelle stive ; solo quando udì il boato dei motori in azione ed un lungo
fischio che annunciava la partenza, si girò e vide, piccoli e irriconoscibili puntini piantati sul molo
assolato, le tre persone che amava più al mondo. Accennò un saluto ormai impercettibile con la
mano alzata, ruvida e callosa, e poi la mise in tasca, volgendo lo sguardo in direzione del vento.
Sarebbe arrivato dopo venticinque giorni di navigazione, tre soste nei porti dell’Oriente,
conservando di quel viaggio il ricordo doloroso come una cicatrice dell’anima, finché non lo
ripercorse a ritroso, dieci anni più tardi, e gli sembrò meno insopportabile. Sul molo c’erano di
nuovo tre persone ad aspettarlo, come se non si fossero mai mosse da lì : neanche questa volta
tirò fuori la mano per farsi riconoscere, voleva che il suo passato si avvicinasse lentamente, per
dargli il tempo di dare forma ai suoi bambini diventati uomini ed inquadrare da lontano gli anni che
gli erano sfuggiti. Due figure alte ed esili gli vennero incontro, le fissò e, quando nei loro occhi
riconobbe i suoi figli, mise da parte il suo carattere fiero e tenace, e scoppiò in lacrime.
Di quegli anni mio nonno ha continuato a raccontare storie che sembravano tratte da frammenti di
film : spesso ancora la mia memoria torna a episodi, a canzoni, alle fotografie ingiallite coi
protagonisti vestiti con completi grigi presi in prestito. Era bellissimo, da giovane, con quel viso da
Gary Cooper ed i capelli imbrillantinati, ma altrettanto affascinante quando si allontanava, col fucile
in spalla, alla ricerca di tordi e fagiani, e tornava la sera, con l’aria trionfante, mettendo in tavola il
bottino della caccia. Quando non si sentiva in forma, passava le giornate identificandosi negli
spaghetti-western in televisione e le partite a briscola al bar. Nella vecchiaia il suo carattere
divenne più sereno e pacifico, rispetto all’ansia degli anni incerti che lo avevano portato lontano,
cercando allo stesso tempo di rimediare alla fama che regnava sulla famiglia : generazioni di
uomini burberi e violenti, con vite spesso spezzate o deragliate.
Dell’Australia parlava spesso, era diventata per lui una seconda patria malgrado le privazioni e le
difficoltà iniziali, e da lontano la idealizzava al pari di un paradiso terrestre : imparò ad apprezzare,
dapprima diffidente ma curioso, un posto fatto di convinzioni diverse e mescolanze di lingue
incomprensibili, ma dove si stava inventando un futuro in cui tutti avrebbero trovato posto.
Capì che c’erano mondi diversi, e che in ognuno di essi si potevano realizzare dei sogni. Il suo lo
aveva realizzato a partire da quelle due parole, pronunciate chissà quante volte, timidamente e poi
sempre con più sicurezza, fino a pronunciarle, per l’ultima volta, trascrivendole a caratteri
minuscoli, sulla propria lapide:
Vincenzo D’Urzo, 1911-1991, bread and hammer.
LA FAMIGLIA
Si erano date appuntamento nella hall due ore prima dell’arrivo del mio volo : la zia Marianna, la
più anziana e autoritaria della tre sorelle, era stata categorica, non c’erano scuse né attenuanti per
chi della famiglia fosse arrivato in ritardo, per un momento che lei attendeva da ventotto anni.
Si erano promesse a turno di non emozionarsi, al mio primo arrivo in Australia, un pò perché non
volevano apparire, immortalate da scatti e filmini destinati a rifare il giro del mondo, con le guance
umide e le acconciature del parrucchiere sfatte. Impartivano, a figli, nipoti e pronipoti, ordini in
lingue diverse, a seconda del contenuto del messaggio : inglese nelle conversazioni "neutre" e
calabrese per tutto quello su cui c’era da agitarsi, i rimproveri ai bambini che si rincorrevano senza
sosta sui carrellini dei bagagli, e le lamentele su questi maledetti aerei sempre in ritardo. Poi si
calmarono, in fondo l’avevano messa al mondo loro quell’ allegra e incontrollabile dinastia, ed
inoltre, se avevano aspettato ventotto per vedermi, potevano sopportare una mezz’ora di ritado. E
lì rimasero, venticinque persone riunite in quattro generazioni coi fiori in mano e l'aria curiosa di
vedere se ancora assomigliavo ad una foto di quando avevo sette anni... Finalmente mi videro
sbucare dall’uscita : feci solo in tempo, dopo l’avvistamento, ad appoggiare a terra lo zaino prima
di ritrovarmi in braccio quattro nipotini eccitatissimi, ma di cui non conoscevo neanche il nome. Poi
la processione di macchine si avviò dall’aeroporto a casa di uno dei parenti, dove era stata allestita
una tavolata di sapori mediterranei che, dopo l’Africa, il mio palato aveva difficoltà a riconoscere :
tra brindisi, cannoli, ricotta, fichi e soppressata ho ripreso, in una settimana, oltre al gusto per il
cibo, anche il piacere di essere coccolata da una famigliona affiatata e incredibilmente generosa.
Ero serena, come non mi succedeva da molto tempo : camminavo in mezzo alle strade, senza
alcun ordine apparente, seguendo istintivamente solo i percorsi della memoria, con la vaga
sensazione di essere invisibile, assente.
O forse su un’isola il mondo sembra sempre troppo lontano.
Finché una telefonata, nel cuore della notte, mi ha bruscamente risvegliato.
Da : Sandra
Oggetto : Oma
Data : 9 Novembre 2000 4 : 05 : 54 AM
Il boomerang e' un gioco imprevedibile. Lo lanci pieno di energia e di forza, lo segui con lo sguardo
mentre disegna traiettorie nel cielo, lo perdi di vista per un tempo indefinito e poi improvvisamente
ricompare dal nulla e ti colpisce.
I ricordi sono un po' come il boomerang. In silenzio si allontanano lungo i percorsi della memoria,
pensi di poterli riacchiappare quando ti pare ma sono già troppo lontani e poi ritornano da chissà
quale buco nero della memoria.
La mia nonna olandese, oma, se n'è andata stanotte, zitta zitta, lasciandomi senza avvertire
dall'altra parte del mondo. Ero venuta in Australia proprio per cercare ricordi, per conoscere
qualcosa del passato che nessuno mi aveva raccontato e forse per vivere il futuro con radici più
profonde: l'Australia e' fatta di gente con tanto futuro e poco passato, esattamente il contrario
dell'Africa.
Ci si aggrappa allora a quelle radici, sempre più sottili e impercepibili come i fili del telefono, per
non dimenticare la propria lingua, i propri affetti e quello strano groviglio di legami che abbiamo
con le nostre origini. A volte questo fragile filo sei tu, sbarcato da chissà dove, quando prendi
l'elenco del telefono per cercare se in questa città sconosciuta c'è qualcuno col tuo cognome,
chiami e ti ritrovi seduto a brindare ad una tavolata insieme al nonno seduto a capotavola. E con i
bambini che sono un buffo mix tra mamme anglo-sportivo-australiane e papa' spaghetti
baffineriemandolino che giocano tutti insieme ad inseguire le onde sulle tavole da surf.
Ripenso all'Africa stasera, che ti insegna che la natura e' tutto un continuo alternarsi tra gioia e
dolore, una presenza continua di vita e di morte, l'equilibrio tra opposti che si annullano a vicenda.
Stasera mi sento un po' viva e un po' persa, ma circondata da persone piene di amore e di gioia
che per qualche strana legge del destino sono qui per restituirmi la nonna che ieri notte mi e' stata
tolta.
E per parlare e scrivere di lei, di com'era, non un pugno di cenere tra i mulini a vento, ma un viso,
le rughe, le mani, la voce, il pianoforte, la ninnananna, i dolci, le carezze, i disegni, i tulipani, i
chilometri, l'infinito, l'eternità, ieri oggi domani, un giorno ci vediamo da qualche parte. Dag oma,
ciao nonna.
TROPICO DEL CAPRICORNO
15 novembre. Sveglia alle cinque e un quarto, partenza alle sei in punto.
Cielo sereno, vento a dodici nodi da sudovest. Pressione 1014. Sagome di pesci colorati e
pellicani all’orizzonte. Si leva l’àncora e si alza la vela.
Col primo raggio di sole appaiono i profili delle isole dell’arcipelago, perse tra un mare di coralli :
isolotti che portano il nome dei loro esploratori, con una palma piantata nel mezzo e la tomba
qualche marinaio decorata con una conchiglia.
Ci navighiamo intorno, sfiorando le sue tiepide acque, e nulla lascia presagire che invece é un
mare infestato di pescecani e meduse dai tentacoli così lunghi che sembrano le liane di una pianta
carnivora.
Ho fatto amicizia con una famiglia di nomadi del mare, mi porteranno con loro a patto di non
toccare la terraferma, e di esplorare fondali e abissi di corallo al posto delle selve rigogliose e delle
montagne rosse che ricoprono l’Australia.
Ho voglia di lasciarmi dietro la costa, dove si susseguono cittadine stile corsa all’oro, con una
tonnellata di pub in cui le donne in hot pants giocano a biliardo e bevono forte.
Loro invece navigano da tre anni, senza nessuna nostalgia: coltivano verdure a bordo per condire i
granchi appena pescati, producono birra fabbricata artigianalmente e addomesticano gabbiani che
scendono per beccare cibo dalla mano. La radio é la scuola dei bambini ed il cielo sopra di noi é la
rotta da seguire.
Da : Sandra
Oggetto : Australia
Data : 18 Novembre 2000 15 : 05 : 24 PM
L’ombelico del mondo é un'enorme sasso rosso. Si accende e si spegne col sole come un carbone
ardente, riflette i colori e cambia con la luce del giorno e della notte.
Si chiama Ayers Rock, Uluru in lingua aborigena, montagna sacra per i proprietari e custodi della
memoria di questa terra.
Sta lì piantato nel mezzo del deserto rosso australiano, resistente all'acqua, all'aria e al tempo.
Sembra sputato fuori dal centro della terra o forse scaraventato giù da qualche stella impazzita ai
tempi in cui astri e pianeti si scontravano cercando un posticino nell'universo.
Beh, qualcosa di speciale deve pur avere se la gente, senza particolari fedi o tendenze al
masochismo, si fa 3000 km. per vedere un sasso, girarci intorno come fosse la Mecca, e poi
farsene altri 3000 per ritornare a casa...Tra Uluru e la costa ci sono tre ora di volo, immagina
Roma-Copenhagen senza niente in mezzo, non una frontiera, non un villaggio che sia degno di
questo nome, solo qualche pompa di benzina lungo strade infinite, motels dove si fermano i
camionisti e qualche ranch desolato dove i cawboys australiani alla Crocodile Dundee allevano
canguri e organizzano rodeo.
Una terra di nessuno, si direbbe, strappata al vento e alla desolazione.
Poi ti accorgi che ci sono loro, gli aborigeni. Li vedi girare senza meta nelle città, bere e sniffare
petrolio, incapaci di confondersi con quell`incredibile miscuglio di razze che sono gli australiani.
Non ho mai visto una cultura più integra nelle proprie tradizioni, più pura e incontaminata,ecco
perché il confronto é impossibile.
Tranne forse qualche pigmeo della papuasia o qualche lappone sordomuto non credo che esista
un popolo rimasto piu´ estraneo alla nostra civiltà degli aborigeni australiani.
Quello che é successo in questa terra non é molto diverso dalle storie di ordinaria conquista in altri
angoli del mondo, forse però qui é stata fatta con ancora più crudeltà e freddezza british: facile
scoprire una terra "vergine", tanto se non ci sono registri di proprietà allora significa che non é di
nessuno e tanto vale ribattezzarla con nomi altisonanti...
Gli stati qui si chiamano "Queensland" e "Victoria" e quelli troppo lontani saranno il Territorio del
nord, del sud, dell'est e dell'ovest tanto per non perdere l'orientamento e per ricordare di chi sono.
Gli aborigeni non lo perdono l'orientamento, dipingono disegni complicatissimi a puntini minuscoli
come granelli di sabbia, con simboli astratti che sembrano geroglifici per fissare su una mappa la
materia prima della natura, acqua, terra, animali e spiritualità.
Suonano il didjeridoo per far risuonare le viscere della terra attraverso il tronco di un albero e
hanno inventato il boomerang perché provaci tu a correre per gioco dietro ad un pezzo di legno
con 50 gradi all'ombra. Neanche un cane ci starebbe.
Arte, musica e gioco, tre forme essenziali alla sopravvivenza. Essenziali, non primitive.
Ma "essenziale" é un concetto strano, non é né tanto né poco, é una misura riferita a che la vive, é
diversa per Gandhi o per il sultano del Brunei, per un monaco tibetano o per Bill Gates, per un
aborigeno dell'interno o per un businessman della costa.
Così fino agli anni ‘70 nei censimenti sulla popolazione venivano classificati tra la fauna del paese
e dev’essere una bella fatica per la nuova generazione dimostrare al resto del mondo di non
essere l’anello congiungente tra l'uomo e la scimmia…
Ho passato due giorni di fila sul Greyhound, la versione australiana dell`autobus che si fa il "costto-coast" americano, per arrivare a questa benedetta barriera corallina, "il piu` grande organismo
vivente" come la chiamano da queste parti, coi suoi pesci colorati, conchiglie e coralli, tartarughe e
delfini, e le spiagge a mezzaluna delle pubblicità Bounty o Campari.
Anche se diluvia, maledizione. Niente da fare, sono proprio iniziate le piogge nel continente
australe.
Ci sono giorni in cui il viaggio mi pesa, che sento la testa pesante e le gambe a pezzi.
Perché tra mare e deserto ci sono posti come tanti, paesotti di periferia con le insegne al neon e
sottofondo di musica country, dove i ragazzi locali fanno surf e si sbronzano nei pubs in riva al
mare, ballano MTV nelle happy hours,video giochi, corse dei cavalli e grandi risate.
Posti dove si carbura a fiumi di birra, stivaloni e cappello rodeo, facce paffute e sorrisi colgate.
A volte mi chiedo che ci faccio io qui...Sono tornata ai buoni vecchi ritmi africani, sveglia all`alba e
a letto con le galline.
Forse però assomiglio anch’io ad una "backpacker", l'esercito dei saccopelisti in giro, faccio e disfo
lo zaino in continuazione, ho dormito in camerata da 20 persone e mi sono sfamata da Mc.
Donald’s dopo cinque anni. Sintomi pericolosi.
Il deserto invece ti svuota la testa. Non e` un posto del pensiero, é un posto che annulla il
pensiero. Cammini sapendo che fino all’orizzonte non c’è altro che il nulla, e altro nulla
dall’orizzonte in poi: uno dei primi che si é avventurato da queste parti si sentiva cosi` solo che a
volte camminava a ritroso per vedere delle tracce davanti a lui...
Tra poco lascerò l' Australia per il Sudamerica, l'ultima tappa del viaggio.
Ogni tanto mi guardo nelle vetrine degli aeroporti per vedere, se i chilometri fatti mi si leggono in
faccia e se la strada percorsa ha lasciato un segno visibile sul viso e sul corpo. Poi mi sa che sono
sempre io ,coi piedi per terra e la testa nelle nuvole, capace di girare il mondo e di perdermi in un
supermercato.
Grazie per gli abbracci virtuali che mi sono arrivati.
ALFREDO
Alfredo mi venne a prendere dagli amici di famiglia dove alloggiavo, in uno dei quartieri abitati da
italiani di Sydney. Era puntuale, al telefono mi disse che poteva portarmi a vedere il suo studio di
architettura e, dato il mio entusiasmo, mostrarmi alcuni dei progetti a cui stava lavorando.
Mi disse che, malgrado le origini italiane di cui si sentiva orgoglioso, era nato e cresciuto in
Australia, da genitori che, insieme ai miei parenti, avevano tirato su con la fatica le proprie famiglie
in quel mondo lontano, restando tenacemente aggrappati alla vita e ai suoi valori piu’ sani e
guadagnandosi il pane quotidiano col sudore della fronte; piccoli eroi che tenevano testa alle
avversità con fierezza e onestà Tutto questo Alfredo lo sapeva e lo aveva insegnato ai suoi due
bambini, che alternavano un’educazione anglosassone al sangue latino.
Mi disse che li avrebbe portati per la prima volta a Natale in Italia per girarla tutta intera, da nord
piano piano fino al sud, a scoprire la Calabria, loro terra d’origine; mi disse che per un mese i
cantieri potevano aspettare, poteva crollare il mondo ma lui quella promessa ai figli l’avrebbe
mantenuta e quella missione l’avrebbe compiuta a tutti i costi. Forse la fatica vera era staccarsi da
quel lavoro che lo impregnava dalla testa ai piedi, la passione gliela lessi in faccia quando mi portò
a vedere un cantiere quasi ultimato, una casa fantastica sulla baia di Sydney, un sogno ad occhi
aperti, la fusione perfetta di spazio costruito e natura.
Solo a pochi riesce a realizzarla e Alfredo c’era riuscito.
Pranzammo insieme quel giorno, parlando allegramente di tutte le cose che ci univano, il nostro
mestiere, la curiosità per la vita e le sue mille sorprese, l’attaccamento alle radici comuni.
Alfredo é morto travolto da un autobus a Roma con in mano i suoi due figli e con un sogno
spentosi tra i sanpietrini bagnati, la sera del 24 dicembre, appena un’ora dopo suo arrivo.
Da : Sandra
Oggetto : AMERICA LATINA
Data : 3 Dicembre 2000 at 15 : 33 : 04 PM
Buenos Aires, Argentina. La prima volta che l'ho sentito pronunciare da un "porteño", abitante di
B.A., mi e' sembrato cosi' dolce e malinconico che pensavo stesse per attaccare un tango.
Se poi leggi il nome completo, Ciudad de la Santissima Trinidad y Puerto de la Nuestra Señora la Virgen
Maria de la Buenos Aires, sembra l'incrocio tra un rosario e l'estrema unzione.
Strano posto, questa citta' sovrappopolata di un paese disabitato, un concentrato di Europa
trapiantato quaggiu', coi palazzi che sembrano traslocati dritti dritti dai boulevards parigini, con una
copia del Big Ben piantato in mezzo ad una grande piazza e coi quartieri del centro racchiusi tra
uno che si chiama Palermo e l'altro Villa Lugano, per dire che l'Italia c'e' proprio tutta.
Il bello e' che gli argentini si sentono cosi' tanto i legittimi eredi dell'Europa che credono seriamente
che la pizza sia una loro invenzione e ci rimangono male se gli dici che la cotoletta alla milanese
non e' esattamente una specialità della Pampa. Certo alla pampa resta il guinness della mucca
perfetta, l'immagine della salute e orgoglio dei "gauchos", al tempo in cui il resto del mondo parla
di mucche pazze e cibi transgenici.
Cosi' sono passata da una dieta tutta riso-e-fagioli africana all'asado, bistecca, cotoletta, costola,
salsiccia o spiedino argentino che sia.
Se non divento vegetariana a questo giro non corro piu' rischi!
Il cibo dunque non manca. E la sete ti passa a furia di bere il bibitone nazionale, il mate, una
specie di tè alle erbe che gli argentini si portano in giro tipo biberon-un thermos di acqua calda
sottobraccio- per tutte le ore del giorno, si beve in compagnia, scalda e riempie.
La chiacchiera e' proprio il loro forte, lo vedi dalla gente che si ferma a commentare per strada ai
taxisti che danno lezioni di vita e che dopo due minuti di conversazione salutano
"Adios,Sandrita,que tengas suerte!" come se ci conoscessimo da una vita. E tutti sanno che faccio
amicizia anche coi muri, figuriamoci coi taxisti simpatici.
Ho capito pero' che le cose si stanno mettendo piuttosto male in questo paese, si lamentano tutti
per prezzi e stipendi e fanno scioperi generali con barricate per le strade di tutta l'Argentina. Avevo
letto che un po' di anni fa l'inflazione era arrivata al 5000%, che significa semplicemente che il
prezzo del pane cambiava da quando lo prendevi al banco a quando lo pagavi alla cassa.
C'è però qualcosa che mi sfugge di questo paese che sta affondando ma dove la gente continua a
ballare il tango per strada, che sciopera lo stesso giorno della Festa della musica, che mangia in
ristoranti sempre strapieni e dove le signore di Buenos Aires del tipo biondo-scandinavoimprobabile sembrano tutte uscite da una boutique di Chanel.
Dove i negozi suonano Jingle bells e vendono costumi da bagno e tutti augurano Feliz Navidad
pregando la Madonna e Maradona.
Mah,forse anche questa e' una filosofia di vita, lo chiedero' al prossimo taxista.
Ho sempre pensato che se il mondo gira su se' stesso ci deve pur essere qualche punto che
rimane fermo. Uno di questi punti si chiama Colonia del Sacramento, Uruguay.
Sembra un posto da romanzo di García - Marquez, casette coloniali colorate sospese nel tempo su
un'enorme fiume e vecchie macchine da set di un film anni '20,in un tempo incerto tra passato
coloniale e futuro globalizzato.
Non ho mai visto l'Avana, ma questo posto potrebbe essere il fratello piccolo.
Ci si arriva da Buenos Aires, attraversando il Rio de la Plata, una specie di gigantesca colata di
fango, densa, completamente surreale, con le vele colorate dei surf all'orizzonte che sembrano
sprofondare nelle sabbie mobili o reggersi per miracolo su un'alluvione biblica.
Da Buenos Aires sono risalita verso nord, passando dalle vecchie missioni gesuitiche, su' su', fino
alle cascate di Iguazú, passando da paesini dai nomi esotici, da Puerto Esperanza a El Dorado...
Lungo la strada i tramonti sono sempre da applauso e sembra che la terra lí, oltre l'orizzonte,
prenda fuoco ogni sera di nuovo.
Lí dove il rio Paraná si butta dentro al rio Iguazú nascono le cascate, cosí grandi e impressionanti
che sono la frontiera tra tre paesi, Argentina, Brasile e Paraguay.
All'epoca in cui si pensava che il mondo fosse piatto questo punto segnava esattamente la fine
della Terra. Capolinea, dietrofront.
Dopo una tale esplosione di acqua, di energia in movimento e di natura all'ennesima potenza non
poteva esserci più nulla. Ora in realtà segnano anche la frontiera della merce sporca, armi, droga e
uomini che scivolano da un lato all'altro con molto meno rumore dell'acqua....
Stanotte per la prima volta ho avuto paura. Mi sono svegliata col rumore della pioggia e ha tuonato
e piovuto tutta la notte.
La luce si é staccata e sentivo il rumore del vento sempre più forte e vicino.
Ho fatto un paio di cose sensate come infilarmi qualcosa addosso, pensare alle due o tre cose
importanti da portarmi dietro e poi altre cose totalmente irrazionali, come cercare disperatamente
al buio un anello e una collana per proteggermi, aver paura di non rivedere i miei cari, dire frasi
che ora suonano come preghiere, sperare che ancora una volta al giorno segua la notte e alla
notte il giorno. Mi sono passate per la testa gli uragani del Sudamerica, il fango e la paura di veder
volare via il tetto della mia casetta provvisoria.
L'acqua é filtrata da sotto la porta, potevo sentirla coi piedi ma non vederla, miope come sono, in
una notte di bufera.
Ho avuto paura di essere inghiottita dall'enorme rio Paraná e sputata nel mare chissá dove, ho
avuto paura di finire sulla cronaca di un giornale locale dall'altra parte del mondo.
Ho avuto paura di morire troppo presto. Poi mi sono risvegliata di nuovo nell'abbraccio violento e
sudato dell'America Latina.
LIBERTANGO
Il taxi mi lasciò all’incrocio tra Junìn y Esmeralda : che strano, pensai, a Buenos Aires non esistono
semplici calles, quasi ogni angolo qui ha il nome di una coppia, quello di un uomo o di una donna
che, ogni cento metri, si declina con quello di mille altri, nomi che si srotolano tra lunghi viali
alberati o tra i vicoli impenetrabili, nomi di eroi dimenticati o di uomini comuni, forse un’insegna per
ogni immigrante sbarcato in Argentina. Ogni strada ha la sua storia, e non esistono storie senza
nomi.
Solo nelle città dalla memoria corta le strade si chiamano 5th Avenue e 11th Street , 2nd Avenue e
152nd Street, come se si trattasse di una battaglia navale giocata sull’asfalto, senza nomi di
capitani di ventura , di condottieri o guerrieri commemorati su placche metalliche.
Anche i palazzi qui hanno l’aria familiare, pensati all’inizio del secolo da architetti stranieri e tirati su
da operai e artigiani che di stili non ne capivano molto : ma non era essenziale, ogni settimana
attraccavano al porto navi dall’Europa stracolme di marmi italiani e di pietre francesi numerate,
pezzo per pezzo, con un bel manule delle istruzioni nell’ultimo cartone col quale montare l’opera
intera e farla sembrare, nei minimi particolari, un pezzo di città parigina trasportato oltreoceano.
Parquet, stucchi e caminetti di ghisa, specchi e decori da Re Sole in cui riflettere l’orgoglio della
nuova capitale argentina.
Al quarto piano di uno di questi edifici mi aprì Crispina, affannata nel suo grembiule bianco e rosa
e con le mani impiastricciate di frutta, scusandosi perché stava preparando la cena e "el doctòr"
non era ancora rincasato. Faticai un attimo a mettere in relazione quel nome altisonante con il
Francesco che conoscevo e a cui avevo chiesto ospitalità per qualche giorno. Nel frattempo era
diventato il Console italiano e pensai che gli avessero appiccicato d’ufficio un pò di titoli e
onoreficenze. Quando Crispina mi mostrò la mia camera, persa nei meandri di una casa a spirale
invasa dal profumo di fiori freschi, annegai in un sonno stordito da troppi fusi orari accumulati ;
nelle immagini offuscate che affollavano la mia testa e perdevano consistenza ad ogni battito di
ciglia, esplodevano in ordine sparso l’eco di un djambé, le piantagioni di caffé e il sapore della
canna da zucchero appena spremuto, gli atolli corallini, il balli aborigeni, gli ostelli sporchi, il fumo
che dalle pentole sui fuochi saliva al cielo, i visi di chi mi ha salutato alle partenze e mi abbracciato
agli arrivi.
Ero davvero in Sudamerica ? Cominciai a dubitare dell’energia che mi restava nelle vene, mentre
ero sicura di non avere più le gambe per rimettermi in cammino ed esplorare un altro continente, e
quella sera, tra libri e lenzuola inamidate, mi illudevo pericolosamente di essere molto, molto vicina
a casa.
Da Buenos Aires in giù il mondo comincia a scendere, a girare, ad arrotondarsi perdendosi prima
nella desolazione della Terra del Fuoco e tuffandosi poi nei ghiacci del polo Sud. Per giorni ebbi la
sensazione di vagare in una città sospesa, che vorrebbe tanto somigliare al nord ma incarna tutto il
sud, indecisa tra futuro e memoria, e che nel frattempo si culla tra le note del bandoneòn e di dolci
melodie venute da lontano; la superficie scura del rio de la Plata, dal quale spunta l’albero di
qualche veliero arrugginito, moli in disuso sul quale si esibiscono ormai solo orchestrine
improvvisate, sul quale tramonta la luce di un altro giorno che é passato.
Cammino per Buenos Aires al crepuscolo, quando il cielo si dipinge di rosso e si riflette nei
grattacieli di vetro e acciaio, scorre sulle vetrine dei negozi scintillanti di Puerto Madero, e accende
contemporaneamente gli animi della gente che discute per la strada, nei caffè eleganti del centro e
tra un boccone e l’altro nei quartieri popolari di San Telmo e della Boca.
Stasera come al solito si parla di tutto, perché fin dalla nascita ogni porteño si sente perfettamente
in grado di mischiarsi in discussioni sul mondo per la sola soddisfazione di avere qualcosa da dire
e complimentarsene subito dopo; stasera poi ci si sente tutti uniti da un’unica fiaccola di protesta,
quella dello sciopero generale, “el paro generàl”, che paralizzerà tutti per 48 ore, dai giovani
rampanti della city che manderanno fax impazziti a Tokyo e saranno costretti a partecipare a
conferenze telematiche da Silicon Valley perché tutti gli aerei resteranno a terra, al pizzicagnolo
della Recoleta che tanto non si è mai allontanato dal suo quartiere e chiuderà i battenti fino a
nuovo ordine.
Malgrado gli allarmismi le strade sono mezze vuote e l’atmosfera è talmente serena che non ci
vuole molto a capire che gli scioperanti puntano in realtà direttamente all’aspetto più piacevole
della questione, facendosi domande tipo “che cosa fai per il paro?”, come se stessero parlando
delle vacanze di Natale o di una bella occasione per organizzare una scampagnata, invece di
perdere due giorni a indire noiosi comizi sindacali.
In quella generale fuga dalla città, sono riuscita a prendere uno degli ultimi autobus diretti a nord,
verso la zona di Misiones, viaggiando tutta la notte e lasciandomi alle spalle le luci colorate, lo
smog e la sottile malinconia di un tango.
Ho parlato al telefono con mamma prima di partire, ha paura che il morbo dei viaggio mi abbia
colpito in forma grave e non vede l’ora che torni a casa. Sarà la mano lunga di Gardel che arriva
oltreoceano, ma la nostalgia in quel momento si era impadronita
collegava.
anche del un cavo che ci
Da : gennaro
Indirizzo : sandradurzo
Data : 15 Novembre 2000 23 :38 :45 PM
Mi dispiace molto per la tua nonna. Non fermarti.
Gira guarda conosci ridi fermati continua stupisciti annoiati scegli scarta.
Sii tu e non ti perdere.
IGUAZU’
Nelle prime ore di viaggio verso il nord ho bevuto il mate che ci passavamo a turno tra l’autista, il
suo aiutante ed una signora seduta accanto a me vestita come se andasse all’opera, in quel rito
collettivo che si rinnova ogni volta che si versa l’acqua bollente sull’intruglio di erbe amare dentro
ad un frutto vuoto e si scelgono i “compagni di mate” allungando la mano.
Io descrivevo con entusiasmo le esperienze ancora fresche dell’Africa e dell’Australia e dovevo
rispondere alla curiosità di chi, da anni, negli occhi aveva soltanto strade dritte e sterminate come
la Ruta 88 o la Panamericana, che tagliano la pampa avanti e indietro senza mai incontrare una
montagna o un animale diverso da una vacca o un cavallo. Io raccontavo di giraffe e antilopi che
attraversano la strada ad ogni curva.
L’indomani sono finalmente arrivata a S.Ignazio, una delle trenta missioni della zona e forse quella
che meglio conserva i resti di una chiesa scoperchiata che mi ricorda vagamente l’abbazia di
S.Galgano, con le quattro pareti nude che si aprono al cielo ormai indifferenti agli scempi del
tempo e della natura; al posto dell’altare c’è un enorme albero che si attorciglia su se stesso e
liane che si aggrappano saldamente a quella materia inanimata che è la roccia.
Delle altre missioni rimangono pietre piene di muschio e corrose dal tempo ma che ancora hanno
una storia da raccontare,parlano di oppressione, di bibbia e di spade, di saccheggi e di incendi, di
peccati e penitenze in nome di una sola croce nella lunga notte dei cinquecento anni. Forse ci
sono ancora troppi fantasmi che si aggirano per l'Argentina, indios e desaparecidos, Evita e Che
Guevara, e tutto questo passato irrisolto si aggrappa ad un futuro da paese normale.
La sera mi sono resa conto che ero prigioniera di quel minuscolo paesino sulle rive del Rio Paranà,
e che fino al pomeriggio successivo non si sarebbe avvistata neppure l’ombra di un trattore poiché
lungo molte strade statali c’erano delle barricate, e alcuni autobus che avevano disubbidito allo
sciopero erano stati incendiati; così ho passato il resto della mia giornata a San Ignazio
leggiucchiando il “Racconto di un naufrago” di Garcìa-Marquez e giocando a nascondino coi
bambini per la strada.
Ogni giorno alle cinque in punto il cielo, fino a quel momento di un azzurro intenso, si appesantiva
di nuvole e l’aria si impregnava dell’odore inconfondibile della pioggia.
Ho aspettato sotto la tettoia di una pompa di benzina desolata che spuntassero due fari luminosi,
tra quel grigiore monotono e uniforme, e mi portassero dritti alle cascate di Iguazù; erano solo tre
ore di strada, ma l’aria si raffreddò improvvisamente e il gelo piantava le sue lame di ghiaccio nei
miei vestiti già zuppi di pioggia.
Chiesi ingenuamente a che ora saremmo arrivati, dimenticando che la risposta tipica in
Sudamerica a qualunque accenno all’orario è “orita” o un “ratito” , cioè i diminutivi di “un attimo”come se il momento potesse dividersi e accorciarsi in parti più piccole -, ma quest’usanza qui
piace perché, come sostiene Sepùlveda, “abitiamo in un paese troppo grande, siamo pochi, e il
calore dei diminutivi ci fa sentire meno soli”.
ACQUA
Quella sera sull’autobus ho conosciuto un ragazzo spagnolo, Sergi, che tremava a causa del
brivido freddo che scuoteva anche me, per cui non ci volle molto a stringere un’amicizia nata sotto
al segno della condivisione opportunista di una coperta e dei rimasugli del cibo di entrambi.
Proseguimmo il viaggio insieme.
Stanca di dover organizzare da sola le mie giornate per sfuggire ai tour d’assalto nei posti turistici,
ho lasciato che fosse Sergi, col suo ineccepibile spirito organizzativo da ingegnere, a programmare
la giornata tra una gita a Foz de Iguazù, dal lato brasiliano, passeggiate chilometriche attraverso la
selva, una visita a un villaggio indigeno, e a quel punto avevo perso il conto del resto…
Iguazù è fatta di fiumi che si trasformano in cascate e cascate di nuovo in fiumi , in un movimento
incessante dalla notte dei tempi, quando gli indios guaranì stabilirono i loro villaggi a ridosso
dell'acqua, in punti che credettero inespugnabili dai conquistadores spagnoli e portoghesi. Per
secoli quest’acqua si è mischiata al sangue versato per volere di una minoranza dominatrice su un
popolo inerme, sterminato in una battaglia impari.
Davanti a me l’acqua continua a scorrere, lavando le ferite passate e presenti, buttandosi oggi
contro le mille trappole e barriere che l’uomo tende alla natura per potersene servire, dighe e
cemento, pozzi e canalizzazioni e difendendosi da mani che hanno comunque sventrato, deviato e
distrutto: siamo rimasti entrambi senza fiato davanti alla centrale idroelettrica di Itaipù, la più
grande del mondo, un’impresa ciclopica data la quantità di dollari investiti ma anche una
formidabile lezione sul debito pubblico dei due paesi in questione, il Brasile ed il Paraguay.
ALBERI
Ancora storditi dal confronto con quella scala sovrumana, ci siamo avviati nella selva, lungo un
“sentiero mapuco” alla ricerca di un fantomatico villaggio della cui esistenza io dubitavo
fortemente, ma ormai le mie gambe andavano avanti per inerzia, e in fondo tra palme, liane e
tucani la natura era così spettacolare che smisi di fare domande stupide. Quando persi totalmente
l’orientamento e Sergi stava sul punto di sventolare bandiera bianca, ci si presentò davanti un indio
piccolo piccolo che con un sorriso smagliante ci accompagnò al villaggio.
Ci fecero sedere e offrirono da mangiare, noi in compenso comprammo degli oggetti intagliati nel
legno e ci mostrammo probabilmente così interessati alle loro tradizioni che il piccolo indio ci portò
a fare un giro tra gli alberi e le piante medicinali che usano, soffermandosi davanti ad una albero
pieno di bacche che le donne e gli uomini mangiano come contraccettivo. Ridendo ci disse anche
che il suo ultimo figlio era nato sotto il segno del dubbio, o non ne avevano mangiate abbastanza
oppure lui aveva un rivale…
Siamo finiti poi per caso in una riserva chiamata la Aripuca, dove una famiglia argentina si è
messa in testa di salvare gli alberi secolari della foresta dalle seghe e le ruspe delle multinazionali
che controllano la zona.
Hanno messo su una specie di agriturismo per attirare l’attenzione di chi, come noi, ha nozioni
piuttosto scarse sulla deforestazione delle Amazzoni ma senza dubbio ritiene più importante l’aria
che respira e l’acqua che beve piuttosto che l’aumento di una cifra di un conto privato in banca.
E loro quella terra non l’avrebbero venduta neppure per una cifra a tre zeri.
Diedi un’altra rapida occhiata intorno, e decisi che, se anche fosse stato per l’ultimo alberello su
quel territorio, avrei appoggiato quella nobile causa.
Ho “patrocinato” un albero ancora giovane che nessuno, mi auguro, avrà il diritto di toccare in
questo angolo di paradiso naturale; ci sarà scritto il nome di mia nonna, oma, inciso nella pietra
alla base del tronco che un giorno sarà troppo grande anche da abbracciare, ma la cui crescita
sarà indissolubilmente legata alla memoria di una persona: una persona forte, che a settant’anni
prese in mano un pennello e iniziò a dipingere, a settantacinque prese corsi d’inglese “perché, sai,
al giorno d’oggi è importante..” e che ora viaggerà nel cyberspace su un sito argentino…
E’ stato un piccolo gesto che mi ha reso felice e hanno segnato il giorno, a due settimane dalla sua
morte, del ventitré di novembre.
Mi piace pensare di averla seppellita qui, ai piedi di un albero che diventerà vecchio, vicino alla
terra e all’acqua e vicino a me ora, da questo lato del mondo.
ANELLI
Saluto con un cenno della testa un indio, che mi aveva seguito con lo sguardo tenendosi in
disparte, poi vedo che si avvicina e con aria cerimoniosa mi regala un anellino fatto di semini,
dicendomi che sono quelli dell’Ibarà Pità, l’albero che ho “adottato”: lo metto al dito, ringraziandolo
per quel gesto toccante e spontaneo, accanto ad un altro anello che mi stringe l’anulare.
Due anelli, due storie, penso sorridendo. Osservo quel piccolo cerchietto d’oro e ripenso al giorno
dei miei ventun anni, quando i miei nonni, opa e oma, vennero a farmi gli auguri e opa, con la
stessa aria cerimoniosa che leggo sul viso dell’indio guaranì, tirò fuori dal taschino una scatoletta
intarsiata di madreperla, dal vago sapore antico.
Aprila, figlia mia, e conserva con cura la storia che sto per raccontarti, disse.
Dentro c’era un anellino, piccolo e semplice come quello di una bambina, con una perla al centro
di un fiorellino di brillanti ormai consumati dal tempo; non l’avevo mai visto portare a nessuno della
famiglia, né a qualche vecchia zia , né su foto sbiadite di sorelline scomparse prematuramente. Del
resto non mi é mai piaciuta l’idea del “gioiello di famiglia”, le spille pompose di persone sconosciute
che il cosiddetto legame del sangue rende importanti e l’argenteria ammaccata dal passaggio di
troppe mani, per cui con l’aria stupita guardai la faccia rugosa di opa, aspettando che svelasse il
mistero di cui parlava l’oggetto che tenevo tra le mani: tu sai che mio nonno era un “capitano di
ventura”, iniziò, verso la metà del secolo scorso possedeva una nave mercantile con cui
traghettava merce tra i porti del nord dell’Olanda e la Scandinavia, e, attraverso i gelidi venti del
Mar Baltico ha iniziato a costruire la sua fortuna, mettendo insieme i soldi necessari per comprarsi,
il giorno in cui si fosse stancato di quella vita da “lupo di mare”, un’enorme fattoria su cui vivere di
rendita per i giorni che gli sarebbero rimasti. Quel giorno però arrivò prima del previsto quando il
suo volto, già solcato da tante onde del mare, incontrò quello di una giovane fanciulla danese. Per
lei mollò tutto, traghettò un’ultima volta da Copenaghen al porticciolo di Scheveningen con lei a
bordo, e vendette la barca sul molo l’indomani. Come si era promesso anni prima, visse ancora
una lunga vita circondato da campi sterminati di tulipani e mulini, con tredici figli e altrettanti
braccianti. Quando sua moglie compì la venerabile età di ottant’anni, alla fine dell’800, decise di
fare le cose in grande e chiese all’orafo più rinomato della città di fabbricargli dieci anelli uguali,
una per ognuna delle sue dieci figlie, e tre spille d’oro per i figli maschi. Così fece.
Uno degli anelli, continuò, fatto su misura per un ditino sottilissimo, andò a mia mamma, la tua
bisnonna, che era la più giovane delle dieci. Anni dopo, quando l’anello é rispuntato fuori da un
lungo letargo in un cassetto della mia casa paterna, ero sicuro di volerlo dare a te, sapendo che
potrà stringere solo le tue dita così sottili. Sappi che al mondo esistono altri nove anelli identici a
questo, avvolti a dita di cui non ho memoria, ma che sicuramente un secolo e mezzo fa
scrivevano, disegnavano e suonavano sotto lo stesso tetto.
Alla fine della storia guardai la mia mano con gli occhi umidi.
L’indomani ci siamo svegliati all’alba per goderci le cascate senza la telecamera dei giapponesi e,
dopo due ore di cammino, siamo arrivati ad una laguna blu, una pozza di acqua chiarissima
sovrastata da una cascata di venti metri che poteva essere lo scenario di una nuova versione di
Tarzan, Re della giungla.
Prima di riprendere l’autobus verso le Ande ho consultato distrattamente la mia e-mail ed ho
saputo che mi era nata una nipotina chiamata Sandra!
Ho brindato, con un amico conosciuto due giorni prima, a queste ventiquattr’ore incredibili, in cui
avevamo misurato i nostri limiti davanti alla natura immensa, in cui avevo sepolto una nonna ed
era nata una nuova vita ed io mi sentivo piena, piena di gioia.
LA NOTTE DI SALTA
Un’alba nitida e chiara annuncia una giornata spettacolare e il mio arrivo a Salta.
Ho addosso un senso di spossatezza al limite della mia resistenza fisica; é come se il mio corpo
torturato da due notti di seguito in autobus mi ricordasse di essere fatto di muscoli, ossa e nervi e
che ogni remota parte del mio organismo oggi urlasse rivendicando il diritto di ricevere un
trattamento
migliore.
È strano, malgrado tutto, ogni volta che risalgo faticosamente su autobus sgangherati mi riprende
la stessa euforia, simile ad un brivido che corre lungo la schiena all’idea di imbarcarmi alla
scoperta di altri orizzonti; é una leggera vertigine che mi restituisce puntualmente quella carica
intatta, che mi fa salire tre gradini di lamiera e andare allegramente incontro a dodici ore di
masochismo puro, lungo strade che si snodano a strapiombo tra precipizi e burroni e pregare in
una lingua inventata, imparata strada facendo, che l’autista non abbia vinto la patente a qualche
fiera di paese o scommessa a carte, perché in quelle dodici ore gli sto tranquillamente affidando i
miei ventotto anni.
E, a giudicare dalle croci che accompagnano la strada dai due lati, la posta in gioco di questa
scommessa con la sorte non é solo la mia, ma anche quella della carovana di gente col fagotto in
spalla, lo sguardo scolorito e lo spirito fatalista di chi non ha comunque niente da aspettarsi dalla
vita,
e
quindi
nulla
da
perdere.
Circondata da indios sembro la buffa emissaria di un altro mondo, con le mie mappe e guide per
orientarmi nella tormentata topografia delle Ande e poter prevedere i miei passi, mentre qui c’è
solo da ascoltare le grida monotone dei venditori che salgono a ogni paesino, e dei ragazzini che
prima durante e dopo la partenza intonano litanie e rosari improvvisati: una radio Maria ambulante,
che consolazione....Inshallah o vaya con dios, vai e portami a destinazione, autista esperto delle
Ande.
Quelle lunghe ore di intervallo in cui i minuti si susseguono uno più lento del precedente e l’alba mi
piomba addosso come una liberazione, sono diventate il contenitore temporale della mia memoria,
i ricordi fanno la fila per delinearsi nell’oscurità insondabile della notte.
Con la complicità del buio, le emozioni trovano lo spazio e il tempo per depositarsi e decantare
nell’anima, come se il giorno col suo ritmo asfissiante rifiutasse di farsi carico anche del passato.
Ho chiacchierato a lungo con una ragazza di ritorno da San Paolo, al terzo giorno consecutivo
sull’autobus che la riportava a casa, dove aveva dato corsi di danza del ventre rivendicando
lontane origini magrebine: ora l’ho piazzata ex equo sulla mia lista delle classifiche dei più
simpatici giramondo incontrati, con un greco che dà lezioni di tango ad Amburgo e, ciliegina sulla
torta, l’assistente di un ventriloquo danese che seguiva un circo in Argentina.
La prima immagine di Salta é stata quella di una tranquilla cittadina ai piedi delle Ande ancora
mezza addormentata e infreddolita, ma già vedevo i tetti rossastri delle casette coloniali, le luci dei
viali che si spegnevano, le persiane aprirsi sulle facciate colorate e qualcuno che pigramente che
si
affacciava
dai
balconi
di
ferro
battuto.
Mezz’ora più tardi, mi ero guadagnata una cordiale accoglienza alla “casa familia” delle tre sorelle
Suarez de La Peña, meglio conosciute come le abuelas de Salta, che hanno abilmente trasformato
tre portoni attigui della loro dimora paterna in un unico rifugio dal vago sapore casalingo e familiare
della città.
Mettendo in scena un numero da piccola fiammiferaia e con la benevolenza di una delle vecchiette
senza nipotini in casa, non c’è voluto molto per ritrovarmi, nell’arco di dieci minuti, sprofondata nel
comodo lettone matrimoniale di una delle stanze più “vissute”, tra foto di matrimoni prebellici e
bomboniere d’altri tempi e con una bibbia polverosa sul comodino, presto sostituita con i “Veinte
poemas de amor y una canzòn desesperada” di Pablo Neruda, che lascerò in omaggio al prossimo
viandante.
Credo di non essere riuscita a contare fino a dieci prima di addormentarmi in un sonno dolce e
profondo,
cullata
in
sogno
dalla
ninnananna
a
tre
voci
delle
nonnine
argentine.
Dopo un tempo indefinibile mi sono svegliata assalita dai morsi della fame, non ricordavo più di
aver fatto un pranzo o una cena degni di questo nome negli ultimi giorni, é stato tutto un tentativo
di ingannare il mio stomaco con palliativi confezionati dal sapore improbabile, ma adesso la resa
dei conti é spietata e devo assolutamente affrontare la notte con qualcosa di più della tisana che
amorevolmente mi é stata offerta.
Dopo un attimo di esitazione e un residuo di orgoglio, decido che non era il caso di chiedere alle
vecchiette il banchetto luculliano di cui avevo bisogno, e quindi affronto controvoglia uno degli
acquazzoni più spietati delle ultime settimane. Dall’allagamento che c’è in giro sembra che abbia
piovuto ininterrottamente per ore...
Vicino alla piazza principale ci sarà senz’altro qualcosa di commestibile, pensavo, e così, con
addosso un’impermeabile di fortuna e dei pantaloni da martin pescatore, mi dirigo verso una
piccola
folla
accalcata
sotto
il
portico
da
un
lato
della
Plaza
mayor.
Era l’inaugurazione di una mostra di pittura: l’avevo anche letto distrattamente su un manifesto la
mattina non sospettando quanto mi sarebbe stato utile la sera, e non ci penso due volte ad
entrare, spinta molto più dall’istinto di sopravvivenza che da un’autentica aspirazione estetica. O
meglio, una volta saziato per benino lo stomaco, ero pronta a discutere dell’avanguardia pittorica
argentina anche fino al mattino.
Ogni cosa a suo tempo.
Tra la mia incredulità e stupore si sono aperte le danze con involtini farciti di ogni tipo e
prelibatezze appena sfornate mi danzavano davanti agli occhi al tal punto che, al quarto round
annaffiato con vino cileno, ho dovuto rinunciare ad un fantastico gelato in arrivo. Con mia grande
soddisfazione - alla faccia della crisi argentina incombente e degli artisti squattrinati del mondo
intero- questa inaugurazione da high society di Salta non aveva nulla da invidiare alle migliori
gallerie
d’arte
di
Soho.
In quel teatrino di donne in paillettes e signori incravattati il mio look spiccava tra i più indecorosi
della serata: sarei potuta defilarmi in silenzio ,salvando quel poco di faccia che mi era rimasta,
oppure continuare a fare l’architetto interessato alle piante dell’edificio appese, ma, con la
complicità del vino tinto, ho rincarato la dose attaccando una conversazione con l’unico gruppetto
in giro che ostentava disinvoltamente una camicia sbottonata in perfetto stile decontracté e
mangiava con la stessa foga con cui mi ero rimpinzata io; la serata é finita, nei mille e più caffé
della città, a riempirci la pancia e il cervello di vino, in allegra compagnia di un gruppo di pittori.
È sorprendente come a volte le persone emanino una dose di energia positiva che ti raggiunge e ti
fa capire che qualcosa in comune con quel viso sconosciuto dall’altra parte del mondo, c’é di
sicuro.
La mattina mi sono svegliata di buon’ora con il suono di una grancassa assordante, che non era la
mia testa, e dall’eco di strane marce intonate fuori; in tre secondi esco per la strada gremita di
gente impazzita, tamburi e trombe, pentole e fischietti, tutti insieme a festeggiare il Boca Campion
del Mundo,il trionfo della squadra tutta “cuore e passione” in un delirio collettivo di pianti e danze
su carri improvvisati.
Il Dio del Calcio si é ricordato di noi, é tornato a baciarci e a mettere i suoi undici eroi su un
piedistallo e dare inizio ad una messa televisiva con trenta milioni di fedeli, accalcati e devoti a
quella coppa così sofferta e sudata e ora,nell’ora del trionfo, alzata al cielo come un trofeo di
guerra o come il calice del Cristo.
Così, tra dirette non-stop in mondovisione e brindisi in ogni angolo della città, l’Argentina ha per un
attimo rimosso tutti i mali del mondo, e un coro unito di gioia é durato tutta la notte.
“Vivo en un pais libre
qual solamente puede ser libre
en esta tierra en este istante
soy feliz porque soy gigante
amo una mujer clara
que amo y me ama sin pedir nada
o casi nada que no es lo mismo
pero es igual…." - Silvio Rodriguez
BIENVENIDOS EN BOLIVIA
REPUBLICA BOLIVIANA, 10 km. é la scritta che vedo sfuggirmi davanti agli occhi attraverso il
finestrino appannato. Il vento gelido delle Ande si é alzato all’improvviso anche stasera,
spazzando via le poche nuvole che sfidavano i 4000 metri.
Ci avviciniamo al Paso de Frontera lungo una strada che taglia in due l’altopiano, salutando i
paesini appesi alle montagne nude: hanno nomi diversi, non più i vari San Pedro, San Isidro e San
Antonio che si moltiplicano in Argentina insieme a tutti i santi del calendario, ma nomi indigeni pieni
di vocali aperte e di consonanti impronciabili, Humahuaca,Tlatelolco o Tikipaia.
In compenso la giornata é limpidissima e, per la prima volta, riesco a vedere lo spettacolo della
cordigliera, quei picchi innevati sulle montagne brulle cotte da un sole di piombo che squama ma
pelle e ferisce gli occhi.
Ogni tanto mi guardo nello specchietto retrovisore per verificare se sono sempre io, se sono tutta
intera e se i chilometri mi si leggono anche addosso. Ma non sembro poi così diversa, a parte le
spalle spellacchiate e i capelli stopposi sempre più lunghi.
Ho gli stessi due pantaloni, troppo leggeri per queste altituduni, da tre mesi, le mie magliette
sfibrate e un solo maglione con un lama ricamato; gli ultimi giorni sono passata di paese in paese,
dormendo in casette fatte di terra cruda e sfamandomi in osterie così squallide da far passare
anche l’appetito, oltre che qualsiasi aspirazione estetica. Parrilla y papas, carne e patate, e
buonanotte il più presto possibile.
I miei sogni invece sono molto più movimentati, forse é l’aria rarefatta che li rende più densi e li
dilatano fino a mattino inoltrato; spesso mi sveglio tardissimo senza capire esattamente cosa
faccio in una stanzetta spoglia, con quattro coperte addosso a un crocefisso sulla testa.
Ho sognato Agostino stanotte, mi sussurrava cose in una lingua che non capivo ma somigliava al
quechua parlato dalle donne indigene con le trecce, la bombetta ed il fagotto sulla schiena. Da un
anno non ci capiamo più, in questo il mio sogno aveva ragione. Mi manca tanto, anche questo
diceva. Ora é duro ammetterlo a me stessa, dopo essere scappata da lui salendo sul treno in
partenza dalla Gare du Nord, forse solo per una mia paura di affrontare la vita con un uomo giorno
per giorno e restare al fianco di qualcuno che mi prometteva amore eterno, vero, serio.
E’ rimasto tra di noi il sapore di una storia d’amore vissuta e negata troppo in fretta, senza poter
realizzare quello che nei nostri pensieri ci avrebbe reso felici.
Più volte ho sognato il nostro primo incontro, buffo e divertente, in una città appena liberata
dall’assedio durato più di mille giorni, con le macerie ancora fumanti ed il coprifuoco alle undici di
sera. Welcome to Sarajevo, benvenuti a Sarajevo, la città che tutto era fuorché una città "normale"
nell’estate del ’96: era la prima stagione di pace, facendo fede ai pezzi di carta firmati dai potenti
del mondo, la gente si era moltiplicata con il ritorno di chi era scappato sotto le bombe, e chi era
rimasto non si capacitava di poter camminare tranquillamente per la strada, senza la paura di
essere il puntino rosso nel mirino dei cecchini, e di ritrovarsi in una pozza di sangue, in mezzo
all’incrocio, l’attimo dopo. Donne, vecchi e bambini si riversavano allegramente per le strade, ma li
vedevo istintivamente accelerare agli incroci e tenere ancora le lenzuola appese tra un edificio e
l’altro, a mò di sipario dietro al quale i cecchini sparavano a vuoto. I ragazzi invece affollavano le
terrazze all’aperto dei mille bar e caffé nati spontaneamente negli ultimi mesi; c’era bisogno di
recuperare il tempo perso, dimenticare gli anni vissuti come topi di fogna e riprendere il gusto alla
vita vera, libera, gioiosa. C’erano tre ore d’acqua al giorno, la luce elettrica andava e veniva e non
si poteva circolare per strada dopo le undici; non era comunque possibile costringere chi ha
vissuto cinque anni in cantina, uscendo solo di notte a cercare cibo, come fanno gli animali, a
starsene buono buono a casa sua e andare a letto con le galline, e nessun coprifuoco o
regolamento cittadino avrebbe impedito la voglia di rivincita di quei giorni. Mi feci coinvolgere
anch’io nell’escamotage inventato dai giovani della città: dalle undici alle cinque di mattina
nessuno per le strade, ma tutti chiusi dentro a bar strapieni di gente che ballava, dormiva sui tavoli,
e si scolava fiumi di alcolici fino all’alba. Feste memorabili nei ristoranti e nei locali, poi, col canto
del gallo, tutti a casa. No, non aveva proprio nulla di normale, in quei giorni, Sarajevo.
Io lì in mezzo tentavo di dare un senso ai miei sei anni di studi di architettura con una tesi sulla
ricostruzione in Bosnia, iniziata semplicemente sbarcando in un città distrutta e senza la minima
idea di dove cominciare. Dietro all’adesivo con la colombina della pace, sulla porta dell’ONG
italiana che mi ospitava, c’erano due semplicissime stanze senza vetri, tre computer e la mia
brandina. Non conoscendo nessuno mi misi subito alla ricerca degli architetti e ingegneri elencati
sulla mia lista, fiduciosa nel fatto che mi avrebbero aiutato ad andare avanti. Nel pomeriggio, un pò
frustrata perché le linee telefoniche non funzionavano, non sapevo una parola di serbo croato e i
miei architetti sembravano essersi volatilizzati nel nulla, mi incamminai per la "Sniper Alley", il
cosiddetto "Viale dei cecchini", nonché lo stradone più conosciuto dai TG del mondo intero,
fermandomi davanti ad un manifesto con una foto che ritraeva una ragazza al suo pianoforte con,
sullo sfondo, un buco così grande nella parete da sembrare un immenso cratere e non l’effetto di
una sola granata. Era una foto della mostra di un fotografo, il cui nome suonava
inequivocabilmente italiano, scatti fatti durante gli anni di guerra, in cui ora i protagonisti venivano a
riconoscere i propri visi trasformati, spesso irriconoscibili, in ogni caso duri, forti, toccanti. La sera
vago per la Bascarsija, il centro di Sarajevo fatto di vicoletti contorti e slarghi con le fontane, la
copia di un quartiere di Istanbul, coi i tavolini dei ristoranti nascosti dentro patii all’aria aperta. Entro
in uno dei tanti posticini attratta dall’odore di carne alla brace e, mentre leggo Il Corriere della Sera
di tre giorni prima, alzo lo sguardo distratta dalla voce di un italiano che gesticola sbraitando in
qualcosa di simile all’inglese, ma che inglese non era, nella piena convinzione però di poter tenere
una conferenza a Oxford seduta stante. Ma perché ci dobbiamo sempre far riconoscere, mi chiedo
io, sperando di essere trasparente nel mio angolo. Poi di scatto quel ragazzo interrompe il suo
monologo in esperanto, si alza dal tavolo e mi viene incontro chiedendomi stupito cosa facessi lì.
Nessuno era un “turista”, quell’estate a Sarajevo.
Quando mi disse di essere un fotografo venuto per una mostra, tentai la mia chance, difficile che ci
fossero due reporter di guerra con lo stesso nome in giro, e esclamai con aria di sfida:
“Sei Agostino, vero?!”. Rimase un attimo interdetto, poi venne il suo turno di stupirmi, quando
candidamente rispose: “E tu sei Sandra, no?”. Credo di non essere neppure riuscita a sorridergli,
talmente ero sorpresa, perché proprio nessuna traccia né anello congiungente poteva aver messo
in relazione i nostri nomi; ero un’anonima, un fantasma appena approdato nella città bombardata,
un’outsider.
Quando mi fece vedere il librone appoggiato alle sue ginocchia, pieno zeppo di commenti e di
firme in varie lingue, e tra le ultime, ancora fresca e nitida, anche la mia, capii che il destino a
Sarajevo si era divertito a intrecciare le nostre vite.
Bentornati in Bolivia, il cui Paso de frontera con l’ Argentina é un ponte su un fiume senz’acqua,
con il gabbiotto della dogana piantato tra le due sponde e una lunga coda di camion, decorati più
dei carretti siciliani, dai quali sbucano legna, bestiame e frutta di ogni genere. C’è un esercito di
indios scalzi che bivacca sul ponte, svuoto le mie tasche degli ultimi pesos argentini, poche
monete con cui, dal lato boliviano, si riesce invece a mangiare per due giorni, dandoli in mano ad
un vecchio dagli occhi appannati da cataratte impenetrabili, che galleggiavano socchiusi sotto un
berretto col il pon-pon.
Poi ho fatto una cosa strana, e a raccontarla mi sembra ancora più insensata, ma l’ho fatta: c’era
un unico negozietto a metà del ponte, non più in Argentina e non ancora in Bolivia, che vendeva
esattamente i quattro articoli esposti nella vetrina, nell’ordine due camicie da uomo, un paio di
scarpe da ginnastica e un vestito bianco. L’ho comprato, quel vestito elegante e surreale, con i
suoi veli bianchi in mezzo a tutte le tele colorate degli indios, tra rossi e arancioni accecanti: lo so
che é decisamente l’ultima cosa da portarsi in giro per il mondo, un vestito da sposa perso in un
guardaroba di stracci, ma mi piace l’idea di averlo comprato qui, il primo dicembre, nella terra di
nessuno.
GIORNI INDIGENI
La carretera boliviana è simile alla riga che si perde nella pagina accartocciata di un quaderno, si
muove tra le pieghe ed i solchi delle montagne o le taglia come la lama nel burro, per poi
trasformarsi, a seconda delle condizioni meteorologiche, in acqua, fango o ghiaia: mentre l’autobus
avanzava incerto sotto il diluvio, tra cumuli di sassi accatastati sui bordi simili ad un guardrail
preistorico, ero inquieta e spaventata.
Mi tornò in mente che in Africa la stagione delle piogge sovverte ogni regola, spalancando ogni
anno le porte ai poachers, ai bracconieri e ai cacciatori di avorio, e, poichè le strade diventano
totalmente impercorribili, nessun guardiacaccia si sogna di rischiare la sua vita per salvare qualche
pelle pregiata o raccattare le carcasse di elefanti sdentati, uccisi qualche giorno prima. Avevo
paura per noi, una manciata di indigeni alle prese con equilibrismi su una strada slabrata e
inzuppata d’acqua, convinta che proprio nessuno sarebbe venuto a raccoglierci, se fossimo
inciampati nella catena di chilometri d’ombra che ci separano da una città ancora lontanissima.
Com’era distante adesso il ricordo delle strade argentine, quegli assi neri tracciati a riga e squadra
impermeabili alla pioggia e un po’ mollicci al sole, che solo gli scioperi degli ultimi giorni rendevano
impraticabili: negli occhi avevo ancora le barricate, e nelle orecchie l’eco dei “ No pasaran!” urlato
a squarciagola dai manifestanti saliti sui tetti dei loro camion.
Ora non vedevo più nulla, solo l’alone del mio respiro condensato sul vetro ed il ticchettio della
pioggia.
Non può finire qui la mia strada, pensavo con ansia. Orlando mi sta aspettando, mi ripetei per
farmi coraggio, e devo mantenere la promessa fatta di arrivare a Cochabamba, una città piantata
proprio nel mezzo della Bolivia. Guardai la cartina che segnava, tra me e il mio amico, altre due
città chiamate Potosì e Oruro: le avevo sentite nominare entrambe, la prima come una città “bella
e crudele”, nota per le sue chiese barocche e facciate coloniali così impressionanti da meritarsi il
titolo di “patrimonio dell’umanità” e riportate sulle asettiche liste dell’ONU, ma anche per una lista
ben più lunga di morti per silicosi, intossicazione e incidenti nelle sue ricchissime miniere di plata;
la seconda invece per un Carnevale impregnato di credenze indie, una sorta di riscatto beffardo
celebrato contro i conquistadores, e celebrato ogni anno tra il rullìo di tamburi e lo sfilare di
maschere, saltimbanchi e giocolieri su carri addobbati, al ritmo di danze sfrenate.
Sono ormai cinque anni che non vedo Orlando, “Lacho” per gli amici , cinque anni che non so più
nulla di quel ragazzo col basco e lo sguardo inconfondibilmente sudamericano, laureatosi quando
io ancora non sapevo come tenere in mano una matita; giorni e notti passati a disegnare la sua
tesi, insieme ad uno degli eserciti più agguerriti che abbia mai conosciuto, armato di litri di
inchiostro di china e di caffè, che lottava contro le insidie del sonno e del tempo: cinquantacinque
ore di fila, tra dosi massicce di Radiorock e spaghettate alle ore più improbabili, così avanti fino al
fatidico momento in cui venne dichiarato “dottore in architettura” e l’esercito stremato si sciolse
davanti alla facoltà, nei fiumi di Brachetto appena stappato.
Poi, qualche mese dopo Lacho impacchettò tutto e, come si fa quando si parte con un biglietto di
sola andata in una mano e tutte le insicurezze del mondo nell’altra, parcheggiò a casa di amici
frammenti di vita sparsi, quadri e disegni, montagne di libri e un tavolo da disegno non proprio
facile da portarsi dietro, nel cuore delle Ande.
“Ti stupirai, un giorno di questi mi ritroverai davanti al tuo portone!” mi disse ridendo, per
sdrammatizzare il suo ritorno in una vita che non conosceva più. Dieci anni di assenza sono tanti,
pensai, ma gli augurai che valesse la pena farlo, quel volo nella terra dei Condor. Ora invece sarei
riuscita a stupirlo io, bussando alla porta della sua città, cercando uno dei “salvagenti” nel mio
girovagare in mare aperto a cui aggrapparmi per riprendere fiato. Come mi era accaduto già in
precedenza, tornavo a rinfrescare la memoria di amici persi per strada, o semplicemente a
riesumare vecchie conoscenze che si trovavano nella mia traiettoria di viaggio, esattamente “nel
punto giusto al momento giusto”, senza per forza esserne consapevoli.
La migliore cartina al tornasole dell’amicizia è presentarti inatteso davanti a qualcuno che hai visto
l’ultima volta tanti anni fa, nella notte dei tempi, di cui ricordi magari solo un dettaglio del viso, la
voce o la risata, e accorgerti in un solo momento di quanto sia vero quel sentimento che ti lega,
non una sensazione sbiadita ma carne e ossa che ti stringono, forte e stretto, in un abbraccio
senza tempo.
Lacho mi accolse come una sorella ritrovata: la sua casa d’ora in poi sarebbe stata anche la mia,
la sua famiglia la nostra e in poche ore recuperammo le conversazioni sospese o interrotte anni fa;
davanti a un bicchiere di vino rosso srotolavamo senza ansia le nostre vite degli ultimi anni, le
esponevamo l’uno all’altro dipingendole come tele che lentamente prendono forma, o come un
caleidoscopio la cui immagine sfocata e frammentaria ad un certo punto diventa un mosaico
perfetto di colori.
Un vero puzzle, questi anni raccontati tutti d’un fiato: Lacho si era sposato, aveva divorziato e
avuto un figlio, Pablito, ma continuava a fare l’architetto per mestiere e a dipingere per amore.
Non é mai stato uno che si arrende facilmente, Lacho: avere a che fare con rozzi palazzinari non
era stato certo semplice, ma avere la crème del narcotraffico boliviano come cliente è ancora
meno divertente: i villoni dei soldi sporchi regnano indisturbati dalle colline intorno alla città, e
nell’insieme concorrono al primato delle migliori imitazioni di tutti gli stili che l’uomo sia riuscito a
concepire, palazzi con torrette a spirale pseudo-rinascimentali, chalet di Heidi dai colori
nauseabondi, Partenoni pomposi che sembrano fatti di zucchero filato, circondati da copie dei
giardini di Versailles, con archi di rose e zampilli colorati, voluti ad ogni costo da qualche
megalomane, nella patria dei cactus e delle piante grasse.
Una delle clienti con cui Lacho si era scontrato era la moglie nulla facente di un noto businessman
di Santa Cruz (resta solo il dubbio se i cosiddetti businessman locali traffichino coca o armi, non si
tratta comunque di tranquilli economisti o agenti di cambio di una borsa inesistente…): alla señora
spettava il compito di arredare la casa e di seguire i lavori, bocciando ogni proposta architettonica
che si allontanasse minimamente dall’immagine di una torta nuziale, chiaro simbolo della la casa
dei suoi sogni. Provò a schizzare, davanti ai nostri occhi allibiti, uno sgorbio informe con la pretesa
di raffigurare la colonna dorica che desiderava all’ingresso: disgustato, Lacho le assicurò che ci
avrebbe provato lui, a disegnare una colonna un po’ più fedele ai nostri antenati, ma non fece in
tempo. La señora, ossessionata ormai dalla sua colonna, mandò un fax la mattina seguente: sulla
foto sbiadita che la macchina stava lentamente sputando fuori, ritagliata dalla pagina di un
giornale, si distinguevano un palazzo governativo a Lima, preso d’assalto dalle Forze Armate, con i
corpi esanimi di guerriglieri senza vita in primo piano, e, nell’angolo a destra, la data di uno dei fatti
di cronaca più sanguinosi della storia del Perù, l’assalto dell’ambasciata giapponese da parte dei
Tupac Amaru, conclusasi in un massacro. Solo quando il foglio uscì completamente, ci
accorgemmo del cerchietto rosso, segnato a penna, che metteva in evidenza la base della colonna
dorica, posta all’ingresso del palazzo bianco sul quale sventolava ancora la bandiera giapponese.
La voleva proprio così, la sua maledetta colonna, e l’avrà cercata a lungo tra le riviste di
arredamento e déplians di stucchi e marmi, per trovarla finalmente su un’immagine in bianco e
nero tinta del rosso della sua penna e del sangue di cui poco le importava.
Fummo ospiti, per un pomeriggio, nella villa di una buffa coppia austriaco-pakistana, lui venditore
di tappeti persiani di cui continuavo a confondere il nome,Tafik,Tarek,Takir o Kifir, al punto di non
riuscire a trattenermi, scoppiando a ridere davanti a quell’omaccione baffuto così pieno di sé,
mentre lei era un’energica donna dalle guance rosse e due braccia strappate all’agricoltura, o alla
mungitura di vacche in qualche remota fattoria austriaca.
I giorni passavano tra personaggi che solo il turbante di un mago sudamericano poteva partorire,
un’allegra processione di Don Chisciotte senza cavallo, di santi senza fede e capitani senza nave.
L’America Latina ha questo di affascinante, è il regno dove si difende la fantasia contro la realtà,
l’utopia contro la sicurezza, la rivoluzione contro l’obbedienza, sottolineando che "noi, signori, liberi
e sognatori, siamo contro tutte le leggi, a cominciare dalla legge della gravità". Questo almeno
dichiarava la frase di sfida al mondo intero che vidi trascritta con lo spray sul muro dell’università.
Si stava avvicinando Natale, e sfilavano, nei villaggi della Bolivia, varie processioni con la statua
della Vergine in prima fila, ondeggiante pericolosamente sopra folle in delirio, tra ceri e fiammelle
tremanti e sussurri di preghiere soffocate dalle lacrime e l’emozione: nascite e betlemmi che si
ripetono ogni anno con lo stesso fervore religioso, come se qui la celebrazione di miti fosse l’unico
modo di sublimare un mondo di povertà e violenza, in cui la verità così com’è nuda e cruda, sta
diventando sempre più insopportabile.
La Paz
L’autobus avanza lentamente, nella notte, i fari illuminano dune pallide, zone spettrali e misteriose
quanto il lato oscuro della luna.
Ai bordi della strada vive il popolo degli indigeni, una catena umana che si muove scalza come un
millepiedi tra un paese e l’altro, viaggiando al confine della dignità umana. E` gente relegata al
margine di tutto, curva sotto il peso del proprio fagotto, nel silenzio, con la purezza negli occhi e la
frustrazione nel cuore: ci sono posti al mondo dove chi cade non si risolleva più, e chi non si é mai
sollevato sé condannato alla liquidazione. Tanti, troppi, sono i volti, i brandelli, gli stracci e le toppe
assunti dalla miseria. A volte qui le persone si fermano e mi interpellano, ed entrano così per un
attimo a fare parte della mia vita: una donna al mio fianco, guardando afflitta i bambini che le
scorazzavano intorno, mi disse che aveva perso il suo qualche mese prima e che, se ora non
fosse stata più capace di avere figli, era perché i medici non le avevano permesso di seppellire la
sua placenta insieme alla creatura: dopo averla derisa e insultata, si era convinta che, senza quel
gesto, uno spirito maligno si fosse impossessato di lei e dei suoi futuri figli. Volevo rassicurarla,
dirle che era ancora giovane e bella, convincerla a non accettare soprusi e credenze, ma le parole
mi si spezzarono in bocca. E mi venne solo da piangere.
Quando arrivammo, dopo otto ore di tragitto, su La Paz regnava un’alba glaciale.
La Paz ha un’anima spaccata in due: ci sono due città, due nomi, due destini. Guardando in alto,
dal fondo della conca nella quale giace, si vede un labirinto di strade e di vicoli scoscesi, dal quale
i giorni di pioggia l’acqua scende saltellando per gli scalini come un gregge impazzito. Quello é "el
Alto": un’enorme valanga di mattoncini dove vivono, senz’acqua, senza fogne e senza luce,
cinquecentomila persone, ed ha la forma di un mollusco tentacolare che si muove aggrappando le
sue ventose di cemento alla muraglia delle Ande.
Che strano, di solito in alto sta chi comanda, l’élite sceglie sempre di tirarsi fuori dalla melma
urbana dei bassifondi, respira l’aria più pura e gode del panorama più bello: villetta col garage,
barbecue in giardino, assicurazione sulla vita, parabola sul tetto e frigo che fa scendere cascate di
cubetti di ghiaccio su comando.
E la scritta "cane feroce" ben in vista sul cancello. Ecco, i cani, los perros, sono l’unica cosa che
"el Alto" ha in comune con le colline dei tipici quartieri residenziali: sono cani randagi, frequentano
anche loro i gironi infernali di questo posto cercando cibo, rastrellando i conteiners della
spazzatura e frugando nei rifiuti di una città che non rifiuta più nulla, perché non si può concedere il
lusso di buttare via niente. Containeros é anche l’aggettivo che lega immigranti senza documenti,
anziani senza pensione, gitani, espatriati e clandestini, tutti gli eccessi della nostra ingloriosa
società: la loro sola presenza ci butta in faccia quello a cui ci siamo convertiti, una società ha
scelto di non rinunciare all’egoismo di ridurre i marginali a una vita rinchiusa dentro ai bidoni della
spazzatura.
Forse é la loro stessa esistenza a minacciare il nostro allegro benessere, che tanto somiglia alla
felicità, e invece ci uccide l’anima a poco a poco.
Attraversando "el Alto" di sera mi é sembrato di perdermi nella piaga aperta della città, nella sua
parte più dolorosa e inguaribile; ho cercato la mano rassicurante di Lacho, come se pelle contro
pelle si potesse uscire da un brutto sogno, trascinandoci tra mille ombre tagliate da fari di
macchine impazzite; sentii i polmoni infuocarsi per l’altitudine, l’asfalto, il buio, i rigurgiti di acqua
sporca tra lamiere contorte, e poi tanto
rumore, suoni deflagranti che rimbalzano all’infinito nella testa, come un ultimo conato sputato fuori
dalla terra.
Vite spezzate
Da : Lacho
Indirizzo : Sandra
Data 15 Dicembre 16 :56 :22 PM
Mi querida Sandrita,
Hoy la vida me gusta menos, pero me gusta siempre vivir… lo diceva Cesar Vallejo.
Ieri, in un terribile incidente é morta la mia mamma, travolta da una macchina mentre attraversava la strada , un cazzo di
autostradona spropositamente trafficata.
Oggi, tra il dolore e lo stordimento, trovo il tempo per trasmetterti ciò che sento : un gran dolore dell’anima e del corpo,
fisicamente sembrerebbe che il camion ha travolto me, e l’anima, la mia piccola anima immortale, sanguina piange e si
contorce.
Un abbraccio troppo frettoloso, una attimo di distrazione, un letto da rifare o un tavolo da
sparecchiare, un minuto sprecato in cose insignificanti che cambiano tutto, e spostano più in là il
limite tra la vita e la morte. Congelare il tempo, fermare le lancette del meledetto orologio e
riavvolgere i passi tranquilli sull’asfalto, la calma assolata, il viavai di gente indifferente, la frenata
lunga e stridente, l’impatto violento, la caduta, il corpo si abbandona dando l’ultimo segno di vita.
Non essere lì in quell’attimo. Arrivare tardi é più di una frustrazione, é una beffa, un fallimento, é
sentirsi inutili e impotenti davanti alla realtà.
Da : Sandra
Oggetto: Machu Pichu!
Data : 18 Dicembre 2000 14:29:15 PM
Machu Pichu!! Ho gli occhi lucidi, stasera, dopo aver raggiunto quel punto a quota quattromila e
passa che accarezza il cielo e guarda la terra, piu' vicina al sole, alle nuvole e alla stella cometa
che mi riportera' a casa.
Ce l'ho fatta, ho pensato, sentendomi piccola e fragile piu' che mai ma nello stesso tempo piena di
energia e di universo dentro come se facessi parte di questa natura immensa, del battito della terra
e del soffio del vento, del colore della roccia e dei riflessi della neve.
Respirando profondamente quest'aria cosi' rarefatta che rende visibile anche cio' che non lo e' mi
e' sembrato di rivedere tutti i momenti di questo viaggio che si delineavano nel caos disordinato dei
miei pensieri. Ho ripercorso mentalmente la strada fatta, con qualche chilo in meno e qualcuno in
piu' nello zaino, con una casa sulle spalle per tre mesi come una chiocciola.
Non immaginavo che diventare forti significa ridere, piangere, amare e soffrire, sperimentare il
dubbio e l'inquietudine, costruire ricordi per quando saro' vecchia e guardare il futuro, sentirsi liberi
e felici esplorando il mondo. Ho viaggiato su aerei e su treni sgangherati, su autobus con tre
bambini in braccio e una gallina che mi sbraitava sulla testa, su un camion della Coca cola a
contare lattine piene e vuote.
Ho attraversato confini reali e immaginari, di quelli con tanto di paletta e cani antidroga alle "linee
del tempo" e dei Tropici che servono solo a confonderti le idee, anni giorni mesi, partenze e
destinazioni soltanto perche' qualcuno ha deciso che da qualche parte in mezzo al Pacifico corre
una linea virtuale che dice che a destra e' oggi e a sinistra ieri (o e' il contrario? boh...).Io so solo
che ho attraversato continenti troppo diversi per poter stare sulla stessa pagina di un atlante.
Oggi mi sento un po' come un marinaio che ha navigato a sud dell'anima, con tre lune piene e due
milioni di stelle sulla testa, gli occhi pieni zeppi di immagini e in tasca una bussola impazzita tra
emisferi e oceani che ha voglia di tornare a casa, ovunque casa sia, dove c'è qualcuno che lo sta
aspettando.
L'altro giorno ho preso il "Tren de las nubes", quello delle nuvole, che percorre una sola rotaia
avanti e indietro, a zig zag, ponti e viadotti, tunnel stretti stretti come canyons, poi sempre piu' su'
fino a 4200 m. nel cuore delle Ande. Una vera sfida al cielo con la tecnologia di un treno a
vapore...
Una volta alla settimana si attacca un solo vagone passeggeri come fanalino di coda al treno merci
e l'atmosfera e' di per se' degna di uno studio sociologico: giovani di ogni nazionalità, allegri,
spensierati come le nuvole che si attraversano, che si mischia con le famiglie indios e coi loro
carichi di uova e di frutta; donne con le trecce lunghe lunghe e il fagotto sulla schiena; uomini che
masticano pallocconi di coca tutto il giorno e vecchiette bellissime col viso solcato da fiumi e crepe
come una mappa geografica.
E tutti insieme a combattere il freddo e il mal di montagna bevendo infusi di coca (sanno di spinaci,
niente di esaltante..) e mangiando empanadas.
Sono stata tutto il giorno a salire e scendere da quel vagone, ma il momento piu' bello rimane
quello della locomotiva: madonna, non avrei mai creduto di sentirmi cosi' "potente" suonando il
fischio di un treno che e' troppo lento anche per far paura ad un lama, lungo rotaie da Buffalo Bill,
con vento in faccia e Guccini che mi risuonava nelle orecchie...momenti di gloria.
In Argentina ci sono stati giorni di caldo cosi' intenso che ho vagato per le citta' come uno zombie,
le previsioni dicevano che sommando la temperatura all'umidita' si sarebbero raggiunti i 51 gradi;
io non riuscivo nemmeno a fare due piu' due, ma ora so che in quei giorni ti passa la voglia di
esistere, di avere due braccia e due gambe da trascinarti e due polmoni che respirano in un forno.
Giorni da barricarsi dentro una gelateria e pensare alla neve.
L'inverno...Il freddo delle Ande ha improvvisamente risvegliato i miei cinque sensi e ricordato che
tra due settimane e' Natale!
Dalla Bolivia al Peru' e' tutta una sfilata di paesini dai nomi impronunciabili, arroccati sulle
montagne nude dai picchi innevati, di quei paesini che sembrano un presepe, chiesetta forno e
cimitero e qualche gregge desolato alla ricerca di qualcosa da mangiare.
Nelle chiesette sono appesi santi e discepoli neri, cosi' somigliano di piu' agli indios e almeno sono
piu' credibili. I campesinos hanno l'aria stanca e i visi spenti, niente a che vedere con l'idea
romantica che avevo dell'indio allegro col poncho colorato e il cappuccio in testa che suona il
piffero tutto il giorno. Sono storie metropolitane.
Quissu' c'e' un vento gelido che corrode la pelle e spezza le ossa, che fa venire voglia di portarti
direttamente un lama a scaldare il letto.
Loro coltivano cio' che possono, cioe' quello che la natura e uno Stato inesistente gli permette,
sognando la grande citta' e le sue false promesse.
Quello che da noi si chiama globalizzazione nelle campagne dell'America latina si chiama morte. Il
resto del Peru' si e' risvegliato un bel giorno dall'ubriacatura di telenovelas e di concorsi di
bellezza, quando si sono accorti che il loro presidente se l'era data a gambe ingannando tutti quelli
che lo avevano votato a furia di regalare cappellini e magliette.Inchiodato dall'ex moglie con una
bella mazzetta in mano, non gli e' rimasto altro che scappare e chiedere subito la nazionalita'
giapponese. Onore e fedelta' alla Patria...
In un grande atto di solidarietà il ministro dei beni culturali è in carcere per contrabbando di opere
d'arte e il sostituto - presidente si chiama Paniagua, ribattezzato subito Ni-pan-ni-agua. E se nella
Banana Republik ogni nome ha un senso anche Fujimori suona tanto come Fuggi-e-muori.
La gente ora ha paura di ritrovarsi coi tamburi della guerrilla per strada o la polizia in casa, e da
come stanno le cose non hanno tutti i torti.
La Paz é un posto dove inferno e paradiso si tengono per mano, dove l'aria pura della Ande si
impregna di fumo, l'acqua dei torrenti si rovescia nelle fogne e la neve si inzuppa di fango.
Favelas, slums, shag towns o bidonvilles, ogni paese trova un nome alla propria vergogna.
Qui per darle un tocco di classe le chiamano "villa miseria", queste citta' inesistenti di mezzo
milione di abitanti. Ma i veri villoni, sono quelli che si vedono dominare le citta' come monumenti
alla corruzione o omaggi al narcotraffico.
Anche l'occhio vuole la sua parte...Non e' per iniziare una crociata ambientalista o trasformarmi
nella Robin Hood delle amazzoni ma qui sul serio le mani dell'uomo hanno sventrato la terra e
deviato fiumi, facendo progetti titanici in nome della tecnologia moderna e tanto per aumentare un
pochino il debito pubblico. Tutti fieri a cantare alleluja evviva la diga, dimenticando che tutt'intorno
c'e' un cimitero di alberelli che se li porta via il primo soffio di vento e che della foresta non rimane
neppure l'ombra.
Ci si ricorda della "Pacha Mama" ,la Madre Terra, una volta al mese quando in suo onore si brucia
un miscuglio di erbe e di coca nei giardini e tutta la città si inebria del suo profumo, oppure, quando
si beve in compagnia, il primo bicchierino si versa sempre a terra. Salute, Pacha Mama.
Ho visitato città Inca e Aymara che stanno ai piedi della cordigliera e all'orizzonte di una pianura
infinita, di quella tipo Pampa senza misura ne' punti di riferimento.
E' per questo che loro guardavano le stelle piuttosto che l'orizzonte per capire dov'erano e dalle
costellazioni del cielo passavano a forme e leggi della geometria per disegnare citta' e templi.
Che mistero quei popoli che incastravano perfettamente enormi blocchi di pietra come se
giocassero a puzzle tra titani ed elaboravano dei calendari perfetti.
Il mio calendario primitivo mi dice solo che la prossima luna piena saro' a casa e lo spicchietto che
non vedo e' la strada che devo ancora fare.
El viaje e' finito, il cerchio e' quasi rotondo e io sto tornando al punto di partenza.
Ma ci sarà sempre un prima e un dopo questo viaggio. Sono successe molte cose nell'ultimo
mese, sono morte persone a cui volevo bene e mi e' nata una nipotina che mia cugina ha
chiamato Sandra. Se c'è una piccola Sandra mi sa tanto che sono diventata grande...
Potrò dirle quanto siamo fortunati ad avere Michelangelo e non le favelas, il raffreddore e non la
malaria, di uscire a Trastevere e non a Johannesburg.
'Nzungu,'nzungu! questo era il ritornello col quale mi chiamavano i bambini in Africa, bianco
bianco!, non capendo che il mondo e bello perchè pieno di sfumature, bianco, meticcio, mulatto,
indio, nero...
Ho conosciuto tante persone indimenticabili ma anche la solitudine di certi momenti, quando mi
ritrovavo a sfamarmi in posto squallidi ,io, il proprietario e la partita in TV.
Sopa del dia y tortilla, por favor. E qualche gol per tenerci compagnia, grazie.
Cosi' tra una partita e l'altra ho riempito i due quadernetti che avevo portato, scrivere e' stato il
modo di specchiarmi nel mondo e di cantare girogirotondo sentendovi molto,molto vicini.
Feliz navidad da oltreoceano.
E mi ripeté dolcemente,
come se si trattasse d’una cosa molto seria :
“Per favore…disegnami una pecora… ”
Quando il mistero é troppo grande
Non si osa disubbidire.
"Le Petit Prince "- Antoine de Saint-Exupéry
EL NIÑO
L’ombra lunga della sera avvolge Cuzco e colori insoliti scorrono sulle pareti delle case coloniali; la
gente cammina rasentando i muri e proteggendosi dalla pioggia battente che ha trasformato in
poco tempo le strade in torrenti di fango che, incrociandosi l’un l’altro, scendono lungo un percorso
che degrada verso la Plaza Mayor.
Le nubi basse nascondono le cime delle montagne circostanti, ma ogni tanto alzando lo sguardo
attraverso il mio cappuccio di lana riesco a scorgere, tra le schiarite, i picchi delle montagne più
alte.
Lissù c’é Machu Pichu, l’ultimo traguardo del mio viaggio.
Rifugiandomi sotto un portico, poso lo zaino e mi siedo lasciando che mi venga qualche brillante
idea sul da farsi, in attesa che si plachi la furia del cielo.
Non sono l’unica, dentro a quella bottega siamo in tanti, donne coi loro bambini in braccio, e un
altro alluvionato dall’aria spaesata come me. Si chiama Cristian, viene da Buenos Aires, ha l’aria
simpatica e ridiamo insieme della nostra sfiga, rintanati da un’ora coma topi in una delle città più
spettacolari dell’America Latina; io gli dico che vorrei arrivare all’ hotel “El niño”, non sapevo
precisamente dove fosse ma ne avevo sentito parlare da chi c’era passato qualche giorno prima.
Ci incamminiamo insieme.
All’hotel “El niño” tocca bussare ad un grande portone verde, per entrare.
Subito dopo sento lo schiamazzo dei bambini e uno dei più grandi viene ad aprire: bienvenidos!, ci
dicono, mentre entriamo in uno dei bellissimi patii fioriti che incorniciano un pezzetto di cielo e
proteggono dal caos del mondo esterno. Solo allora scopro che quello non é solo un albergo, ma
anche il nido dei dodici bambini adottati da una giovane coppia europea che ha deciso di dedicarsi
anima e corpo a strappare i bambini dalla strada offrendo loro una casa e l’affetto di una famiglia:
una scommessa generosa ed esagerata, dodici bambini di giorno e uno in gestazione nel ventre di
mamma Ellie da tre mesi. “Il Perù é un posto dove i sentimenti nascono veloci e profondi”, mi
dicono Wim e Ellie, “non potevamo restare qui senza neppure provare a spezzarla la catena di
violenza e sfruttamento che lega tutti i niños de rua, e voltare la testa da un’altra parte non ci
avrebbe permesso di vivere sereni o di sostenere lo sguardo dei tanti bambini che affollano le
strade di Cuzco. L’albergo é stato il pretesto, in un posto percorso da turisti tutto l’anno, per aprire
poco dopo anche una mensa che sfama cento bambini al giorno. E’ un modo per sfuggire alla
rassegnazione e all’impotenza, di non sottostare alla logica di mercato che non guarda negli occhi
proprio nessuno, meno che mai bambini scalzi che sniffano colla.”
Lo so benissimo che per ogni bambino in quel patio ce ne sono altri cento che dormono lì fuori, tra
ammassi di lamiera e cartoni, o nelle case di fango abbarbicate alla montagna; lo so che é un
modo anche questo di sdebitarsi verso gente più sventurata di noi, ma che la posta in gioco é
incolmabile dallo sforzo del singolo e la sproporzione coi bisogni enorme. Lo so, e qui ne ho la
certezza palpabile, tutto quello che mi circonda qui é allo stesso tempo straziante e dolce, violento
e soave.
Mi tuffo e riemergo dai miei dubbi, sono confusa e vorrei delle certezze, parlo di me e della mia
bambina adottata a distanza sotto le bombe di Sarajevo, sette anni fa.
Ne ho adottata una, non dodici, ma i dubbi sono gli stessi. Penso a lei, ai suoi tredici anni, e alla
gioia di quando sono andata a trovarla la prima volta, nel ’96, in un casermone di periferia che
sembrava uno scolapasta, crivellato di proiettili com’era; mi é saltata al collo vincendo la timidezza
iniziale, perché in quell’istante finalmente riusciva a dare un viso alle lettere ed avere la sicurezza
che esisteva davvero, in quei giorni bui, un mondo diverso dal suo.
A Dzenana la guerra ha rubato il padre e gran parte dell’infanzia, ma almeno ora le rimane un
futuro tutto da vivere; in Perù invece non ci sono villaggi squarciati dai bombardamenti, qui la
guerra é contro il futuro stesso e contro un’esistenza dignitosa.
Quella che vedo per le strade sembra una razza vinta, di uomini e donne che danno l’impressione
di vivere solo perché vivere é un’abitudine che non ci si può scrollare di dosso ed i bambini
provano a fare di tutto, tanto non possono perdere quello che non hanno mai avuto, ma di fantasie
e illusioni non si campa a lungo.
Mi addormento appesa al sogno di un bambino dagli occhi neri a mandorla, pensando che non é
mai troppo tardi per immaginare un mondo migliore.
L’indomani mi sveglio col sole che disegna strane forme sulla mia coperta, esco e faccio colazione
con Cristian, un té e due empanadas, poi ce ne andiamo in giro insieme per Cuzco. Rovine di
templi Inca fanno da fondazione alle chiese dei conquistatori bianchi, una civiltà si incastra
sull’altra fondendosi in singoli edifici: quella sottile linea che separa i blocchi ciclopici della base
dalle pietre spigolose che ci aggrappano é il punto esatto della frattura tra una civiltà sgretolata e
un’altra gloriosa e imperante.
Visitiamo chiese cariche di pulpiti d’oro e con il Cristo brunito, Signore dei terremoti, che regna su
statue di legno intarsiato che raffigurano santi e discepoli dalla pelle scura e coperti da un drappo
colorato: gli artigiani indios e meticci, mescolando lo spirito austero della chiesa cattolica con
l’anima enigmatica degli indios, hanno così originato figure ibride, quasi pagane, perfettamente
ispirate all’universo umano che le circondava.
Poi ho fatto indigestione di Musei di arte religiosa e di quadri nauseabondi dove compaiono
indigeni scolpiti come bestie senza Dio.
Sono arrivata a Machu-Pichu con uno dei trenini-giocattolo che, con immensa fatica, risalgono le
Ande e avanzano incerti su un itinerario a slalom tra picchi e burroni partendo all’alba da Cuzco e
arrivando verso mezzogiorno tra le vette più alte.
L’alternativa é la Ruta Inca, il cammino Inca, quattro giorni di sentieri seguendo l’eco della
montagna e di antichi suoni, come un cobra incantato segue il richiamo del flauto.
Per fortuna, i freni della ragione questa volta hanno vinto sulla magia, e la fatica di tre mesi di
cammino ha posto il veto su un’altra delle mie avventure fuori programma.
Sarei potuta restare per giorni e giorni a sfogliare orizzonti e leggere quei panorami, mi sentivo
come il “Piccolo Principe” che se ne stava seduto sulla cima più alta per poter scrutare meglio la
terra e chi la popola, accorgendosi poi di essere atterrato in pieno deserto e di poter sentire solo
l’eco della sua solitudine.
E allora é meglio tornare a guardare gli asteroidi...
Ho tirato fuori il mio quadernetto e disegnato per ore tutto quello che mi capitava sotto gli occhi o
che la mia fantasia riusciva a concepire, la forma buffa di una nuvola, una pietra con il condor e un
puma, un boa che si é mangiato un elefante, un fiore rosso, la mia mano sinistra. Non riesco a
smettere finché non ho consumato l’ultimo centimetro di carta ed il sole ormai saluta coi suoi
funambolismi sulla punta estrema della montagna.
“ Cosa stai disegnando?” mi chiede un ragazzo sfiorando la mia spalla.
“ Una salamandra, guarda là” rispondo indicando un piccolo animaletto verdognolo.
Per un attimo penso all’uomo che distrattamente guarda il dito piuttosto che la luna, una
salamandra invece dell’universo di fronte a lui.
Non posso disegnare tutto questo, aggiungo, é inafferrabile e sfuggente…
Finora, ogni giorno avevo imparato qualcosa sul mondo, sulla partenza, sul viaggio.
Quel giorno é stato diverso, era come se le mie esperienze si condensassero tutte lì, sul tetto del
mondo; mille immagini svanivano e si scioglievano le mie paure: lassù sono rimasti i pensieri
scomodi e le parole seppellite dal vento delle Ande.
C’era un atmosfera surreale sul trenino che riportava a Cuzco, vagoni pieni di gente coi nasi
spellati e la fatica negli occhi, ma capaci ancora di sorridere.
Mi siedo accanto al ragazzo della salamandra, mi appoggio stremata alla sua spalla, inizia a fare
un freddo cane e presto si intrecciano gambe e si uniscono mani, si mettono in comune strati di
coperte, ed io mi sento protetta dalla rete dei pensieri coagulati dal calore di ognuno di noi, che ci
lega stretti stretti.
Si uniscono anche le nostre solitudini, c’è bisogno di vicinanza perché la montagna ti insegna che
l’uomo é una piccola creatura su una scena troppo grande, il freddo é più freddo, la notte più notte,
la fame più fame.
Sento il battito di un altro cuore che si alterna al mio e un respiro irregolare sul mio collo, Kostas mi
parla in greco, le sue parole suonano come enigmi da decifrare nella notte dei destini. Io lo ascolto
e guardo fuori dal mio finestrino appannato, il cielo buio si illumina ogni tanto di piccoli puntini
luminosi, una casetta persa nella notte che mi ricorda la lampara dei pescatori che da bambina
seguivo nel mare, circondata da un alone di luce intensissima e appoggiata dolcemente su un
piano infinito.
Poi scivolo con la testa sulle sue ginocchia, il treno fischia e io mi addormento.
A Cuzco ceno insieme ai miei nuovi compagni di viaggio, Cristian, Kostas e Elias, decido di offrire
a tutti quel pasto meritatissimo e brindare, nell’euforia generale, con una cuzqueña, la birra tipica,
alla fine del mio viaggio e al futuro di noi tutti.
Le discussioni di quella sera si fanno accesissime, ci spogliamo di inutili pudori e mettiamo in gioco
la nostra parte più intima, esponendo ognuno gli stimoli e le passioni che ci hanno spinto ad
arrivare fin qui.
Poi i discorsi diventano più leggeri, e ridiamo come pazzi improvvisando le scene di film di Totò
che ci ricordiamo, il linguaggio della mimica é davvero universale, da “Uccellacci e uccellini” a
“Guardie e Ladri”, poi, con il pretesto di una vaga somiglianza tra Kostas e Gian Maria Volonté,
chiudiamo il sipario con qualche spaghetti all’italiana intonando musiche di Ennio Morricone.
Usciamo barcollando dalla taverna e mi incammino a notte fonda, insieme a Kostas, verso “El
niño”. Domani lui e Elias sfideranno il Salkantay, un ghiacciaio a oltre cinquemila metri di altezza,
dico loro di stare attenti e faccio scivolare nella tasca di Kostas una tavoletta di cioccolata e il
disegno della salamandra.
Improvvisamente il tono é diventato più serio, i nostri sguardi irrequieti provano a sfuggirsi ma
inevitabilmente si incrociano: tutto mi sembrava immobile intorno a noi, la luna era caduta da
qualche parte ed uno strano rallentatore aveva scardinato il tempo e le sue regole, lasciando che i
nostri passi seguissero solo il ritmo della pioggia battente.
Un nodo in gola, non sentivo altro, provo a farfugliare qualcosa ma Kostas posa un dito sulla mia
bocca sussurrando di tenere un pò di fiato anche per me stessa e non solo per gli altri,
aggiungendo che la mia energia lo riempie come probabilmente riempie tutte le persone che
incontro lungo la mia strada. Non é vero, rispondo subito, ma in un attimo rivedo i visi che mi
hanno ringraziato commossi per il solo fatto di avermi conosciuta. Poche parole piene di
significato. Gli ultimi mesi sono stati, confesso, un’alternarsi di felicità e di sofferenza, e forse mai
come in certe situazioni sono vicina all’umanità in cui sono immersa, le cui pene sono spesso sotto
i miei occhi impotenti e mi riempiono di compassione.
Le mani che si tenevano saldamente si slegano, una crepa si insinua tra i nostri corpi e ci
separiamo come pianeti che, nell’eterno movimento delle galassie, si sono attratti e sfiorati per un
attimo disperdendosi nel moto dell’universo l’attimo dopo.
Torneranno ad incontrarsi e amarsi, forse, tra tre anni, tre secoli o tre vite...
Ci voltiamo un’ultima volta e, quando le mani hanno ormai lasciato la presa, le nostre labbra si
cercano sicure, la sua pelle carezza la mia e tutto diventa limpido.
Un lampo, una scarica elettrica e poi scivoliamo via, storditi, nel buio della notte.
Sei stata una dolce apparizione, Kostas, sei il tempo di un bacio rubato e del desiderio scritto sulle
pietre di un tempio Inca.
JUANITA
La partenza da Cuzco bussò alla mia porta una mattina fredda e piovosa.
Iniziai a sentirmi male quasi subito, sul filo della strada che si inerpicava lungo i bordi del mondo,
serpeggiando tra altipiani, catene, monti e valli, labirinti e pianure andine.
Primo sintomo un fortissimo giramento di testa, che non mi preoccupò più di tanto visto che la
carrettera poteva benissimo trovarsi nello scenario di un lunapark, tra montagne russe e corse
voltastomaco ; subito dopo la nausea, feroce e insistente, provai a frenarla dirottando i miei
pensieri nell’aria pungente che entrava dalla fessura del finestrino aperto e dialogando col cielo
nero livido sopra di me, nella speranza che quella vertigine mi desse finalmente una tregua. Non
solo non mi mollava, maledizione, ma dallo stomaco iniziò a pervadere tutto il mio corpo.
Stavo per perdere la lucidità, i movimenti si facevano sempre più lenti e insopportabili, per un
attimo mi sentii come uno spaventapasseri piantato nel bel mezzo di un campo desolato, beccato
dal cappello in giù da uccelli sconosciuti.
Voltai lo sguardo e incontrai quello sorpreso e spaventato della bambina seduta al mio fianco, coi
segni del freddo annidati nel suo corpo e geloni incisi sul visetto come geroglifici ; nascondeva i
conati del vomito affogando la testa nel fagotto che le donne portano sulla schiena per trasportare
legna, carbone o neonati, ma che alla venerabile età di quattro anni i bambini hanno il diritto e
l’obbligo di portare da soli.
Non avevo idea dove fosse finita chi l’accompagnava, poco importa, la presi in braccio e
barcollando corsi verso l’autista, avevamo bisogno d’aria, io, la piccola e tutte le facce cianotiche
che mi circondavano.
Gli chiesi esausta se poteva fermare il mondo, perché volevo scendere e quel gioco mi aveva
stancato….
No se preocupe, señorita ! fu la risposta dell’uomo al volante Ya bajamos!, stiamo già scendendo,
e aggiunse un’espressione in quechua che non capii, ma suonava dolce e la presi come una frase
di consolazione.
Cincomildocientos! esclamò, Cinquemiladuecentoche? Il passo che abbiamo appena superato si
trovava a cinquemiladuecentometri ! disse, versandomi una bibita fresca che ingurgitai
rapidamente e mi diede sollievo, la porsi alla bambina mentre un timido sorriso le comparve tra le
due trecce nere. Respira piccola, le dissi, senza pensare al vuoto tra i nostri alfabeti.
Era lui, era proprio il mal d’altura quell’asfissia che si era impadronita di noi e che avevo visto
rispecchiata nel grosso retrovisore sul mio viso cadaverico : in fin dei conti, pensai, aggirarsi a
cinquemiladuecento metri di altezza é come essere lanciati da un aereo a metà quota, non é
proprio un’esperienza invidiabile.
Non avrei mai creduto di arrampicarmi in vita mia a simili strati della sfera celeste, di fare un tuffo
nei cerchietti colorati intorno al pianeta terra che cambiano intensità sulla pagina dell’atlante, meno
che mai su un mezzo di fortuna che ha bucato due volte nelle gincane discendenti della
cordigliera. Tirai un sospiro, distinguevo di nuovo le forme e la linea infinita di argilla che si
srotolava ormai alle mie spalle ; tornai a sedermi con la bambina sulle mie ginocchia, rispondendo
con un sorriso agli indigeni in viaggio con me che mi guardavano preoccupati : uno di loro mi
allungò una coperta, mai come quella volta mi sentii affratellata a quella, per me strana, specie
umana.
Quando finalmente arrivammo alla stazione deserta di Arequipa faceva un buio fitto, avevo molta
fame e chiesi dove potevo trovare qualcosa di commestibile ad una donna che se ne stava
immobile, circondata da decine di pacchi e pacchettini, come se da lì a poco stesse per spiccare il
volo sulla scopa tra i comignoli di quella città : mi diede un pezzo di dolce molto simile al
panettone, e lo divorai in un attimo, giurandomi che, dopo quell’assaggio, a Natale ne avrei
mangiato senz’altro tre di fila al mio ritorno.
Diedi un’occhiata alla città che la mia guida definiva la “ ciudad blanca ” per via delle facciate di
pietra chiara, così diverse da quelle di altre cittadine coloniali ; meritava passarci qualche giorno,
suggeriva, ma non c’era bisogno dei consigli della guida per prendere quella saggia decisione. Ero
stremata. Dal finestrino del taxi mi sembrò di attraversare un paesaggio spettrale dal sapore di
neve, un magma compatto di casette bianche dal quale spiccava qualche cupola, annidate sotto
l’ala di tre vulcani, il Misti, il Chan Chan e il Pichu pichu.
Ogni nome, dal Titicaca in poi, sembra balbettare dal freddo.
Mi feci accompagnare ad un albergo che mi ispirava, La Casa de mi Abuela, dove nella mia
fantasia mi aspettava qualcuno con le braccia aperte e una carezza della buonanotte ; nessuna
coccola, ma al suo posto mi accolsero un giardino con alberi e piante in fiore, cicale e giare
antiche, e un’amaca in fondo alla quale mi addormentai .
La mattina feci colazione con tutto quello che la mente di un affamato può elencare, yogurt e
frullati, marmellate artigianali e uova sbattute ; mi sentivo rinata, l’albergo rispecchiava nei minimi
dettagli l’oasi che mi ero prefigurata la sera prima, dove ero servita e riverita in ogni desiderio.
Decisi di chiamare a casa, prima di partire in perlustrazione della città, perché era da troppo tempo
che non sentivo la voce dei miei e di mio fratello Riccardo.
In viaggio non telefono molto, la catena di chilometri spezza la mia voce e allora é meglio
rinnovare i nostri taciti accordi sotto altre forme : mando lettere, a chi mi vuole accompagnare
viaggiando su navi e aerei di carta, e e-mails per trasmettere lungo un cavo segni di vita
quotidiana.
Per il resto ho forse bisogno di astrarmi e di illudermi che il mondo dove mi trovo in questo
momento sia l’unico mondo esistente, solo così riesco a non sentirmi un’outsider e immergermi
nei profondi meccanismi del vivere.
Parlai poco, soprattutto con mio padre, e non riuscii a dirgli quanto mi mancava: le mie aspirazioni
e illusioni, elencate cento volte prima di partire, non erano servite a convincerlo sull’idea che
questo nuovo exploit fosse in qualche modo diverso dal viaggio che lui aveva bollato fin dall’inizio
come una bohème senza scuse o, peggio, un’altra di quelle “missioni da pasionaria”, come spesso
definisce ironicamente le volte che mi sono avventurata in posti disastrati del mondo, cioè
precisamente gli ultimi dove un padre vuole veder finire la propria figlia.
Mi piace comunque essere chiamata, a seconda dell’umore, la sua “Ulisse dei quattro mari” o la
sua clochard preferita, sapendo che in fin dei conti rimarrò pur sempre la bambina, un pò
cresciuta, che se n’é andata in giro per il mondo.
Nascosi l’hèrpes che mi era affiorato dalla fatica nell’angolo della bocca, come se in quell’istante,
dall’altro capo del filo, papà riuscisse a vedermi, riattaccai e piansi sommessamente.
Arequipa ha l’aria di una señora vestita da sposa. E’ raffinata e distinta, ricoperta di pietra bianca e
veli di luce : mi ha dato subito l’impressione di un posto ospitale e brulicante di vita, dai grossi
portoni aperti e una piazza su cui troneggia una cattedrale troppo grande per poterla contenere
tutta. Anche qui, come a Cuzco, regna un fervore religioso e una spiritualità che impregna la vita
dell’intera popolazione, dagli strati più umili dei campesinos che pregano tra un’aratura e l’altra per
i loro raccolti, alla classe alta, devota più al denaro che alla fede, che si inginocchia davanti
all’altare inghirlandato di ori e gioielli quasi quanto le acconciature delle gentildonne.
C’é odore di incenso, di ceri e candelabri, ci sono messaggi personali lasciati nelle chiacchierate
intime con S.Antonio, fai che mi hijo guarisca e mio marito trovi lavoro presto. Mi sento un’intrusa
qui dentro, una che chiede tutto ma non ha nulla da offrire in cambio, che non crede in nessun Dio
ma ha lo spirito irrequieto e dubbioso. In questi attimi di raccoglimento mi sembra che la fede sia
un privilegio, senza la quale l’animo umano forse rimane al buio e cammina a tentoni. Esco, e
ritrovo il contrasto fortissimo tra gli edifici moderni, le chiese e cabildos, gli antichi e sontuosi
palazzi, e la miseria di casupole da quattro soldi e catapecchie scalcinate nelle quali sopravvive la
maggior parte della popolazione : forse é sempre stato così, gli ori nei palazzi e il fango per le
strade.
Strano mondo, questo, beffardo e deforme, dove chi vive di niente prega nei luoghi risplendenti di
ricchezze e chi sguazza nel lusso non si accorge di colui che gli prega a fianco…
Juanita invece é una bambina di circa otto anni, dai lineamenti regolari e i denti perfetti, i capelli
lisci ed la serenità nei suoi grandi occhi neri.
Porta orecchini incastonati di pietre preziose, i suoi giocattoli sono ciotole e vasi decorati ed una
piccola fionda di legno ; Juanita dormiva un sonno lungo cinquecento anni, rannicchiata col mento
sulle ginocchia e le gambe unite, in cima al vulcano.
Poi un bel giorno la terra ha tremato violentemente, dalle sue viscere ha lanciato in aria ceneri e
lapilli come fossero confetti e quel piccolo essere in ibernazione é scivolato giù a valle, sommerso
da una poltiglia di lava e di ghiaccio.
Un gruppo di archeologi l’ha trovata così come si era addormentata, tra i fumi della coca e delle
bevande tranquillizzanti che aveva dovuto ingurgitare secondo i più antichi riti Inca: in pochi anni
hanno ricostruito in ogni dettaglio la storia della “ piccola mummia delle Ande ”, la carestia e la
siccità che affliggevano l’altipiano da anni, la speranza di invocare gli dèi per ottenere l’acqua, il
sacrificio di una fanciulla prescelta alla quale si fece credere che sarebbe passata nell’altro mondo
trasformata in divinità, poi la lunga camminata di tre giorni e tre notti per raggiungere la vetta ed il
posto esatto indicato dal sacerdote che doveva compiere il rito. Non aveva paura, nella settimana
precedente era stata nutrita con piante terapeutiche che le avevano pulito lo stomaco ed
avrebbero facilitato l’effetto delle droghe, l’avevano lavata con un bagno purificatore e preparata al
suo ultimo viaggio. Poi il gelo, le danze propiziatorie in un crescendo di passi e di urla mistiche,
infine un unico micidiale colpo sferratole alla tempia, e Juanita é diventata una piccola principessa
dell’aldilà. Nessuno spettacolo da film dell’orrore, niente brandelli di carne fasciata, bende e
monconi, stracci e toppe su dita incancrenite dal tempo, solo una piccola teca di vetro nella quale
dorme, coi suoi denti perfetti, il cuore e i polmoni intatti, l’ultima cena ancora nello stomaco, e gli
occhi di mezzo mondo addosso che tentano di decifrare tutti i misteri che ha lasciato intatti.
Di fronte al museo di Juanita c’é il convento di Santa Caterina,il più grande e conosciuto della
regione, dove fin dal seicento le famiglie benestanti di Lima obbligavano la secondogenita a
rinchiudersi in preghiera.
La prima in matrimonio, la seconda in convento,la terza figlia in casa ad accudire alla vecchiaia dei
genitori, questo era il modello familiare a quei tempi, un terno al lotto.
Il posto é bellissimo, sembra una cittadella protetta che vive di vita propria, raccolta intorno a
giardini d’arancio e orti botanici, circondati da mura dipinte di blu e terra di Siena, perché tutto quel
bianco immacolato della città turbava la vista di chi non si sarebbe mai più allontanata dalle sue
pietre.
Mi aggiro tra i patii e le celle disabitate, tra qualche antico strumento musicale ed i focolari
nell’angolo dove ogni monaca cucinava le proprie cose, secondo una disciplina piuttosto elastica
che permetteva ad ognuna di abitare una specie di monolocale ante litteram ; poi venne il giro di
vite di una madre superiora, inviata appositamente da Roma nella lontana terra del Perù, a
cambiare radicalmente quei costumi considerati “
troppo liberi ” e poco consoni alla vita
monastica, e iniziarono così i tempi duri delle mense comuni e lavatoi a cielo aperto. Basta uno
sguardo al volto severo, che troneggia incorniciato nella sala delle visite, per capire che la madre
superiore non scherzava affatto. Tra i vicoli della fortezza colorata sento improvvisamente il
profumo di qualcosa di dolce, quello tipico della torta o dei biscotti appena sfornati: erano quelli
che le suore di clausura, che abitano ancor oggi nella zona confinante con l’antico monastero,
stavano preparando. Là, dietro quel muro, vivono dunque donne che hanno rinunciato alla libertà e
trascorrono le giornate con abitudini probabilmente neanche così diverse da quelle che le hanno
precedute cinque secoli fa tra le stesse mura…Mi sono sempre inchinata davanti a chi rinuncia
all’egoismo, e della sofferenza degli altri fa la propria missione in questo mondo, o chi si spoglia
dei propri beni materiali: credo però che ci voglia davvero molta forza per predicare amore e
fratellanza tra quattro mura e vendere biscotti e saponette purificatrici attraverso una grata. Juanita
é dall’altra parte della strada, testimone di un sacrificio umano avvenuto cinque secoli prima e di
una morte violenta barattata in cambio di acqua: iniziò a piovere solo nella stagione delle piogge, i
vulcani e terremoti continuano a far tremare la terra. Il sacrificio umano nel duemila é forse
chiudersi in una cella, sparire dalla vita e chiudere gli occhi per impedire alla violenza della realtà
di penetrarli. Ci sono trenta donne nel convento di Santa Caterina, Arequipa, Perù, di cui solo lo
specchio conosce il viso.
FRONTIERE
Stamattina mi sono svegliata con un pastore tedesco che mi annusava il viso.
Siamo rimasti a fissarci a quattr’occhi per un pò, io perché ho dei problemi a riconoscere
qualunque oggetto animato o inanimato che mi si presenta davanti di prima mattina e a mettere a
fuoco le situazioni appena aperte le palpebre, il cane perché era senz’altro addestrato a
distinguere chi sta dormendo un sonno tranquillo da chi ha qualcosa da nascondere.
Documento, por favòr, donde se va, en Chile? mi chiede l’uomo in uniforme.
Saremo arrivati alla frontiera tra Perù e Cile, mi dico a voce alta mentre osservo uno di quei
passaggi con tanto di filo spinato, detectors, mitra spianati, e le facce dall’aria inquisitoria di chi fa
di tutto per ostacolare l’ingresso in un paese più ricco all’esercito di gente meno fortunata che
bussa alle sue porte.
Soy italiana,señor , ma il passaporto é stato rilasciato a Bruxelles dove risiedevo prima, provo a
spiegargli, intuendo la sua incapacità di leggere, o voler leggere, il timbro accanto alla foto. Lo so
che ci vuole una mappa o una bussola in mano per seguire i miei spostamenti, se ci fosse stato
scritto segni particolari: “non sta mai ferma” al posto degli occhi marroni, forse le cose sarebbero
più semplici.
Comunque con tutta la buona volontà gli sorrido vedendolo già perso, poveretto, in mezzo a timbri
australiani e visti uruguayani; poi arrivò il superiore, con tanto di gradi e stellette cucite sulla spalla,
a obiettare che ero nata in Olanda, un paese sospetto: mi difesi col la teoria che essere nomadi o
viaggiatori può essere una scelta, ma essere nata in Olanda e cresciuta in Belgio e in Francia non
é una colpa, bensì un semplice fatto da annotare sul suo registro, se proprio ci teneva. In fondo
siamo tutti nomadi, aggiungo per sdrammatizzare, un tempo era per il cibo, ora per trovare un
lavoro qualsiasi si fanno chilometri, ma la mia frase si scontra con una smorfia indifferente.
Di solito il Dna dei giramondo mette curiosità, guarda guarda questa dov’è stata , qui ci sono stato
anch’io, qui no, lì certo mi piacerebbe andare un giorno e così via.
Al señor che ho davanti col cane no. Non gliene frega niente delle mie esplorazioni né sapere in
quale lingua penso o sogno, mi fa ripetere venti volte la stessa storiella diventata monotona come
una filastrocca recitata a memoria, poi si innervosisce e decide di svuotare l’intero contenuto del
mio zaino sulla sua scrivania;
Vedo i pezzi del mio viaggio buttati alla rinfusa su quel tavolo sporco, paesi rimescolati dalle mani
di uno sconosciuto che frugano insistentemente nella mia vita dissezionandola come fosse un
reperto da laboratorio.
Ho immaginato per un secondo di sparire nel nulla, di essere una ricercata con la polizia di mezzo
mondo alle calcagna affannata a ricostruire il filo rosso tra gli infiniti posti dove ho lasciato qualche
traccia di me, un biglietto dell’autobus, uno scontrino di un albergo, un disegno sulla tovaglia di un
ristorante, una foto sbiadita lasciata in qualche angolo del mio pellegrinaggio.
Tra le decine di libri divorati nelle ore di autobus e lasciati poi sui comodini delle pensioni mi
restava anche un opuscolo sui Tupac Amaru, regalatomi a sua volta da un amico come una
staffetta passata di mano in mano: l’avevo letto con interesse per capire qualcosa da “dentro” alla
guerriglia in Perù, delle lotte intestine, della dittatura mascherata di un presidente con gli occhi a
mandorla, dei sogni di liberazione da un potere marcio e corrotto che, come una nave naufragata,
manda a fondo tutto il suo equipaggio.
I libri che parlano dei paesi in cui vado sono spesso il codice per decifrare il senso e la sostanza
delle cose che vi stanno accadendo.
Evidentemente non la pensava così l’agente peruviano, che continuò a guardare il mio libretto con
molta diffidenza, ora aveva trovato ben due capi d’accusa: ero nata in Olanda e leggevo cose
sovversive.
Dopo un’ora e mezza di terzo grado in quello squallido ufficio piantato nel deserto della frontiera
cilena mi lasciarono andare. Raccolsi i brandelli sparpagliati ovunque, scatole di medicine aperte,
regalini spacchettati, quaderni coi fogli svolazzanti ed un piccolo lama di peluche che mi guardava
con l’aria irrequieta di chi se ne vuole andare al più presto.
Tacna, Arica, Iquique, poi il mare. Finalmente lo rivedevo, dall’altro lato del continente, opaco e
freddo come un mare nordico: mi piaceva osservarlo mentre mi accompagnava fedele sul lato
destro della strada, o forse mi accorgevo solo ora di quanto mi era mancato alle altitudini
stratosferiche della cordigliera.
Il Pacifico mi stava di nuovo davanti, però non somigliava per niente alle sponde colorate che
accarezzano l’Australia: é vero, é estate anche qui, però esce fumo dai comignoli degli inceneritori
e le fabbriche disseminate sulla costa continuano a macinare e produrre farina di pesce; insegne
enormi di ditte straniere vantano la costruzione di alberghi moderni e complessi con bungalows e
cinque piscine che saranno pronti giusto giusto per la tua prossima estate, mentre i parchi a tema
del tipo “Il mondo di Asterix e Obelix” o la “Piccola Sirenetta” ti stanno già chiamando; ogni giorno
nei porti del Cile attraccano navi containers da Taiwan e dal Giappone cariche di ogni tipo di merce
da speculare sui mercati di Ciudad del Este, Panama, o da rivendere in Brasile, montagne di
televisioni e frigoriferi, macchine difettose, scarpe contraffatte e sottomarche di vestiti prodotti in
laboratori clandestini: in Bolivia e in Perù ho visto solo macchine giapponesi col volante spostato a
sinistra ma il cruscotto e le lancette sulla destra, in attesa di essere modificati in un secondo
momento per completare così delle opere d’arte della meccanica.
Baratto, usura, truffa, mercato nero e contrabbando attraccano a questi moli prima di incanalarsi
per altre infinite strade.
Ho percorso dalla frontiera cilena cinquecento chilometri, uno sputo rispetto all’intera lunghezza
del nastro che dal Tropico del Capricorno corre allineando città e montagne, fino a raggiungere il
ghiaccio dell’Antartide.
Prima di raggiungere Santiago decisi di fermarmi a vedere il deserto di Atacama, lì dove non piove
a memoria d’uomo e non cresce niente: non so dire esattamente dove sia iniziato, non c’è mai una
linea di demarcazione di inizio o di fine dei deserti, sono scesa dalle nuvole e la terra intorno a me
si é prosciugata a poco a poco, gli alberi sono diventati arbusti senza foglie, gli arbusti piante
spinose, le piante sabbia salata, il sale una superficie orizzontale che fruga nella terra con dita a
forma di enormi crepe bianche. E’ questo il deserto che vedono i miei occhi. Nessuna duna,
nessuna oasi, nessun miraggio. Solo qualche croce sparsa qua e là lungo la strada di un universo
ridotto all’osso.
Quando finalmente cala la sera e si avvicinano le prima luci di una cittadina chiamata
Chuquicamata mi accorgo delle ombre di enormi macchinari che dormono silenziosi sulla pianura
arida: sono la testa metallica delle miniere di rame, il corpo é fatto di gallerie e cunicoli che si
diramano per chilometri e chilometri sotto terra.
E’ questa la ricchezza strappata al deserto di giorno, caricata da centinaia di braccia la sera e
trasportata di notte su strade e rotaie. Di giorno le migliaia di lucine di Chuquicamata si accendono
nei tunnel sotterranei e di notte per le strade, nelle ghirlande natalizie degli alberi e delle finestre di
casette tutte uguali.
Spengo la luce nella mia stanza decisa a vedere, domattina, anche quella riflessa che illumina le
viscere del mondo. Con quattro disegni improvvisati alla mano e il mio miglior sorriso sfoggiato al
capocantiere, mi sono abilmente spacciata per una che di cave e miniere sa tutto ricevendo in
poco tempo un elmetto ed una guida per visitare quella di Chuquicamata: é una miniera a cielo
aperto di dimensioni ciclopiche, con dei dislivelli a gradoni che ricordano i gironi danteschi ed un
rumore assordante che ti martella le tempie. Si sta esaurendo lentamente, il rame, sottratto da anni
da questo cratere artificiale che da lavoro a quattromila persone, ma tra poco si succhieranno altri
punti della crosta terrestre e Chuquicamata diventerà probabilmente una cittadina-fantasma con un
vuoto incolmabile nel mezzo.
Così lontano, così vicino….
Ci sono momenti nella vita di in cui un uomo farebbe di tutto per sottrarsi all’angoscia di anni
passati tra frustrazioni quotidiane, per non vedere più il capufficio che non dà tregua, i figli che
urlano perché vogliono l’ultima play-station,il mutuo da pagare e il vicino rompipalle. C’è chi si
rifugia nel pub sotto casa a imbottirsi di birre e whisky, chi gioca sperando che il totocalcio di
domenica prossima gli cambi la vita e chi forse guarda un pò più lontano…Il deserto di Atacama é
diventato il panorama di chi ha veramente deciso di lasciarsi tutto alle spalle, di svuotarsi il cervello
circondandosi di nulla, convinti però che nel nulla ci sia una vita più sopportabile; meglio sparire,
rendersi sempre meno visibile mimetizzandosi con la sabbia e il vento, piuttosto che vivere una
che non senti più tua.
San Pedro é un paesino immerso in un bagno di calce bianca a due passi dalle miniere di
Chuquicamata, é diventata la calamita dove convivono ex funzionari di banca e fricchettoni, un mix
globale fatto di artigianato e yoga, di filosofie orientali e Internet-cafés, feng shui e litri di mate da
mandare giù ogni ora. Non ci sono più di quattro strade sterrate intorno all’unica chiesetta; nel
caldo soffocante c’è chi si rifugia sotto i portici della piazza a leggere o giocare a carte, mentre nei
momenti più attivi sbucano biciclette e chitarre, si organizzano concerti e gite al salàr, spedizioni a
geisers e vulcani, passeggiate a cavallo o bagni nelle terme naturali. Camminai per ore, davanti a
me avevo un mare di cristalli bianchi, leccavo le mie dita che sapevano di sale e sputai per terra
come si fa per la Pacha Mama sulla quale camminavo. Mi sentii sola con lei, la sera, io e la Madre
terra.
Il padre di Agostino é morto. Ho chiamato a notte fonda e una voce spezzata dall’altro lato di quel
lungo filo mi diceva che se n’era andato il giorno prima; maledizione, ho sperato che ce la facesse
anche stavolta, che resistesse agli assalti di uno stomaco in sciopero della fame da troppo tempo,
che la buona stella che lo seguiva non lo mollasse proprio ora, così vicino alla guarigione e a tempi
migliori.
Vorrei essere dall’altra parte del filo ad abbracciare Ago tenendolo stretto a me ancora una volta,
come non facciamo da tanto, e ricominciare tutto da capo.
Vorrei troppe cose impossibili stanotte, e rimango immobile con la cornetta in mano e l’eco della
sua voce intrappolata, a fissare nella memoria gli occhi trasparenti di chi non c’é più. Che la pace
sia con lui, e la vita con tutti noi.
Da : giacos
Indirizzo : sandra
Data : 20 Dicembre 2000
14 :56 :30 PM
Su Internet non si trova nulla di interessante se mancano i racconti e i tuoi frammenti vivi, quindi smettila di discutere di
maradona coi tassinari e bada anche un pò a noi visi pallidi che non vediamo l’ora di rivederti.Un abbraccio ovunque tu
sia.
ps. Torna, perché in fondo in fondo, dopo tutto questo girovagare, avrai capito che le tue radici sono qui, tra o’mare, la
ricotta e i fichi d’india e noi tutti ti stiamo aspettando.
TRA SANTIAGO E BUENOS AIRES
Da ieri pomeriggio è stato tutto un’alternarsi di carte di imbarco, di dutyfree e di saliscendi le scale
mobili e prova a non perderti, Sandra, tra queste sale di attesa di aeroporti tutti uguali, Buenos
Aires come Johannesburg, Londra come Nairobi.
Ovunque mi giro ci sono manifesti colorati e ghirlande natalizie, la sagra del cattivo gusto e
l’apoteosi del consumo immediato, fai presto che sennò l’aereo ti scappa mentre stavi provando la
cravatta ultimo grido, e qui il tempo sì che si misura in minuti e in secondi. Ho la nausea di profumi
e cioccolatini, di musiche da albergo di terza categoria e di nuove compilation dei Beatles.
Anche Santiago è in piena febbre pre-natalizia, coi Babbo natale travestiti che sudano come pazzi
sotto la barba e il velluto, perché qui il 15 dicembre fanno trentacinque gradi all’ombra e i bambini
preferiscono di granlunga sguazzare felicemente nelle fontane piuttosto che mettersi in fila con una
letterina scarabocchiata in fretta e in furia per prenotarsi un regalo che tanto gli faranno lo stesso.
Mica fessi,i bambini.
Sono passata davanti al palazzo della Moneda, il palazzo del governo, che non riesco proprio a
considerare soltanto come un edificio; mi sono venuti i brividi solo a vederlo, come se stesse lì a
dimostrare la consistenza granitica della dittatura, inscindibilmente legato ad anni macchiati di
sangue e di notti rabbuiate da squadroni militari che setacciavano le strade di Santiago. No,
decisamente quello non è un palazzo qualsiasi.
Ho visto l’Ambasciata italiana dove si dice venissero accolti molti ricercati, prima di essere
imbarcati sul primo volo con destinazione sconosciuta ma diversa dal fondale marino nel quale
molti altri sono stati scaraventati.
Ricordo perfettamente una sera a casa mia quando, tanti anni fa, venne a cena un amico di papà
che la notte del golpe era il vice ambasciatore italiano e era colui che decise senza esitare di aprire
i cancelli davanti al massacro che si stava consumando alle sue porte: ci disse di quanto era stato
beffardo il destino quella notte, giocando con le vite di chi si aggrappò al muro di cinta
dell’ambasciata.
Era stato appena restaurato, disse, ma solo in parte, col risultato che chi si era trovato dal lato
“vecchio” della parete, pieno di buchi e di appigli, si era salvato con un salto nel giardino, mentre la
sagoma di molti altri si è stampata per sempre su un muro nuovo di zecca, liscio e immacolato. C’è
poco da fare, sono sempre i muri che fanno la storia.
Pochi mesi dopo quel racconto, quando l’Europa iniziò a capire cosa stava succedendo a quel
paese lontano che sembra un lombrico aggrappato ad un frutto troppo grande, ci piombò in casa
una famiglia cilena, madre e tre figli dell’età mia e dei miei fratelli, il cui padre, braccio destro di
Salvador Allende, era stato “soppresso” dalle carovane della morte con una rapida fucilazione.
Difficile all’inizio spiegare la condivisione a noi, bambini di cinque o sei anni, nella fase più egoista
di tutta la vita, in cui prestare un giocattolo o una bici a forza può trasformarsi in un trauma
infantile…Ma nei sei mesi in cui quei rifugiati si stabilirono da noi diventammo un’unica famiglia di
nove componenti, di bambini che sperimentavano il primo stadio della solidarietà tra mondi diversi,
di mamme che si scambiavano consigli culinari e un unico papà che raccontava favole in tre
lingue.
Sorvolo in aereo un coperta ovattata di nuvole, sanno di casa, di coccole e di mamma.
Ho volato su molti cieli, stasera la luce dell’ultimo sole si consuma all’orizzonte, segna la frontiera
estrema del mio viaggio, sto tornando a casa. Ancora una notte a Buenos Aires prima della
traversata dell’Atlantico: tornerò a galla spuntando con la testa al di sopra dell’equatore dopo cento
giorni di apnea.
A Buenos Aires Francesco mi aspettava dal primo pomeriggio. Era una giornata assolata e gli
venne l’idea di andare insieme alla foce del Tigre, lì dove il fiume si ramifica in un’infinità di canali e
fiordi, con le case inizio secolo ed i club esclusivi che ci si affacciano, ciascuno col suo molo e la
sua barchetta colorata.
Non é difficile immaginarsi come trascorreva l’estate la nobiltà porteña degli anni venti, quando
Buenos Aires era il fiore all’occhiello del Sudamerica, e non ancora il “porto dell’estrema Europa, la
capitale di un impero mai esistito” come la chiamò poi Malraux. Le signore coi cappelli e
l’ombrellino sedute sui prati inglesi faticosamente intrattenuti dai giardinieri sotto un sole cocente,
gli uomini che, lanciandosi in sport importati da altre parti del mondo, canottaggio e cricket, si
riprendevano poi dalle fatiche con pranzi luculliani in riva all’acqua, sentendosi, come i
sudamericani in genere, molto più inclini all’ozio ed alla siesta piuttosto che a gareggiare con quel
caldo disumano.
Vassoi d’argento volteggiavano in aria e portavano in tavola tutto quello che i vaqueros argentini
allevavano nella pampa, servito sotto forma di cosciotti, zamponi, cotolette e spiedini. In quegli
anni le vacche argentine avrebbero potuto sfamare l’intero continente, ma l’euforia passò quando il
paese si vide sbarcare un altro continente, l’Europa, con due paesi capofila, la Spagna e l’Italia, a
chiedere asilo e lavoro in quella città che aveva la reputazione di essere un altro regno della
fortuna, insieme al Canada, gli Stati Uniti e la giovane Australia. Sette milioni in due decenni, per la
metà italiani.
La mia infanzia é piena di storie di gente imbarcatasi sulle carrette del mare in rotta verso le
mitiche coste argentine: c’è chi lasciò moglie e figli in Italia e cambiò identità alla svelta vedendo
che di lavoro ce n’era poco, non se ne parlava nemmeno di mandare soldi a casa, chi fece fortuna
ma perse tutto nel gioco d’azzardo, chi imparò a muoversi nei bassifondi di Buenos Aires e chi
preferì tornarsene zitto zitto a vivere povero in patria piuttosto che morire altrettanto povero
dall’altra parte del mondo.
Il viaggio era la speranza collettiva, l’arrivo la disillusione e la realtà il fallimento di un sogno in cui
tanti credevano ciecamente: non é cambiato molto, il mare sembra ancor oggi la prova più dura a
chi lo deve superare con mezzi di fortuna, ai naufraghi curdi e kossovari che approdano sulle
spiagge completamente nudi, poiché tutto quello che capiterà loro in seguito non potrà che essere
più dolce. Le attese estenuanti, timbri, visti e lasciapassare, insulti, tensioni, sembreranno un gioco
da ragazzi.
Nei miei occhi si affaccia ancora spesso la scena della gente fradicia, sofferente e implorante
raccolta nelle notti sugli scogli tra Lecce e Otranto; bambini pieni di contusioni e lividi scaraventati
sugli scogli in fretta e in furia e biberon dati nella notte ai piccoli trovati a sguazzare nel fango
dell’Adriatico.
Non era il TG, erano lì in carne e ossa davanti a me. Sono approdate, in quelle due settimane del
‘99, duecento persone, né tutte sane né tutte salve, che con una tazza di latte caldo in mano
ringraziavano esauste. Ancora adesso la calma piatta mi agita molto più del mare in burrasca,
perché ogni volta ho l’impressione di avvistare in lontananza un puntino che chiede aiuto e cresce
sempre più grande e disperato, fino a rovesciarmi addosso il suo carico derelitti.
Quell’ultima sera a Buenos Aires, seduti davanti a una candela e ad un asado di cui rimpiangerò a
lungo il sapore, Francesco mi racconta delle file sterminate che si accalcano in questi giorni, dalle
tre di notte, di fronte al cancello del Consolato italiano, nella speranza di ottenere al più presto un
visto per l’espatrio o un passaporto italiano. Tutti hanno un nonno, un bisnonno o un trisavolo nato
in Italia; tutti, prima o poi, hanno un motivo per andarsene altrove; tutti hanno un sogno e un
viaggio dietro l’angolo che aspetta solo l’occasione giusta per venire fuori.
Per un attimo penso che la mia vita é tutta qui, in questo viaggio alla fine del mondo, che tutto il
resto non ha importanza, poi soffio sulla candela consumata e mi incammino in silenzio verso
casa.
Da : sandrag.
Indirizzo : sandra
Data : 18 Dicembre 23 :32 :05 PM
Bentornata a casa, e che il nuovo anno rimanga sempre tridimensionale : che restino i colori, i sapori, i gol delle Ande e
le famiglie australiane…E il tuo mondo sia sempre più tuo e sempre pieno di quelli degli altri.
RITORNO
Trenino Fiumicino-Roma Termini, partenza alle 19,07.
E’ bastata mezz’ora per riavvolgere tre mesi di vita e rituffarmi nell’ Italia di sempre.
Tre mesi fa sono partita con otto chili sulle spalle, stasera torno solo con quello che ho addosso:
forse è un segno anche questo, ma in quel volo Bruxelles-Roma, uno sputo in confronto ai tanti
voli di 15 ore che ho collezionato, si è smarrito il mio bagaglio, in cui si condensavano otto chili di
ricordi.
Mi è venuto da ridere, davanti al responsabile della “custumer’s service of British Airways”-in
volgare l’addetto ai bagagli persi- che balbettando esprimeva tutto il suo rammarico per
quell’incidente a cui avrebbe provveduto al più presto, assicurandomi che probabilmente il mio
zaino allo stato attuale si trovava ad Helsinki; ho pensato tra me e me che forse lo zaino ci aveva
preso gusto e si stava facendo il giro del mondo dall’altro lato, sul versante nord.
Nel frattempo, curiosando spaesata tra le vetrine degli aeroporti, sembra che le grandi novità di
questi ultimi tre mesi sono che le Spice girls si sono messe a scrivere, che Madonna si è sposata e
che è uscito l’ultimo profumo di Lancome…
Notizie da nuovo millennio. Scappo dagli schermi digitali e interattivi che ti chiedono in cinque
lingue se hai già letto la tua e-mail negli ultimi cinque minuti, se vuoi mandare un mazzo con
Interflora o se ti va di seguire in diretta il Grande Fratello.
In questi mesi comunque, in cui scrivere é diventato in un certo senso il prolungamento naturale di
vivere, il cavo su cui hanno viaggiato i miei pensieri sono stati il cordone ombelicale che mi ha
tenuto stretta alle persone che amo. Continuo a pensare mescolando le lingue, forse ho un’anima
divisa e un cervello che si adegua ogni volta a posti diversi, o forse perché non ho mai smesso di
essere irregolare, imprevedibile, antimetodica e disordinata.
In dieci minuti di tempo, nella vana speranza che quel nastro girando su se stesso sputi fuori
anche il mio bagaglio, una ragazza accanto a me declama a gran voce l’oroscopo, annunciando
che “ci saranno nel vostro segno occasioni propizie e fortunate, se avrete pazienza Giove vi
proteggerà…”.
Beh, che conforto, Giove è con me e quindi sicuramente anche con il mio zaino smarrito da
qualche parte nell’universo.
Io mi sento più leggera, senza astri ma con una sola buona stella che mi ha seguito dappertutto
nel mio pellegrinaggio dandomi un pò della sua luce invisibile.
E forse di tutto questo volo fantasioso era questo che desideravo, iniziare il nuovo secolo con ali di
farfalla.