Proliferazione di termini nella critica contemporanea

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Proliferazione di termini nella critica contemporanea
Modulo 4
Proliferazione di termini nella critica contemporanea
Flag for the European union
“L’arte viva, morta o moribonda continua ad essere quel luogo di ingrandimenti e di
approfondimenti in cui specchiarsi e da cui farsi riflettere nella strada tortuosa che conduce alla
conoscenza e alla memoria di sé. Quello che cambia sono gli spazi della liturgia, lo sguardo
degli officianti, le parole di rito” (P. Basso, Il dominio dell’arte, Meltemi, 2002).
E’ una dichiarazione di uno studioso di estetica discepolo di Omar Calabrese che ci permette di
puntare l’occhio sulla contemporaneità per considerare il nuovo ruolo dell’opera d’arte, il valore
conoscitivo che svolge, le diverse problematiche che apre, il ruolo del critico e il vario interesse
che riscuote da parte dei singoli e da parte delle istituzioni.
Musei, Gallerie pubbliche Gallerie private esposizioni temporanee o permanenti sono
luoghi di riferimento autorevole per l’arte contemporanea e svolgono un ruolo di non
secondaria importanza per la vita dell’arte.
I Musei sono sedi espositive permanenti che si sono preparate via via a svolgere sempre di più
una funzione promozionale oltre a quella di catalogare, conservare, collezionare, esporre le
opere d’arte.
E’ stimolante l’osservazione di Angela Vettese che attribuisce all’arte contemporanea
un’importante funzione di identità in una collettività, pari a quella che, in passato, era esercita
dalle reliquie, capaci di “… conferire alla comunità che le possiede un’aura di prestigio che
supera la potenza militare o economica, per toccare le sfere più alte della spiritualità umana.
La Sindone era uno strumento politico, così come qualsiasi reliquia, per esempio come la lancia
custodita nel Duomo di Norimberga appartenuta prima a Costantino e poi a Carlo Magno:
oggetti come questi muovevano folle di pellegrini e davano autorevolezza alla comunità che le
aveva sapute conquistare e custodire. Lo stesso accade tendenzialmente oggi per l’arte
contemporanea” (Vettese, 2005).
http://www.illuweb.it/misteri/longino/longino04.htm
Il Museo è dunque avvicinabile alla funzione esercitata nell’antichità dalle cattedrali, quella di
conservare i tesori e le opere di grande valore che erano anche motivo di ampio prestigio per
la collettività.
La studiosa osserva come la nascita e la politica di un museo sottenda un atteggiamento
sociale ed etico che implica saper affrontare e valutare aspetti fondamentali della vita culturale
di una società, come “… dimostrare di aver risolto i problemi più gravi della convivenza civile;
… mostrare una fiducia nella propria capacità di proporsi al consesso internazionale tale da non
temere gli aspetti sperimentali della cultura. Un altro aspetto significativo è evidenziare l’agire
in modo lungimirante, considerando l’opera un nodo di scambio tra modi d’essere sociali,
estetici, tecnologici, filosofici”. (Vettese, 2005)
Fredericianum, una delle sedi di Documenta a Kassel in Germania
Fra i luoghi di grande interesse per le arti visive, troviamo in Germania, la città di Kassel,
capitale dell’Assia e, prima della guerra, fiorente centro industriale che ha visto nascere il
Museo Fredericianum, il primo museo pubblico d’Europa, fatto costruire tra il 1769 e il 1779 dal
Conte Federico II. Dopo l’isolamento nazista, quando ha inizio il processo di ricostruzione, la
città viene reintrodotta, per opera di Arnol Bode, nel circuito delle arti visive attraverso la
rassegna di Documenta, una mostra temporanea dei capolavori del XX secolo, allestita tra le
rovine del vecchio museo. La mostra dal 1955 continua a riproporsi circa ogni cinque anni, per
confrontarsi sulla complessa problematicità del mondo dell’arte contemporanea, rivaleggiando
fin da principio con la Biennale di Venezia. Particolarmente importante è il cambiamento che ha
luogo con Documenta quattro, che si apre nell’estate del 1968: la manifestazione rinuncia
completamente ad uno sguardo retrospettivo che aveva caratterizzato le precedenti edizioni
per mostrare esclusivamente l’arte degli ultimi quattro anni, centrando l’attenzione sui
problemi e i movimenti artistici rilevanti al momento dell’esposizione. 5450 m cubici, l’enorme
pallone a gas di Christo, che accoglie il pubblico nella piazza antistante il Fredericianum,
diventa il simbolo della manifestazione. Bode sente l’esigenza di confrontarsi costruttivamente
con situazioni nuove e in catalogo afferma: “il quadro a parete perde di senso, le sculture
spesso non hanno più bisogno del piedestallo e le opere d’arte si impadroniscono dello spazio
… non si tratta più soltanto di ciò che fanno gli artisti importanti, ma di mostrare con esempi
significativi come la nuova realtà visuale organizza lo spazio … il fare, l’azione è di nuovo
primaria rispetto alla riflessione sopra di essa”. Kassel, accanto all’affermazione del ruolo
politico e sociale dell’arte, propone anche una stringente prospettiva sul contemporaneo con
proposte rivolte al futuro.
Christo,The gates,23 febbraio 2005, Central Park New York.
Bode apre uno sguardo diretto al farsi dell’arte contemporanea e lo stesso sguardo caratterizza
l’attività di alcune donne, che operano con un fondamento comune in tempi diversi e geografie
diverse. Mettono in luce l’importanza della critica militante, cioè la necessità di trovarsi a
stretto contatto con l’opera per viverne sulla pelle le istanze formali e culturali con una presa
più cogente delle elaborazioni complesse, intellettualistiche spesso presenti nei commenti della
critica. Emergono in particolare Marisa Volpi, Lea Vergine, Francesca Alinovi, Angela Vettese.
Marisa Volpi, studentessa universitaria a Roma negli anni ’50, docente poi di Storia dell’arte
presso
l’Università
di
Cagliari,
in
una
testimonianza
autobiografica,
si
presenta
immediatamente come “una ragazza che voleva capire il mondo attraverso la pittura e l’arte”.
Redige un articolo a due mani, in collaborazione con Carla Lonzi, su Ben Shahn, interessata
specialmente alla collocazione sociale dell’opera e in questo caso al New Deal americano,
mentre la Lonzi si occupa della produzione fotografica dell’artista. Amiche per la vita, anche se
le loro strade si divideranno, la Lonzi si volgerà ad un’attività legata ad una visione più etica,
più strettamente femminista rispetto a quella più estetica della Volpi.
Ben Shahn, Paesaggio italiano, 1943
Ben Shahn, artista di origine russa (Kovno 1898-1969), ma vissuto in America con uno
sguardo sempre fisso verso l’Italia, rappresenta una corrente ben definita in senso marxista.
Impara a disegnare sui marciapiedi dei quartieri più poveri di Brooklin, eseguendo schizzi delle
figure del mondo dello sport. Profondo conoscitore della grande pittura messicana, amico di
Diego Rivera con cui lavorò al murale Man at the Crossroad del Rockfeller Center, operò, in
uno scambio continuo tra due filoni creativi quello pittorico e quello fotografico, nell’ottica di un
commento narrativo alla vita e alla società del suo tempo, un’attività caratterizzata da una
grande apertura e libertà che si manifesta nella profonda conoscenza dei problemi e dei
rapporti di classe. Combatte la grande battaglia civile degli anni 1931-32, in difesa dei due
anarchici Sacco e Vanzetti, di cui fa il ritratto. Rifiuta il ruolo dell’intellettuale che giudica e
manipola contesti all’interno dei quali si trova ad operare.
Ben Shahn, la passione di Sacco e Vanzetti,1927
In seguito alla sua presenza alla Biennale di Venezia del ’54, Plinio de Martiis, gallerista de
La Tortuga, organizza una mostra e degli avvenimenti a cui è chiamata a partecipare anche la
Volpi per il saggio che ha scritto e qui, giovanissima, entra in contatto con artisti
contemporanei come Afro, Scialoja, Corpora, Turcato. Frequenta la galleria Notizie di
Luciano Pistoi a Torino, collabora alla sua rivista, e conosce i pittori “aformali”, tradizione non
ancora codificata in Italia, o informali come saranno definiti nel 1952 da Tapiè.
Il tentativo compiuto da Arcangeli su “Paragone”, di mettere in parallelo la situazione italiana
degli anni ’50 con quella americana, la regione padana da cui provenivano Morlotti, Mandelli,
Romiti con lo Wyoming di Pollock e le esortazioni di Longhi a viaggiare, andare in giro per il
mondo per capire cosa succedeva, spinge le due studentesse universitarie a fare un giro in
autostop che le porta in tutta Europa.
A Roma il contatto con il gruppo Forma 1 tocca “dal vivo” cosa fosse il linguaggio pittorico e
vedendo come dipingevano in studio, Dorazio, Turcato, Carla Accardi cerca di cogliere, nel
linguaggio di questi artisti, il senso del segno e del ritmo.
In un successivo viaggio in America del 1966 incontra Nevelson, i pittori minimalisti Marden e
Ryman, De Kooning, Rothko, Gottlieb, Rauschenberg, Lichtenstein, i pop-artisti e redige delle
interviste per la rivista “La Fiera Letteraria” diretta da Lorenzo Trucchi. Conosce i cosiddetti
“pittori germinali” di Solomon come Noland, frequenta studiosi come Greenberg e Rosenberg,
collezionisti come William Rubin direttore del Museum of Modern Art, entra in appartamenti
svuotati per fare spazio alle tele di Pollock. Attraverso l’amicizia di Beverly Pepper conosce
Barbara Rose, Rosalind Kraus e Barnet Newman con cui gira un video nelle strade di New
York e si trova a scoprire nelle spaccature di cielo tra un grattacielo e l’altro le feritoie della sua
pittura. Erano artisti che avevano un sogno, rendere l’arte astratta, arte della gente del
mondo, non da mettere sopra il divano in salotto. Un’arte monumentale.
Barnett Newman, Achilles, 1952
E’ lo stesso momento in cui in Italia cominciava l’arte povera di Pistoletto, Kounellis, Pascali,
Fabro, Marisa e Mario Merz e altri. In una riflessione degli anni successivi nota che attraverso
una “... lettura secondo i propri gusti e la propria formazione, non c’è una differenza radicale
tra arte americana e arte europea e che se sono riconoscibili tracce di tradizioni codificate
come astrattismo lirico, neoprimitivismo, minimalismo la ricerca si muove al di là delle formule
della critica”. Negli anni sessanta al ritorno dall’America collabora con la Galleria di Piero
Sadun Qui Arte Contemporanea pubblicando una rivista con lo stesso nome, in collaborazione
con Lorenza Trucchi, Pasmore, Fontana, Colla.
Viene presa dall’intreccio di rapporti tra artisti, galleristi, collezionisti che la tengono in
tensione continua sulla contemporaneità anche se ha inizio l’insegnamento di Storia dell’arte
all’Università di Cagliari. Matura anche la volontà di esprimere la propria creatività dedicandosi
alla scrittura.
E’ interessante e propositivo una sorta di vademecum per il pubblico, amatori d’arte e critici
disposti ad avviarsi nei meandri dell’arte contemporanea che consiste in strumenti essenziali di
carattere culturale e relazionale come la “… sensibilità per le arti plastiche, l’immaginazione
sull’esperienza che ha condotto l’artista a quel risultato, la partecipazione personale alle
vicende dell’arte contemporanea”.
Esplicito, diretto, empatico ed esistenziale è il suo modo di affrontare la comunicazione delle
sue esperienze estetiche: “Io sono assorbita dall’osservazione della nostra maniera di vivere
come una matassa da sbrogliare all’infinito, e mi pare bellissimo poterla raccontare”.
Francesca Alinovi (Parma 1948- Bologna 1983), studentessa universitaria negli anni ’60,
allieva di Francesco Arcangeli e Renato Barilli, compie un percorso storico critico che si
concentra sulle contaminazioni tra le varie arti, tra le varie dimensioni di esperienza visiva,
sonora, tattile-motoria, che coinvolge musica, teatro, video, danza, architettura, arredo, moda.
Assimila il messaggio delle generazioni critiche precedenti ma è su quanto è avvenuto nel
passaggio dagli anni Settanta agli anni Ottanta che si esprime con chiarezza ed efficacia,
dando voce ad un’intera fase di vita artistica con estremo calore partecipativo, fatto a tambur
battente con un coinvolgimento febbrile. Inizia il percorso critico con Piero Manzoni varcando i
limiti dell’opera in “quadro” per affacciarsi alle nuove dimensioni del comportamento,
esperienze nello spazio e nel tempo, di scrittura concettuale o di registrazioni video. Aderisce
poi alle ricerche di “pittura ambientale”, nella quale rinasceva la presenza fisica del colore, ma
come fenomeno totale, provvisto di un carattere architettonico, scenografico, spettacolare
dando inizio ai frequenti soggiorni a New York. Esplora e accoglie il fenomeno della Pattern
Painting movimento che la fa incontrare con la gallerista newyorkese Holly Salomon e i
suoi artisti Bob Kushner, Ned Smyth, Donna Dennis. Nascono i saggi dedicati al mito di New
York e al concetto di decoro. In Europa si apre alla ricerca misurata e tesa del gruppo Alchimia
di Alessandro Mendini in una età postmoderna e contro gli aut-aut, tra la fase concettuale che
recupera le origini e la storia dell’arte come una collezione di ready-made.
La Alinovi invita ognuno a trovare un proprio equilibrio nelle “tensioni”, modificando
il senso della “frontiera” che può essere trovata ovunque con una disponibilità ad
angolo giro verso tutti i punti dell’orizzonte.
Sua è la scoperta dei graffitisti newyorkesi alla fine degli anni ‘70, che interferiscono con il
presente, dislocando un grande affresco per tutta New York, “la metropoli si è autodegradata
per eccesso, e ora come un immenso campo di terra bruciata, offre frutti spontanei dal
sottosuolo: monitors, ferraglie d’auto fracassate, vetri infranti, frammenti di mobili usati, cavi
elettrici, valvole spinterogeni; Natura e cultura sono, nella nuova prateria di New York,
perfettamente integrate”. Frequenta le nuove gallerie trasferitesi nell’autunno del 1979 da
Soho nel quartiere più malfamato, il South Bronx come la Fashion Moda di Stefan Eins. Egli
afferma che “… la creatività si avvicina sempre più a una condizione spontanea di esplosione di
energia biologica” e di conseguenza dalla sua vetrina sulla strada, compare un graffitista
eccezionale come Crash e le pareti interne sono rivestite di tags.
Mi è sempre più chiaro che
l'arte non è un'attività elitaria
riservata all'apprezzamento di
pochi: l'arte è per tutti e questo
è il fine a cui voglio lavorare"
La Alinovi, nelle sue “scorrerie percettive in città”( Barilli, 1984), s’imbatte nel The radiant
Child, il bambino raggiante o radiottivo di Keith Haring, disseminato nelle cavità sotterranee
della metropolitana di N.Y. Così incontra anche Kenny Scharf che dipinge su qualsiasi oggetto
piccoli eroi dei fumetti anni Settanta.
Cutrone, Celgirls
Kenny Scharf, Dogeyeguy
Riesce a dare agli artisti una identità estetica attraverso una descrizione magnetica che tiene
conto del linguaggio, delle radici culturali, della collocazione ambientale.
Judi Rifka
Numerosi esponenti di questa realtà artistica americana sono presenti a Dokumenta VII (1982)
di Kassel come Keith Haring, Jean Michel Basquiat, George Lee Quinones, Judy Rifka.
Le sue parole rendono esplicita la funzione di critico che lei intende: “… cadute le barriere
dell’arte uniforme e standardizzata, e l’omogeneità indifferenziata del Buon Gusto, (le
roccaforti del Modernismo), l’unico criterio di discriminazione possibile resta ,ora, il confronto
tra la mia arte e l’arte di tutti, il mio gusto e il gusto di tutti. Ognuno è libero di volere e di fare
purché sia in grado di sapere e di captare quanto sta accadendo simultaneamente in tutto il
mondo e in tutti i campi: arte, appunto, ma anche moda, musica, spettacolo, mass media,
filosofia, letteratura, poesia … perché tutto oggi si tocca e si compenetra. E il cittadino bene
informato occidentale deve saper captare per flussi di sensibilità sottili e invisibili … il MIO è
un’onda di energia e di sensibilità destinata a ballare il surf sulla superficie increspata di mille
altre onde…”.
http://www.teknemedia.net/conferenze-presentazioni/archivi/mostra/21030.html
http://216.239.59.104/search?q=cache:DPjRqpWdkQYJ:www.elisabettacatalano.it/servizi/v/va
utrier/index.htm+Ben+Vautrier&hl=it&ct=clnk&cd=2&gl=it
Angela Vettese è storica dell’arte e critica militante. Vasta è l’attività didattica nelle
Accademie di Belle Arti di Milano, Venezia, Bergamo e in Istituti universitari, come il Politecnico
de la Universidad de Valencia in Spagna, la Bocconi di Milano e lo IUAV di Venezia, dove ha
progettato insieme a Marino Folin, Marco de Michelis e Germano Celant la Facoltà delle Arti e
dal 2001 dirige il CLASAV (Corso di Laurea Specialistica in Arte Visiva). Ha fatto parte del
comitato scientifico della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, della Fondazione Ratti, le è
stata assegnata la direzione della Galleria Civica di Arte Moderna e Contemporanea di Modena
ed è Presidente della Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia, ha collaborato con Gillo
Dorfles nella cura di testi didattici.
Partecipe delle più avanzate esperienze internazionali e con un approccio a tutto tondo al
valore e alla tradizione dei temi relativi all’arte, al concetto d’arte, alla figura dell’artista, è
attenta alle mostre, ai meccanismi di mercato, ai curatori e ai premi.
La Vettese analizza il concetto di arte, da sempre legato a quello di valore declinato nelle sue
molteplici componenti estetiche, morali ed economiche, e i criteri che oggi lo determinano
fornendo degli interessanti spunti di riflessione. Parte da una visione dell’arte come
manifestazione del pensiero e del fare che da sempre è rivelatrice dei mutamenti sociali,
politici, tecnologici, culturali.
Brancusi, ’oiseau dans l’espace, bronzo dorato, 1934
Per far riflettere su ciò che si può intendere per arte racconta di un episodio singolare avvenuto
nel 1926.
Il transatlantico “Paris”, arrivato il primo ottobre 1926 nel porto di New York, portava a bordo
Costantin Brancusi in compagnia di Marchel Duchamp con le opere destinate ad un’esposizione
della galleria d’avanguardia Brummer. La legge americana permetteva alle opere d’arte di
favorire di un regime fiscale agevolato rispetto agli altri oggetti d’artigianato, ma il doganiere
non ritenne opportuno che le sculture di Brancusi potessero godere di tale legge, in particolare
la scultura Uccello nello spazio, che venne classificata come Kitchen Utensils, e quindi soggetto
alla tassazione di merce destinata al commercio. La diatriba continuò sulla stampa e in
tribunale con un processo durato due anni. L’accusa sosteneva che quello non era un uccello,
perché privo d'ali, e a chi sosteneva che non era arte, la risposta di Brancusi restava
incomprensibile “… è l’uomo la verità immensa e la vera potenza è il cosmo, ed è proprio
questo che la mia scultura mette in mostra … solo gli imbecilli dicono che il mio lavoro è
astratto”. La causa fu vinta da Brancusi con la seguente sentenza “L’oggetto considerato … è
bello e dal profilo simmetrico, e se qualche difficoltà può esserci ad associarlo ad un uccello,
tuttavia è piacevole da guardare e molto decorativo, è inoltre evidente che si tratti di una
produzione originale di uno scultore professionale … accogliamo il reclamo e stabiliamo che
l’oggetto sia duty free”.
L’arte può essere considerata in vari modi e l’approccio può richiedere vari punti di vista. Può
essere considerata come la soluzione o la esposizione di un problema, l’espressione di un
individuo, un oggetto destinato a creare un impatto emotivo, un momento di originalità ed
espressione linguistica, l’interpretazione dello spirito di un luogo, un investimento economico,
una sintesi di tematiche universali di un certo tempo.
A questo proposito riprende il tema del dibattito sulla “morte dell’arte” e lo addebita ad un
errore di trascrizione da parte dell’allievo di Hegel, Heinrich Gustav Hotho che pubblicò gli
appunti in una libera sistemazione, facendo un errore di trascrizione- reportatio. Considera il
tutto un falso problema, che chiude in maniera decisa considerandolo argomento d’interesse
da parte di due categorie di “catrastofisti: gli storici marxisti e coloro che non comprendono la
grammatica dell’arte contemporanea a cui sono da aggiungere tutti quelli che ritengono che
l’arte visiva debba consentire a chiunque di esprimere un giudizio di gusto”.
Vettese afferma che una civiltà senza arte non è immaginabile, ciò che muta nel corso della
storia è il linguaggio e la tecnica in relazione ai mutamenti antropologici di cui è testimone (G.
Kubler, 1972). Molti artisti in particolare appartenenti alle correnti degli anni Sessanta e
Settanta, hanno ridotto a zero il supporto delle opere che assieme al collasso della materia e
della manualità è stata una dichiarazione della potenza delle opere e della loro forza poetica
oltre la tecnica. La rivoluzione scientifica ha cominciato a farci vedere ciò che una volta era
ignoto e misterioso ampliando i nostri sensi e le possibilità percettive, traducendosi anche in un
allargamento delle possibilità espressive. La riduzione all’osso degli elementi della forma come
in Paolini, l’azzeramento della comunicazione visiva come in Kosuth, la focalizzazione sul
degrado delle periferie di Dan Graham, è un modo di affrontare l’arte in cui si rafforza il
concetto artistico, anziché essere sminuito o deteriorato dalla mancanza dell’oggetto da
ammirare. “Questo radicalismo ha dimostrato quanto l’arte sia in effetti vitale :come per certe
spezie, ne è sufficiente un’idea per cambiare sapore al mondo”. (Vettese, 2005)
Marcel Duchamp, Ruota di bicicletta, h.126,5 cm, 1913
La Vettese nell’analisi di due opere esemplari come la Ruota di bicicletta di Marcel Duchamp
del 1913 e il Bastone Eurasiatico di Joseph Beuys, compie un’operazione magistrale. Nella
Ruota di bicicletta riconosce lo scossone dato alla materia tradizionale e alla riconoscibilità dei
contenuti, ogni elemento indicato è un commento critico al ruolo dell’accademia, prescrittiva di
forme e tecniche che nella storia invece hanno visto continui mutamenti. “Al posto del
piedistallo uno sgabello, un umile oggetto su cui di norma poggiamo le terga, non eroi fusi in
bronzo. Al posto della scultura fatta a mano c’è un oggetto di produzione industriale e seriale.
Invece di una composizione unitaria e pensata nella sua forma, troviamo il pezzo di un vecchio
veicolo, per di più montato sottosopra. Nel luogo per eccellenza dove stavano le cose fisse,
ferme e immutabili, in termini fisici così come in termini metaforici, troviamo una ruota che
non solo è mobile in sé, prima che qualsiasi altra opera d’arte avesse messo in scena una
simile disposizione al cinetismo, ma addirittura può muoversi e fermarsi a discrezione dello
spettatore. In questo modo il pubblico diventa partecipe dell’opera stessa e in parte anche suo
autore”
Josep Beuys, 1924-1976
Nell’analisi dell’opera di Joseph Beuys il Bastone eurasiatico cambia registro e centrale diventa
la persona dell’artista tedesco che credeva “fermamente nella capacità salvifica della natura,
della storia, dell’uomo occidentale una volta redento dal suo amore per la guerra. Uno dei
simboli di tale credo, inscritto nella sua arte come segno ricorrente, fu appunto il bastone
eurasiatico, un normale bastone di rame che venne definito così per la sua capacità di
ricordare la cultura originalmente unitaria di Europa e Asia…strumento che ricorda la verga dei
condottieri biblici e in genere del pastore, della guida, di colui che conduce la sua gente con
atteggiamento profetico”. Affida alle parole dell’artista lo svelamento di una simbologia d’altro
genere “… una sbarra, cioè una lunga asta di rame. Il materiale ha un carattere simile a quello
di un conduttore elettrico e quindi “conduce”: si tratta di un materiale attraverso il quale si
muove qualcosa. Per me il rame ha quasi sempre la proprietà di un conduttore e questo
conduttore ha una forma e un movimento particolare … la sbarra indica il percorso dell’Oriente
in Occidente.Tutto lo sviluppo nella storia proviene da Oriente; soltanto più tardi, qualcosa
nascerà da Occidente … Ora data le situazione, è possibile ritornare nella direzione di prima.
Per esempio, ho detto che Marx ha portato in Oriente un’idea occidentale: ciò significa che un
giorno il movimento tornerà al punto di partenza, concludendosi” (Bonito Oliva,1993).
La Vettese nella sua indagine critica, ci propone l’attività di autori distanti nel tempo ma che
hanno in comune l’aver proposto due opere che sul pubblico hanno esercitato un’azione
straniante. Ritenute sul momento lontane dall’idea di arte, poi sono state lucide nella
premonizione di un futuro e per nulla derisorie nei confronti dell’arte, e quindi non più affette
da “mutismo” formale e iconolgico.
Indaga in modo minuzioso e attento sulla tipologie dei materiali utilizzati che in queste opere
hanno a loro volta una significato. Riscatta il valore del tempo storico e giustifica il fatto del
cambiamento delle forme e delle tecniche dell’arte visiva scrivendo: “Anche nell’arte, ogni
epoca parla con le parole che ha. Le evoluzioni tecniche e i cambiamenti tematici si
intersecano in una danza che prevede del resto anche la permanenza del vecchio: nessuna
novità è capace di cancellare le precedenti esperienze, quelle di cui essa stessa risulta figlia”.
Segnala con evidenza la diffidenza in Italia verso l’arte contemporanea, che pur è riuscita a
costruirsi una nicchia di appassionati, e individua le cause nei seguenti motivi “la presenza di
storici dell'arte di formazione attribuzionista, il sospetto secolare nei confronti di ciò che non
nasce come "arte liberale", cioè del fare manuale anche se in arte oggi ce n'è ben poco, ma è
così che la pensano gli intellettuali ignoranti, la diffidenza nei confronti delle immagini, che è
strisciante persino nel mondo più iconofilo che ci sia, quello cattolico, e la presenza
mercantile”.
Allarga il campo di indagine e delinea una cornice, entro la quale colloca i movimenti artistici
che si sono accavallati nell’ultimo cinquantennio, costituita da parti non secondarie come il
pubblico, i musei, le esposizioni internazionali, le mostre periodiche, i curatori, gli attrattori.
Sembra che il linguaggio sempre più specialistico adottato dagli artisti abbia allontanato il
grande pubblico, d’altra parte mai nel corso degli anni ottanta si è dilatata la rete dei musei
specializzati, dotati di strutture che conservano ma anche stimolano e sostengono
economicamente i fenomeni artistici emergenti, e suggerisce che della crescente disponibilità
di tempo libero abbia beneficiato anche l’arte contemporanea.
I musei e soltanto loro sono in grado di accogliere le opere del dopo guerra spesso
smaterializzate, spesso programmaticamente destinate a deperire nel tempo, estese nello
spazio fino ad occupare ambienti interi. Solo loro sono in grado di attribuire valore all’opera a
cui hanno dato ricovero e che difficilmente sarebbe potuta sopravvivere grazie ai soli
meccanismi mercantili, diventando così riferimento delle scelte culturali di una elite e
responsabile della formazione di un gusto volutamente selettivo. Il critico americano Harold
Rosenberg scrive: “il museo giudice -per principio- di ciò che sarà da ritenersi arte, si è reso
conto che i rapporti stilistici configurati dallo storico fra le creazioni del passato e quelle del
presente (comprese le opere che mancano di stile) gli conferiscono il potere di aumentare
l’effetto che esse avranno nel futuro”.
Le mostre periodiche collettive trovano radice nei Saloon ufficiali parigini o negli anti-Saloon
organizzati dagli artisti come Courbet, dagli impressionisti e in quelle promosse dall’Armory
Show di New York agli inizi del Novecento. La critica le mette sotto la lente di ingrandimento
cercando di capirne alcuni aspetti, ma riconoscendone il ruolo di “palestra sperimentale o, nel
caso di esposizioni più paludate, di prestigiosa vetrina … alcuni vizi di forma nello scegliere gli
artisti o nel manipolarne il lavoro … ma per tutto il XX secolo sono state lo strumento
espressivo più caro ai movimenti d’avanguardia …: sono infatti atti comunicativi destinati a
venir smantellati, quindi più liberi di quanto non sia, per esempio, una collezione museale
permanente”.
Manifesto della mostra all’Armory Show del 1913 a New York
Le esposizioni internazionali sono cresciute d’importanza come la Biennale di Venezia, la
Biennale di Whitney, la Biennale di San Paolo in Brasile, Documenta Kassel, la Biennale di
Kwangju nella Corea del Sud, nel 2004 è stata inaugurata la prima biennale di Siviglia, e altre
si stanno diffondendo a Dakar, Istanbul, Havana, Lubiana … con l’ambizione di diventare
centro culturale di riferimento di tutto il bacino territoriale di pertinenza ed oltre, si sono
accomodate in sedi storiche, vecchie fabbriche o palazzi disabitati. Il fenomeno è dilagato a tal
punto che molti si chiedono a cosa servano queste mostre quando in un’esposizione presentata
a Mosca nel 2005, i curatori erano stati quasi tutti protagonisti anche alla Biennali di Venezia,
Istanbul, Santa Fè e Kassel.
West Eight Street Entrance 1931
Gertrude Vanderbilt Whitney in Vogue Magazine, 15 Januar 1917
Vettese segnala il rischio di sovrapponibilità dei contenuti, delle formule, degli artisti prescelti,
del tipo di poetica e di tecniche usate.
La seconda metà degli anni novanta è stata segnata dalla mostra itinerante “Sensation”, una
“mostre pilota” di cui il pubblico esperto di arte è sempre in attesa. La prima puntata la ebbe
alla Royal Accademy di Londra nel 1997, fu poi riproposta a Berlino, e giunse a New York nel
1999 dove venne censurata dal sindaco Rudolph Giuliani, il quale contribuì involontariamente a
pubblicizzarla.
Vi erano esposti, tra l’altro, un maiale in formaldeide di Damien Hirst, manichini amputati e
sanguinanti dei fratelli Chapam,una Madonna nera dell’ afro-britannico Chris Ofili,decorata con
immagini oscene e sterco di elefante. All’ ingresso della mostra veniva precisato che era
sconsigliata ai ragazzi di età inferiore ai 17 anni e che, comunque, dovevano essere
accompagnati da un adulto. Il primo giorno dell’inaugurazione si sono presentati più di 12.000
visitatori. Anche i gadget venduti nel museo erano in linea con l’esposizione.
Questa mostra fece scandalo soltanto negli USA. Il punto cruciale della rassegna, era quello di
mostrare come l’arte visiva potesse essere non seconda alla televisione nel proporre immagini
shock, e inoltre dimostrò che ciò che scandalizzava il pubblico, in realtà era fruito
tranquillamente attraverso le immagini offerte dal cinema e dal piccolo schermo.
La rassegna “Sensation”, nota Vettese, “ebbe almeno il merito di costringere il pubblico ad
ammettere l’ipocrisia con la quale ancora oggi si tende a dichiarare “arte” solo ciò che non
turba o che turba in modo sottile” e continua affermando che le mostre “… hanno la grande
capacità di proporsi come laboratori di idee e momenti di incontro tra artisti. In mancanza di
grandi committenze pubbliche per opere permanenti, sempre più rare, esse sono il luogo per
eccellenza in cui l’artista cerca di dare il meglio”. Riesce a mettere il dito su molti punti dolenti
del mondo contemporaneo, le responsabilità culturale delle istituzioni pubbliche e lo scarso
livello di coscienza della società.
Un altro luogo, con sede stabile, dove avviene questa legittimazione culturale sono le gallerie
private che hanno il compito di mostrare le opere degli artisti con i quali operano e anche di
promuoverle. Per fare questo una galleria deve disporre di tre risorse:il portafoglio dei clienti, il
prestigio e la reputazione di cui gode nel mondo dell’arte, le risorse economiche.
Delle migliaia di gallerie presenti nel mondo occidentale solo una cinquantina sono in grado di
definire un trend o di fare emergere un artista su scala internazionale, sono le gallerie leader.
La scuderia di cui fa parte un artista, ovvero la galleria a cui è affiliato, risulta una garanzia di
enorme importanza, garanzia fondamentale per un investitore. La scelta di quali artisti far
entrare nel gruppo di rilievo, e quindi da promuovere, è ricca di conseguenze.
Una grande galleria è come una corporation che può proporre un alto numero di brands,
possibilmente tutti di pari eccellenza, ma in diversi momenti del loro ciclo di vita, quindi
saranno presenti giovani artisti emergenti, ed artisti che hanno raggiunto la maturità artistica.
I primi, in particolare, richiedono investimenti per ottenere il cosiddetto brand building, cioè la
costruzione dell’immagine che garantirà il successo al giovane emergente.
Le gallerie sono aumentate nell’ultimo cinquantennio e si sono stratificate secondo precisi
segmenti di mercato, a New York per esempio le galleria della cinquantasettesima strada
trattano solo artisti di sicuro successo, nel quartiere di Soho compaiono i nomi dei giovani a cui
offrono una sede, sostegno promozionale, il contatto con la critica e la presenza in mostre
pubbliche.
Per citare un unico esempio, in Italia, si è inaugurata in questi giorni a Milano nel cuore di
Brera, nella casa natale di Piero Manzoni, la galleria milanese JZ art Trading di Jonathan
Zebina calciatore francese in forza alla Juventus, per l’opening ha scelto Ben Vautier.
Ben Vautier e Jonathan Zebina nella Galleria Jz art trading, 2006,Milano
La Vettese scrive “… si comprende come la nascita del collezionismo moderno sia stata una
delle maniere privilegiate in cui l’individuo -ma anche alcune collettività, in cui i ricchi
rivaleggiavano tra loro acquistando varianti della stessa categoria di oggetti- ha potuto dare
alla propria identità una forma riconoscibile all’esterno”.
I collezionisti sono soltanto una delle categorie implicate nel mercato d’arte, che è
influenzato da tutti i soggetti del sistema, artisti, galleristi, collezionisti, speculatori in stretta
commistione
Solo l’interazione tra i vari attori può lanciare un artista e un consenso critico determina
quotazioni molto alte. Il gruppo di collezionisti che contribuisce alla crescita della domanda è in
realtà esiguo,in quanto pochi hanno un potere d’acquisto e personalità tali da consentire loro di
diventare opinion leader. Sono questi che segnano comunque il trend dell’arte.
I collezionisti hanno sempre raccolto opere per vari motivi, per amore di status symbol, per
desiderio di distinguersi, per il desiderio di accumulo, per l’associarsi di speculazione ma anche
di impegno civile. In generale, nota la Vettese, tutte le categorie di collezionisti fanno
riferimento al concetto di lusso derivato dal Rinascimento italiano in cui il mecenatismo non era
una scelta, ma un obbligo sociale.
Un aspetto comune che emerge dalle biografie di questi collezionisti è “una sorta di coazione a
comprare … un senso della sfida,dell’azzardo … che tende a favorire certe tipologie di opere o
di autori più di altri” (Vettese, 2005).
Uno per tutti può valere l’esempio, tratto da Francis Haskel, riguardante il patrizio veneziano
Teodoro Correr che contribuì a dare vita ad uno dei grandi musei di Venezia. Fu lo stereotipo
del collezionista maniacale che troppo assorbito da questo tipo di passione, per tutta la vita
aveva evitato di lavorare per la Serenissima. Lo studioso inglese narra che: “ebbe cura di
evitare ogni impegno e, su carta con l’intestazione Libertà e Uguaglianza, scrisse ai nuovi
governanti democratici di essere disgraziatamente costretto ‘a resistere al violento stimolo del
patriottismo
e a chiedere di essere esentato dal dovere di far parte della Guardia Civica a
causa delle sue condizioni di salute, allegando certificati dei suoi dottori e del dentista per
corroborare la propria richiesta … continuò a comperare dipinti anche in pieno Ottocento senza
che nessuno lo notasse nella Venezia di Byron, facile preda di rigattieri senza scrupoli. Morì
infine nel 1830 lasciando alla sua città natale … il frutto di oltre mezzo secolo di avido
collezionismo, e concludendo nel modo più degno quella tradizione d’interesse artistico per le
arti che aveva avuto inizio tanti secoli prima”. (Haskell,2000)
I mercanti si differenziano dai galleristi e trattano solo opere che fluttuano nel mercato, vitale
per l’attività fervida delle fiere d’arte come Basilea e Colonia dove le grandi gallerie possono
svolgere il loro potere promozionale e per l’interesse fluido, ma efficace anche delle case d’asta
come Christie’s e Sotheby’s.
Nel secondo dopoguerra il ruolo del critico d’arte è diventato ancora più determinante, basti
pensare a Clement Greenberg che passava il suo tempo negli atelier degli artisti spagnoli
spingendoli a dipingere secondo i dettami delle sue teorie. Senza il dibattito critico che si è
svolto tra questi e il suo nemico Harold Rosenberg, l’action painting americana secondo la
Vettese non sarebbe esistita.
Altri critici di rilevo furono Leo Stenberg, William Rubin e Lawrence Alloway che diedero voce
alla pop art (fu proprio di Alloway la contrazione del termine popular)
Fu il francese Pierre Restany a teorizzare il Nouveau Réalisme, Germano Celant a dare una
definizione all’Arte Povera e Achille Bonito Oliva a creare la Transavanguardia.
Alla fine degli anni Settanta la figura del critico si è trasformata in quella dell’organizzatore di
mostre, e la figura del curatore ha assunto un’importanza enorme da quando i musei hanno
iniziato a concepire la mostra come uno degli elementi più importanti per conservare vitalità e
attirare il pubblico. Il curatore di musei ha assunto un ruolo critico di valore carismatico, di
guida per le nuove tendenze e di talent-scout per giovani promettenti.
Il curatore, a volte, ha una formazione universitaria ma è, secondo la Vettese, “essenzialmente
autodidatta”. Gli anni dai Settanta ai Novanta sono stati quelli in cui la sua ascesa è stata
maggiore. In genere è una figura ibrida, lavora spesso nei musei, raccoglie sponsor, tratta con
le gallerie e in qualche caso si occupa anche di trovare artisti da esporre nelle sezioni delle
mostre-mercato. La sua figura ha una storia che coincide con i mutamenti del ruolo del critico
d’arte.
“L’obiettivo del critico era un tempo di portare a visibilità un artista, un gruppo di artisti, delle
opere e delle idee. L’obiettivo del curatore di oggi è quello di costruire un proprio discorso
teorico, con l’aiuto delle opere prescelte e degli artisti selezionati. La visibilità diventa sempre
più glamour, almeno negli ambienti di avanguardia, e pure un prestigio che aumenta la sua
vera ricchezza professionale e il capitale relazionale, quindi la rete di rapporti con gallerie,
collezionisti, sponsor, amministrazioni, direttori di musei e artisti” (Vettese,2005).
Il mondo della critica si trova a gestire ruoli molto diversi tra loro, ha imparato a gestire le
modalità della scrittura in ragione della diversità del pubblico, vasto e inesperto per la stampa
ad alta tiratura, più attento e ridotto, nella stesura, di un catalogo. La Vettese indica
l’importanza del diffondersi nelle facoltà umanistiche dei cultural studies, rivolti in particolare
all’analisi di un mondo connotato dall’incrocio di civiltà e dall’emergere di minoranze represse e
ancora più importanti e attuale la comparsa di un’altra area di studio rappresentata dai visual
studies che indagano la retorica delle nuove comunicazioni visive globalizzate con particolare
attenzione alle arti visive, e soprattutto ai video clip, agli spot, alle immagini con funzione
pubblicitaria.
Tutto ciò ha portato a studiare l’arte contemporanea anche come “fonte di ispirazione per la
comunicazione visiva a scopo funzionale, quindi come parte del linguaggio dell’informazione e
delle traduzione in immagini del pensiero”.
Compie una riflessione sugli studiosi-docenti del
mondo accademico che con l’arroccarsi
sempre sulle stesse referenze metodologiche corrono il pericolo di perdere l’efficacia,
l’aggiornamento e la flessibilità di opinione e di perpetuare un discorso a circuito chiuso.
Una categoria critica che la Vettese individua sono gli “attrattori” , personaggi di una forte
personalità, scrittori, filosofi, artisti, teorici, galleristi, signore con un salotto che come
scopritori hanno saputo dare un ordine alle forme caotiche con cui solitamente si presenta
l’avanguardia, fornendo una base teorica a diversi movimenti e sostenendoli anche
economicamente. Il poeta Andrè Breton è stato l’artefice del surrealismo e Gustav Freud
l’inconsapevole suggeritore, il poeta Marinetti artefice consapevole del Futurismo, il gallerista
Leo Castelli è stato promotore della Pop Art, intorno a John Cage gravitava il gruppo Fluxus,
alle teorie del filosofo Jean-Fancois Lyotard è stata attribuita la promozione dello stile
postmoderno, Margherita Sarfatti nel periodo fascista ha dato vita al gruppo “Novecento”,
collezionisti come l’americana Peggy Guggenheim, l’italiano Panza di Biumo, l’inglese Charles
Saatchi hanno promosso e accreditato molti artisti a loro contemporanei.
Cadute le funzioni religiose, decorative e promozionali all’arte rimane quella “di esprimere
attraverso forme e immagini lo spirito del proprio tempo, in modo tanto più immediato quanto
meno condizionato dalle richieste dei committenti di un tempo”. E di fronte al senso
catastrofico della fine dell’arte di molti commentatori la Vettese trova prove della sua vitalità
nel fatto che sia continuamente saccheggiata da registi, grafici e pubblicitari.
Spesso gli artisti hanno percorso tragitti simili sotto cieli diversi, nel dopoguerra sono stati
analizzati, rilevati e condotti alle conseguenze più estreme temi proposti in maniera intuitiva
dalle avanguardie del primo novecento come la riduzione dell’opera ai minimi termini indicata
da Mondriand e Brancusi, la riflessione sull’uso dell’oggetto comune avanzata dal Ready-Made
di Marchel Duchamp, l’accento sul processo del fare piuttosto che sul risultato finale avanzato
dalle teorie surrealiste, la riduzione del colore al monocromo avanzata da Malevic,
l’accentuazione degli aspetti bizzarri o sciamanici della personalità dell’artista evidente in
personaggi come Picasso e Duchamp. Si attua una revisione approfondita dei problemi già
posti nella prima parte del secolo, le tendenze si sono ramificate, moltiplicate ma trovare
l’esatta collocazione temporale dell’operato degli artisti o l’apice creativo non può esser fatto
che in maniera empirica e contingente. Sicuramente la produzione artistica del secondo
Novecento si è affrancata dal predominio delle tecniche aprendo il varco ad un eclettismo che
smussa i confini tra le categorie tradizionali di scultura e pittura.
In un articolo recente comparso sul Il Sole 24 Ore, la Vettese delinea una nuova tendenza, la
Street Art che ha poco a che fare con i graffitisti anche se forse ne è un’evoluzione. E’
comparsa contemporaneamente in California e in Inghilterra e si sta diffondendo anche da noi.
Ha trovato una definizione a New York, dove il Wooster Collective questo dicembre ha
organizzato, insieme ad altri, una tre giorni all’11 di Spring Street di Manhattan. Vengono
stampati, diffusi, appiccicati degli stickers per mezzo mondo, si realizzano installazioni
ambientali destinate a venire distrutte il giorno dopo, occupa la strada in tutti i modi e riempie
completamente gli interni come l’inglese Bansky che decora una stanza con carta da parti
dorata e rosa compreso un vero elefante, oppure Frank Shepard Fairey, americano che ha
creato la campagna “Obey Giant” contro i comportamenti consumisti ma sfruttando il metodo
consumista in contraddizione con lo stile dei writers. Appare come un movimento variegato che
distingue con difficoltà tra i diversi settori delle arti, spesso pungente, invasivo nei confronti
delle condizioni comunicative strutturali, per capire come funzionano su di noi. Unico
riferimento sono le pratiche delle radio libere, dell’internazionale situazionista e prima ancora
quelle di Guy Debord.
Eppure tra i compratori c’è già il Jet set, da Angiolina Jolie a Christina Aguilera, 25mila sterline
è costata “una piccola cosa” di Bansky.
Banksy, Rock Boy, on Palestinian side of the Israele West Bank Barrier e “va dove ti porta il
vento” sul muro di Gaza
Banksy, stencil
http://www.banksy.co.uk/
Angiolina Jolie
Christina Aguilera
Peggy Guggenheim
La Vettese, attenta al comportamento dell’artista e dell’osservatore, considera il valore
emozionale e psicologico della fruizione estetica, e scrive: “… è necessario chiederci se sia
possibile abbozzare una teoria estetica su base biologica o, più specificatamente, una teoria
dell’arte fondata sull’attività del cervello e su quell’area che si denomina cervello visivo.
La divisione mente/corpo, caratteristica della civiltà postsocratica e comunque dell’Occidente
recente , ha fatto sì che si indagasse assai poco sulle caratteristiche fisiche dei processi mentali
e dunque creativi. L’opera d’arte per secoli è stata considerata il frutto di un sentimento
completamente estraneo alla corporeità.”
La psicologia sperimentale ha cercato di indagare la genesi del fenomeno artistico, e gli studi
sul legame mente-cervello hanno subito una notevole spinta anche per la teoria della Gestalt,
un ambito di studi legato alla percezione, a cui ha dato ampio contributo Arhneim e Gombrich.
L’idea che un’opera possa suscitare emozioni positive a prescindere dal background di una
persona, concezione che è base delle teorie idealistiche, è sostanzialmente smentita dalla
psicologia
cognitiva,
nel
riconoscimento
del
valore
dell’opere
d’arte
sia
antica
che
contemporanea.
Relativamente al concetto di emozione, entrato nell’uso tra la fine del sec. XIX e gli inizi del
XX, in modo quasi sempre generico viene definito dalla Vettese come “elemento che induce
una disposizione all’azione, implicando forme differenti di distribuzione dell’attenzione,
verifiche di memoria, valutazione della componente personale … l’umanità è affamata di
emozioni negative,soprattutto nei suoi strati più ricchi e meno affannati dalla sopravvivenza
quotidiana. La psicologia cognitiva non ha ancora saputo dare una risposta all’attrazione che si
prova verso la scene orrende di filmati fantastici o anche di eventi realmente accaduti”. E’
un’osservazione che cerca una giustificazione ad un atteggiamento contemporaneo esteso ad
ambiti diversi oltre che estetici, ammiriamo le scene di guerra e dolore tratte dai Capricci di
Goya, le foto dell’americano Andreas Serrano che fotografa giovani morti di AIDS, la iugoslava
Marina Abramovic che scarnifica una carcassa sanguinolenta … L’ipotesi formulata dalla
psicologia cognitiva è che le scene ributtanti arricchiscono gli schemi cognitivi e fisiologici, in
modo da raffinarli e rendere la persona pronta a dominare esperienze simili.
Dal punto di vista psicologico, gli elementi che contribuirebbero a dare valore a un’opera
sarebbero la sua capacità di suscitare emozioni, intrecciata con le informazioni che già
abbiamo.
Andreas Serrano, America (Wunmi Fadipe, Sales Assistant at Investmente Bank),2002, Paula
Kooper Gallery N.Y.
Marina Abramovic, Shoot, 2006, Galeria Lafabrica Madrid
Marina Abramovic, Balkan Baroque,1997, Hangar Bicocca Milano
http://www.flashartonline.it/OnWeb/MARINA_ABRAMOVIC.htm
http://www.whitneygen.org/