Media digitali e pratica del disegno

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Media digitali e pratica del disegno
Domenico Quaranta - http://domenicoquaranta.com/
Media digitali e pratica del disegno
Domenico Quaranta
Published in: Titolo, N° 54, Autumn 2007, pp. 11 – 13. Italian
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“Smart artists make the machine do the work!” [1]
Personale, intimo, istintivo. Da sempre, il disegno è la forma più diretta e
immediata di comunicazione visiva, quella a cui gli artisti affidano le loro idee ancor
prima che prendano forma. È la prima che impariamo, e quella di più lunga
tradizione, tanto nella storia personale quanto in quella collettiva dell’uomo. Può
richiedere strumenti molto evoluti, ma continua a esistere anche nella sua forma più
elementare; e anche nella sua forma più elementare – lo scarabocchio tracciato
distrattamente con la penna a sfera su un Post-it, continua a rivelare, del suo autore,
più di quanto egli stesso non voglia dire.
Tutti questi, è ovvio, sono stereotipi. Proprio per la sua versatilità, il disegno è
stato – e continua ad essere – molte cose: tecnica e improvvisazione, linea e
chiaroscuro, segno e traccia, culmine della razionalità e registrazione dell’inconscio.
“Il disegno è l’onestà dell’arte”, ha detto Ingres; “Il disegno è inganno”, ha detto
Escher. Basterebbero queste due citazioni a dimostrare che stiamo semplificando
troppo. D’altronde, è proprio a uno stereotipo che vogliamo fare riferimento; a un
concetto diffuso di disegno, ben riassunto dalle parole di Matisse: “il disegno è, prima
di tutto, uno strumento di espressione di sentimenti e sensazioni personali.” Uno
stereotipo che l’utilizzo dei media digitali e della Rete sembrano sovvertire sotto vari
punti di vista.
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Macchine per disegnare
Ma che relazione c’è tra media digitali e pratica del disegno? E, soprattutto, che
relazione ci può essere? La domanda è legittima, ma la risposta è più complessa di
quanto ci si potrebbe aspettare. Non solo: le sue origini si collocano molto lontano, ai
tempi in cui i computer non possedevano alcuna “interfaccia grafica”, e in cui i dati
in uscita non venivano visualizzati sullo schermo, ma sulla lingua di carta che usciva
da una stampante ad aghi. Nell’estate del 1962, presso i laboratori Bell di Murray
Hill, New Jersey, il matematico americano A. Michael Noll produce i primi esempi di
quella che allora viene chiamata Computer Art. In sostanza, Noll istruisce un
computer affinché generi un’immagine; o, se vogliamo, trasforma una macchina da
calcolo in un artista. Noll inserisce nella macchina degli algoritmi matematici, ossia
delle istruzioni che, eseguite, generano delle immagini astratte. In questa scelta, si
badi bene, non vi è alcuna ironia: Noll è seriamente convinto che, con il computer,
l’uomo abbia creato “non uno strumento inanimato, ma un partner creativo e
intellettuale attivo” (1967); e che il suo utilizzo “sollevi seri dubbi sull’importanza,
per l’opera d’arte, del contesto in cui si forma l’artista e della sua emotività” (1966)
[2]. Il pensiero di Noll risente certo del clima dell’epoca, dell’arte concettuale e delle
“istruzioni” di Sol LeWitt; ma la radicalità della sfida che la Computer Art lancia
all’idea romantica dell’artista rimane insuperata, non da ultimo proprio perché va a
colpirla nella sua pratica più basilare e sensibile: il disegno, appunto.
Da questo momento, la programmazione di “macchine per disegnare” diventa
uno dei filoni più floridi della New Media Art, dando vita a sua volta a numerose
ramificazioni. Accanto a Noll, artisti come Manfred Mohr, Vera Molnar e Lillian
Schwartz danno vita a immagini algoritmiche in cui la soggettività dell’artista è
sostituita dall’introduzione di elementi casuali nelle varie iterazioni del software. Da
questi precoci esperimenti discende la scena attuale dell’arte generativa, che sviluppa
– con la ricchezza di articolazioni estetiche che il numero e la versatilità dei software
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attuali rende possibile – la partnership “intellettuale e creativa” tra artista e computer
prospettata da Noll in una molteplicità di direzioni: dalla vitalità rigogliosa e barocca
delle animazioni di Marius Watz all’estetica minimale degli sketch di Alessandro
Capozzo, dall’eclettismo fantasioso delle macchine progettate da Fabio Franchino al
rigore dei processi attivati da Casey Reas.
Un’altra linea di ricerca, anche questa molto precoce, ha dato vita a una serie di
tentativi di totale automazione della pratica del disegno. Di grande interesse sono,
negli anni Ottanta, le ricerche di Roman Verostko, che fa eseguire i suoi disegni
algoritmici a una speciale stampante dotata di pennarelli e pennelli, con risultati che
emulano da un lato la calligrafia giapponese, dall’altro l’Action Painting: la
registrazione del gesto umano, carico di espressività e di potenzialità latenti, viene
svilita dalla capacità di una macchina di emularla. Anche Verostko, tuttavia, è ben
lontano da qualsiasi presunto “oltraggio” all’arte: la sua intenzione è piuttosto
dimostrare che l’armonia del segno cela sempre, in ultima analisi, una logica
matematica, tanto più potente quanto più è invisibile.
Ma il padre di tutte le “macchine per disegnare” è senza dubbio AARON,
l’Artista Cibernetico. AARON è un progetto lanciato dall’artista inglese Harold
Cohen nel 1973 presso la University of California San Diego, e consiste nella
programmazione e nell’educazione di una intelligenza artificiale che disegna e
dipinge. Partendo da forme elementari, AARON ha imparato , nel corso degli anni, le
regole della prospettiva, dell’anatomia umana e dei rapporti cromatici; oggi può dirsi
un artista maturo, con uno stile personale ben definito, ma ancora capace di
sorprendere.
Immediatezza e ipermediazione
Tuttavia, non è necessario che sia la macchina a disegnare perché i media
digitali mettano in discussione la concezione comune del disegno. Gli artisti si sono
serviti spesso del computer – e dell’armamentario di hardware e software che mette a
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disposizione – per disegnare. Anche in questo caso, le radici scendono in profondità.
Nei primi anni di Internet, per ovviare ai limiti di una comunicazione puramente
testuale, si diffuse la pratica di realizzare immagini utilizzando i caratteri
alfanumerici messi a disposizione dalla tastiera standard. Ne nacquero, da un lato, le
ormai celebri emoticon, dall’altro una serie di immagini graficamente più complesse,
che presero il nome di ASCII Art. L’ASCII Art è rimasto un fenomeno
sostanzialmente popolare e underground, una sorta di corrispettivo informatico del
graffitismo nel contesto urbano; ma eserciterà un fascino notevole sulle comunità
hacker e su alcuni net.artisti, come Jodi.org (che inserisce l’immagine ASCII di una
bomba nel codice sorgente di uno dei suoi primi lavori), Vuk Cosic (che dà vita, con
Walter van der Cruijsen e Luka Frelih, all’ASCII Art Ensemble) e [epidemiC] (che,
emulando una pratica diffusa fra gli hacker, darà a DoubleBlind (2003) – un
programma che, se attivato, sviluppa un cortocircuito comunicativo spedendo a un
hacker una mail di invito a nome di una importante istituzione artistica – l’aspetto di
un calligramma).
Più ovvio è l’utilizzo degli strumenti per disegnare che il computer stesso mette
a disposizione, come la penna ottica e i vari programmi di grafica: i quali, tuttavia,
possono entrare a far parte di una processualità tutt’altro che ovvia. L’italiano Mauro
Ceolin, ad esempio, sottrae alcune immagini al flusso dei media e le ridisegna a mano
con l’aiuto di una penna ottica ottenendo un disegno vettoriale che colora con la
palette limitata e “piatta” di Flash Macromedia. L’immagine che ne risulta può essere
stampata o ridipinta a mano su tela, mantenendo tuttavia l’estetica peculiare
conferitagli dai mezzi utilizzati.
Altri artisti, insoddisfatti o polemici nei confronti degli mezzi di elaborazione
immagini più comuni, si creano da soli i propri strumenti, o riprogrammano quelli
esistenti. Una delle caratteristiche più interessanti di queste “matite d’artista” è il loro
carattere semi-automatico. L’immediatezza del disegno viene tradita a vantaggio di
una presenza forte del medium. Nel 1999, l’artista e programmatore inglese Adrian
Ward ha sviluppato Auto-Illustrator e Autoshop, versioni generative di due
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celeberrimi programmi commerciali, Photoshop e Illustrator, le cui funzioni
tradizionali vengono sovvertite e automatizzate. Più costruttivo l’approccio
dell’americano John F. Simon Jr., un artista del software da sempre innamorato del
disegno. Nel 2005 Simon ha pubblicato, per Printed Matters, Inc., Mobility Agents,
un programma di “disegno dinamico” accompagnato da un libricino con le sue
riflessioni. Anziché imitare il disegno tradizionale, Mobility Agents tenta di
implementare segni che solo il codice può produrre: segni che visualizzano la
velocità, la direzione e il ritmo del gesto, strumenti che replicano automaticamente la
linea tracciata arricchendola di ombre e di spessore. “I sistemi digitali hanno la
capacità di amplificare i nostri più piccoli gesti in opere compiute”, scrive.
In seguito, Simon ha utilizzato liberamente il suo strumento, assieme ad altri più
tradizionali, per realizzare Nonlinear Landscapes, una serie di disegni (esposti nel
2006 alla Sandra Gering Gallery di New York) emblematici della sua concezione del
computer come strumento in grado di arricchire il suo gesto e potenziare la sua
fantasia. Del resto, in un certo senso Simon si riappropria del gesto creativo già
delegato alla macchina, perchè è stato lui a scrivere il codice che elabora l’immagine:
“nel codice binario, la scrittura acquista l’enorme potere di fare ciò che dice”. [3]
Disegno collaborativo
Anche Andy Deck, attivista, artista e fondatore del pionieristico Artcontext (dal
1994), è interessato allo sviluppo di strumenti da disegno, ma da tutt’altra prospettiva.
Progetti come Gliphiti, Open Studio, DraWarD, Collabirinth e il più recente
Screening Circle (2006), tutti liberamente utilizzabili su artcontext.org, offrono una
tavolozza molto semplificata, e fanno riferimento, da un punto di vista concettuale, al
mondo delle icone dello schermo. Quello che a Deck interessa sviluppare non sono
tanto i limiti estetici del disegno mediato dal computer, ma le potenzialità
collaborative offerte dalla rete Internet. Tutti i lavori citati, prima ancora di essere
degli strumenti di disegno open-source, sono degli immensi archivi che ci permettono
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di accedere ai contributi offerti dagli altri visitatori e, se vogliamo, di modificarli. Il
contenuto non è preconfezionato: la sua qualità e il suo tenore dipende dalla
partecipazione attiva dei visitatori. A partire da questa struttura di base, Deck
organizza poi questi contenuti in forme sempre diverse. Collabirinth, ad esempio, ci
permette di disegnare delle icone, che possiamo salvare sul nostro computer a nostro
uso e consumo e allo stesso tempo condividere con il sistema, che le riposiziona in
una sorta di labirinto 3D liberamente esplorabile; Screening Circle, invece, fa
riferimento alla tradizione del “quilting circle”, consistente nella realizzazione
collettiva di una coperta sulla base di un modulo quadrato: una pratica che funzionava
come mezzo di aggregazione di comunità geograficamente disperse. Internet come le
praterie americane di fine Ottocento: come allora, il valore non sta nel singolo
contributo, ma nell’insieme e nel processo creativo che lo produce.
Un concetto simile è stato sviluppato dall’italiana Helga Franza con
Drawingblog.net. Anche in questo caso, un semplice programma di disegno a mano
libera diventa l’occasione per dare vita a una “mappa” in continua crescita di
contributi, un immenso “cadavre esquis” che si sviluppa in ogni direzione. La base
della struttura è fornita, ovviamente, dai disegni dell’artista, lei stessa disegnatrice
impenitente che privilegia il segno sporco e incerto reso possibile dal mouse, di cui sa
sfruttare come pochi le potenzialità espressive. Paradossalmente, con Helga Franza
sembriamo tornare allo stereotipo da cui siamo partiti: il disegno come pratica
personale, intima, idiosincratica, altamente espressiva; ma al contempo,
Drawingblog.net rivela la volontà di condividere quel gesto, di renderlo pubblico e
praticabile da tutti. A dimostrazione del fatto che tutto quanto abbiamo detto non mira
a distruggere una tradizione, ma a renderla più ricca.
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Note:
[1] La frase citata è il sottotitolo di Net.Art Generator, un progetto dell’artista
tedesca Cornelia Sollfrank che permette di automatizzare la creazione di
immagini e di opere di net.art. Il progetto è reperibile all’indirizzo
http://www.obn.org/generator/
[2] Entrambe le citazioni sono reperibili all’indirizzo
http://noll.uscannenberg.org/ComputerArt.htm
[3] Entrambe le citazioni provengono da John F. Simon Jr., Mobility Agents. A
computational sketchbook, Printed Matters – Whitney Museum, New York
2005.