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BILANCIO E PROSPETTIVE SULLA NARRATIVA DI
IGNAZIO SILONE
(A dieci anni dalla morte)
...nel 1930, rifugiatomi ammalato in un villaggio di montagna della
Svizzera, credevo di non aver più molto da vivere e allora mi misi a
scrivere un racconto al quale posi il nome di Fontamara. Mi fabbricai
da me un villaggio, col materiale degli amari ricordi e
dell'immaginazione, ed io stesso cominciai a viverci dentro. Ne
risultò un racconto abbastanza semplice, anzi con delle pagine
francamente rozze, ma per l'intensa nostalgia e per l'amore che
l'animava, commosse lettori di vari paesi in misura per me inattesa.
Uscita di sicurezza
Breve passo logorato davvero dalle citazioni e che tuttavia vogliamo
riproporre all'attenzione dei lettori perché introduce, in modo fin troppo
limpido, alla storia tormentata eppur affascinante di Silone scrittore. Ma
cerchiamo di precisar meglio il momento di questo esordio.
Nel 1930 Ignazio Silone, già in piena crisi col PCI, colpito da una
forma acuta di tisi, aveva chiesto di essere esonerato da ogni impegno
di politica attiva e, lasciata Locarno per Davos, un paesino di montagna
appunto, si accinse a scrivere il suo primo e più fortunato romanzo,
come sospinto da una urgenza insopprimibile di ricongiungimento ideale
con la sua terra natia, in trepida attesa della morte.
Per meglio comprendere la natura di questa "vocazione" letteraria,
sarà opportuno riaccennare, sia pure di sfuggita, al tema del "racconto."
Com'è noto, la storia è ambientata in un piccolo borgo di collina, nella
Marsica, non molto distante dalla piana del Fucino. Gli "strani fatti"
narrati, collocabili nel 1929, traggono lo spunto da una improvvisa
sollevazione popolare contro il podestà del capoluogo, per rivendicare
i propri diritti sull'acqua d'un torrentello che la piccola comunità
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utilizza da sempre nella irrigazione dei terreni che coltiva per
sopravvivere. Sullo sfondo, però, si delineano delle questioni molto più
complesse e intricate, che riguardano la condizione in sé della plebe
meridionale e l'assegnazione in affitto delle ricche terre del Fucino,
divenuto feudo del principe Torlonia dopo l'ultimo prosciugamento del
lago omonimo. Le vicende si concludono con un vero e proprio
tentativo di rivolta dei fontamaresi, brutalmente punito da squadre
fasciste armate di tutto punto, e con la morte di Berardo Viola, un forte
bracciante sempre incline a farsi giustizia da sé e che, alla fine,
s'innalza a simbolo di riscatto di tutti gli oppressi.
Il racconto dei fatti, affidato a tre scampati dalla distruzione del
borgo, ha un respiro indubbiamente corale e riesce a ricreare fedelmente
il clima opprimente del regime al potere. Pubblicato nel 1933, a Zurigo,
in tedesco e subito dopo a Parigi, in italiano, divenne ben presto quel
che si dice un best-seller mondiale se è vero che, tra il 1934 e il 1935,
fu tradotto in oltre venti lingue d'Europa e d'America. A spiegare tanto
successo si è talvolta ricorso, in Italia, alle ragioni ideologiche di cui
pure è fortemente strutturato il romanzo (l'antifascismo dell'autore
esule); ma, a ben riflettere, nulla è più pretestuosamente acrilico di un
simile argomentare, visto che il successo è andato ben oltre la caduta
del fascismo. E continua tuttora.
In fondo, le ragioni vere della fortuna di Fontamara sono da
ravvisare nella sua originalità, tematica e stilistica, che la critica
straniera seppe mettere subito in piena evidenza: dall'austriaco Jacob
Wassermann al tedesco Bernard von Brentano, all'inglese Graham
Greene, alla danese Ellen Horup, all'ungherese Jozsef Nadass, alla
olandese Augusta De Wit e a molti altri critici e scrittori, tutti
espressero giudizi lusinghieri, dettati da motivazioni puramente letterarie
e non da simpatie politiche.
Controversa, invece, l'accoglienza riservata al romanzo nel
dopoguerra dalla critica italiana, sia per l'edizione improvvisata del
1947 (Faro, Roma), avvenuta ad insaputa dell'autore, sia per quella
riveduta del 1949 (Mondadori, Milano). Cominciò con Natalino
Sapegno, infatti, una non fitta eppur pesante serie di giudizi negativi,
espressi con notazioni tanto fugaci quanto pervicacemente stroncatone:
Emilio Cecchi, Pietro Pancrazi, Luigi Russo, Gino Raya, Giosuè
Bonfanti ebbero a parlare di "livore politico," di "inesperienza
letteraria," di impianto "artigianale," di fama carpita all'estero "per
ragioni estrance all'arte e alla letteratura."
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Più numerosi, per la verità, anche da noi, e più particolareggiati, i
giudizi favorevoli, che vennero da Francesco Flora, Giorgio Petrocchi,
Goffredo Bellonci, Geno Pampaloni, Enrico Falqui, Bonaventura Tecchi,
Claudio Varese, Giorgio Bàrberi Squarotti, Valerio Volpini, Ferdinando
Virdia, fino ai più recenti interventi di Mario Mariani, Carmelo Alberti,
Eugenio Ragni, Giuseppe Farinelli. Questi ed altri studiosi hanno
esaltato il romanzo per la sua "fantasia ricca di umana sofferenza," per
la sua arte "simbolica ed allusiva" pur nello stile antiletterario, per
l'inquietudine che vi traspare di una "ricerca di fedi politiche e di
amarezza di disinganni," come "documento di una condizione umana"
e di "una realtà sociale," come "un esempio di narrativa di dimensioni
universali."
Alla stessa sorte andranno incontro, più o meno, tutti gli altri
romanzi di Silone.
Ma, prima di passare al secondo romanzo, occorre fare un rapido
cenno ad un'opera trascurata solitamente dalla critica, anche perché
l'autore si rifutò di ripubblicarla al suo rientro in Italia: Un viaggio a
Parigi, una raccolta di sei racconti ironici scritti nel 1934 e apparsi
l'anno dopo a Zurigo, in tedesco. Il volume ebbe una discreta fortuna,
con traduzione in cinque lingue, ma fu presto dimenticato per il
sopraggiungere di Pane e vino (1936). Va ricordato tuttavia che, dei sei
racconti (Letizia, Aristotile, La volpe, Panerone, Simplicio, Un viaggio
a Parigi), uno almeno sarà utilizzato come spunto per il romanzo La
volpe e le camelie (1960) e un altro, Simplicio, sarà rielaborato più tardi
e vedrà la luce, col titolo Vita e morte di un uomo semplice, su "Oggi
e Domani" (n. 6, giugno 1974).
Ma è doveroso ancora rilevare che recentemente una giovane
studiosa siciliana, Gisella Padovani, ha dedicato un ampio capitolo di
una sua raccolta di saggi siloniani (Letteratura e socialismo: Catania, A.
Marino Editore, 1982), all'ultimo dei sei racconti, quello che presta il
titolo all'intera raccolta, dimostrando con argomentazioni inoppugnabili
che esso fu scritto nel 1929 e che pertanto precede almeno di un anno
la prima stesura di Fontamara. Il racconto ha a protagonista un giovane
contadino fontamarese, Beniamino, che si reca a Roma in cerca di
lavoro e, dopo varie disavventure, tenta di emigrare clandestinamente
in Francia, ma è costretto a tornarsene in paese e a riprendere la sua
vita di stenti. Attorno a lui compaiono molti personaggi che si ritrovano
in Fontamara (Cannarozzo, Michele Zompa, Ponzio Pilato, ecc.), ma —
osserva bene la Padovani — tutti come "inchiodati nei parametri di una
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condizione zoologica," mentre nel romanzo attingono una loro "dignità
umana assurgendo a protagonisti della Storia."
Se con Viaggio a Parigi abbiamo una sorta di preistoria della
narrativa di Silone, tale da consentirci anche ti spiegare il necessario
rodaggio per raggiungere la vetta di Fontanara, con Pane e vino
abbiamo l'ideale prosecuzione del suo discorsorivolto al "sociale" non
meno che ad una più consapevole scoperta delproprio mondo.
Scritto nel 1935-36 a Zurigo, dove Silone s era trasferito nel 1931,
Pane e vino nasce da una perfetta fusione li dati realistici e dati
immaginari, sulla falsariga dell'esperienza visuta dall'autore ed alla
luce di suoi sogni utopistici. Vi si narrano le vicende di Pietro Spina,
un comunista dissidente e perciò isolato, che rientra clandestinamente
in Italia dall'esilio allo scopo di far sollevare icontadini della Marsica
contro la dittatura fascista; ma i cafoni non hanno ancora una coscienza
politica, anche perchè la presenza di quello che :i proclama Partito della
rivoluzione proletaria pecca d'indifferenza o di astrattezza nei riguardi
dei problemi concreti del paese. Non gli restapertanto che arrendersi
alla dura realtà e rifugiarsi sulle montagne, per sfuggire alle ricerche
della polizia che dopo tanto è riuscita a metterti sulle sue tracce.
Apparso nel 1936, a Zurigo, in traduzione tedesca, anche questo
romanzo ebbe subito un successo clamoroso, ti pubblico e di critica,
specialmente negli Stati Uniti: nel giro di qualche anno, fu tradotto in
una ventina di lingue riscuotendo il consenso, pur tra qualche riserva,
di illustri studiosi e critici quali Th. Mann, R.J.Humm, J.-P. Samson,
E. Muir, Ph. Rahy, A. Kazin, M. Vaussard, I. Gonzales Lanuza, S.
Brodzki. Al contrario, in Italia, apparso solo nel 1955 dopo un'attenta
rielaborazione col titolo Vino e pane, ebbe scarti consensi: ricordiamo,
per tutti, il Bocelli, al quale il romanzo parve contrassegnato da una
valenza umana che trascende gli steccati ideologici; e G. B. Angioletti
che, pur giudicandone lo stile alquanto frettoloso e antiquato, finì per
riconoscere che Silone era uno "scrittore autentico."
Strettamente collegato a Pane e vino è il tezo romanzo dell'esilio,
Il seme sotto la neve', scritto anch'esso a Zurigo, nel 1939-40, e
pubblicato l'anno seguente in traduzione tedesct, riprende la narrazione
delle peripezie di Pietro Spina dal punto in cui si erano interrotte nel
precedente romanzo. Accade infatti con Pietre Spina, creduto da tutti
divorato dai lupi sulle montagne di Pietrasecca insieme a Cristina, si era
rifugiato in un paesino del Fucino e poi in casa della nonna, donna
Maria Vincenza. Rifiutatosi, però, di firmare una petizione di grazia,
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egli è costretto di nuovo a fuggire e ripara dapprima presso un vecchio
amico di famiglia, Simone la faina, poi nel vicino paese di Acquaviva.
Travestito da prete col nome di don Paolo Spada, in cerca di riposo
perchè malato di esaurimento nervoso, egli si azzarda a riprendere
contatto con vecchie conoscenze della zona, contadini ancora provvisti
di qualche velleità libertaria. Ma le cose si complicano e precipitano
quando Infante, un sordomuto conosciuto a Pietrasecca, uccide il padre
e Spina si autoaccusa del delitto, per ritirarsi dalla scena del mondo che
gli appare, ormai, non migliore di una prigione.
Uscito mentre infuriava la seconda guerra mondiale, Il seme sotto la
neve non ebbe la stessa fortuna dei romanzi precedenti: al termine del
conflitto, contava appena una decina di traduzioni. L'edizione
americana, comunque, ebbe vasta risonanza tanto che la Censura
militare elvetica, preoccupata di eventuali rappresaglie dei regimi
nazifascisti, impose numerosi tagli all'edizione zurighese. I critici che
si occuparono del libro (Paul Elliot, John Cournos, Jean-Paul Samson,
Berta Wicken, Enrique Espinoza, David Paul ed altri) ne furono
entusiasti al punto che qualcuno lo definì "il libro dell'anno." Citiamo
per tutti il giudizio di Lewis Gannet che, in un giornale autorevole come
"The New York Herald Tribune," presentò Silone come "il più grande
scrittore italiano vivente."
Quanto alla critica italiana, furono pochi gli interventi, tutti
collocabili nel decennio 1945-55: Guido Piovene, Goffredo Bellonci,
Francesco Jovine, Geno Pampaloni, Paolo Milano, sostanzialmente
favorevoli, disposti a riconoscere nel romanzo, pur nell'ambito di una
struttura "quasi ottocentesca," una problematica viva ed attuale,
d'interesse sociale-politico-religioso. Di parere contrario fu Nello Aiello
che, in un numero speciale de "La Fiera Letteraria" curato da Guglielmo
Petroni (Roma, 11 aprile 1954), ebbe a definirlo "un libro mancato, di
lettura ardua e di frammentario interesse, anche se, a suo modo,
testimone di uno stato d'animo reale e sofferto."
Con Il seme sotto la neve si chiude quello che potremmo chiamare
il primo momento della narrativa siloniana. Segue un decennio di nuovi
impegni politici nelle file del Partito Socialista Italiano di Unità
Proletaria e, dopo la scissione di Palazzo Barberini (1947), in quelle del
Partito Socialista Unitario, equidistante da Nenni e Saragat; poi, allo
scioglimento di quest'ultimo per difficoltà organizzative (1949), Silone
decide di lasciare definitivamente la politica militante e di riprendere la
sua attività di scrittore, per così dire, a tempo pieno. Nel decennio
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successivo, infatti, egli scrive e pubblica altri tre romanzi, che da un
lato si possono riallacciare al mondo della "trilogia dell'esilio," dall'altro
se ne distaccano e avviano un nuovo discorso sulla condizione
dell'uomo e sugli sbocchi del suo destino.
Questo secondo momento della narrativa siloniana si apre con Una
manciata di more. Scritto nel 1950-51 e apparso nel 1952, parve subito
il libro meno adatto a far sopire le polemiche già sorte sul "caso
Silone," soprattutto a causa delle questioni politiche sollevate col
racconto autobiografico Uscita di sicurezza (1949) e degli strascichi
velenosi lasciati, per vicende vecchie e nuove, nel PCI (si ricordi il
durissimo attacco di Togliatti, Contributo alla psicologia d'un
rinnegato, "L'Unità," Roma, 6 gennaio 1950). Il romanzo ha a
protagonista ancora un intellettuale di sinistra in rotta col suo partito,
l'ing. Rocco De Donatis, che ha conosciuto il carcere fascista, è stato
in esilio, ha partecipato alla Resistenza. Tornato nella Marsica, la sua
terra d'origine, egli si convince che il Partito si è trasformato in una
caserma, in una questura, in un apparato puramente burocratico, e
decide di abbandonarlo, esponendosi anche agli insulti dei propri
compagni. Lo scontro si fa più aspro quando egli scende a difesa dei
contadini più poveri nella occupazione delle terre espropriate. In
quell'occasione ricompare la tromba della Lega, tenuta nascosta durante
il fascismo, e il vecchio Lazzaro fa sentire nuovamente il suo richiamo,
pronto a nasconderla un'altra volta, per non suonarla a favore dei nuovi
padroni. Nella intricata vicenda politico-sociale s'inserisce, come al
solito, anche una delicata e tormentata storia d'amore, tra Rocco e
Stella, una ragazza ebrea venuta da Vienna col padre per sfuggire alle
persecuzioni razziali dei nazisti e poi implicata dal suo stesso Partito nel
processo inquisitorio contro Rocco.
Una manciata di more, essendo il primo romanzo composto e
pubblicato direttamente in Italia, è importante nella storia dei rapporti
tra lo scrittore e la nostra critica, come già accennato. Durissime
stroncature vennero, ovviamente, da alcuni studiosi iscritti o vicini al
PCI, quali ed es. Carlo Salinari e Giuseppe Petronio, ma anche dalla
stampa della destra più o meno reazionaria, come ad es. quella
rappresentata da Indro Montanelli. Un giudizio fortemente limitativo
espresse anche un critico severo come Emilio Cecchi, ch'era stato
sempre chiuso nel suo ideale di una letteratura tra classicistica e
calligrafica. Ma non mancarono giudizi ampiamente positivi, da parte
di studiosi e scrittori più liberi da schemi ideologico-letterari troppo
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rigidi: ad esempio, Eugenio Montale, Giancarlo Vigorelli, Nicola
Chiaromonte, Paolo Milano, Enrico Falqui, Guglielmo Petroni.
Il romanzo fu tradotto in dieci lingue e parzialmente riprodotto o
segnalato sui giornali e periodici più letti della stampa mondiale. La
critica straniera, come al solito, fu molto più equilibrata, nel suo
generale consenso: André Rousseau, Marcel Brion, Wolfgang Paul,
Richard Schmid, Karl Korn, Leopold Hoffmann, Angus Wilson, Richard
Church e tanti altri s'impegnarono in analisi contenutistiche e formali
di grande respiro, elogiando variamente il talento del Silone scrittore e
la sofferta testimonianza dell'uomo.
Il secondo romanzo del periodo in esame, scritto e pubblicato nel
1956, s'intitola Il segreto di Luca ed ha per tema una storia abbastanza
singolare: quella di Luca Sabatini, un pover uomo accusato di un
omicidio non commesso e graziato dopo quarant'anni di carcere. A
fargli svelare il mistero sarà Andrea Cipriani che, dopo affannose
ricerche, riesce a sapere dall'interessato che la sera in cui avvenne il
delitto, egli si era incontrato segretamente con Ortensia, moglie di un
possidente del paese, dalla quale aveva avuto la prova d'essere riamato.
Durante il processo egli si sarebbe potuto difendere accennando a questi
particolari, ma non volle farlo perché convinto che nessuno avrebbe
compreso il suo "sentimento grande e puro" e che, a rivelarne il segreto,
avrebbe certamente intaccato il buon nome della donna amata.
Il romanzo colse un po' di sorpresa certa critica italiana che non
faceva troppo affidamento sulle capacità inventive e narrative di Silone.
Messo quasi ai margini della storia l'impegno politico del "detective"
privato Cipriani, anche lui già perseguitato dal fascismo e persona
influente d'un partito di sinistra, il libro parve una svolta radicale
nell'itinerario artistico di Silone. Furono in molti a gridare come al
miracolo, anche tra i lettori più fedeli: Giancarlo Vigorelli, Ferdinando
Virdia, Giuseppe Ravegnani, Giacinto Spagnoletti, Leone Piccioni, Geno
Pampaloni ed altri ancora ebbero parole di grande ammirazione,
sottolineando in genere il distacco dai racconti cosidetti "sociali"
dell'esilio.
Anche all'estero, naturalmente, il libro ebbe un largo successo: fu
tradotto in dieci paesi e ampiamente citato sulla stampa periodica di
numerosi altri. Se ne occuparono molti studiosi d'Europa e d'America,
tra cui Maurice Nadeau, René Lalou, Marc Bernard, Stephen Spender,
Gustave Herling, Marc Slonim, Irving Howe, tutti più o meno convinti
d'aver letto uno dei più bei romanzi degli ultimi tempi.
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Ultimo dei tre romanzi di dopoguerra fu La volpe e le camelie,
scritto nel 1959 e pubblicato nel 1960. Da notare che è l'unico romanzo
di Silone non ambientato nella Marsica, anche se ispirato al consueto
motivo della cospirazione politica. Si ritorna, in effetti, ai tempi ed
all'atmosfera dell'esilio. La vicenda si svolge in Svizzera, nel Canton
Ticino, negli anni '30: una giovane spia fascista, certo ragionier Cefalù,
ingannando la buona fede di Silvia, di cui finge d'essere innnamorato,
le ruba in casa opuscoli e documenti riguardanti un gruppo di esuli
antifascisti; ma, alla fine, preso dal rimorso, si uccide, meritandosi così
la pietà di Daniele, padre della ragazza, il quale non era affatto facile
a certe tenerezze.
L'uscita del romanzo non confermò, in Italia, la vastità dei consensi
avuti per Il segreto di Luca: se ne occuparono ancora Pampaloni,
Virdia, Piccioni, Ravegnani, Bocelli, Camerino, Raimondo ed altri,
alternando positivi apprezzamenti a gravi riserve. Ben diversa, come al
solito, l'accoglienza avuta all'estero, specialmente in Inghilterra e in
America. Le traduzioni, in verità, questa volta non furono numerose
(appena sei), ma l'interesse non venne meno tra gli abituali lettori e
ammiratori di Silone, qualcuno dei quali giunse a ritenerlo meritevole
del premio Nobel che quell'anno andò a Quasimodo. Se si prescinde dal
giudizio negativo di Dominique Fernandez, tutti gli altri critici stranieri
espressero guidizi di totale consenso sul lavoro complessivo svolto da
Silone dal primo all'ultimo romanzo. Segnaliamo qualche nome:
Thomas Bergin, Friedrich Torberg, Irving Howe, Alma Marani, Isabel
Quigley, Francine Virduzzo.
Con La volpe e le camelie si chiudeva la seconda fase della
esperienza narrativa di Silone, coincidente con gli anni '50, a meno che
non vi si vogliano comprendere come opere narrative anche Uscita di
sicurezza (1965) e L'avventura d'un povero cristiano (1968). A tale
proposito, non v'è dubbio che alcune pagine di Uscita di sicurezza,
risalenti al 1949 (ad es. Visita al carcere. La chioma di Giuditta,
Polikusc'ka, La pena del ritorno, Incontro con un strano prete, e in
gran parte quelle stesse che prestano il titolo al libro), così come le
pagine introduttive de V avventura, parzialmente già edite in precedenza
(Inizio di una ricerca, Sulle tracce di Celestino, L'eredità cristiana,
Quel che rimane), pur essendo nate come racconti dal vero, siano da
considerarsi, narrativamente, tra le cose più belle scritte da Silone. Ma
non c'è neppure dubbio che, pur nella quasi coralità dei consensi
ottenuti, le due opere abbiano complessivamente richiamato l'attenzione
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su Silone quale dolente testimone e moralista più che su Silone scrittore
in quanto tale: una distinzione assurda, se si vuole, soprattutto per chi,
come noi, crede fermamente nella unitarietà del mondo spirituale di chi
è impegnato nella sfera dell'arte e del pensiero in genere. Del resto, si
sa pure che, negli ultimi anni, è venuta in crisi una certa nozione di
romanzo tradizionale, cui si è sostituito o affiancato un nuovo tipo di
romanzo-saggio o racconto "totale," capace di utilizzare le più varie
forme espressive in direzione di una diversa e più moderna creatività.
Non dovrebbe costare, pertanto, alcun sacrificio di ordine estetico il
ricondurre tutto Silone sull'unico piano dell'arte dello scrivere; ma, in
un paese come l'Italia, dove le teorizzazioni e le ideologie finiscono con
prevaricare nettamente sui valori e le opere in sé, la questione dei generi
letterari, nonostante la lunga lezione del Croce in proposito, è dura a
morire, talché sarà sempre difficile intendere e far intendere che scrittori
come Silone non sono affatto altro dalla letteratura, anche se fanno
un'altra letteratura.
Questa, a ben pensarci, potrebbe essere la più felice conclusione sul
"caso" che stiamo trattando, anche e soprattutto in funzione delle
prospettive che si aprono alla critica siloniana del futuro. Senonché ci
si accorge di aver, quasi volutamente, posto ai margini del nostro
discorso quello che si potrebbe definire l'ultimo Silone: l'autore di
quello che egli stesso chiamò familiarmente il suo "romanzetto," La
speranza di suor Severina. A voler essere sottili, si potrebbe qui trovar
materia sufficiente per parlare d'un piccolo "caso" nel più grande "caso
Silone." La questioncina è ben nota: Severina esce a tre anni dalla morte
dello scrittore, a cura di Darina Silone e con prefazione di Geno
Pampaloni. L'opera, avviata nel 1977, interrotta e ripresa più volte
durante la "misteriosa" malattia che doveva essergli fatale, era rimasto
allo stato frammentario e incompiuto. Opportunamente consigliata da
amici esperti, la moglie Darina credette di render pubblicabile il tutto
sulla scorta di "appunti precisi e numerosi, sufficienti a inquadrare le
vicende in logica sequenza." In definitiva, si tratterebbe d'un lavoro a
quattro mani, come si suol dire. Ma, nella sostanza, cioè nella struttura
di fondo e nel suo messaggio essenziale, è solo e tutta opera di Silone;
anzi, si può tranquillamente affermare che essa rechi il segno e il senso
d'un testamento spirituale, al cui centro va posto quel bisogno di
riscatto umano attraverso la carità e la speranza (speranza riposta da
Severina, alter ego dello scrittore, negli uomini non meno che nella
storia e, da ultimo, in Dio) che a noi pare sia stato sempre il filo
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conduttore, tanto più profondo quanto meno ostentato, della vita e del
pensiero di Ignazio Silone, malgrado tanto suo pessimismo.
VITTORIANO ESPOSITO
Avezzano
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