Qui è possibile leggere alcune pagine del libro

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Qui è possibile leggere alcune pagine del libro
Ricardo y Carolina, di Laura Costantini e Loredana Falcone (anteprima per i lettori di LiberArti)
Prologo
“L’annuncio della sua morte mi ha colpita. Non fa notizia una signora di
ottantasette anni che muore in solitudine in uno sperduto castello del Belgio. Eppure
la morte di Carlotta di Sassonia Coburgo Gotha, ex arciduchessa d’Austria, ex
viceregina del Lombardo Veneto, ex Imperatrice del Messico, ha avuto il potere di
rompere una diga nel mio vecchio cuore stanco. E di aprire la strada a un fiume di
ricordi. Tanto più dolorosi perché dolci, bellissimi, lontani.
Me la sono sentita vicina Carlotta. Aveva soltanto un anno più di me e il dolore
per la morte dell’uomo che amava l’aveva resa, dicono, pazza. La immagino nel suo
solitario castello di Bouchout, ancora bella nonostante l’età, mentre ascolta
ossessivamente dalla tromba di un grammofono La paloma. Una vecchia, struggente
canzone per ricordare i momenti felici, la luce folgorante dei cieli del Messico, i
profumi, i colori. Carlotta era bella, talmente bella che quando Massimiliano la
presentò alla corte di Vienna ne fecero la miss di palazzo, nonostante Schönbrunn
fosse già il regno della splendida Sissi.
Col tempo diedero a Carlotta tutte le colpe. Dissero che era stato per lei che
Massimiliano d’Asburgo aveva abbandonato il rifugio sicuro del castello di
Miramare, a Trieste. Voleva metterle sui capelli biondi una corona imperiale, perché
lei era vanitosa, ambiziosa, mai contenta. Eppure io la ricordo sorridente, felice e
bellissima in quella lontana serata a Città del Messico. Al braccio del suo Max,
biondo e splendente anche lui, chinava graziosamente la testa salutando tutti noi che
affollavamo il salone delle feste del Palacio Nacional.
Sono passati sessantadue anni e io non ho neanche un disco da far girare sul
grammofono, perché nessuno pensò mai di incidere A fin de que brille el sol, la
canzone del povero Juan. Ma è tutto così nitido…
Sì, me la sento vicina Carlotta. Nella folla di dame e cavalieri che le resero
omaggio in quella tiepida sera di aprile, Carolina Crivelli, con un abito di chiffon
rosa cenere e l’aria sfrontata, non attrasse la sua attenzione. Eppure tutte e due
andavamo incontro sorridendo a un destino che non avremmo mai immaginato. A
una vita ben lontana da quella che avevamo sognato, sperato, voluto.
Oggi, 1927, a più di una vita di distanza da quella sera, in un secolo diverso da
quello che ci vide felici, la principessa più bella di Schönbrunn, Carlotta di Sassonia
Coburgo Gotha, è morta. E io, Carolina Crivelli, mentre fuori dalla mia finestra
scorre il traffico motorizzato del XX secolo, me ne sto seduta davanti a una foto resa
nebulosa dal tempo. E sto per raccontarvi una storia…”.
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Ho chiesto al cerimoniere di poter rimanere nei pressi dell’entrata del salone
delle feste, qui dove il battitore annuncia l’ingresso degli augusti ospiti. È il 10
aprile, Lunedì dell’Angelo dell’anno del Signore 1865, e io, Carolina Crivelli, ho
avuto un’inaspettata fortuna. Nonostante le difficoltà del lungo viaggio affrontato,
sono giunta a Città del Messico in tempo per partecipare all’anniversario delle Loro
Altezze Imperiali, Massimiliano e Carlotta d’Asburgo. Soltanto un anno fa Don José
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María Gutiérrez de Estrada si recò nel castello di Miramare, nella mia adorata
Italia, per consegnare a Massimiliano la corona imperiale del Messico.
Una processione di dame e cavalieri sale lo scalone e sosta nella cornice
dell’altissima porta e delle tende di velluto porpora, mentre nomi e titoli vengono
declamati ai presenti. Non è la prima volta che partecipo a un ricevimento di questo
genere. Il mio lavoro, e le fortune della mia famiglia, mi hanno condotta fino alla
corte francese di Napoleone III. Mia madre fu felice di quel viaggio a Parigi. Aveva
sperato che lo charme della nobiltà francese riuscisse dove l’aristocrazia lombarda
aveva fallito: indurmi a dimenticare la scrittura, a riporre il taccuino, a rassegnarmi
al matrimonio. La sua speranza non fu esaudita, povera madre mia, perché il
piacere tutto muliebre di indossare abiti meravigliosi, gioielli, sfoggiare complicate
acconciature non è mai riuscito ad allontanare da me il sogno che da sempre anima
il mio spirito: scrivere per un grande giornale. Il più grande di tutti, come dissi a
mio padre, costringendo il banchiere Mario Crivelli a mettere in campo tutta
l’influenza di cui gode a Milano per presentare la sua unica figlia a Edoardo
Sonzogno, editore del “Secolo”.
“Don León Calleja de Hormigas”, annuncia il battitore. “Doña Victoria
Ziania Calleja de Hormigas, Don Ricardo Alejandro Calleja de Hormigas”.
La prima cosa che mi colpisce è l’abito di Doña Victoria: frusciante taffettà
moiree rosso sangue, che contrasta pittoricamente con la pelle candida e i capelli
nerissimi, raccolti in un pesante chignon sulla nuca. Il “Corriere delle Dame”
sarebbe fiero di me. Ma la mia attenzione abbandona subito la toilette di Doña
Victoria per appuntarsi sugli occhi, azzurri e irriverenti, di Don Ricardo. Segue suo
padre e sua sorella, si guarda intorno e si pavoneggia nell’elegante frac che ne
mette in risalto la snella figura. I nostri sguardi si incontrano per un lungo istante.
So che lui si aspetta che abbassi gli occhi, come si conviene a una fanciulla della
buona società davanti a uno sconosciuto. Ma amo le sfide e da quello sguardo
capisco tutto di Don Ricardo: aristocratico, affascinante e pericoloso. Infine è lui a
distogliere lo sguardo, intercettato da altri importanti ospiti e mi appare chiaro che
gli Hormigas appartengono all’alta aristocrazia creola, quella che ha fortemente
voluto un Imperatore a Città del Messico. Fosse pure un Imperatore straniero,
imposto da un invasore che punta a mettere in ginocchio questo paese per soddisfare
i propri sogni di grandeur.
Ma grande pensée, così Napoleone III ha definito l’idea di mettere sul trono
del Messico il cadetto degli Asburgo. Una grande idea, dal suo punto di vista. E
gente come Don León Calleja de Hormigas non riesce a vedere il baratro che si apre
appena oltre i suoi interessi di casta.
“Mademoiselle, vorrei avere il piacere di presentarvi alcuni ospiti”.
A distrarmi è il conte Lassalle porgendomi il braccio. È a lui che devo l’invito
a palazzo e lo seguo pregustando lo scalpore che il mio essere donna e giornalista
saprà suscitare nell’ambiente rarefatto e retrivo di questa corte senza radici.
“Don León”, dice Lassalle conducendomi proprio verso gli Hormigas, che si
intrattengono col generale Almonte, “permettete che vi presenti mademoiselle
Carolina Crivelli, giornalista inviata dal ‘Secolo’ di Milano. A quanto pare il
neonato regno d’Italia si interessa molto al nostro Imperatore”.
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Don León si china a baciarmi la mano.
“Forse vorrebbero indietro il nostro Massimiliano. Ho sentito dire che le cose
non vanno come si aspettavano i Savoia”, mi provoca.
“Per lo meno i Savoia sono italiani”, rispondo con un sorriso. “Uno Stato
messicano, occupato da truppe francesi e con un sovrano austriaco desta non poca
perplessità in un osservatore esterno”.
“Eppure è tutto molto chiaro, señorita Crivelli”, interviene il generale
Almonte. “Gli amici francesi sono qui su nostra richiesta, e soltanto per sostenerci
nella lotta contro i ribelli juaristi. Non appena li avremo debellati…”.
“Non dovrebbe essere difficile”, lo interrompo, “se è vero che il 70% dei
messicani si è pronunciato a favore dell’Imperatore”.
“Non lo sarebbe”, ammette Don León, “se qualcuno, alle nostre frontiere
settentrionali, non li rifornisse di armi e di munizioni. Ma lasciamo da parte la
politica, señorita Crivelli. Non si addice alla serata e alla vostra bellezza. E poi non
vi ho ancora presentato i miei figli”.
Durante il rapido e pungente scambio di battute con Almonte, gli occhi di Don
Ricardo non mi hanno mai lasciata.
“Encantado”, dice, accostando le labbra alla mia mano.
Doña Victoria si limita a un cenno del capo. Non ha detto una parola, apre e
chiude il ventaglio di madreperla con aria annoiata. La accomuno alle altre donne
che affollano la sala: belle, eleganti, ingioiellate, prive di una propria opinione sul
mondo e felici di esserlo.Non le dedico altri pensieri.
Viene annunciato l’arrivo dei festeggiati e riesco a guadagnare un posto in
prima fila per assistere al passaggio dell’Imperatore Massimiliano e di sua moglie
Carlotta.
La coppia imperiale non tradisce le aspettative. Lui biondo e slanciato, con
occhi azzurri e sognanti. Lei un cammeo nel suo abito candido, uno scintillio di
diamanti al collo e tra i capelli, e il sorriso di chi ha coronato il proprio sogno. O si
illude di averlo fatto, penso mentre i regnanti prendono posto e il ricevimento può
dirsi ufficialmente iniziato. La scorta che ha accompagnato la mia carrozza da Vera
Cruz fino a Città del Messico parla chiaro: questo è un paese in guerra. Una guerra
fratricida.
Mi concedo una coppa di champagne mentre l’orchestra, in onore della
giovane sovrana, intona La paloma. Al centro della sala francesi e messicani, uniti
dai loro quarti di nobiltà, cicalano, sorridono, chiedono e concedono balli. Il
pensiero dei sigaretti che giacciono in fondo alla borsetta di velluto mi giunge a
tradimento: mi sono ripromessa di non mostrare in pubblico, e comunque non a
questo pubblico, il vizio che perfino un uomo di larghe vedute come mio padre
considera estremamente riprovevole in una donna. Ma posso approfittare di una
delle finestre aperte sulla grande corte centrale per appartarmi e accenderne uno.
Ne aspiro profondamente il tabacco profumato, ma è un piacere passeggero. Don
León si sta dirigendo verso di me. Getto il sigaretto in uno dei vasi che ornano la
sala e agito il ventaglio per scacciarne l’odore. Dubito di esserci riuscita ma, se
anche se ne accorge, Don León galantemente ignora l’incidente.
“Señorita Crivelli, posso avere l’onore del prossimo valzer?”.
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“Con piacere”.
Accetto il braccio che mi porge e lo seguo al centro della sala, mentre
cominciano a diffondersi le celebri note di Johann Strauss.
“Ho avuto l’impressione che vi stiate annoiando”, dice guidandomi con mano
sicura tra le coppie danzanti. “Certo non possiamo essere all’altezza dello sfarzo del
Vecchio Continente”.
“Volete farmi credere che vi siete scelti un Imperatore asburgico solo per
migliorare il cerimoniale di corte?”.
Un sorriso percorre le labbra sottili di Don León. Ha adottato, come molti
degli uomini presenti in sala, la moda dei baffoni asburgici, gli stessi
dell’Imperatore.
“Mi trovate divertente?”, chiedo contraccambiando l’ironia del sorriso.
“Lo confesso. Ma posso dire che la madre dei miei figli aveva il vostro stesso
spirito polemico”.
Il carnet da ballo di Victoria era denso di prenotazioni, ma questo non le
impedì di raggiungere suo fratello, intento a sorseggiare champagne e a seguire con
gli occhi la macchia chiara dell’abito di Carolina, volteggiante tra le braccia di Don
León.
“Credevo che una donna come la señorita Crivelli avrebbe scandalizzato nostro
padre”, disse Victoria prendendo anche lei una coppa di champagne.
“Probabilmente è stanco anche lui di fragili marchese. La señorita ha la sana
vitalità della borghesia. Come l’aveva nostra madre”.
Victoria lo guardò.
“È per questo che non riesci a toglierle gli occhi di dosso?”.
Ricardo sorrise e portò la sua attenzione sulla sorella.
“Mi piace la sua totale mancanza di etichetta. Quando Lassalle la presenterà
all’Imperatore non voglio perdermi la scena. Sarebbe capace di chiedergli perché non
se ne torna da dove è venuto”.
Lo sguardo di Victoria fu attirato dalle due figure sul trono, dall’altro lato
dell’enorme salone. Massimiliano si era chinato verso sua moglie che sembrava
intenta a sussurrargli qualche divertente segreto.
“Credo che si aspettassero qualcosa di meglio anche loro. I francesi li hanno
ingannati”.
“Qualcosa di meglio non lo so”, rispose Ricardo, “ma qualcosa di diverso lo
avranno quanto prima”.
Victoria gli intimò il silenzio, posandogli un dito sulle labbra.
“Perché non mi fai ballare?”.
“Non hai abbastanza cavalieri per la serata?”.
“Sono stanca di parlare francese”.
Sento gli occhi di tutti i presenti puntati su di me mentre affronto con sicurezza
i pochi passi che mi separano dal trono. Ho letto sui giornali europei della
disastrosa presentazione della señora Salas all’Imperatrice. Se anch’io gettassi le
braccia al collo di Carlotta, soddisferei la malignità con cui attendono al varco un
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mio errore? Invece la mia riverenza è impeccabile almeno quanto l’italiano con cui i
sovrani mi salutano. Anche Lassalle sembra compiaciuto mentre mi offre il braccio.
“Credete che potrei avere un’intervista dall’Imperatrice?”, chiedo. “Sarebbe
un gran colpo per il mio giornale”.
“Farò il possibile per accontentarvi, mademoiselle Crivelli. Ma sarebbe più
facile se voi vi inseriste negli ambienti giusti”.
“Più giusti di voi, conte?”, lo lusingo.
“Siete troppo buona. Ma per cominciare dovreste lasciare il lusso dell’hotel
Itúrbide e farvi ospitare da qualcuno che conta”.
“Cos’ha il mio albergo che non va?”.
“Nulla, è il migliore di Città del Messico, ma se foste ospite di una famiglia
importante potreste cogliere molte sfumature, e anche qualche pettegolezzo”.
Ci capiamo al volo io e il conte e la complicità che ci lega mi conferma nel mio
giudizio: il conte Lassalle è il solo francese capace di suscitarmi simpatia. Sorrido.
“Avete già in mente qualcuno?”.
“Non è un caso che vi abbia presentata a Don Calleja de Hormigas. È il
medico personale dell’Imperatrice. A fare la sua fortuna è stata Doña Felipa de la
Fuente, dama di compagnia di Carlotta e madre di tre bambini a dispetto di una
presunta infertilità”.
Qualcosa nel mio sguardo deve aver parlato per me. Lassalle sorride paterno.
“Non Don Ricardo”, sottolinea, “suo padre, Don León”.
“Non avevo dubbi”, mento spudoratamente prima di allontanarmi più che mai
decisa a godermi un sigaretto in santa pace. Per non correre rischi mi rifugio nel
corridoio laterale, le cui finestre danno sugli imponenti portici del Palacio Nacional
e sullo Zócalo. L’aria limpida e fredda dell’altipiano fa ondeggiare le tende e spegne
il fiammifero. Non ho bisogno di prenderne un altro.
“Obligada”, dico catturata dalle mani forti e abbronzate che difendono la
fiamma dal vento.
“È un piacere”, risponde Don Ricardo confermando la mia prima
impressione: aristocratico, affascinante, pericoloso e, aggiungo, con una voce che
stordisce. Lascio che il suo sguardo mi percorra come una lenta carezza. Il mio è più
discreto, ma altrettanto approfondito.
“A parte condividere con me il turpe vizio”, dico schiarendomi la voce, “c’è
un motivo per cui avete abbandonato vostro padre e la vostra affascinante sorella?”.
“Ho preferito lasciare campo libero al conte Lassalle che, in questo momento,
sta perorando la vostra causa”.
Diretto come un guanto di sfida.
“Ho una causa da perorare?”.
“Non siete la sola, señorita Crivelli. Da quando Carlotta ha scoperto mio
padre e le sue qualità come medico del gentil sesso, la sua influenza a corte è
cresciuta vertiginosamente. E di conseguenza le richieste di favori”.
“È vostra abitudine dare giudizi prima di conoscere le persone, Don
Ricardo?”.
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“Non vi sto giudicando, ma è un fatto che il conte Lassalle ha appena chiesto a
mio padre di ospitarvi nella nostra hacienda. Volete dirmi che ne eravate
all’oscuro?”.
“Non ricordo di essermi lamentata con il conte sull’ospitalità dell’hotel
Itúrbide, ma l’amicizia che lega Lassalle alla mia famiglia deve avergli suggerito un
eccesso di zelo. Non devo spiegarvi io che la situazione a Città del Messico è meno
tranquilla di quanto vi piaccia credere”.
Sorride, l’impudente, mentre scuote la cenere oltre l’ampio davanzale.
“Difficile incontrare guerrilleros nell’atrio del vostro albergo. E comunque
non mi sembrate bisognosa di protezione. Non è sfuggito a nessuno che siete giunta
a Città del Messico senza accompagnatore”.
Vuole mettermi in imbarazzo, ma sono abituata alla supponenza del sesso
forte.
“Credevo che li chiamaste ‘bandidos’, come tutti gli altri,enon ‘guerrilleros’”,
faccio notare per rendergli la pariglia. “Mi stupisce che un membro
dell’aristocrazia messicana riconosca ai ribelli una qualifica politica”.
“Se li ha chiamati ‘guerriglieri’ il colonnello Du Pin1, posso farlo anch’io. Ma
non sono abituato a parlare di politica con una donna”.
È sulla difensiva, adesso.
“Perché non ritenete la politica un argomento da donne o perché non vi
interessa?”, insisto.
“La politica la lascio a mio padre. Col tempo scoprirete che la mia fama di
bon vivant, amante di cavalli, donne e divertimenti è ampiamente meritata”.
Sicuro di sé. Troppo.
“Mi auguro che in Messico ci sia qualcosa di più interessante da scoprire che
non le vostre prodezze da aristocratico annoiato”.
“Touché”, riconosce con un piccolo inchino. “Un giro di valzer?”.
Il tragitto in carrozza da Città del Messico all’hacienda degli Hormigas non era
breve e ogni volta che si trovavano ad affrontarlo nel buio della notte, Ricardo
benediceva l’ostilità dei sovrani per l’austero Palacio Nacional. La loro preferenza
per la pittoresca residenza campestre di Chapultepec aveva scongiurato la possibilità
che suo padre decidesse di trasferirsi a Città del Messico per stare vicino
all’Imperatrice. Carlotta aveva deciso di avvalersi dei suoi servigi nella speranza di
dare un erede al neonato impero mettendo improvvisamente la famiglia Calleja de
Hormigas al centro dell’attenzione. Don León amava moltissimo la vita di campagna.
Le passeggiate a cavallo sui pascoli e tra le piantagioni, omaggiato dai peones,
contribuivano a illuderlo che tutto procedesse per il meglio. Ma le cose non
andavano bene come le feste a corte volevano dare a intendere. Napoleone III aveva
mandato in Messico una guarnigione di 20.000 uomini che Massimiliano si era
impegnato a pagare e mantenere per i prossimi sei anni. Ma le risorse del paese, dopo
anni di guerre e colpi di Stato, erano al lumicino e nonostante le feroci repressioni
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Il colonnello francese Charles-Louis Du Pin (1814-1868) fu a capo della “contre-guerrilla” delle
forze di occupazione in Messico fino al 1864.
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del colonnello Du Pinprima epoi del generale Galliffet, la guerriglia dei juaristi
contribuiva ad aumentare il malumore dei soldati francesi. Perfino coloro che tanto
avevano brigato per assicurare al Messico un Imperatore europeo cominciavano a
rendersi conto che della Francia non ci si poteva fidare.
“Da domani avremo un’ospite”, disse Don León interrompendo il corso dei
loro pensieri. Ricardo riportò lo sguardo all’interno della carrozza.
“Lasciatemi indovinare: la señorita Carolina Crivelli ci concederà l’onore della
sua presenza”.
Victoria si scosse dal torpore che l’ora tarda, il freddo della notte sull’altipiano
e gli scossoni della carrozza le stavano procurando.
“La giornalista italiana?”, chiese.
“Proprio lei”, confermò Don León soddisfatto. “Il conte Lassalle ha pensato
che la nostra famiglia fosse la più idonea ad assicurare il benessere della sua giovane
ospite”.
“Padre, ne state parlando come fosse un membro della famiglia imperiale.
Invece neanche una stilla di sangue blu scorre nelle sue vene”.
“La liberalità del nostro Imperatore sta facendo breccia nel conservatorismo
degli Hormigas”, commentò Ricardo, già pronto alla reazione del padre.
“La nobiltà e l’influenza a corte del conte Lassalle bastano a colmare qualsiasi
lacuna l’incantevole señorita Crivelli possa recare in sé. Non dimentico che ho due
figli da sistemare e, a questo proposito Doña Victoria, ho parlato anche di voi con il
conte”.
Victoria tacque, intuendo subito dove sarebbe andato a parare.
“Sono in molti a chiedersi come sia possibile che una donna bella e di famiglia
nobile come voi non abbia ancora contratto un matrimonio all’altezza del lignaggio
degli Hormigas. E mi offende che qualcuno a corte possa malignare che una qualche
grave colpa vi impedisca di salire degnamente all’altare”.
“Potrebbe non esserci un uomo degno di sposare vostra figlia, padre”,
intervenne Ricardo.
“Forse. Ma la situazione del nostro paese è tale da richiedere il sacrificio di
tutti. E quindi anche di Doña Victoria. Il conte Lassalle mi ha fatto chiaramente
capire che un matrimonio con un buon nome dell’aristocrazia francese servirebbe a
cementare l’amicizia con i sudditi di Napoleone III”.
“Padre, i francesi lasceranno questo paese non appena la situazione…”.
“Il nostro Imperatore ha bisogno dei francesi, e quindi ne abbiamo bisogno noi.
Ho affidato al conte Lassalle l’incarico di individuare una lista di aristocratici di
buon nome e di buon patrimonio. Una donna ha due possibilità: unire la propria vita
a un uomo e dargli dei figli oppure dedicare la propria esistenza a Nostro Signore.
Poiché Doña Victoria non ha manifestato il desiderio di prendere i voti, dichiaro
concluso il suo assurdo lutto. Alla sua età dovrebbe essere madre”.
Victoria chinò la testa e volse lo sguardo fuori della carrozza. Sapeva che quel
momento sarebbe arrivato. L’idea di un matrimonio combinato le ripugnava,
soprattutto dopo aver divorato di nascosto i romanzi delle sorelle Brontë. Così,
quando l’uomo che suo padre aveva scelto per lei era morto in un incidente di caccia
aveva colto al volo l’occasione per fingersi distrutta dal dolore e decisa a vivere nel
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Ricardo y Carolina, di Laura Costantini e Loredana Falcone (anteprima per i lettori di LiberArti)
ricordo dell’amore perduto. Una recita che aveva sostenuto con abilità da attrice
consumata, visto che Don Salmerón Arjona era morto ormai due anni prima.
Il silenzio li accompagnò fino all’hacienda. Augurarono la buonanotte a Don
León e attesero che i suoi passi fossero svaniti in cima alle scale.
“Sarà difficile avere la stessa fortuna che ci è toccata con il povero Salmerón”,
disse Ricardo prendendole le mani.
“Ci penseremo quando nostro padre avrà trovato un candidato. Hai avuto
quelle informazioni?”.
“Non è stato facile. I turni di guardia della polveriera sono più protetti
dell’Imperatore. Comunque domani li comunicherai al General, dopodiché dovremo
essere prudenti. La giornalista italiana è più perspicace di quanto ci farebbe
comodo”.
“Pettegola e ficcanaso mi sembrano termini più consoni”.
“Non temere, sorellina. Ci penserò io a distrarla”.
Lo sguardo di Victoria valse più di mille parole.
“Ricardo, abbiamo cose più importanti cui pensare. Credi che dovremo
rimandare l’operazione?”.
“Sarà El General a deciderlo. Noi ce ne staremo buoni buoni a fare i rampolli
scansafatiche di Don León a uso e consumo della señorita Carolina Crivelli”.
La mattina è radiosa e pungente e la carrozza è puntuale davanti all’albergo.
Ad attendermi c’è Don Ricardo e mi aspetto il suo sarcasmo.
“Señorita Crivelli, sono sorpreso che abbiate accettato l’invito”, dice
porgendomi la mano. La stretta è più forte del necessario e l’ironia del suo sorriso
meriterebbe un ceffone.
“Le preghiere di vostro padre mi hanno toccato il cuore”, rispondo, ma il mio
sorriso è fiacco.
“Dovete stare attenta, señorita. Don León è vedovo da troppo tempo e non so
come funzioni in Italia, ma in Messico la differenza di età tra lo sposo e la sposa è
garanzia di un matrimonio lungo e felice”.
“Don León è troppo poco liberale per avere al fianco una donna come me”.
Ricardo dà al cocchiere l’ordine di partire prima di ribattere.
“Al contrario. È ancora abbastanza giovane da saper domare le vostre bizze di
donna moderna. Da vero messicano”.
“È un sollievo scoprire che ve ne siano rimasti”, azzardo scostando dal viso la
veletta per accendere un sigaretto. “Sarà un tragitto lungo?”.
“Saremo all’hacienda in tempo per la colazione. Le nostre tenute cominciano
appena fuori Città del Messico e confinano con la villa di Chapultepec. Il nostro
Imperatore se n’è innamorato e credo che uno dei motivi sia il pensiero che lì
sorgeva il tempio dedicato a Montezuma. I lavori di ristrutturazione procedono
alacremente, spesso sotto la supervisione di Carlotta”.
“Massimiliano è famoso per il vezzo di ristrutturare e ricostruire. Il castello di
Miramare, a Trieste, non è ancora ultimato e non avete idea di quanto denaro sia
costato. Mi auguro che, alla fine di questa pagliacciata imperiale, almeno vi resti
una villa dove ospitare il vostro legittimo presidente”.
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Mi trova divertente.
“Ecco l’astiosa borghesia che lancia strali contro gli sperperi della nobiltà.
Tanto livore parrebbe nascondere una buona dose di invidia”.
Accetto la provocazione.
“E cosa dovremmo invidiarvi? Il vostro Imperatore è un simpatico e bel
giovane, ma è uno sprovveduto. Se Napoleone III dovesse lasciarlo al suo destino, e
così sarà, Chapultepec potrà diventare al massimo il suo mausoleo funebre”.
Gli occhi di Ricardo sono due azzurre pozze di scherno.
“Siete spassosa, señorita Crivelli. Sarà un piacere avervi nostra ospite, ma se
volete un consiglio non intraprendete simili discorsi con Don León. È un
conservatore convinto, se potesse fermerebbe tutto in questo istante, gonfio
d’orgoglio per le sue immense tenute e per l’ossequio timoroso dei suoi pidocchiosi
peones”.
“E voi?”.
“Io cosa?”.
“Che cosa pensate?”.
Si sistema un sigaro tra i denti e si mette comodo sui sedili di damasco della
carrozza.
“No pienso. Non si addice a un rampollo della nobiltà”.
“Don Ricardo, non ho bevuto neanche per un attimo la storiella del rampollo
tutto dedito a donne e ricevimenti. Non avete la faccia dello stupido”.
Si sottrae al mio sguardo per spostare la sua attenzione sulla strada polverosa.
Stiamo uscendo dalla città e pianure coperte da campi e pascoli si stendono a
perdita d’occhio, interrotte a tratti da capanne e recinti.
“Essere troppo intelligenti, señorita Crivelli, può essere scomodo”, è la sua
risposta rivolta al paesaggio.
Giungiamo all’hacienda accolti dai gesti di saluto dei peones. Intorno
all’edificio candido, in stile moresco adorno di rampicanti, le tenute si stendono a
perdita d’occhio, dominate dalla cima innevata del vulcano Popocatépetl. Don León
ci aspetta sulla soglia in un ricco costume castigliano, un sigaro tra le labbra e i
baffoni opportunamente impomatati. È lui a guidarmi alla fresca penombra del
patio. Il sole, nonostante l’altitudine di queste terre, è ormai a picco.
“Attendevamo solo voi”, dice indicando la tavola imbandita e adorna di
preziosi pizzi e stoviglie. Noto subito che è apparecchiata per tre.
“Doña Victoria non ci farà compagnia?”, chiedo.
“Tutte le mattine mia figlia va a fare una lunga cavalcata. Una pessima
abitudine che solo un marito, spero, riuscirà a toglierle”, risponde scostandomi la
sedia.
“Massimiliano invece condivide questa passione della moglie”, precisa
Ricardo raggiungendoci. “Anche l’Imperatrice Carlotta tutti i giorni si concede una
lunga cavalcata”.
“E non dovrebbe”, chiude il discorso Don León facendo cenno alla cameriera.
“L’equitazione non si addice alla delicatezza del corpo femminile”.
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Ricardo y Carolina, di Laura Costantini e Loredana Falcone (anteprima per i lettori di LiberArti)
Avrei molto da dire in proposito, ma avrò tempo per manifestare i miei
pensieri.
Victoria intanto spronava il cavallo. Le dispiaceva sottoporlo a quella fatica,
ma doveva far presto. La sua meta era un piccolo villaggio di baracche circondato da
querce centenarie nella zona più impervia e meno frequentata delle tenute degli
Hormigas. Appena la meta fu in vista, macchia chiara contro la vegetazione in fondo
alla strada polverosa, portò il cavallo al passo, godendo della sensazione di libertà
che le dava essere lì, in sella al suo stallone, vestita come una qualsiasi popolana.
L’aria era fresca, nonostante la vampa del sole, e la cavalcata le aveva allentato lo
chignon, lasciando sfuggire da sotto il cappello lunghissime ciocche scure.
Il peón che sembrava sonnecchiare appoggiato alla ruota di un carretto emerse
da sotto il sombrero di paglia rivelando due lucenti cartucciere incrociate sul petto.
Un fischio modulato e dalle capanne ne uscirono altri a rivolgerle gesti di saluto. Era
una procedura che conosceva e che si ripeteva ogni volta rinnovando in lei
l’entusiasmo per essere parte di un gruppo, di un’idea. Dalla baracca centrale,
pantaloni dell’esercito americano e candida camicia spagnola, uscì quello che tra i
seguaci di Benito Juarez era noto come “El General Rubio”2. Si diresse verso di lei
sorridendo e la afferrò per la vita, aiutandola a smontare. A Victoria piaceva quel
tocco di galanteria.
“Salve Vicky, entra”, le disse precedendola alla capanna e permettendole di
contemplare inosservata i folti capelli biondi che ricadevano sul colletto della
camicia. “Posso offrirti qualcosa?”.
“Solo dell’acqua. La polvere della pista mi ha seccato la gola”.
L’ufficiale prese una caraffa e un cesto di frutta e li mise sul tavolo. Aveva il
viso abbronzato e ruvido di barba, tranne sulla linea della mascella sinistra dove una
spessa cicatrice spiccava chiara perdendosi oltre l’orecchio, tra i capelli.
“Ho detto mille volte a tuo fratello che non dovrebbe esporti a un rischio
simile”.
“Mio fratello può darmi solo consigli Clair, lo sai”.
“So che sei cocciuta come un mulo. Assaggia queste mele, sono ottime”.
“Le conosco. Vengono dai nostri frutteti”, rispose accettando l’invito.
“Scommetto che anche oggi per venire qui non hai mangiato”.
“Lo confesso”, rispose la ragazza addentando il frutto con gusto. “Mio padre
mi ucciderebbe se mi vedesse mangiare così”.
“Tuo padre ti ucciderebbe se ti sapesse qui. Queste cavalcate mattutine
finiranno con l’insospettirlo”.
“Sono il mezzo migliore per trasmetterti le informazioni, lo sappiamo tutti e
due”. Gettò il torsolo e si pulì la bocca sulla manica della camicia. “Non vuoi sapere
cosa ho da dirti?”.
“Sono tutto orecchi”.
2
“Il Generale Biondo”.
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Ricardo y Carolina, di Laura Costantini e Loredana Falcone (anteprima per i lettori di LiberArti)
Victoria ripeté a memoria i turni di guardia che Ricardo si era procurato mentre
El General ne prendeva nota. Non portava mai niente di scritto durante quelle
missioni da corriere.
“Bene, ora sarà più facile attaccare la polveriera”.
“Quando agirai?”.
“Il prima possibile. L’ordine è evitare che rifornimenti di armi arrivino nelle
zone di Sinaloa e Chihuahua. È lì che i nostri hanno maggiori possibilità di
successo”.
Victoria si alzò, subito imitata da Clair.
“Vai già via?”, le chiese. Quegli occhi chiari, di un grigio morbido, non
mancavano mai di farle provare un piacevole brivido. Si accorse di essere arrossita e
si dedicò a indossare guanti e cappello.
“Devo. A proposito, per un po’ di giorni non potrò venire. Abbiamo un’ospite
all’hacienda. È un’amica del conte Lassalle, un’italiana”.
“E che ci fa in Messico?”.
“È una giornalista. È qui per Massimiliano e Carlotta. Pare che in Europa siano
curiosi di sapere come se la cavano gli Asburgo in terra messicana”.
“Gli italiani dovrebbero vedere gli Asburgo come fumo agli occhi. Loro se ne
sono liberati solo da qualche anno”.
“La señorita Crivelli si fa un dovere di apparire molto informata sulla politica
internazionale”.
“Non ti è simpatica”.
“È una ficcanaso. Ed è amica dei francesi”.
“Ci penserà tuo fratello a farle apprezzare i messicani”.
“Purché non dimentichi ciò che conta veramente”.
“Dovresti avere più fiducia in Ricardo”, disse Clair togliendole un bruscolo di
mela dalla guancia. “Mi dispiacerà non ricevere il mio corriere preferito. Anche la
mia frutta sentirà la tua mancanza”.
“Cuidado a los francéses3”, mormorò Victoria abbassando gli occhi.
“Mi riguarderò”.
La accompagnò fuori, nella luce accecante.
“Saluta Ricardo”.
“Sarà fatto, General”.
Si portò una mano alla fronte nel saluto militare. Lui sorrise e le restituì il
gesto.
3
“Fa’ attenzione ai francesi”.
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