Bellezza e sacralità del lavoro nelle opere di Jean Francois Millet

Transcript

Bellezza e sacralità del lavoro nelle opere di Jean Francois Millet
PERSONAGGI
7
29 agosto
Nelle villas per incontrare Cristo
La storia di padre Charly, nelle periferie di Buenos Aires
Lo potete vedere girare su un furgoncino, con i megafoni sul tetto, per le
strade in terra battuta delle villas e fare
un bollettino parlato d’informazione, una specie di giornale radio. «Me siento
un portero», dice scherzando. Infatti, la
giornata di ieri l’ha passata muovendosi da una parte all’altra, come un portiere di calcio, per cercare di incontrare
tutti i giornalisti che desideravano intervistarlo appena lo hanno visto arrivare al Meeting. Ha trentatrè anni ma
lo sguardo è quello di un ragazzo. Padre Carlos Olivero, meglio noto come
padre Charly, arriva direttamente dalle
periferie, le villas miserias di Buenos
Aires. E in quei luoghi «non si può essere prete se non si preme a fondo l’acceleratore», come dice lui.
La sua storia, insieme a quella di
molti altri preti è stata raccontata dalla
giornalista Silvina Premat che ieri sera
all’eni Caffè Letterario ha presentato il
suo libro Preti dalla fine del mondo.
«Ho sempre pensato che avrei fatto
il medico di frontiera, avevo un’inclinazione alla totalità, a fare le cose fino
alla fine», inizia a raccontare padre
Charly. Dallo studio della medicina si
aspettava proprio questo. La sua storia
inizia con un viaggio che l’ha portato
da tutt’altra parte rispetto a quello che
si aspettava. Il giorno della partenza per
una vacanza, operano d’urgenza il suo
padrino. «Io ero come un figlio per lui
e ho deciso di rimanere». I suoi amici
partono, ma a lui arriva dal fratello della sua fidanzata una proposta completamente diversa: un invito ad andare in
una missione. «Da bambino ero molto
religioso, ma poi mi ero allontanato
dalla fede», continua padre Charly.
L’arrivo in quella missione diventa
l’occasione, invece, per riscoprirla: incontra un gruppo di alcolizzati, musicisti che avevano perso tutto naufragando nell’alcool. «In quel periodo, avevo
circa vent’anni, anch’io bevevo molto.
Padre Carlos Olivero durante la messa in una villas di Buenos Aires
Cinque giorni a settimana ero al bar
con gli amici». L’incontro con quei disperati gli riaccende il desiderio di pregare e, non appena torna a casa, ancora
commosso dall’esperienza in quella
missione, si ritrova nella chiesa dove
andava a messa da bambino. «In quel
«In questi luoghi
non si può essere prete
se non si preme
a fondo l’acceleratore»
momento, quando sono entrato, ho avuto una certezza: sentito dentro di me
un senso di felicità compiuta che in
qualche modo mi ha fatto capire che ero già sacerdote, che quella era la mia
identità e che tutte le idee di fare il medico di frontiera erano una mia invenzione per non guardarmi fino in fondo».
L’intuizione gli verrà confermata
dall’incontro con la gente che vive per
strada, Quando decide di entrare in seminario ha 21 anni. Ma la realtà che incontra è molto più quieta, come la definisce lui, e a metà del suo percorso vive
una profonda crisi. «O incontravo qualcosa che fosse all’altezza di quell’esperienza inziale o avrei dovuto lasciare».
Dal seminario decisero di mandarlo a
vivere nelle villas, sapendo che quello
era il suo desiderio. Era il 2002 quando
incontrò padre Josè Maria di Paola,
detto “Pepe”, che gli chiese di accompagnare i ragazzi tossicodipendenti che
facevano un percorso di recupero. Ini-
«Bisogna stare
con i ragazzi
e testimoniare
il senso della vita»
Mariella Carlotti,
curatrice della mostra
Bellezza e sacralità del lavoro
nelle opere di Jean Francois Millet
La mostra curata da Mariella Carlotti è uno spazio di riflessione
sull’umanità alle prese con il senso caritativo e di gratuità dell’opera
La mostra “Un dramma avvolto di
splendori. Uomini e donne al lavoro
nella pittura di Jean Francois Millet” è
uno degli spazi più belli del Meeting.
A Mariella Carlotti, curatrice della mostra, abbiamo chiesto quali sono le origini e il perché di questa finestra sulle
opere dell’artista francese.
«La mostra è partita da un dato: quest’anno ricorrono i 200 anni dalla nascita di Millet, un pittore caro al popolo del Meeting per alcuni quadri come
L’Angelus. In un Meeting dedicato alle
periferie dell’esistenza, una delle periferie dell’esistenza in cui il Papa ci invita ad andare per testimoniare Cristo
è quella del lavoro. In questa ottica ci
ha colpito la convesione di Millet a una pittura dedicata al lavoro. Lui dedi-
ca 25 anni della sua vita, che coincidono con la sua massima espressione
creativa, dedicandoli alla pittura del lavoro. La seconda ragione che ci ha
portato ad interessarci di Millet è stata
questo suo essere colpito dal mondo
degli uomini che lavorano. La terza è
che Millet è un uomo della periferia,
anche geografica. Nasce in un villaggio della Normandia e la sua espressione artistica esplode non a Parigi, ma
quando si trasferisce a Barbizon, all’estrema periferia della Francia di allora.
Mentre gli altri pittori restano affascinati dalla natura, lui resta impressionato dagli uomini che lavorano in condizioni durissime. È colpito dal dolore
degli uomini che vivono in questa periferia del mondo di allora. Il lavoro i-
nizia a diventare piacevole quando è
gratuito e la natura ultima del lavoro è
la carità».
Dopo alcuni pannelli introduttivi dedicati alla vita di Millet, la mostra si articola in tre sezioni: la prima è il lato umano del lavoro; nella seconda sezione
si vede la nobilità e sacralità del lavoro,
tanto che l’artista definisce il lavoro un
dramma avvolto di splendori. Nella
terza sezione, infine, si è voluto proporre un ingrandimento sull’opera delle madri che accudiscono i figli. E qui
si svela la natura ultima del lavoro che
è la carità, il dono di sé. Questa dimensione si comprende se si capisce che
quello che rende gesto significativo il
nostro operare è quando nel lavoro non
si fa solo quello per cui si è pagati. Se
zia un nuovo capitolo della sua vita.
«Io e il mio gruppo di amici avevamo
conosciuto la realtà della droga. Non
ne ero dipendente, ma l’avevo provata.
Ma è stata solo l’irruzione di Dio nella
mia vita a cambiarmi nel profondo».
Questa particolare empatia verso chi è
vittima della droga rimane, e da qui nasce l’Hogar de Cristo, un’iniziativa per
recuperare i ragazzi delle villas tossicodipendenti. «Bisogna accompagnare i
ragazzi e lavorare sulla speranza. Testimoniare qualcosa che riguardi il senso
della vita e che dia loro un motivo per
alzarsi al mattino», spiega Charly. C’è
un episodio che l’ha coinvolto: la storia di Nacho. Nacho era un giovane che
era stato abbandonato dalla sua compagna e dai figli perché si drogava e li
picchiava. Padre Charly lo accompagna in un centro terapeutico. «Ma il
momento più importante fu quando
venne a confessarsi dopo essere tornato
dal centro. Mi disse che praticava la religione Umbanda». In questa religione
si sacrificano animali agli spiriti per
chiedere che facciano del male ad altre
persone. «C’è qualcosa di molto oscuro in questa pratica - continua Charly ma quando Nacho venne da me, fu
un’esperienza molto particolare, come
se si aprisse una finestra ed entrasse luce in un luogo che prima era chiuso e
oscuro. Fu quasi un’esperienza fisica».
Da quel momento Nacho riprende in
mano la sua vita e, aiutato dai preti, trova un altro lavoro ed è riaccolto dalla
sua famiglia. Per Charly «lui e gli altri
sono come figli. Vivere lì è lindo, bello». I poveri, i tossicodipendenti, i delinquenti diventano un luogo teologico.
Questi preti non vivono nelle villas miserias per un buonismo volontario o
per un ideale etico socialista. «Non è
questo il motivo - conclude padre
Charly - io, in loro, vedo la carne di
Cristo».
Francesco Graffagnino
lavorando si pensa soltanto alla retribuzione, non esiste gusto. Al contrario,
diventa veramente un gesto completo
quando è espressione della carità.
«Questo mi colpisce moltissimo afferma Mariella Carlotti - perché chi
fa solo quello per cui è pagato non sente suo il lavoro, si lamenta e lo vive come una situazione insopportabile. Paradossalmente, quando qualcuno ti
chiede “Ti piace quel che fai?” è importante che tu possa rispondere “Sì
mi piace molto, perché riesco a esprimere me stesso, donare me stesso e offrire un contributo mio. Quella parte di
impegno e di fatica non sono pagate,
ma è proprio questo ciò che rende tuo
il lavoro».
La mostra è allestita accanto a quella dedicata a Péguy. E se il poeta e
scrittore francese è il primo ad accorgersi che il mondo sta allontanandosi
da Dio, Millet è forse uno degli ultimi
che riesca a documentare l’umanità
che ancora riconosce le radici cristiane. La stessa umanità nei dipinti di
Millet colpisce anche Van Gogh, tanto
che si riconoscerà artisticamente come
suo figlio.
Il rapporto tra Van Gogh e Millet è
quello tra un figlio e un padre: tanto
più un figlio ha dentro il padre, tanto
più riesce a darne un’interpretazione originale del suo operare. Fa molta impressione vedere la profonda originalità dei quadri che Van Gogh “copia”
da Millet. Veramente un rapporto di
profonda unità di sentimento, quasi
dentro un’obbedienza.
Federica Barzi