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Rita Arcidiacono
Mappa per l’Abisso
www.plesioeditore.it
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Prologo
Il ventre della terra ringhiò affamato e un brivido si propagò, attraversando le venature delle rocce fino a percuotere la schiena di G’yrsei.
La caduta era stata interminabile.
Improvvisamente, la lingua di roccia su cui si era spinto durante la battaglia era venuta meno e l’aria scura lo aveva afferrato, scorrendogli sul
torace, sulle braccia, fra i capelli, fino a riempirgli gli occhi e le orecchie
di un rombo assordante.
Ferito e sorpreso, aveva steso le dita nel vuoto in cerca di appigli, senza trovarli, fino a quando il suo corpo non aveva raggiunto il lastrone di
pietra ruvida che lo aveva preceduto, franando sul fondo della vallata
sotterranea.
Avrebbe voluto urlare, ma il fiato aveva abbandonato i polmoni in un
unico istante e tutto quello che uscì dalla bocca fu un fiotto di sangue
frammisto a muta disperazione.
Era ancora vivo.
Quindi l’agonia sarebbe stata più lunga di quanto avrebbe sperato di
dover sopportare.
Dov’era il suo carnefice?
G’yrsei aprì gli occhi, richiamato dal fremito della roccia che gli mordeva le spalle e dietro un velo di lacrime involontarie, lasciò vagare lo
sguardo appannato sullo scenario che lo circondava, incapace di muovere un solo muscolo.
Intorno a lui, la dimora che conosceva aveva cambiato faccia in modo
raccapricciante.
Le nere volte di pietra che formavano il dedalo delle terre del sottosuolo, un tempo decorate solo dalle ricche vene d’argento e dalle pallide
formazioni calcaree, ora sbiadivano nell’aria satura di polvere e terriccio. Torrenti di fine pietrisco scivolavano senza sosta lungo le pareti del
vasto antro irregolare in cui ora si trovava, fino a perdersi lontano, dove
fuochi rossi e ocra profanavano quello che, da innumerevoli secoli, era
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stato un luogo consacrato al velluto nero delle tenebre.
Ai confini della città fortificata, sulle pareti rocciose dei territori della
prima frontiera, innumerevoli cicatrici si stavano aprendo, correndo disordinate fino alla volta offuscata dal fumo e sfigurando il familiare panorama per trasformarlo nella parodia della sua antica gloria.
Il tempo delle aggraziate sfumature dell’indaco, dei delicati disegni
purpurei che ricamavano le terre e le costruzioni della sua gente, degli
imponenti colonnati, scolpiti con impareggiabile grazia laddove stalagmiti e stalattiti si baciavano, stava finendo.
Peccato dover assistere alla sua decadenza.
Pragmatico e dolorosamente lucido, G’yrsei si rese conto con amarezza della propria impotenza davanti a quello spettacolo, specchio sporco
e dissacrato della sua stessa caduta, fisica e simbolica.
Principe prima e regnante poi, aveva consegnato il suo popolo a livelli
di gloria e potenza che non avrebbe mai immaginato di raggiungere in
così pochi anni.
Nelle profondità di un labirinto che si apriva ben al di sotto delle più
ardite miniere, scavate dai popoli delle terre emerse, la sua gente aveva
scolpito una città oscura e seducente, degna del nome dei drow, i temuti
“elfi scuri” del sottosuolo.
Consapevole dello scarso potere numerico della sua etnia, aveva evitato con saggezza di alimentare l’odio che fioriva nelle leggende di chi viveva nel mondo esterno, concentrando i propri sforzi nella già difficile
lotta per la sopravvivenza con le altre razze sanguinarie che si spartivano il regno sotterraneo.
Portando il dorso della mano al labbro per asciugare il sangue che gli
solleticava il mento, G’yrsei si concesse un sorriso amaro e un momento
di tregua. Meglio viziarsi con i ricordi delle proprie glorie e conquiste,
che marcire nella consapevolezza della propria fine imminente.
Chiuse gli occhi e adagiò piano la testa fra le braccia della rocciosa
madre che un tempo lo aveva accolto e salvato dal rovente sguardo di
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Sraedian, demone infuocato il cui dominio era assoluto nei cieli che sovrastavano le terre di superficie. Nella sua mente le regioni dalla volta
altissima erano per lo più fatte di luce accecante e acqua salata, la stessa
che aveva deglutito in grande quantità durante il naufragio che lo aveva
condotto sulle rive della nuova patria, il punto di partenza di una seconda vita. A quel tempo aveva creduto di essere rimasto l’ultimo della sua
specie e la convinzione che il veleno iniettato dal morso di Sraedian non
fosse curabile, lo aveva indotto a persuadersi che non sarebbe sopravvissuto a lungo.
Non gli dispiacque essere smentito.
Presto altri, naufraghi come lui, o condotti in quelle terre da forze di
cui non aveva osato domandarsi l’origine, lo avevano raggiunto e riconosciuto come loro Signore.
“La Dea mi bacia”, aveva pensato presuntuoso, e aveva fatto ergere
un tempio in suo onore: la prima, vera, significativa opera del suo popolo.
In dieci anni aveva racimolato un piccolo ma temuto esercito di guerrieri e sacerdotesse e grazie a una sostanziosa dose di diplomazia, suo
talento innato, era giunto persino ad annoverare tra le proprie fila un
fruitore dell’arcano.
La soddisfazione elargita dalla vista del nuovo regno che cresceva e si
fortificava lo aveva saziato a tal punto che ogni mira espansionistica era
impallidita; sarebbe bastata la crudele nomea dei drow a tenere lontano
ogni antagonista dai confini delle regioni che avevano reclamato, concedendo loro il tempo necessario per germogliare.
G’yrsei si sentiva a suo agio, nato per questo ruolo: era severo, temuto
e rispettato e non era mai stato avaro quando si era trattato di dispensare
feroci punizioni a chi lo aveva disatteso. Ma la stessa reputazione che
costringeva i sottoposti a tenere basso lo sguardo al suo cospetto era in
fondo un’arma a doppio taglio, eredità intrinseca per la sua stirpe, e prima o poi sarebbe giunto chi avrebbe riconosciuto la breccia nella corazza. Le temute rappresaglie della sua gente nei confronti delle razze considerate inferiori non giungevano, nonostante la presenza degli elfi scuri
fosse stata scorta e narrata con reverenziale timore, e con il passare del
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tempo, la sua dedizione alla costruzione della città sotterranea divenne
un segno di debolezza, anche se pochi occhi sarebbero stati in grado di
scorgerlo.
Forse, solo uno sguardo guidato da mano immortale.
“La Dea si prende gioco di me”, pensò con rabbia e in quel momento
un brivido freddo lo attraversò alla base del collo.
Aprì gli occhi di scatto e la vide.
Delineata dai fuochi ocra e scarlatti che si avvolgevano fra le spire di
polvere ancora sospese nell’aria, una figura nera come il peccato lo sovrastava. L’ampio manto sulle spalle raccoglieva le correnti calde che si
contorcevano nella spelonca e fluttuava morbido, sibilando senza pudore
un canto empio e crudo.
Ipnotizzato dai lunghi capelli nivei che la coronavano e che danzavano
con pari grazia, G’yrsei perse qualche attimo, prima di assaporare in
pieno il morso gelido dell’ansia che gli spezzò il respiro e gli strinse la
bocca dello stomaco.
Il bizzarro gioco tra luci incandescenti e fitte ombre gli negava il suo
volto, i lineamenti cesellati, gli alti zigomi e le labbra che spesso aveva
visto imbronciate e scontente. Ma riconobbe bene lo sguardo: occhi incendiati dallo stesso fuoco che stava consumando i lontani edifici, volitivi e prepotenti, eppure carichi di un mistero che persino lui, sovrano
drow nella città di Amyn’xyr, non era riuscito a violare. Sotto quello
sguardo sentì la propria vulnerabilità messa a nudo, una sensazione nuova, eppure affascinante in tutta la sua brutalità.
I graffi e gli spasmi di dolore che avevano tormentato il breve viaggio
quasi onirico nel passato tacquero riverenti, e persino la pietra che aveva
accolto la rovinosa caduta sembrò svanire nel nulla, lasciandogli un senso di vuoto, subito colmato da generose ondate di adrenalina.
La figura avanzò con straziante indolenza e una piega del mantello
schioccò nell’aria, rivelando la sacra lama brunita che stringeva nel pugno.
Raccogliendo tutta la dignità di cui era in grado, e cercando di ignorare
il doloroso battito del cuore nel petto, G’yrsei deglutì, incapace di sus7 di 459
surrare una sola parola, ma sollevò il mento e indurì lo sguardo.
Se solo il tempo avesse smesso di scorrere con quella insopportabile
lentezza, lui non avrebbe dovuto conoscere così bene ogni istante che lo
separava dalla fine della sua agonia, una meta quasi ambita nello stato in
cui versava, ma che non gli sarebbe stata concessa con tanta pietà.
Richiamato dal bagliore della lama, vi posò sopra per un solo istante lo
sguardo avido, quasi a chiedere che gli fossero risparmiati i minuti successivi, ma subito dopo si costrinse a ricomporlo e affondarlo nuovamente negli occhi della creatura che lo fronteggiava. Adesso era abbastanza vicina da poterne sentire il vibrante profumo d’incenso, intrecciato al vile sentore di sangue che macchiava i suoi abiti.
«Mi hai tradito», si sentì sussurrare e il rauco suono della propria voce
lo sorprese.
In tutta risposta, lunghe dita sottili, affilate come artigli, si allungarono
verso il suo volto. Con il dorso gli carezzarono voluttuose la guancia levigata, seguendo i lineamenti duri e spigolosi, soffermandosi più a lungo
a ridisegnargli la severa linea delle labbra. Centotrentaquattro anni erano
troppo pochi fra la sua longeva stirpe, per controllare il fremito che lo
attraversò e G’yrsei si maledisse silenziosamente per aver sobbalzato a
quel tocco.
«È vero», gli mormorò lei, e dall’intonazione morbida della voce il
giovane sovrano poté giurare a se stesso che c’era del puro compiacimento in quella semplice ammissione, quasi l’orgoglio per il compimento di un’opera d’arte.
Come biasimarla…
Chiuse gli occhi e sospirò a fondo. La mano che si era dilungata sulle
labbra si spostò per posarsi con fermezza sulla spalla e premerla contro
la roccia che si stava dissetando avida del suo sangue. Nella mente
l’immagine del mondo che rovinava intorno a lui sbiadì e al suo posto
vide l’altare sacro, limato in preziosa ossidiana, le candele votive, accese e tremanti. Vide la nebbia degli incensi spandersi tra le volte arcuate
del tempio e la respirò per drogarsi e confondere i propri sensi troppo
vivi e presenti. Quando sentì il tocco della lama posarsi sul petto, finalmente sorrise. Non sarebbe morto per mano dei nemici della sua gente,
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gli stessi che stavano sporcando le sue terre, annientando tutto quello
che aveva costruito, dissacrando il tempio cui nemmeno a lui era concesso di varcare la soglia.
Questo era il modo migliore per morire e non avrebbe potuto aspirare
a nulla di meglio.
La sua assassina lo capì.
Avvicinò le labbra all’orecchio e vi lasciò un sussurro lieve, quasi
complice.
«Da qui continuo io…».
Subito dopo affondò la lama.
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