oltre la pietrificazione del denaro: ripensare l`edilizia in una

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oltre la pietrificazione del denaro: ripensare l`edilizia in una
«Città e Storia», IV, 2009, 1, pp. 65-88 ©2009 Università Roma Tre-CROMA
OLTRE LA PIETRIFICAZIONE DEL DENARO: RIPENSARE
L’EDILIZIA IN UNA PROSPETTIVA STORICO-ECONOMICA*
In tempi recenti gli storici economici hanno iniziato a prestare maggiore attenzione all’edilizia ovviando così ad una situazione paradossale, vale a dire la presenza
di un settore dall’evidentissimo rilievo economico che era stato ben poco studiato,
quando non sbrigativamente liquidato. Un esito che si era verificato a partire da
valutazioni facilmente contestabili, come quella della possibile coincidenza tra boom
edilizio e ripiegamento dell’economia, oppure palesemente fuorvianti, come la presunta «pietrificazione del denaro», o il ritenere l’edilizia un’attività improduttiva1.
* Pur essendo il frutto di una comune riflessione, la prima parte del presente contributo è stata redatta da Luca Mocarelli, la seconda (intitolata Edilizia e congiuntura economica. Qualche riflessione sullo
stato della questione) da Jean-François Chauvard.
1
Nel primo caso è sufficiente riferirsi a lavori ormai classici di R. LOPEZ-H.A. MISKIMIN, The economic depression of the Renaissance, «Economic History Review», XIV, 1962, 3, pp. 408-426 e F. BRAUDEL, L’identità della Francia. Gli uomini e le cose, Milano, Il Saggiatore, II, 1986, p. 226, evidenziando
come, per quanto attendibili, siano pur sempre riferiti a case studies e in quanto tali affiancabili da altri,
anche più numerosi, in cui lo sviluppo dell’edilizia ha sostenuto e trainato la crescita economica come
nella Russia del basso medioevo, nella Roma del XVI secolo, nella Milano del secondo Settecento, nella
Trieste del Sette-Ottocento (il riferimento è rispettivamente a D.B. MILLER, Monumental building as
an indicator of economic trends in northern rus’ in the late kievan and mongol periods, 1138-1462, «The
American Historical Review», 94, 1989, 2, pp. 360-390; M. VAQUERO PIÑEIRO, Crescite incrociate: le
piene del Tevere e lo sviluppo edilizio a Roma tra i secoli XVI e XVII, in I rischi del Tevere. Modelli del
comportamento del fiume di Roma nella storia, a cura di P. Buonora, Roma, CNR Gruppo nazionale
per la difesa delle catastrofi idrogeologiche, 2001, pp. 75-81; L. MOCARELLI, Costruire la città. Edilizia
e vita economica nella Milano del secondo Settecento, Bologna, Il Mulino, 2008 e A. PANJEK, Chi costruì
Trieste. Edilizia, infrastrutture, mercato immobiliare e servizi tra pubblico e privato (1719-1918), in Storia economica e sociale di Trieste, II, La città dei traffici 1719-1918, a cura di R. Finzi-L. Panariti-G.
Panjek, Trieste, Lint, 2003, pp. 643-758). Inoltre, anche con riferimento alla Firenze rinascimentale o
a Cracovia, è poi vero che gli investimenti edilizi hanno rappresentato una concausa della crisi o non,
piuttosto, un modo per cercare di tamponarla? Quanto alla «pietrificazione del denaro» è sufficiente rilevare come si tratti di una categoria dagli evidenti connotati moralistici piuttosto che storici che finisce
per cancellare la complessità, e in particolare il problema delle molteplici logiche che guidano le scelte
d’investimento, in nome di un’aspirazione – avrebbero potuto investire in modo più produttivo – che va
di pari passo con un altro grande mito storiografico, quello del «tradimento della borghesia». La realtà in
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Temi che qui ci si limita a richiamare, perché verranno trattati con la consueta chiarezza e finezza intellettuale da Jean François Chauvard nella seconda parte
di questo contributo, dedicata precisamente all’evoluzione del dibattito in merito
al rapporto tra andamento del settore delle costruzioni e congiuntura generale. In
questa prima parte del nostro lavoro, si metteranno invece in evidenza le direzioni
principali, in aggiunta al tema cruciale approfondito da Chauvard, in cui lo studio
dell’edilizia può contribuire al progresso della ricerca storico-economica e come si
sia operato in tal senso negli ultimi anni, superando così uno stato degli studi ben
poco soddisfacente e chiaramente delineato da Alberto Grohmann quando osservava
che «gli storici economici italiani hanno pressoché completamente non considerato
la produzione edilizia, essendo stati per decenni interessati, per ciò che concerneva
l’età medievale, ai problemi del mercato, della produzione tessile, della banca, della
moneta, della contabilità… per l’età moderna alle tematiche relative alla finanza,
alla fiscalità, all’agricoltura, alla protoindustria», aggiungendo che «l’investimento
nell’edilizia, come nei beni di lusso, particolarmente a partire dalla fase rinascimentale, è stato letto, in genere, come una forma di cristallizzazione del capitale»2.
Studiare in modo approfondito il settore edilizio, come si è iniziato a fare3, offre
in effetti, non solo l’opportunità di creare occasioni di contatto con altre discipline, ma rappresenta in primo luogo un modo per arricchire la storia economica in
diverse direzioni. Penso anzitutto alla storia delle attività produttive, dominata, per
quanto riguarda l’età preindustriale, dagli studi sul settore tessile e sulla lavorazione
dei metalli, con gli inevitabili effetti distorsivi che ne sono derivati. In effetti la tesi,
ormai ampiamente posta in discussione, della crisi più o meno irreparabile delle
principali città manifatturiere italiane a partire dal XVII secolo è stata costruita
proprio guardando quasi esclusivamente al settore tessile, con una evidente semplificazione della complessità delle economie urbane interessate. Puntare i riflettori,
come è stato in genere fatto, sulla incontestabile picchiata della produzione di panni lana, tessuti auroserici e fustagni destinati all’esportazione ha finito per lasciare
nell’ombra tutto il resto.
effetti è esattamente opposta: le costruzioni sono un modo di convertire la rendita in domanda di beni
di produzione e in salari e svolgono una fondamentale funzione redistributiva.
2
Cfr. A. GROHMANN, L’edilizia e la città. Storiografia e fonti, in L’edilizia prima della Rivoluzione
industriale, secc. XIII-XVIII, Atti della XXXVI Settimana di studi dell’Istituto Internazionale di Storia
Economica «F. Datini» di Prato, a cura di S. Cavaciocchi, Firenze, Le Monnier, 2005, pp. 111-112.
Per convincersi della verità di queste affermazioni, basti guardare al convegno del Datini sull’edilizia in
cui egli le ha formulate, dove gli interventi di carattere storico-economico sono stati ben pochi, oppure
al fatto che il lavoro da lui ritenuto esemplare in proposito, quello di Goldthwaite sulla Firenze rinascimentale non sia opera di uno storico economico tout court (R.A. GOLDTHWAITE, La costruzione della
Firenze rinascimentale. Una storia economica e sociale, Bologna, Il Mulino, 1984).
3
In proposito mi sia consentito di rinviare alla bibliografia raccolta in L. MOCARELLI, Costruire la
città, cit.
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All’interno di questo ampio cono d’ombra a risultare particolarmente poco considerata è stata proprio la realizzazione dei materiali da costruzione, a cominciare
dai laterizi e dalla calce. È vero che si tratta di beni dal basso valore aggiunto, commercializzati in genere in ambito locale e realizzati per secoli utilizzando tecnologie
molto semplici, ma lo è altrettanto che già in età preindustriale tali prodotti potevano
essere prodotti in quantitativi molto cospicui4. Inoltre, al di là del mero dato quantitativo, lo studio di questo settore di attività è in grado di chiarire molto bene, come
dimostrano in particolare i molti lavori di Manuel Vaquero, le logiche operative del
mercante imprenditore5. Al tempo stesso, va sottolineato come proprio il controllo dell’approvvigionamento, se non della produzione, dei materiali da costruzione
abbia rappresentato una componente fondamentale nella costruzione delle fortune
dei grandi appaltatori di opere edilizie, si tratti di quel Giuliano Leni «curatore»
della fabbrica di S. Pietro, oppure dei ticinesi Fé, incontrastati domini dell’edilizia
pubblica milanese del secondo Settecento6. Se si passa poi a considerare l’età contemporanea, non si può fare a meno di evidenziare come i cambiamenti di scala prodotti dall’industrializzazione anche per quanto riguarda i materiali da costruzione e la
presenza di innovazioni epocali nel settore, come il cemento armato e la prefabbricazione, abbiano portato all’affermarsi di imprese multinazionali di successo, come
l’Italcementi, di recente studiata in modo esemplare da Vera Zamagni7.
Al tempo stesso, l’edilizia è stata in grado di manifestare tutto il suo rilievo economico alimentando un’attività, quella delle costruzioni, caratterizzata dalla presenza di
fortissime interdipendenze settoriali8 e giocando un ruolo di assoluto rilievo, ma in
4
A evidenziarlo con grande chiarezza è stato J. LUCASSEN, Brickmakers in Western Europe (17001900) and Northern India (1800-2000): some comparisons, in Global labour history. A state of the art,
edited by J. Lucassen, Bern, Peter Lang, 2006, pp. 671-715.
5
Si vedano, in particolare, M. VAQUERO PIÑEIRO, L’università dei fornaciai a Roma tra la fine del ’500
e la metà del ’700, «Roma moderna e contemporanea», IV, 1996, 2, pp. 471-494; ID., Per la storia di un
gruppo imprenditoriale romano in età moderna: la produzione della calce, «Roma moderna e contemporanea», VI, 1998, 3, pp. 291-309: ID., La gabella dei calcarari. Note sulla produzione di calce e laterizi a
Roma nel Quattrocento, in Maestranze e cantieri edili a Roma e nel Lazio. Lavoro, tecniche, materiali nei
secoli XIII-XV, a cura di A. Lanconelli-I. Ait, Roma, Vecchiarelli editore, 2002, pp. 137-154; ID.-I. AIT,
Costruire a Roma tra XVI e XVII secolo, in L’edilizia prima della rivoluzione industriale, cit., pp. 229-284;
M. VAQUERO PIÑEIRO, Manifatture romane del XVIII secolo. Le fornaci della congregazione dell’oratorio,
«Mélanges de l’École française de Rome. Italie et Méditerranée», 120, 2008, 1, pp. 169-187.
6
Cfr. in proposito I. AIT-M. VAQUERO PIÑEIRO, Dai casali alla fabbrica di san Pietro. I Leni: uomini
d’affari del rinascimento, Roma, Ministero per i beni e le attività culturali, 2000, pp. 147-220; S. BOBBI,
Nascita della speculazione edilizia moderna e ruolo dei materiali da costruzione nella Milano riformista
del secondo Settecento, in L’économie de la construction dans l’Italie moderne, a cura di J.-F. Chauvard-L.
Mocarelli, «Mélanges de l’École française de Rome. Italie et Méditerranée», 119, 2007, 2, pp. 235-247
e L. MOCARELLI, Costruire la città, cit., pp. 173-190.
7
Cfr. V. ZAMAGNI, Italcementi: dalla leadership nazionale all’internazionalizzazione, Bologna, Il
Mulino, 2006.
8
Le tavole input-output, che misurano il peso dei rapporti di reciproca dipendenza dei vari settori
dell’economia, evidenziano, con riferimento agli anni ’70 del Novecento, come il settore delle cos-
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genere ben poco sottolineato, nel sostenere lo sviluppo economico italiano nei decenni
del «miracolo economico». Lo dimostrano i dati relativi alla manodopera tra 1951 e
1962, che evidenziano una crescita tripla rispetto a quella verificatasi nell’industria, un
esito prevedibile in relazione al basso contenuto tecnologico del settore, e soprattutto
il saggio medio annuo di variazione del valore aggiunto, oltre il 9% per il settore delle
costruzioni, che ha lasciato a un punto percentuale l’industria in senso stretto9.
Un secondo ambito di ricerca molto rilevante per la storia economica a cui lo
studio dell’edilizia è in grado di dare un contributo importante è quello relativo alle
infrastrutture, in particolare acque e strade, dal momento che il settore è stato correttamente definito come «l’insieme delle attività che concorrono alla realizzazione
di edifici, strade e ponti»10. Si tratta di un’attività legata in modo biunivoco al settore
delle costruzioni poiché, se è vero che questo crea strade, canali, fabbriche, porti, lo è
altrettanto che per sfruttare a pieno le sue potenzialità necessita di una rete di comunicazioni particolarmente efficiente, in relazione al peso e all’ingombro dei materiali
da costruzione. Esemplare, in proposito, è il caso della cattedrale di Milano, la cui
costruzione sarebbe stata impossibile senza la precedente realizzazione del Naviglio
Grande. Infatti solo la presenza di questa fondamentale via d’acqua ha consentito di
trasportare a Milano in tempi e con costi ragionevoli i marmi necessari, che venivano
estratti dalle cave di proprietà della fabbrica del Duomo a Candoglia, località sul
Lago Maggiore distante circa cento km da Milano.
Inoltre se, come sembra difficilmente contestabile, la Rivoluzione Industriale è un
processo che consiste in primo luogo nella creazione di capitale fisso, non si può fare
a meno di rilevare che questo fondamentale ingrediente per lo sviluppo è stato creato
proprio dall’edilizia. Come ha evidenziato con la consueta lucidità Paolo Frascani: «il
truzioni avesse una fortissima integrazione, essendo collegato con 28 delle 44 branche produttive allora
rilevate dall’Istat (cfr. G. SIMONELLI, Rapporti economici e produttivi tra i settori industriali che producono
materiali da costruzione e l’industria delle costruzioni: il caso della branca 15 («Lavorazione dei minerali
non metalliferi»), in Produzione edilizia e tecnologia dei materiali, a cura di A. Seassaro-C. Macchia,
Milano, Clup, 1989, p. 261.
9
Inoltre tra 1951 e 1963 l’edilizia in senso stretto ha visto il suo valore aggiunto passare da 100 a
285, l’incremento più alto dopo quello dell’industria estrattiva, un settore che comunque, con riferimento ai minerali non metalliferi vendeva circa il 50% della produzione al settore edilizio e riceveva un
terzo degli acquisti dell’edilizia (cfr. R. PETRI, Storia economica d’Italia. Dalla grande guerra al miracolo
economico (1918-1963), Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 189 e 208-209 con G. SIMONELLI, Rapporti
economici e produttivi, cit., pp. 259-260).
10
La citazione è tratta dall’enciclopedia Rizzoli-Larousse, Milano, 1964, ad vocem. Del resto anche
chi ha optato per una definizione più ristretta, ritenendo l’edilizia una attività concernente «la progettazione, la costruzione, la ricostruzione, l’ampliamento, la sopraelevazione, la demolizione di qualsiasi
tipo di fabbricato, urbano e rurale», non ha potuto fare a meno di rilevare come l’Istat inserisca l’edilizia nell’industria delle costruzioni che comprende anche «opere pubbliche e di pubblica utilità, opere
marittime, idrauliche, igienico sanitarie ecc.» (cfr. M. TALAMONA, Fluttuazioni edilizie e cicli economici.
Ricerche sul comportamento degli investimenti in abitazioni in Italia, Roma, Istituto nazionale per lo
studio della congiuntura, 1958, p. 24).
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corso della trasformazione economica nazionale tra il XIX e il XX secolo sarebbe inimmaginabile senza l’involucro di infrastrutture e manufatti urbani e industriali che fanno
da sfondo al suo svolgimento»11. Ciò nonostante, da questo punto di vista la strada da
percorrere appare ancora molta, con riferimento sia all’età moderna che ad anni a noi
più vicini, perché in genere si è considerato l’impatto economico delle opere infrastrutturali a valle, evidenziando i benefici che il loro utilizzo ha prodotto per l’economia, e
non a monte, indagando la ricaduta economica della loro realizzazione.
Un terzo filone di ricerca a cui l’edilizia può dare un contributo fondamentale
è quello della storia del lavoro, sia con riferimento al grande tema del mercato del
lavoro che a quello dei salari. In tempi recenti, in effetti, i mercati sono tornati al centro dell’attenzione degli storici economici, pronti a raccogliere i rilievi critici forniti
dai molti studiosi, in particolare sociologi e antropologi, ma anche economisti fortemente insoddisfatti dall’immagine di mercato delineata dalla teoria neoclassica12.
Una reazione critica suscitata non tanto dalla constatazione che l’unità decisionale
nel modello neoclassico è costituita dall’individuo, quanto invece dal modo in cui
«tale unità decisionale è sottratta a qualsiasi influenza di natura macroeconomica e
sistemica»13 e che ha avuto il merito di dimostrare proprio la insostenibilità di una separazione tra sfera economica e politica, il carattere sociale insito anche nei rapporti
di scambio, la rilevanza di una sfera informale in buona parte al di fuori del mercato14. L’abbandono di una prospettiva eccessivamente formalizzata ha fatto risaltare il
carattere del mercato come una realtà storicamente costruita e storicamente condizionata15 ed ha aperto spazi per lo svolgimento di ricerche in questa prospettiva più
11
P. FRASCANI, Costruttori e imprenditori a Napoli tra Otto e Novecento: il farsi di un’identità, «Annali
di storia dell’impresa», 18, 2007, pp. 576: 366.
12
Vale a dire quella di un mercato astratto, depersonalizzato, privo di spessore sociale e ben difficilmente riscontrabile nella realtà. Si tratta, in verità, di un moto di insoddisfazione di carattere più
generale prodotto dalla deriva iperformalizzata del mainstream economico che ha portato spesso a produrre modelli artificiali, involuti, autoreferenziali, basati su ipotesi irreali. Non è certo un caso che gli
stessi economisti, oltre a rendere più complesso il modello di concorrenza perfetta formulando ipotesi
alternative sulla struttura del mercato, abbiano iniziato a ricercare chiavi di lettura più attente alla realtà.
Un esempio significativo al riguardo è la revisione critica del concetto di razionalità, che rappresenta
la pietra angolare della teoria neoclassica, e la decisa valorizzazione delle istituzioni compiuta da D.C.
NORTH, Institutions, Institutional Change and Economic Performance, Cambridge, Cambridge University Press, 1990. Del resto già Hayek aveva dimostrato in modo convincente che «il comportamento
razionale non è una premessa dell’economia, anche se spesso viene presentato in questo modo» (F.A.
HAYEK, Law, Legislation and Liberty. The Political Order of a Free People, London, Routledge & Kegan,
1979, p. 75 e sgg.).
13
Cfr. K. BHARADWAJ, Processi di produzione e scambio e formazione dei mercati, in Istituzioni e mercato nello sviluppo economico. Saggi in onore di Paolo Sylos Labini, Bari, Laterza, 1990, p. 16.
14
Una stimolante rassegna critica delle posizioni di chi ha messo in evidenza, su diversi versanti,
i limiti del modello di mercato autoregolato fornito dalla teoria neoclassica è fornita da M. MAGATTI,
Mercato e forze sociali. Due distretti tessili: Lancashire e Ticino lona 1950-1980, Bologna, Il Mulino,
1991, in particolare pp. 21-31.
15
Per un recente dibattito su questo tema, a partire da un confronto con il pensiero di Polanyi, si
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convincente. Ciò vale, a maggior ragione, per un mercato molto particolare come
quello del lavoro, che rappresenta un contesto molto lontano dai criteri che tradizionalmente definiscono il mercato competitivo di concorrenza perfetta come luogo
dello scambio dove domanda e offerta si incontrano e si forma il prezzo delle merci
e dei fattori16. Di particolare interesse tra gli approcci che hanno preso in considerazione il mercato del lavoro v’è senza dubbio quello della dual labour market theory,
la quale postula un mercato separato in due settori con regole di comportamento e
caratteristiche diverse. Mentre il settore primario appare contraddistinto da alti salari, stabilità d’impiego e buone condizioni di lavoro, quello secondario è caratterizzato
invece da bassi salari, incertezza dell’occupazione con un elevato turnover, cattive
condizioni di lavoro17.
Questo modello esplicativo si adatta particolarmente bene all’edilizia, un settore in
cui la natura del prodotto, le tecnologie in uso, la struttura organizzativa e le forme del
mercato postulano da un lato la presenza di una manodopera numerosa, poco qualificata e flessibile e dall’altro quella di una ridotta quota di lavoro skilled. Il principale problema degli imprenditori del settore è, allora, quello di assicurare in un mercato instabile, dove gran parte della manodopera è riconducibile a un mercato del lavoro di tipo
secondario, il segmento di forza lavoro qualificata indispensabile per sovrintendere ai
lavori18. È il carattere stesso dell’edilizia in mattoni a richiedere una struttura del lavoro
rinvia a Karl Polanyi, a cura di A. Salsano, Milano, Bruno Mondadori, 2003 e in particolare ai contributi di A. CAILLÉ, L’origine del mercato e i suoi rapporti con la democrazia, pp. 207-222, e S. LATOUCHE,
Società mercantili e società di mercato, pp. 223-235.
16
Il mercato del lavoro, infatti, non può essere ritenuto un mercato competitivo perché non v’è
libero scambio, dal momento che dal versante dei lavoratori non esiste la possibilità di scegliere liberamente se lavorare o no; perché la relazione tra domanda e offerta, ovvero fra imprenditori e lavoratori,
è di natura sociale molto più che economica, e infine perché il prezzo associato al bene trattato, la forza
lavoro, non è in grado di svolgere funzioni che rendano trasparente il mercato perché le variazioni nei
salari non possono eliminare la disoccupazione: cfr. P. VILLA, The Structuring of Labour Markets: a Comparative Analysis of the Steel and Construction industries in Italy, Oxford, Clarendon Press, 1986, pp. 5-8,
ma si veda anche, per un discorso più complessivo, R.M. SOLOW, Il mercato del lavoro come istituzione
sociale, Bologna, Il Mulino, 1994.
17
Il riferimento è, in particolare, al fondativo contributo di P. DOERINGER-M.J. PIORE, Internal Labor Markets and Manpower Analysis, Lexington (Mass.), Heath and Company, 1971, che acquisiscono
e rielaborano le variabili messe in evidenza dai lavori di C. KERR, Labor markets: their character and
consequences, «The American economic review», 40, 1950, 2, e J.T. DUNLOP, Job vacancy measures and
economic analysis, NBER, The Measurement and Interpretation of Job Vacancies, New York, Columbia
University Press, 1966, pp. 27-47.
18
La grande instabilità del mercato del lavoro in edilizia è stata sottolineata da molti economisti.
Pigou, ad esempio, evidenzia come nell’edilizia le variazioni della domanda si ripercuotano sul livello
dell’occupazione proprio a causa della facilità con cui nel settore si licenziano gli operai che vanno a
costituire una frangia fluttuante di disoccupati (A.C. PIGOU, The economics of welfare, London, Macmillan
& Co., 1952, p. 523), mentre Hicks osserva, a sua volta, che la struttura tecnologica del settore edilizio
e le fluttuazioni della domanda non «forniscono alcun incentivo a costituire una forza lavoro di carattere
permanente» (J.R. HICKS, The theory of wages, New York, Macmillan & Co., 1963, p. 47). Fatta salva, è
ovvio, proprio la piccola quota di lavoratori qualificati che deve dirigere e organizzare il lavoro.
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di questo tipo poiché comporta un processo di costruzione continuo e sequenziale, dalle fondamenta al tetto, che utilizza tecniche in gran parte manuali e comporta modalità
produttive labour intensive in cui tutti, dal capomastro qualificato ai semplici manovali,
partecipano al lavoro19. Proprio il basso tasso di meccanizzazione rende particolarmente necessario il lavoro dequalificato, organizzato in piccole squadre, e fa emergere una
struttura duale del mercato del lavoro con pochi lavoratori permanenti protagonisti di
un apprendistato lungo e complesso e numerosi lavoratori poco qualificati e fluttuanti,
in gran parte ancora legati al mondo rurale e semplici erogatori di forza fisica. Inoltre
l’attività risulta affidata soprattutto a piccole imprese molto flessibili e dall’elevata mobilità spaziale che rappresentano la soluzione organizzativa migliore per fronteggiare
con il minimo costo la grande variabilità della domanda che caratterizza il settore.
Questi caratteri del settore edilizio (piccole imprese con modeste capacità operative)
rappresentano un dato strutturale di lungo periodo del comparto delle costruzioni che,
come è stato di recente rilevato, appare caratterizzato proprio «da una limitata apertura internazionale, da bassa produttività e da bassissima concentrazione, con pochi
grandi protagonisti e una miriade di piccole imprese: per esempio su 620.000 imprese
di costruzioni censite in Italia [nel 2007] solo 220.000 sono società di capitale»20. Ed
è proprio la persistenza di lungo periodo di questi caratteri organizzativi dell’edilizia,
che inizia a cambiare dal punto di vista tecnologico con un crescente impiego della
meccanizzazione solo a Ottocento inoltrato, a rendere di particolare interesse l’esame
delle modalità di svolgimento di tale attività nell’età preindustriale, come è avvenuto in
diversi contributi recenti.
Da un lato, infatti, si sono svolte numerose ricerche sul carattere della manodopera edile, sulla sua elevata mobilità, sulle accentuate differenziazioni interne21, dall’altro si sono approfonditi gli assetti organizzativi del cantiere e le modalità operative
di quei grandi appaltatori e capimastri che dovevano cercare di risolvere in modo
ottimale il principale problema operativo del settore edilizio: mobilitare e smobilitare velocemente una manodopera poco qualificata e molto numerosa e garantire
al tempo stesso la presenza di una ridotta quota di lavoratori skilled che sorvegliasse
19
Resta da vedere se il basso livello tecnologico dell’edilizia in Italia fino a tempi molto recenti
sia dipeso dal tipo di domanda, caratterizzato da non concentrazione e non standardizzazione, o non
piuttosto, come sembra più probabile, dalle condizioni del mercato del lavoro che, ancora nel secondo
Dopoguerra, metteva a disposizione degli operatori del settore una forza lavoro abbondante e a buon
mercato in quanto scarsamente qualificata e di origine contadina. Una forza lavoro che per la sua qualità
non poteva trovare occupazione nei settori industriali e per cui l’edilizia ha rappresentato spesso il settore di avviamento al lavoro.
20
Cfr. R. GARRUCCIO, Alzate l’architrave, carpentieri. Testimonianze per una storia e una comprensione
del costruire, in Dove va a finire la fatica. Storie di vita e di lavoro in CMB cooperativa muratori e braccianti
di Carpi, a cura di M. Canella-R. Garruccio, Milano, Bruno Mondadori, 2008, p. XI.
21
Una stimolante riflessione critica al riguardo, condotta a partire dall’esame della storiografia più
recente, è quella compiuta da L. LORENZETTI, La manodopera dell’industria edile: migrazione, strutture professionali e mercati (secc. XVI-XIX), in L’économie de la construction dans l’Italie moderne, cit., pp. 275-283.
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e coordinasse i lavori22. Sono state quindi ricostruite e valorizzate le ampie e diversificate strategie adottate da questi soggetti al vertice dell’articolata piramide gerarchica dei lavori edilizi: dai legami con i soggetti erogatori di credito, alle società con
capimastri conterranei, al ricorso al subappalto, alla gestione delle scorte23. Spazio
crescente è stato dedicato anche a un altro tema molto rilevante, quello dei salari
che, oltre a rappresentare un’eccellente cartina di tornasole per comprendere le caratteristiche e le dinamiche del mercato del lavoro in edilizia, riveste un’importanza
storiografica più generale in quanto la storia dei prezzi del lavoro è stata costruita
riferendosi quasi esclusivamente alle retribuzioni degli occupati nel settore delle costruzioni. Indubbiamente in passato si è assistito a forti semplificazioni al riguardo,
e in proposito non si può che essere d’accordo con Guido Guerzoni laddove osserva
come la storia dei salari in edilizia sia nata come una sezione staccata della storia dei
prezzi, soffrendo dei medesimi vizi congeniti che hanno «frustrato l’analisi della formazione dei saggi salariali e delle loro varianze interne, delle modalità di fissazione e
negoziazione dei salari giornalieri, delle variazioni quotidiane e stagionali, del potere
contrattuale di individui e gruppi professionali»24.
In effetti gli studi più recenti, sia italiani che stranieri25, hanno messo in evidenza
proprio la forte segmentazione del mercato del lavoro nel settore edilizio e la presenza
di una spiccata variabilità salariale, al punto che sembra prospettarsi una vera e propria personalizzazione del salario, vale a dire l’esatto contrario di quanto si è in molti
casi sostenuto riferendosi alle retribuzioni in età preindustriale. Inoltre i riscontri
quantitativi relativi alle retribuzioni degli occupati in edilizia vanno presi con grande
cautela, evitando di farne discendere indebite generalizzazioni sulla consistenza dei
redditi e del relativo potere d’acquisto, perché le cifre di cui disponiamo presentano
comunque molti elementi di criticità: dalla variabilità stagionale delle retribuzioni,
al persistente conferimento di una quota più o meno ampia del salario in natura,
all’impossibilità di stabilire i giorni effettivamente retribuiti in un anno e così via26.
22
In proposito, mi sia consentito di rinviare a L. MOCARELLI, Costruire la città, cit., pp. 170-208 e
ai contributi della sezione L’organisation des chantiers, nel più volte citato L’économie de la construction
dans l’Italie moderne, pp. 299-426.
23
Cfr. in proposito il bel libro di S. BOBBI, La Milano dei Fé. Appalti e opere pubbliche nel Settecento,
Soveria Mannelli, Rubbettino, 2006.
24
G. GUERZONI, Apollo e Vulcano. I mercati artistici in Italia (1400-1700), Venezia, Marsilio, 2006,
p. 191.
25
Si vedano in particolare D. WOODWARD, Men at work. Labourers and building craftsmen in the
towns of northern England 1450-1750, Cambridge, Cambridge University Press, 1995, pp. 169-190;
R.G. WILSON-A.L. MACKLEY, How much did the English country house cost to build, 1660-1880?, «The
economic history review», LII, 1999, 3, in particolare pp. 443-446; M. VAQUERO PIÑEIRO, Ricerche sui
salari nell’edilizia romana (1500-1650), «Rivista storica del Lazio», V, 1996, 1, in particolare pp. 136138, e F. TRIVELLATO, Salaires et justice dans les corporations vénitiennes au 17e siècle. Le cas des manufactures de verre, «Annales. Histoire, Sciences sociales», LIV, 1, 1999, in particolare pp. 271-273.
26
In proposito mi sia consentito di rinviare a L. MOCARELLI, Costruire la città, cit., pp. 208-242.
RIPENSARE L’EDILIZIA IN UNA PROSPETTIVA STORICO-ECONOMICA
73
Studiare in una nuova prospettiva la manodopera e i salari in edilizia ha offerto
anche l’occasione per tornare sulla grande ricaduta del settore in termini occupazionali. In effetti, la presenza di un quadro degli studi concentrato sul settore tessile e
la lavorazione dei metalli non può indurre a ignorare l’evidenza che il grande rilievo
economico dell’edilizia – basti ricordare che in Francia il settore tessile sarebbe riuscito a superarla soltanto tra 1880 e 189027 – dipendeva in primo luogo dal suo impatto
occupazionale. Di ciò si era ben consapevoli già in età moderna quando venivano
formulate considerazioni di questo tenore:
l’edilizia è la fonte principale dell’industria. Essa impiega un maggior numero di gente e di mestieri dell’industria alimentare e di quella dell’abbigliamento; molta manodopera trova lavoro
nelle attività artigianali del settore edilizio come muratori, carpentieri, imbianchini ecc., ancora maggiore è il numero di coloro che preparano i materiali da costruzione come mattoni, calce, tegole e aggiungendovi coloro che arredano la casa come tappezzieri, fabbricanti di oggetti
di peltro ecc. il numero di coloro che trovano impiego in edilizia diviene quasi infinito28.
Proprio questa incontestabile rilevanza economica e occupazionale chiama in
causa il tema dei rapporti dell’edilizia con l’andamento economico generale, a cominciare dalla sua importante funzione in chiave anticongiunturale (già ben chiara
in età moderna, quando per fronteggiare situazioni di crisi si varavano importanti lavori edilizi proprio perché erano in grado di occupare quantitativi molto consistenti
di manodopera), aspetti che verranno ora trattati da Jean François Chauvard.
Edilizia e congiuntura economica. Qualche riflessione sullo stato della questione
Lo studio del rapporto tra il settore della costruzione e i cicli economici ha acquisito piena legittimità nel campo della storia delle città e dell’economia29. Questa
evoluzione è recente, ed autorizza le riflessioni di lavori che hanno contribuito a
ricordare quanto questo ambito di ricerca sia stato a lungo trascurato sia dagli storici
dell’architettura30, più preoccupati delle realizzazioni concrete che delle condizioni
della loro messa in opera, sia da quelli dell’economia, inclini ad accordare un primato allo studio degli scambi commerciali, dell’agricoltura o della proto-industria e
che, di fatto, hanno avuto la tendenza ad interpretare in termini negativi il legame
27
In Inghilterra, invece, il sorpasso sarebbe avvenuto qualche decennio prima in relazione alla
precoce trasformazione in senso industriale dell’economia locale (tali stime si devono a P. CHAUNU,
Le bâtiment dans l’économie traditionnelle, in Le bâtiment: enquête d’histoire économique 14e-19e siècles,
I, Maisons rurales et urbaine dans la France traditionelle, édités par J.P. Bardet-P. Chaunu-G. Désert-P.
Gouhier-H. Neveux, Paris-La Haye, Mouton, 1971, p. 19).
28
Queste considerazioni erano svolte dallo speculatore Nicholas Barbon che scriveva dopo il grande
incendio di Londra del 1666 (cit. da D. SELLA, Le industrie europee 1500-1700, in Storia economica
d’Europa, II, I secoli XVI e XVII, a cura di C.M. Cipolla, Torino, UTET, 1979, p. 302).
29
L. MOCARELLI, Costruire la città, cit.; L’économie de la construction dans l’Italie moderne, cit.; M.
VAQUERO PIÑEIRO-I. AIT, Costruire a Roma tra XVI e XVII secolo, cit.; Edilizia privata nella Verona rinascimentale, a cura di P. Lanaro-P. Marini-G.M. Varanini, Milano, Electa, 2000.
30
A. GROHMANN, L’edilizia e la città. Storiografia e fonti, cit.
JEAN-FRANÇOIS CHAUVARD-LUCA MOCARELLI
74
tra investimento nelle costruzioni e sviluppo economico. Le loro argomentazioni
si accompagnano ad una attenzione alle sfumature – qualità rara in un campo in
cui il dibattito è stato fortemente polarizzato – che si traduce nella presa in carico
della diversità dei giudizi che gli economisti31, gli storici e, prima di loro, i moralisti
e i letterati hanno formulato sui motivi e le finalità degli investimenti in edilizia.
Riconoscendo il giusto ruolo all’edilizia nello sviluppo dell’economia urbana e mostrando a che punto essa costituisse una delle più importanti attività cittadine dopo
l’alimentazione e, in alcuni casi, prima ancora della produzione tessile32, i recenti studi hanno insistito sul fatto che tali studi avessero dei precedenti33 e che le interpretazioni non sono mai state tanto risolute quanto si poteva pensare ad un esame troppo
rapido. È inoltre interessante constatare che essi non sono giunti ad abbandonare
l’idea che l’interpretazione storiografica dominante non sia più quella dei sostenitori
di una visione negativa del settore dell’edilizia, bensì la loro, grazie alla qualità della
riflessione e dei metodi che hanno saputo mettere in atto34. Quest’impostazione,
frutto sicuramente di uno strumento retorico, richiama a sua volta l’opposizione tra
una storia delle città «all’italiana», basata sulle forme, ed una storia «alla francese»,
che assegna il ruolo preminente alla società, mentre, di fatto, esse si sono ispirate
l’una dall’altra per comprendere in cosa differissero. Le pagine che seguono hanno la
modesta finalità di esporre il cammino percorso fin qui35.
Il dibattito è stato anzitutto condotto sugli effetti delle circostanze economiche sul
settore dell’edilizia. Una serie di proposte antinomiche ha analizzato l’edilizia sia come
risultato di un importante accumulo di capitali in un contesto di prosperità, sia come
il sintomo del declino commerciale e industriale italiano durante la prima modernità.
La prima proposta interpretativa si basa sull’evidenza: in primo luogo, perché una città
non è altro che l’immobilizzo duraturo dei capitali nel mattone; secondariamente, perché la prosperità economica va spesso di pari passo con la crescita urbana e lo sviluppo
dell’edificato36. Questa regola generale trova applicazione nelle città medievali dell’Italia centrale e settentrionale, dove le autorità comunali, la borghesia cittadina e i principi
hanno esibito le ricchezze da loro acquisite erigendo chiese, edifici pubblici, muraglie,
La relazione tra cicli economici e congiuntura edilizia è trattata nel suo complesso da J.B.D.
DERSKEN, Long Cycle in Residential Building: an Explanation, «Econometrica», 1940, 8, pp. 97-116; e
M. TALAMONA, Fluttuazioni edilizie e cicli economici, Roma, ISCO, 1958.
32
P. CHAUNU, Le bâtiment dans l’économie traditionnelle, cit., pp. 24-27.
33
R.A. GOLDTHWAITE, La costruzione della Firenze rinascimentale, cit.; D. SELLA, Le industrie europee, cit.
34
Penso, in particolare, al modo in cui si è tenuto conto dei lavori che la Settimana Datini 2004
ha dedicato all’argomento: se ne vedano gli atti in L’edilizia prima della rivoluzione industriale, cit. in
particolare alle pp. 11-17.
35
Esse devono molto ai lavori di L. Mocarelli, all’articolo di L. PEZZOLO, La pietrificazione del capitale: ipotesi e problemi, in Edilizia privata, cit., pp. 53-60.
36
La correlazione positiva fra prosperità economica e sviluppo edilizio è stata osservara anche in aree
extraeuropee: D.B. MILLER, Monumental building, cit.
31
RIPENSARE L’EDILIZIA IN UNA PROSPETTIVA STORICO-ECONOMICA
75
palazzi, in segno di prosperità e indipendenza37. Ovunque, in Europa, la prosperità
economica è andata di pari passo con il dinamismo edilizio: così nelle città fiamminghe
a fine Medioevo, ad Amsterdam nel Seicento, a Londra e nei centri della costa atlantica
stimolato dal commercio a lunga distanza nel XVIII secolo.
Gli storici, dunque, concordano su un punto: all’origine dell’immobilizzo di capitali nel mattone v’è un accumulo impressionante di ricchezze generate dalla lunga
fase di prosperità dell’economia italiana. Nondimeno, la periodica assenza di coincidenza tra periodo di dinamismo economico e sviluppo edilizio ha indotto taluni ad
esprimere riserve su questa correlazione. Mezzo secolo fa, Carlo Maria Cipolla ha posto i termini della questione chiedendosi se il dispendio ostentato che caratterizzava
la civiltà rinascimentale e barocca rappresentasse un fenomeno culturale e/o il risultato della contraddizione delle opportunità economiche38. Allora era comunemente
ammesso che gli investimenti cittadini, e più in generale l’economia della rendita,
avessero trionfato grazie ai cambiamenti intercorsi nei comportamenti delle élites
mercantili delle grandi città italiane. I termini di quest’evoluzione erano ben noti: i
mercanti patrizi, che fino alla fine del Medioevo avevano investito la maggior parte
dei loro capitali nel commercio marittimo, nelle attività manifatturiere, nelle flotte
navali e nella finanza, in seguito li avevano investiti, in preferenza, in settori ritenuti
più sicuri: la terra, il mattone, la rendita pubblica, i prestiti privati39. Di certo, gli
acquisti di proprietà fondiarie e immobiliari avevano luogo già nel Medioevo, ma nei
tempi floridi dei commerci essi erano il segno tangibile di una ricchezza acquisita sui
mari e nelle fiere ed un investimento sicuro per premunirsi contro i rischi di imprese
lontane. In età moderna la natura della proprietà fondiaria è mutata, diventando la
componente essenziale dei patrimoni, a diversi livelli secondo le famiglie. Nell’arco di
due o tre generazioni, il mercante si è trasformato in possidente seguendo il percorso
diventato emblematico, dei Barbarigo studiati da Frederic C. Lane40, o di Alberto
Gozzi, ricco negoziante della prima metà del XVII secolo, rivoltosi agli investimenti
37
Per Richard Goldthwaite, l’intensa attività edilizia nella Firenze del XV secolo dipende tanto
dall’accumulo straordinario di ricchezza, quanto dalla sua spartizione fra molti: R.A. GOLDTHWAITE, La
costruzione della Firenze rinascimentale, cit.
38
C.M. CIPOLLA, Introduzione, in ID., Storia dell’economia italiana. Saggi di storia economica, I, Secoli
settimo-diciasettesimo, Torino, Einaudi, 1959, p. 19.
39
Sull’interpretazione della crisi e della riconversione italiana, si veda L. BULFERETTI, L’oro, la terra
e la società. Un’interpretazione del nostro Seicento, «Archivio storico lombardo», 1953, pp. 20-22 e M.
AYMARD, La fragilità di un’economia avanzata, in Storia dell’economia italiana, 2, L’età moderna: verso la
crisi, Torino, Einaudi, 1991, pp. 9-13. Sul caso veneziano, B. PULLAN, The Occupations and Investments
on the Venetian Nobility in the Middle and Late Sixteenth-Century, in Renaissance Venice, edited by J.E.
Hale, London, Faber and Faber, 1973, pp. 379-408.
40
F.C. LANE, Andrea Barbarigo, mercante di Venezia, 1418-49, in ID., I mercanti di Venezia, Torino,
Einaudi, 1996, pp. 3-121. Da citare anche, tra molti altri, l’esempio della famiglia comasca degli Odescalchi, che cerca di investire in «beni stabili»: G. MIRA, Vicende economiche di una famiglia italiana dal
XIV al XVII secolo, Milano, Società editrice “Vita e pensiero”, 1940, p. 230.
76
JEAN-FRANÇOIS CHAUVARD-LUCA MOCARELLI
immobiliari e finanziari nella misura in cui il rendimento della sua attività commerciale calava41. Se la marginalizzazione delle attività commerciali e industriali da parte
delle grandi dinastie mercantili a vantaggio di investimenti più sicuri, in particolare
fondiari, risulta indiscutibile, la cronologia e le modalità che caratterizzarono il processo richiedono tuttavia di essere meglio precisate.
Prima di tutto è necessario ricordare che, fra Cinque e Seicento, affari commerciali
e investimenti fondiari non erano più alternativi come nel Medioevo. L’acquisto di beni
immobili, infatti, restò un uso diffuso tra le dinastie mercantili che cercavano di consolidare la ricchezza accumulata e di assicurare la loro ascesa sociale. La politica dei Fugger
in Souabe ne è l’esempio migliore42. Essa conferma la tesi di Fernand Braudel secondo
la quale i grandi mercanti si rifiutavano di specializzarsi in un solo tipo di investimento, giacché nessun settore era sufficiente ad assorbire tutta la loro attività43. Ciò vale
anche per i grandi investitori che ripartivano i loro investimenti fra la terra, il settore
commerciale e l’industria, prefiggendosi come scopo la ricerca di profitti e garanzie per
accrescere il loro credito. L’acquisto di terre fu un’autentica azione capitalistica suscettibile di dar luogo a bonifiche, riassemblamenti, nuove condizioni contrattuali o nuove
colture. L’oligarchia fiorentina, che a fronte del trionfo del principato mediceo si trasformò in nobiltà di corte, si allontanò dagli affari solo a partire dalla seconda metà del
Seicento, se non addirittura nel secolo successivo: in precedenza essa aveva mantenuto i
suoi interessi commerciali e industriali, senza nemmeno diversificare le proprie attività
approfittando della creazione di nuovi feudi44.
In aggiunta a ciò, è necessario ribadire un aspetto all’apparenza scontato: l’edilizia
non era condizionata dallo sviluppo delle attività commerciali, ma dall’economia della rendita nel suo insieme. Nelle fasi di espansione urbana, i capitali impiegati nella
costruzione degli edifici potevano generare grandi profitti grazie alla pressione demografica. È quanto accadde, ad esempio, nella Venezia cinquecentesca o a Roma45, ove
il rendimento del patrimonio immobiliare della chiesa di San Giacomo degli Spagnoli
conobbe una crescita del 50% tra il 1556 e il 1599, per poi aumentare solo del 22%
41
R.T. RAPP, Real Estate and Rational Investment in Early Modern Venice, «Journal of European
Economic History», 1979, 8, pp. 269-290.
42
R. MANDROU, Les Fugger, propriétaires fonciers en Souabe, 1560-1618, Paris, Plon, 1969.
43
F. BRAUDEL, La dynamique du capitalisme, Paris, Arthaud, 1985, p. 64.
44
S. BERNER (The Florentine Patriciate in the Transition from Republic to Principato, 1530-1609,
«Studies in Medieval and Renaissance History», 1972, pp. 3-15) e P. MALANIMA (I Riccardi di Firenze.
Una famiglia e un patrimonio nella Toscana dei Medici, Firenze, Olsckhi, 1977, p. 77), ricordano che
alcune grandi famiglie (Corsini, Torrigiani, Galluzzi) nel XVII secolo continuavano a investire nelle
società industriali e commerciali.
45
Sull’aumento degli affitti nel XVI secolo, si veda H.H. KAMEN, Il secolo di ferro 1550-1660, Bari,
Laterza, 1975, pp. 95-96; su Bologna, R. FREGNA, La pietrificazione del denaro. Studi sulla proprietà urbana tra XVI e XVII secolo, Bologna, Clueb, 1990, pp. 77-79 e p. 192; su Roma, M. VAQUERO PIÑEIRO,
A proposito del reddito immobiliare urbano a Roma (1500-1527). Alcune considerazioni sulle fonti e primi
approcci, «Archivio della società romana di storia patria», 1990, 113, p. 204.
RIPENSARE L’EDILIZIA IN UNA PROSPETTIVA STORICO-ECONOMICA
77
tra il 1600 e il 1625, in concomitanza con una flessione della curva demografica46.
Quando il territorio urbano non poté più espandersi, l’investimento nel mattone fu
rivolto all’acquisto di immobili già esistenti ma rimase comunque redditizio, come
accadde a Venezia nel XVII secolo: fino al 1630 il settore immobiliare produsse un
rendimento del 3%, inferiore sia alle rendite pubbliche e che ai profitti agricoli, per poi
però offrire possibilità di profitto pari al prestito privato (dal 4 al 5%)47. L’andamento
delle costruzioni ex novo di edifici, insensibile all’andamento della congiuntura commerciale, poteva quindi dipendere dalle variazioni del livello della rendita fondiaria.
Quanto detto vale dal XVI secolo per Napoli, ove le residenze cittadine della nobiltà
furono precisamente finanziate da capitali derivati dalla rendita fondiaria. Allo stesso
modo, ciò è vero per l’Italia centro-settentrionale del Seicento, quando la riconversione delle vecchie famiglie mercantili era ormai completata. L’esempio napoletano resta
comunque il più eloquente, poiché nella città partenopea la fonte dei finanziamenti
rimase sempre la stessa, favorendo l’inurbamento della nobiltà tra il 1530 e il 1570,
per poi esaurirsi dopo il 1650, non permettendo più la costruzione di nuovi edifici né
il mantenimento dei vecchi; diventò, infine, di nuovo abbondante nel XVIII secolo
consentendo l’esplicarsi di un ultimo ciclo di costruzioni48.
Se è lecito chiedersi come il settore immobiliare sia andato strutturandosi intorno
ad investimenti concorrenti, mettendo a confronto l’evoluzione dei diversi tassi di
profitto e ponendo in luce i cambiamenti dei secoli XVI e XVII, non bisogna, tuttavia, aspettarsi da questa comparazione più di quanto è in grado di apportare49. In
sé, essa non saprebbe spiegare le correnti d’investimento, poiché le speculazioni non
erano fondate solo su criteri di profitto o su una disamina della congiuntura della
rendita, ma anche su elementi di natura sociale o psicologica, tali da rendere più
variabile la frontiera fra investimenti a rischio e investimenti sicuri. A conferma di
quanto detto, nel Seicento si registrò il proseguimento della tendenza dei patrizi veneziani ad acquistare terre nell’entroterra, nonostante la rendita fondiaria fosse meno
allettante che nel secolo precedente50.
46
M. VAQUERO PIÑEIRO, La renta y las casas. El patrimonio immobiliario de Santiago de los Espanoles
de Roma entre los siglos XV y XVII, Roma, L’Erma di Bretschneider, 1999.
47
J.-F. CHAUVARD, La circulation des biens à Venise. Stratégies patrimoniales et marché immobilier
(1600-1750), Roma, École française de Rome, 2005, pp. 229-241.
48
G. LABROT, Palazzi napoletani. Storie di nobili e cortigiani 1520-1750, Napoli, Electa, 1993; G. SIMONCINI,
Le capitali italiane dal Rinascimento all’Unità. Urbanistica, politica, economia, Milano, Clup, 1982, pp. 36-37.
49
Il fatto che gli scarti del tasso di profitto non rendano sempre conto delle ripartizioni degli investimenti fra l’edilizia ed altri settori è messo in evidenza nel dibattito tra J.-P. BARDET-M. RONCAYOLO-J.-C.
PERROT-D. ROCHE, Une nouvelle histoire des villes, «Annales E.S.C.», 1977, 6, p. 1240, sul libro di J.-C.
PERROT, Genèse d’une ville moderne: Caen au XVIIIe siècle, Paris-La Haye, Mouton, 1975.
50
D. BELTRAMI, La penetrazione economica dei Veneziani in Terraferma. Forze di lavoro e proprietà
fondiaria nelle campagne venete dei secoli XVII e XVIII, Venezia-Roma, Istituto per la collaborazione
culturale, 1956, pp. 77-78. L’attrazione per la rendita, in particolare per la rendita fondiaria, era il
segnale di un’evoluzione delle mentalità, di un’urgenza di nuovi valori, di un cambiamento di ordine
78
JEAN-FRANÇOIS CHAUVARD-LUCA MOCARELLI
Se l’edilizia può legittimamente apparire, a seconda dei casi, come un segno di
prosperità o come conseguenza di un cambio d’orientamento negli investimenti, è
proprio perché il settore era soggetto ad una serie di congiunture che obbedivano
ognuna a tempistiche differenti. Nessuna di loro, presa isolatamente, costituiva una
chiave esplicativa sufficiente.
A dare un impulso decisivo all’avvio di un ciclo di costruzione erano essenzialmente fattori politici51. Ciò è vero soprattutto per i principati, ove il ciclo dinastico
imponeva un ritmo scandito dai cambi di regnanti, da eventi familiari, dai gusti
architettonici dei principi. Ma è vero anche il comportamento edilizio delle élites
cittadine. A Napoli52, il movimento d’inurbamento della nobiltà feudale si avviò tra
il 1532 e il 1553 sotto il viceré Pietro di Toledo, che ne incoraggiò l’insediamento
nella capitale con lo scopo di isolarla dalle basi locali del suo potere, inducendola a
spese capaci di porla alle sue dipendenze53. I valori che si affermarono nella seconda
metà del XVI secolo a favore dell’aristocratizzazione del patriziato cittadino e della
chiusura della società54 condussero ad un riavvicinamento delle nobiltà senza conflitti aperti o rivalità che, non esprimendosi violentemente, trovarono nel consumo
di lusso e nell’edilizia di prestigio un terreno d’espressione privilegiato55. A Genova
l’ondata di costruzioni rappresentata dalla lottizzazione della Strada Nuova e della
via del Guastato ebbe luogo in un periodo di prosperità finanziaria, ma la nobiltà si
decise a sposare i gusti estetici di altre capitali italiane, a modificare il suo stile di vita
e a erigere sontuosi edifici per la propria gloria nel momento stesso in cui essa acquisiva una definitiva supremazia istituzionale sul resto della società56. Quando inoltre,
nel 1550 circa, l’elargizione delle assise sociali della classe dirigente aprì la strada ad
una viva competizione tra nuove famiglie e antiche dinastie, queste ultime si misero
in gioco per conservare il loro primato. A Firenze, fu il Granduca Cosimo de’ Medici
a porre termine alla pausa edilizia che la città aveva conosciuto dopo l’inizio del XVI
secolo, incoraggiando la nobiltà a seguire il suo esempio e ad edificare opere sontuo«psicologico», per riprendere la terminologia utilizzata da L. Stone per l’aristocrazia inglese. L. STONE,
Family and Fortune. Studies in Aristocratic Finance in the Sixteenth and Seventeenth Centuries, Oxford,
Oxford University Press, 1973, pp. 62-91.
51
P. BURKE, The historical anthropology of early modern Italy: essays on perception and communications,
Cambridge, Cambridge University Press, 1989, pp. 147-148.
52
G. LABROT, Baroni in città. Residenze e comportamenti dell’aristocrazia napoletana. 1530-1734,
Napoli, Società editrice napoletana, 1979.
53
Questo aspetto è stato sottolineato con insistenza da M. BERENGO, La città di antico regime, in Dalla
città preindustriale alla città del capitalismo, a cura di A. Caracciolo, Bologna, Il Mulino, 1975, pp. 25-54.
54
C. DONATI, L’idea di nobiltà in Italia. Secoli XIV-XVIII, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. 93-136.
55
Ferdinando Leopoldo Del Migliore, in Firenze Città Nobilissima (Firenze, 1684, p. 464), parlava
di «la gara onoratissima nata fra Nobili et Nobili». Allo stesso modo, Giovanni Botero, in Delle cause
della grandezza delle città (Venezia, 1589, vol. 2, cap. 10), incoraggiava l’emulazione fra i nobili.
56
R. SAVELLI, La repubblica oligarchica. Legislazione, istituzioni e ceti a Genova nel Cinquecento,
Milano, Giuffrè, 1981.
RIPENSARE L’EDILIZIA IN UNA PROSPETTIVA STORICO-ECONOMICA
79
se. Il controllo meticoloso del principe sull’approvvigionamento dei materiali e sui
lavori di edificazione ebbe, dunque, un effetto negativo sul dinamismo dei cantieri
pubblici. A Venezia, il ritorno alla costruzione di palazzi a metà Cinquecento fu legato all’ammissione di nuove famiglie, in particolare di origine mercantile, all’interno
del patriziato57. Quest’esempio ha il merito di mostrare che il flusso di investimenti
immobiliari e la costruzione di palazzi potevano dipendere più dal grado di mobilità
sociale nella classe dirigente che non dalle condizioni economiche, quantunque queste fossero indispensabili sia per entrare nel patriziato sia per edificare.
L’attenzione ai comportamenti familiari mostra, allo stesso modo, che le funzioni
simboliche associate al possesso e alla costruzione di un palazzo rivestivano un’importanza diversa a seconda delle famiglie. Le casate di più recente annessione, in
particolare, sembravano essere le più sensibili all’edificazione di dimore. Quando fu
investita di un marchesato nel 1629, la famiglia Riccardi riorientò il suo patrimonio
verso i possedimenti fondiari e trent’anni dopo acquistò il palazzo Medici. La sua
ascesa sociale comportò un aumento dei suoi consumi, al punto che i redditi sembrarono presto insufficienti per affrontare le spese. Si pose allora la questione d’incrementare le entrate familiari mediante il ricorso al credito. Quest’idea, sviluppata a
suo tempo da Thomas Malthus, e poi da Werner Sombart e da Laurence Stone, trova
conferma piena tanto nell’indebitamento della famiglia Riccardi a fine Cinquecento
quanto in quello di buona parte del patriziato veneziano nel secolo successivo.
Il dinamismo del settore edilizio dipendeva anche dalla diversità degli attori in gioco. Più i potenziali committenti – istituzioni ecclesiastiche, ospedali58, uffici pubblici,
confraternite59, principi, nobili, mercanti – erano coinvolti nelle operazioni di lottizzazione, più la ricchezza era ripartita tra numerose persone accomunate dall’emulazione, e più le condizioni di un ritmo costruttivo sostenuto erano presenti.
Bisogna, infine, ricordare il ruolo decisivo giocato dalle autorità pubbliche nel definire quadri giuridici propizi alle espropriazioni e all’edilizia, nel praticare una politica
fiscale più o meno favorevole ai proprietari e nell’esercitare forme di tutela sull’organizzazione del lavoro. Nel caso di Roma, Claudia Conforti ha mostrato quanto il potere
57
L. MEGNA, Compartamenti abitativi del patriziato veneziano (1582-1740), «Studi veneziani»,
XXII, 1991, pp. 253-323; R. SABBADINI, L’acquisto delle tradizione. Tradizione aristocratica e nuova nobiltà a Venezia, Udine, Gaspari Editore, 1995; F. HASKELL, Mécènes et peintres. L’art et la société au temps
du baroque italien, Paris, Gallimard, 1991, pp. 451-491.
58
Se la costruzione di un palazzo necessitava di grandi disponibilità di fondi ed era riservata alla nobiltà e ai grandi commercianti, gli edifici più modesti erano appannaggio di magistrati, notai, mercanti
che cercavano parimenti di esprimere la loro condizione sociale.
59
Sul vasto argomento della proprietà ecclesiastica e della sua gestione, cfr. E. STUMPO, Il consolidamento
della grande proprietà ecclesiastica nell’età della Controriforma, in Storia d’Italia, Annali, vol. IX, La chiesa e il potere
politico, a cura di G. Chittolini-G. Miccoli, Torino, Einaudi, 1986, pp. 263-289; L’uso del denaro. Patrimoni e
amministrazione nei luoghi pii e negli enti ecclesiastici in Italia (secoli XV-XVIII), a cura di A. Pastore-M. Garbelloti, Bologna, Il Mulino, 2001. Sulle confraternite laiche, D.E. BORNSTEIN, Corporazioni spirituali: proprietà delle
confraternite e pietà dei laici, «Ricerche di storia sociale e religiosa», n. s., XXIV, 1995, pp. 77-90.
80
JEAN-FRANÇOIS CHAUVARD-LUCA MOCARELLI
della Fabbrica di San Pietro e l’autonomia lasciata alle professioni edili abbiano favorito
il dinamismo di un settore stimolato da abbondanti finanziamenti60.
L’elenco dei fattori che influivano sul settore potrebbe allungarsi ulteriormente,
ma la sfida è soprattutto quella di comprendere la loro gerarchia ed il loro evolvere
nel tempo. In questa direzione, il grande merito del lavoro di Aleksander Panjek61 è
stato quello di proporre un’analisi globale dell’andamento dell’edilizio a Trieste nel
XVIII secolo, mostrando l’interazione e l’eventuale correlazione tra lo sviluppo commerciale, la macchina legislativa, la pianificazione pubblica dei lavori infrastrutturali,
la forte crescita demografica e l’impulso rappresentato, in un’economia prettamente
mercantile, da investimenti immobiliari finalizzati a ottenere credito ed avere accesso
ai capitali delle compagnie assicurative. L’insieme di questi fattori componeva un
sistema che giocava ora a favore, ora a spese del dinamismo del settore. L’ambizione
a tenere insieme tutti i fili e proporre una interpretazione globale nel lungo periodo
consente di sfuggire alla cecità a cui lo studio di un singolo cantiere può condurre,
autorizzando paragoni con altre realtà.
Bisogna poi sottolineare che la polarizzazione che ha segnato il dibattito sulle cause
dello sviluppo dell’edilizia ha investito, in termini analoghi, anche l’interpretazione del
suo impatto economico. Il giudizio degli storici sull’immobilizzo del capitale nel mattone è stato a lungo severo. Dopo la tesi del medievista Robertino Sabatino Lopez62,
molti studiosi hanno visto nell’espansione del settore edilizio una delle cause del declino dell’economia italiana seicentesca, nella misura in cui gli investimenti immobiliari
e fondiari avrebbero sottratto dei capitali ai settori produttivi. A sostegno di quest’imputazione potevano esser invocati anche i giudizi severi di quanti, in età moderna,
avevano criticato aspramente le spese ostentate e il gusto smodato per il mattone, come
avevano fatto Carlo Borromeo o il genovese Andrea Spinola, il quale proclamò che «un
cittadino prudente non dovrebbe mai fabbricare delle case che oltrepassino una certa
mediocrità [...]»63. Per parte sua, Guarino Guarini, nel suo trattato di Architettura civile,
alla fine del XVII secolo denunciò l’inadeguatezza tra il costo di un palazzo e le risorse
che potevano essere realmente mobilitate64. Queste critiche riprendevano gli argomenti
60
C. CONFORTI, L’organizzazione dei cantieri a Roma e Firenze nel Cinquecento, in Grands chantiers
de la renovation urbaine: les experiences italiennes dans leur contexte europeen (XV-XVI siècles), édités par P.
Boucheron-M. Folin, Roma, École française de Rome, in corso di pubblicazione.
61
A. PANJEK, Edilizia e sviluppo. La città e porto franco di Trieste nel Settecento, in L’edilizia prima
della rivoluzione industriale, cit., pp. 723-735.
62
R.S. LOPEZ, Economie et architecture médiévale. Cela aurait-il tué ceci?, «Annales ESC», 1952, 7,
pp. 433-438.
63
Citato da E. POLEGGI, Strada Nuova. Una lottizzazione del Cinquecento a Genova, Genova, Sagep,
1972, p. 378.
64
GUARINO GUARINI, Architettura civile. Opera postuma dedicata a Sua Sacra Maestà, Milano, 1968
(I ed. 1680), p. 69: «Però l’architetto deve non tanto desiderare la pubblica magnificenza, quanto aver
riguardo alle private forze, né tanto il farsi onore nelle belle intraprese, quanto non danneggiar il com-
RIPENSARE L’EDILIZIA IN UNA PROSPETTIVA STORICO-ECONOMICA
81
di Leon Battista Alberti a condanna della dissolutezza, della superbia, dell’eccesso di
decorazione nell’edilizia65. Ma laddove Alberti definiva un ideale condiviso a inizio del
XVI secolo, un secolo più tardi i detrattori del barocco avevano, invece, ben poca presa
sui comportamenti dei loro contemporanei66.
Sollevando le critiche avanzate contro una classe dirigente che avrebbe abbandonato il commercio per il profitto della rendita e manifestato un gusto nefasto
per la spesa ostentata, si avvalorava l’idea secondo la quale tali cambiamenti erano
responsabili del declino dell’economia italiana o quanto meno, del suo minor dinamismo cinquecentesco. Benedetto Croce si spinse ancora più lontano, deplorando la
decadenza morale delle élites italiane sotto l’influsso spagnolo67. Altri studiosi, come
Giorgio Doria, si sono chiesti se l’enorme quantità di denaro immobilizzato in forma
di palazzi e ville non avesse limitato la disponibilità di liquidi necessari ad affrontare
la difficile congiuntura del secondo quarto del XVII secolo68. Il denaro investito in
un palazzo genovese, ossia all’incirca 30.000 scudi, avrebbe permesso di acquistare
un terreno agricolo di 1.000 ettari, di far costruire due o tre galere o, ancora, di
attrezzare da 8 a 10 fabbriche di seta. In un contesto di flessione durevole dell’attività economica, il denaro «pietrificato» sarebbe stato sottratto al rilancio dei settori
produttivi. Il dibattito non è chiuso ed è ben lontano dall’esserlo, poiché, secondo Maurice Aymard, la «ristrutturazione complessa [dell’economia] lascia alle città
dell’Italia del Nord un’enorme ricchezza accumulata, non completamente reinvestita
né nella terra né nelle pietre preziose»69. E fornisce come esempi gli investimenti
veneziani fatti sulla piazza di Amsterdam nel XVII secolo o il ruolo preminente mantenuto da Genova fra le piazze finanziarie europee70.
pagno col metterlo in impossibili impegni»: citato da G. SIMONCINI, Le capitali italiane dal Rinascimento
all’Unità, cit., p. 40.
65
LEON BATTISTA ALBERTI, I libri della Famiglia, Torino, Einaudi, 1969 (I ed. 1432-1434), pp. 197-237.
66
Nel 1600, il lucchese Bartolomeo Cenami constatava che i Fiorentini avevano «abbandonato la
parsimonia tradizionale della loro vita privata» e adottato «la condotta di vita dei cortigiani» (citato da
P. BURKE, The historical anthropology of early modern Italy, cit., p. 145). Nel 1606, a Venezia, il Senatore
Angelo Badoer se la prese con quel che definiva «la nostra insopportabile lussuria, arroganza e ostentazione, tanto lontane dai costumi dei nostri antenati» (A. BADOER, Rengo di Senatore, in Paolo V e la
Repubblica Veneziana, a cura di E. Cornet, Venezia, 1859, p. 313: citato da P. BURKE, The historical
anthropology of early modern Italy, cit., p.143). Sul Gran Ducato di Toscana, R. Galluzzi scrisse nel 1781:
«il commercio [...] cessò, alcuni feudi furono acquistati nel Regno e altri furono creati nel Gran Ducato
e si vide sorgere tra i cittadini una nuova classe opposta allo spirito della costituzione, inutile e nociva
per lo Stato, e odiosa per tutti» (ID., Storia del Granducato di Toscana, III, Firenze, 1781, p. 496-497,
citato da P. MALANIMA, I Riccardi di Firenze, cit., p. 43).
67
B. CROCE, Disegno storico della civiltà, Roma, 1970, II, p. 194.
68
G. DORIA, Investimenti della nobiltà genovese nell’edilizia di prestigio (1530-1630), «Studi storici»,
XXVII, 1986, pp. 24-27.
69
M. AYMARD, La fragilità di un’economia avanzata, cit., p. 15.
70
G. FELLONI, Gli investimenti finanziari genovesi in Europa tra il Seicento e la Restaurazione, Milano,
Giuffrè, 1971.
JEAN-FRANÇOIS CHAUVARD-LUCA MOCARELLI
82
Se si considera l’investimento edilizio in funzione della sua capacità di stimolare
le attività produttive, ed in particolare quelle rivolte all’esportazione, non c’è modo
di confutare il parere di Jean Delumeau, per cui «non v’è che una grande attività
industriale a Roma alla fine del XVI secolo: quella dell’edilizia, attività estremamente
interessante, ma economicamente pericolosa, perché dilapida grosse somme di denaro, ma non apporta nulla. Questa politica del prestigio porta a investimenti improduttivi e a un sotterramento del capitale»71. Se, in compenso, si cerca di circoscrivere
gli effetti dell’edilizia sull’economia urbana, tralasciando i risultati ipoteticamente
realizzabili mediante usi alternativi dello stesso denaro, ecco che vi è il modo di attenuare la loro incidenza nefasta.
I lavori più recenti se ne sono occupati interpretando l’edilizia come strumento di
ammortamento e risposta prekeynesiana alla crisi. A sostegno della loro dimostrazione, tali lavori chiamano in causa anche le opinioni di alcuni contemporanei attenti
alla funzione ridistributiva degli investimenti edilizi: Jean Bodin, Giovanni Botero e,
nel XVII secolo, il cardinal Sforza Pallavicini, il quale vedeva nella costruzione di palazzi il mezzo per impedire che il denaro «fugisse dalla città»72. Carlo Maria Cipolla73,
uno fra i promotori del dibattito, formulò una risposta che accreditava fortemente
la tesi del contributo degli investimenti immobiliari alla redistribuzione di una parte
della ricchezza e al sostegno di ampie porzioni dell’economia urbana74.
Nei periodi ordinari, l’attività edilizia occupava all’incirca il 10-20% della manodopera maschile, percentuale ancor più elevata se si aggiunge ad essa il lavoro
occasionale e stagionale75. Il tasso d’occupazione era evidentemente subordinato a
variazioni dettate dai ritmi della crescita urbana, e non riguardava che una parte di
quanti afferivano al settore. In queste condizioni, la cifra del 3% proposta da Paolo
Malanima per soppesare il contributo dell’industria edile al prodotto globale dell’Italia centro-settentrionale intorno al 1570 è decisamente una stima bassa, per quanto
sia paragonabile al settore della lana e della seta, i più dinamici dell’economia italiana76. A scala urbana, su 5.600 botteghe artigianali censite a Roma nel 1620, 1.785
J. DELUMEAU, Vie économique et sociale à Rome dans la seconde moitié du XVIe siècle, 2 voll., Paris,
Boccard, 1957, I, p. 382.
72
Biblioteca dell’Accademia Nazionale dei Lincei e Corsiniana, Cors. 173, Vita, azioni e operazioni di
Alessandro VII, c. 373v, citato da G. SIMONCINI, Le capitali italiane dal Rinascimento all’Unità, cit., p. 49.
73
C.M. CIPOLLA, Economic Fluctuations, The Poor, and Public Politicy (Italy, 16th and 17th Centuries), in Aspects of poverty in Early Modern Europe, edited by T. Riis, Stuttgart, Alphen aan den Rijn,
1981, pp. 65-77, p. 74: «examples of public works started in order to counteract bouts of unemployment are so abundant that there is only the difficulty of choice».
74
L’osservazione vale anche per gli effetti dell’edilizia sull’economia rurale: L. PEZZOLO, La pietrificazione del capitale: ipotesi e problemi, in Edilizia privata nella Verona rinascimentale, cit., pp. 56-57.
75
Queste proposte sono avanzate anche da D. WOODWARD, Men at work. Labourers and building,
cit., p. 25.
76
P. MALANIMA, La fine del primato. Crisi e riconversione nell’Italia del Seicento, Milano, Bruno
Mondadori, 1998, p. 71.
71
RIPENSARE L’EDILIZIA IN UNA PROSPETTIVA STORICO-ECONOMICA
83
concernevano il settore dell’edilizia e delle attività ad esso correlate, 1.736 riguardavano il settore alimentare e 1.582 quello tessile77. Gli effetti benefici dell’edilizia
non erano limitati alla sola fase di costruzione. L’edificazione non era che il primo
atto di una lunga sequela di spese generate dai continui interventi di manutenzione
e restauro, in un’epoca in cui si privilegiava la sostituzione degli elementi deteriorati
o passati di moda ai grandi lavori strutturali.
Nei periodi di espansione urbana, le spese per l’edilizia funsero da impulso ad
un’ampia gamma di attività. In un contesto di stagnazione, vi è ragione di credere che
esse ebbero un effetto di ammortamento. Lungi dal produrre esiti parassitari, le spese
dei più ricchi contribuirono a sostenere la domanda interna e ad assicurare lavoro a
persone modeste, in un contesto di crisi delle attività produttive o di debolezza dei settori alternativi. Non v’è alcun dubbio che i cantieri pubblici ebbero un impatto ancora
superiore sull’impiego della manodopera e sulla redistribuzione delle spese78.
I lavori più recenti hanno consentito di andare oltre a mere considerazioni impressionistiche, apportando argomenti tangibili a favore di una presa di coscienza
reale del rovescio economico o della funzione anticongiunturale degli investimenti
edilizi ed infrastruttutali, e proponendo una metodologia fondata sulla scelta di una
sequenza temporale di osservazioni pertinenti. La lunga durata privilegiata in questi
lavori espone a conclusioni inevitabilmente vaghe. Nella Venezia dei secoli XVI e
XVII, ad esempio, non si osserva in alcun modo una netta correlazione fra il ritmo
delle costruzioni di palazzi e l’avvio di una fase espansiva: 40 palazzi furono eretti tra
il 1485 e il 1521, 70 tra il 1521 e il 1605 e un centinaio durante il XVII secolo79.
Tuttavia, si può avanzare l’ipotesi che un’osservazione più scrupolosa della cronologia
delle costruzioni e dei cicli brevi sia passibile di invalidare questa constatazione. A
Genova, l’età dell’oro della costruzione di palazzi coincise con il «secolo dei genovesi», ovvero col lungo periodo di prosperità (1530-1630) che rese i banchieri liguri
i protagonisti della finanza europea e degli scambi monetari80. I 170 palazzi che
sorsero tra la metà del XVI secolo e gli anni Trenta del Seicento furono finanziati coi
fiorenti proventi bancari81. Il ciclo di costruzione terminò nel momento stesso in cui
la finanza genovese fu coinvolta nella bancarotta della monarchia spagnola e nel declino della sua influenza in Italia. Se si presta più attenzione alla cronologia, si osserva
la concomitanza fra la fine delle guerre (1539-1540), la crisi degli anni 1580-1590
77
A. CARACCIOLO, Da Sisto V a Pio X, in Storia d’Italia, vol. XIX: Lo Stato Pontifio da Martino V a
Pio IX, a cura di M. Caravale-A. Caracciolo, Torino, Einaudi, 1978, p. 381.
78
G. GUERZONI, Apollo e Vulcano, cit., pp. 199-209.
79
E. BASSI, Palazzi di Venezia. Admiranda Urbis Venetae, Venezia, Stamperia di Venezia, 1980 e U.
FRANZOI, Palazzi e chiese lungo il Canal Grande a Venezia, Venezia, Storti, 1987.
80
L. GROSSI BIANCHI-E. POLEGGI, Una città portuale del Medioevo. Genova nei secoli X-XVI, Genova,
Sagep, 1979, pp. 243-250.
81
G. DORIA, Investimenti della nobiltà genovese, cit., pp. 10-11.
JEAN-FRANÇOIS CHAUVARD-LUCA MOCARELLI
84
e il boom dell’edilizia. La principale virtù degli investimenti edilizi fu la correzione
dell’impatto negativo esercitato di un rovesciamento congiunturale mediante l’impiego di una parte della manodopera inoccupata. Dopo il 1570, la crisi dell’industria
tessile e dei cantieri navali genovesi avrebbe potuto produrre forti tensioni sociali, se
non fosse stata attenuata dalle capacità occupazionali mostrate dal settore edilizio82.
A differenza dei lavori che hanno privilegiato il lungo periodo e/o un cantiere
particolare, nei suoi studi su Ferrara Guido Guerzoni si è concentrato su un arco cronologico breve (1551-1555), caratterizzato da una brutale recessione economica83.
Passando in rassegna la totalità delle spese in manodopera degli uffici ducali, egli
pone in evidenza l’esistenza di centinaia di pagamenti e di forti rotazioni di personale, unite ad una grande regolarità dei cantieri e ad una grande variabilità nei livelli
salariali dei gruppi e dei singoli. Guerzoni conclude che il duca cercava di far lavorare
il maggior numero di persone, pagandole regolarmente e modulando le retribuzioni
in funzione delle necessità, così da evitare che ritardi o riduzioni salariali avessero
effetti dannosi sulla capacità anticongiunturale dei cantieri. Da un punto di vista
prettamente economico, sarebbe stato più redditizio ricorrere a prestazioni gratuite o
fare affari con pochi fornitori ai fini di ottenere prezzi più bassi, ma l’obiettivo ducale
principale era quello di far lavorare tutti. La sua inattaccabile dimostrazione, supportata da una lunga serie di cifre, concorda con le analisi di Claudia Conforti sulla
politica edilizia di Gregorio XIII e Sisto V (che avevano privilegiato la quantità e la
rapidità dei lavori favorendo «la parcellizzazione dei ruoli»84 e un’animata concorrenza), con quelle di Giuseppe Papagno e di Marzio Romani sulla costruzione della cittadella di Parma (intrapresa nel 1591, all’alba di un decennio di cattivi raccolti)85 o,
ancora, con quelle di Luca Mocarelli, che collega il cantiere del Naviglio di Paderno
nel 1773 alla necessità di dare lavoro alle braccia disoccupate delle campagne86.
L’attenzione dedicata al funzionamento del mercato del lavoro, alle modalità di
pagamento e all’ampiezza del reclutamento della manodopera lascia intendere che ad
uguali investimenti non corrispondessero necessariamente uguali effetti moltiplicatori «diretti», come a suo tempo aveva intuito anche Jean-Pierre Sosson87. Se i magiIl numero di mastri muratori iscritti alla corporazione passa da 125 nel 1530 a 370 nel 1630: G.
DORIA, Investimenti della nobiltà genovese, cit., p. 22, nota 83.
83
G. GUERZONI, «E cosa da Principe far chiari gli splendori dell’opre eccelse & illustri di animo generoso»: politica edilizia e congiuntura economica negli Stati estensi del Cinquecento, in L’économie de la
construction dans l’Italie moderne, cit., pp. 507-529.
84
C. CONFORTI, Architteti, committenti, cantieri, in Storia dell’archittettura italiana. Il secondo Cinquecento, a cura di C. Conforti-R.J. Tuttle, Milano, Electa, 2001, pp. 9-22.
85
G. PAGAGNO-M.A. ROMANI, Una cittadella e una città (Il Castello Nuovo farnesiano di Parma
1589-1597): tensioni sociali e strategie politiche attorno alla costruzione di una fortezza urbana, «Annali
dell’Istituto italo-germanico di Trento», 1982, 8, pp. 141-209.
86
L. MOCARELLI, Costruire la città, cit., p. 256.
87
J.-P. SOSSON, Le bâtiment, cit., p. 103; ID., A propos des “travaux publics” de quelques villes de Flandre
82
RIPENSARE L’EDILIZIA IN UNA PROSPETTIVA STORICO-ECONOMICA
85
strati incrementavano la concorrenza per far abbassare i prezzi, gli appalti potevano
anche essere vinti da imprenditori esterni alla città. Qualora questi si appoggiassero
su imprenditori locali o una manodopera abbondante, allora gran parte delle spese
era nuovamente introdotta sulla piazza urbana.
Una volta stabilito che gli investimenti nell’edilizia pubblica e privata permettevano di sostenere la domanda degli strati più deboli della popolazione nei momenti
di recessione degli altri settori, la difficoltà diviene quella di misurare la portata della
ridistribuzione delle risorse e calcolare globalmente i flussi di trasferimenti immessi
nell’economia urbana. Un possibile metodo88 è quello di fornire ordini di grandezza
passibili di essere oggetto di paragone: si stima l’ammontare totale delle spese, si calcola la parte destinata al pagamento della manodopera (40-45%), si converte questa
cifra in giornate di salario di un mastro carpentiere o muratore, ed infine si divide
la somma per il numero dei giorni lavorativi (circa 180). I risultati così ottenuti
possono anche essere riferiti ad un solo tipo di edificio: è questo il caso, ad esempio,
dei lavori di Giorgio Doria89 e di Richard Goldthwaite, i quali hanno calcolato che
la costruzione di un palazzo equivalesse al costo del lavoro annuale di un insieme di
200-400 persone90. Guido Guerzoni, per parte sua, ci dice che, su 1.000 lire di spesa,
350 erano utilizzate per pagare mercanti, intermediari e rivenditori, e 650 servivano
a retribuire 1.560 giornate di lavoro, come a dire l’equivalente del lavoro a tempo
pieno di un anno di 8 mastri con apprendisti. Se nel 1552 lavoravano a tempo pieno
130 mastri, nel 1580 la stessa quantità era pari a 1.460, ossia 6 persone su 7.000 (1/5
della popolazione)91. Luca Mocarelli, infine, stima in 920.000 lire l’ammontare delle
spese edilizie milanesi sostenute tra il 1751 e il 1796. Esse consentirono di dare lavoro a 4.000 persone, pari al 15-18% degli abitanti della città92. Una giusta valutazione
dell’impatto anticongiunturale di questo tipo di spese richiede anche un ampliamento delle attività considerate (ad esempio la decorazione interna e il guardaroba)93 ed
un allargamento dell’area di osservazione, poiché il costo dei materiali integrava la
remunerazione degli operai che lavoravano sul luogo di produzione e che ne assicuravano il trasporto.
aux XIVe et XVe siècles: impact budgétaire, importance relative des investissements, technostructures, politiques
économiques, in L’initiative publique des communes en Belgique (Ancien Régime), Actes du 11e Colloque
international (Spa, 1-4 sept. 1982), Bruxelles, Crédit Communal de Belgique, 1984, pp. 379-400.
88
J.-P. SOSSON, A propos des «travaux publics, cit., p. 385.
89
G. DORIA, Investimenti della nobiltà genovese, cit., p. 23. La cifra proposta da G. Doria si conforma
alle stime di R.A. GOLDTHWAITE (La costruzione della Firenze rinascimentale, cit., p. 190) e di D. SELLA
(ID., Salari e lavoro nell’edilizia lombarda durante il secolo XVII, Pavia, Fusi, 1968, p. 59).
90
R.A. GOLDTHWAITE, La costruzione della Firenze rinascimentale, cit., p. 53.
91
G. GUERZONI, Politica edilizia e congiuntura economica, cit., p. 527.
92
L. MOCARELLI, Costruire la città, cit., pp. 251-52.
93
M.A. VISCEGLIA, I consumi in Italia in età moderna, in Storia dell’economia italiana, a cura di R.
Romano, Torino, Einaudi, 1991, p. 20.
86
JEAN-FRANÇOIS CHAUVARD-LUCA MOCARELLI
Dagli studi dedicati al rapporto fra edilizia e congiuntura, risulta che il settore
immobiliare obbedisse ad una doppia logica: una ordinaria, scandita dalle successioni dinastiche, dai cicli familiari e dalla manutenzione quotidiana degli edifici; l’altra
straordinaria, con funzione anticiclica, innescata dai grandi progetti civili o militari.
La capacità della seconda di protrarsi nel tempo e di sostenere il peso di una crisi
merita senza dubbio indagini più ampie. Erano essenzialmente le entrate ordinarie94,
la fiscalità indiretta ed il ricorso al prestito95 a permettere di far fronte alla crisi: si
trattava di risorse ripartite in modo disomogeneo tra le città e gli Stati96, ed erano tali
da impedire di scorgervi altro che una risposta immediata, incapace di attenuare a
lungo il declino economico.
Anche le intenzioni dei committenti privati esigono di essere osservate da vicino. È lecito considerarle capaci di attenuare gli effetti delle crisi allo stesso titolo
dei principi o dei poteri pubblici? Il settore pubblico e quello privato condividevano senza dubbio un universo di valori comuni, dominato dalle parole d’ordine
della gloria e della magnificenza97. Assurte a ideali nel XV secolo, malgrado la
persistenza dei valori di semplicità e di modestia incarnati dai mercanti delle città
dell’Italia centro-settentrionale, gloria e magnificenza divennero due preoccupazioni centrali dei principi e delle élites, entrambi protesi a imitare gli Antichi in
seno a un processo di aristocratizzazione della società, di affermazione dello Stato
principesco, di trionfo della Controriforma cattolica. Questi valori divennero uno
strumento senza pari di affermazione e competizione sociale. Costruire materializzava la reputazione di una stirpe, proclamava la sua vocazione politica, celebrava la
sua vocazione a perpetuarsi nell’eternità.
La magnificenza faceva del potere edilizio un atto sociale, destinato a ricordare
l’ordine gerarchico della società e la dignità di una posizione che non ammetteva alcun cedimento verso la volgarità. Nel Della Economia, pubblicato nel 1560,
Giacomo Lanteri riteneva indegno per un nobile vivere in affitto, ed elevava ad obbligo morale il possesso in proprietà della propria residenza. Il giurista napoletano
Francesco d’Andrea associava al dovere di vivere fastosamente l’ambizione a superare
i nobili per nascita98.
94
Patrick Boucheron ha mostrato che un’imposta poteva essere temporaneamente adibita al finanziamento di grandi lavori: al riguardo si veda il suo saggio in questo volume.
95
J.-P. SOSSON, Travaux publics et politiques économiques. L’exemple de quelques villes des anciens PaysBas (XIVe-XVe siècle), in Studia historica oeconomica. Liber amicorum H. Van der Wee, edited by E. AertsB. Henau-P. Janssens-R. Van Uytven, Louvain, Université de Louvain, 1993, pp. 239-258.
96
P. STABEL, ‘Les dépenses à l’aune des moyens’? Degré d’urbanisation et ressources publiques. Les petites
villes en Flandre (du XIVe au XVIe siècle), «Bulletin trimestriel du Crédit communal de Belgique», 1990,
172, pp. 53-64.
97
R.A. GOLDTHWAITE, La costruzione della Firenze rinascimentale, cit., pp. 77-98.
98
F. D’ANDREA, Ricordi, a cura di N. Cortese, Napoli, 1923, pp. 168 e 208, citato da P. BURKE, The
historical anthropology of early modern Italy, cit., p. 134.
RIPENSARE L’EDILIZIA IN UNA PROSPETTIVA STORICO-ECONOMICA
87
L’ideologia principesca e nobiliare dell’autocelebrazione non deve tuttavia far
dimenticare un altro principio altrettanto condiviso: l’obbligo morale verso la comunità, obbligo che non si limitava alla carità, ma che poteva incarnarsi in altre
forme di liberalità ed esprimersi nell’edilizia privata e pubblica. Così, rinunciare
ad abbellire il tessuto urbano significava privare se stessi e la comunità del beneficio visivo, se non pratico, di un bene; significava abdicare ai doveri imposti dalle
proprie fortune, e negare la controparte che il dono di ricchezza esigeva indietro.
Non procurare lavoro significava essere insensibili ai mali del tempo. Nei secoli
XVI e XVII non si smise mai di valorizzare moralmente la spesa. Nel 1734, nel suo
Testamento politico, Lione Pascoli scriveva che «Chi ha dunque convien che spenda […] E questo è l’obligo positivo che corre all’uomo onesto; che in qualunque
modo che’egli abbia denaro, considerar deve che viene sempre da Iddio; e che egli
qual depositario fedele restituir lo deve ai bisognosi»99.
Se è vero che l’etica aveva un costo, essa non era però priva di interessi. Ciò vale
soprattutto per il periodo in cui lo spostamento, sempre più importante dal XVII secolo, di una parte del reddito verso le costruzioni di prestigio ed consumo dispendioso prese ad alimentarsi della differenza fra la rendita e l’aumento della «redditività»
sociale delle spese suntuarie. Al riguardo Giorgio Doria ebbe modo di scrivere: «nella
Genova del Cinquecento era stata compresa fino in fondo l’utilità pubblicitaria della
conspicuous consumption e l’efficacia di ostentare la propria capacità di spendere come
indice della propria potenza e solidità economica e, quindi, della propria capacità di
prestare»100. La classe dirigente, preoccupata di mantenere la stabilità sociale, diede
assistenza ai poveri e fornì lavoro a frange disoccupate della popolazione ponendole
sotto la sua dipendenza economica101.
Che i principi e le élites nobiliari condividessero gli stessi valori culturali non desta
eccessiva sorpresa. Questa constatazione sta oggi portando ad una considerazione
più equilibrata delle motivazioni che inducevano a costruire, e ciò nonostante una
storiografia recente, sotto l’influenza della storia culturale e politica, abbia ancora la
tendenza a ridurre tali motivazioni a una volontà di rappresentazione, di propaganda, di affermazione di rapporti di forza. Costruire poteva essere uno strumento di
auto-celebrazione, ma poteva anche obbedire a ragioni pratiche: alloggiare la propria
famiglia102 e i propri domestici103, disporre di una riserva finanziaria ai fini di ottenere
99
L. PASCOLI, Testamento politico d’un accademico fiorentino, in cui si fanno diversi progetti per istabilire un ben regolato commerzio nello Stato della Chiesa e per aumentare le rendite della camera, Colonia
(Perugia, Italy) per gli eredi di C. d’Egmond, 1733, p. 9, citato da G. SIMONCINI, Le capitali italiane dal
Rinascimento all’Unità, cit., p. 31.
100
G. DORIA, Investimenti della nobiltà genovese, cit., p. 9.
101
R. SAVELLI, La repubblica oligarchica, cit., pp. 114-115.
102
L’alloggio di più parenti sotto lo stesso tetto è un mezzo per limitare le spese: J.C. DAVIS, Una famiglia
veneziana e la conservazione della ricchezza. I Donà dal ’500 al ’900, Roma, Jouvence, 1980, p. 30.
103
A partire dal censimento del 1526-1527, J. Delumeau ha contato 306 domestici nel palazzo Far-
88
JEAN-FRANÇOIS CHAUVARD-LUCA MOCARELLI
un prestito, ecc.104. Costruire era certamente anche uno strumento politico, poiché la
concessione di lavoro creava equilibri, consolidava legami verticali, istituiva relazioni
di dipendenza e suscitava un’adesione reale, non solo ideologica o simbolica105.
I lavori più innovativi dedicati all’economia dell’edilizia ci insegnano che giocare
sull’opposizione tra rendita e benefici, produttività e improduttività, utilità e futilità
è un esercizio vano, poiché l’investimento nel mattone, obbedendo a molteplici livelli di razionalità, «poteva essere utilizzato su più fronti e quindi rendere più volte»106.
Jean-François Chauvard-Luca Mocarelli
nese, 275 nel palazzo Cesarini, 200 nel palazzo Orsini e Del Monte, e tra 200 e 100 in 13 altri palazzi:
J. DELUMEAU, Vie économique et sociale à Rome, cit., p. 434.
104
Questo aspetto è illustrato da G. LABROT, Baroni in città, cit., pp. 119-120.
105
G. GUERZONI, Politica edilizia e congiuntura economica, cit., p. 529.
106
A. PANJEK, Edilizia e sviluppo, cit., p. 734.