La nonviolenza nel passaggio alla societ transculturale

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La nonviolenza nel passaggio alla societ transculturale
La nonviolenza nel passaggio alla società transculturale
appunti per la trasformazione dei conflitti interculturali
di Pasquale Pugliese
[email protected]
un tragico luglio
Ho scritto le righe che seguono nel tragico luglio del 2005 segnato dai 56 morti degli attentati
di Londra e dagli oltre 80 di Sharm El Sheikh (oltre alle centina di civili irakeni che nessuno
ormai conteggia più), dall’evocazione (o sarebbe meglio dire l’invocazione?) sui media dello
“scontro di civiltà” e dalla messa a punto, in un parlamento mai tanto bipartisan, del giro di vite
repressivo ed espulsivo nei confronti degli immigrati (in specie clandestini), come misura di
sicurezza. E dire che il mese si era aperto con il decennale dell’eccidio di Sebrenica, in cui la
tragedia (7.000 musulmani bosniaci uccisi in 5 giorni dai serbi cristiani) si era svolta a ruoli
invertiti…
Le ho scritte perché credo che sia un terribile errore lasciarsi chiudere nella spirale di paura e
violenza che tanti cattivi maestri, da una parte e dall’altra, stanno irresponsabilmente
alimentando, in un macabro gioco globale in cui guerra, terrorismo e repressione si alimentano a
vicenda. Mi pare invece importante fermarsi a riflettere su un elemento decisivo, quanto
trascurato: i quattro attentatori suicidi di Londra erano figli di pakistani immigrati in Inghilterra
all’inizio degli anni `90, gente che ha lavorato sodo, ha fatto di tutto per integrarsi e si è costruita
una famiglia e una posizione attraverso una vita dedicata al sacrificio per affermarsi socialmente.
“Gli attentatori suicidi di Londra” come ha scritto a caldo Khaled Fouad Allam “sono
l'espressione estrema di una generazione euro-musulmana che è "border line", che non si
riconosce né nella cultura dei genitori né in quella occidentale. Essendo priva di riferimenti, è
alla ricerca di un'identità che rischia di essere offerta solo dai cattivi maestri del jihadismo» 1 .
Ossia giovani invischiati nell’escalation di un personale conflitto interculturale che l’ideologia
terrorista ha infine reso armi viventi.
Insieme all’impegno per il ritiro dall’Iraq delle truppe occupanti - le cui atrocità fanno parte
dei video di propaganda dell’internazionale del terrore per il reclutamento dei nuovi martiri –
capire che cosa accade quando persone appartenenti a culture differenti con-vivono sullo stesso
territorio, quali sono i conflitti profondi (anche in senso personale e temporale) che si aprono e
fare un investimento di idee e di risorse sulla loro mediazione e trasformazione nonviolenta,
penso sia oggi il più importante passo politico e culturale verso la sicurezza di tutti.
Questi appunti vogliono essere un piccolo contributo.
culture e conflitti
Se, come sostiene J. Galtung, gli stadi evolutivi nelle relazioni interculturali sono quattro –
intolleranza, tolleranza o multiculturalismo passivo (società multiculturale), dialogo o
multiculturalismo attivo (società interculturale), transculturalismo (società transculturale) 2 – il
passaggio dall’uno all’altro non è lineare né indolore.
La società italiana negli ultimi quindici-venti anni sta attraversando un’accelerazione di
complessità dovuta al crescente ingresso di popolazione immigrata, proveniente dai diversi
meridioni ed orienti del mondo, e l’incontro con persone portatrici di culture altre ha visto
1
2
Il gazzettino on line, sabato 16 luglio 2005
Cem Febbraio 2004, Dossier Pace nel pluriverso pace e cultura profonda
1
diverse velocità nel passaggio da uno stadio all’altro delle relazioni reciproche: in alcuni contesti
e situazioni sembra di essere fermi allo stadio dell’intolleranza, in altri si aprono spazi di dialogo
che anticipano la società inter e trans-culturale. Poiché le dinamiche globali del sistema-mondo
lasciano prevedere una crescita costante delle presenza di cittadini stranieri sul territorio italiano,
dobbiamo prefigurarci – nonostante le miope legislazione nazionale e le rozze politiche
pseudosecuritarie che incentivano la xenofobia - una società che diventerà nel futuro prossimo
progressivamente trans-culturale, ossia trasformata culturalmente dagli innesti apportati dalle
differenti culture che sempre più abiteranno i “nostri” luoghi.
L’incontro tra le differenze è naturalmente generatore di conflitti, anzi – come dice bene
Giuseppe Bugio – “incontriamo un conflitto ogni volta che incontriamo una differenza. Conflitto
è un altro nome della differenza” 3 . E poiché la cultura, come ci ricorda ancora Galtung
rappresenta il profondo, “il subcosciente collettivo di significati condivisi: le norme che non
passano per il cervello che abbiamo in testa, ma si ancorano piuttosto al cervello che abbiamo
nello stomaco” 4 , è facile prevedere un inasprimento dei conflitti interculturali che, se lasciati a
se stessi, non governati - né mediati né trasformati – possono innescare processi incontrollabili
di escalation. Si tratta allora di non nascondere o sottovalutare o demonizzare i conflitti
interculturali, ma di attrezzarsi per affrontarli e trasformarli affinché da potenziale terreno di
scontro diventino feconda occasione di incontro.
A questo scopo le culture e le pratiche della nonviolenza mi sembra siano dotate di strumenti
concettuali e metodologici adeguati, sia perché ormai affinati sui molteplici fronti dei conflitti
(diretti, strutturali e, appunto, culturali), sia perché molte delle più significative esperienze di
nonviolenza del secolo scorso si sono confrontate proprio con queste questioni. Gandhi ha
elaborato il nucleo fondamentale del satyagraha in Sudafrica attraverso il confronto con il
segregazionismo e poi, una volta in India, si è misurato ed è stato infine sopraffatto dal conflitto
tra islamici ed induisti e M.L.King ha fatto della lotta contro le leggi segregazioniste negli USA
lo scopo di una vita, solo per citare i casi più noti e paradigmatici. Da noi, Alex Langer, è stata la
voce che più di altri si è levata come monito a porre attenzione alle questioni interculturali,
anche in relazione all’esplosione della guerra nei Balcani: “esplosioni di razzismo, sciovinismo,
razzismo, fanatismo religioso, ecc. sono tra i fattori più dirompenti della convivenza civile che si
conoscano (più delle tensioni sociali, ecologiche o economiche), ed implicano praticamente tutte
le dimensioni della vita collettiva: la cultura, l’economia, la vita quotidiana, i pregiudizi, le
abitudini, oltre che la politica o la religione. Occorre quindi una grande capacità di affrontare e
dissolvere la conflittualità etnica” 5 .
Perciò è utile provare a mettere insieme qualche elemento che ci aiuti a tracciare dei segni
nonviolenti di orientamento sul terreno dei conflitti interculturali, senza alcuna pretesa di
organicità.
le arene dei conflitti interculturali
I conflitti interculturali, proprio perché rimandano alla dimensione più profonda delle relazioni
umane, hanno la caratteristica di potersi sviluppare sui diversi piani della scala quantitativa e
dell’intensità qualitativa. Usando la griglia elaborata da Arielli e Scotto6 , possiamo esemplificare
alcune arene dei conflitti interculturali che ci danno il senso di quanto sia ampio lo spettro delle
situazioni che possono rientrare in questa definizione:
3
Verso un'ecologia dei conflitti. Gregory Bateson e la gestione pedagogica delle differenze,
pubblicato nel volume di Gian Luigi Brena (a cura di), Etica pubblica ed ecologia, Edizioni Messaggero, Padova
2005
4
Cem Febbraio 2004, Dossier Pace nel pluriverso pace e cultura profonda
5
Tentativo di decalogo per la convivenza inter-etnica, oggi si può leggere su Azione nonviolenta, giugno 2005
6
Emanuele Arielli Giovanni Scotto Conflitti e mediazione, Bruno Mondadori, Milano 2004
2
Persona
(micro)
Gruppo
(meso)
Società/stati (macro)
Conflitti intra-unità
Senso di spaesamento e
separatezza tra la cultura di
riferimento familiare e quella
di accoglienza che vivono,
soprattutto, i bambini e gli
adolescenti di famiglie
immigrate
Diffidenza all’interno di alcune
comunità rispetto ai membri
del gruppo maggiormente
integrati (o assimilati) alla
cultura ospitante
Rivendicazioni civili politiche
e sociali da parte delle
minoranze religiose, culturali e
nazionali presenti sul territorio
dello Stato
Conflitti inter-unità
Forme di pregiudizio e
atteggiamenti di
discriminazione che
attraversano molte relazioni
inter-individuali nei diversi
ambiti della vita sociale
Tensioni tra comunità culturali
differenti che abitano lo stesso
territorio (es. scontri tra bande
giovanili composte per
nazionalità di riferimento)
Guerre e terrorismo
internazionale interpretate
come
Scontro di civiltà (Samuel
Huntington), ossia la “profezia
che si autoavvera”
(come evidenziano
efficacemente Arielli e Scotto,
“gli interventi statunitensi e
occidentali nel Medio Oriente
vengono sempre più percepiti
nei termini dello “scontro tra
civiltà”, e testi come quelli di
Huntington non si limitano a
“chiarire” il fenomeno, ma
contribuiscono in parte a
“produrlo”, perché incentivano
una cultura dello scontro” 7 )
Apparentemente distinte, le diverse – realistiche - rappresentazioni proposte hanno un filo che
le lega. Per esempio, credo che sarebbe molto interessante ricostruire la storia del processo di
dis-integrazione degli attentatori suicidi nella metropolitana di Londra, cittadini britannici a tutti
gli effetti. Che esito hanno avuto i diversi conflitti interculturali che hanno attraversato le loro
storie di vita personali?
7
ivi
3
comunicazione e cornici culturali
“Non si può non comunicare” afferma il primo assioma di Watzlawick in Pragmatica della
comunicazione umana 8 . Ossia anche quando la nostra bocca tace il nostro corpo parla, attraverso
la postura, l’espressione del viso, la vicinanza, la gesticolazione ecc… Nel continuo flusso
comunicativo coesistono, infatti, due livelli di espressione, quello esplicito del contenuto detto e
quello implicito, simbolico, sulla relazione tra i comunicanti che fornisce le informazioni su
come interpretare il contenuto. E’ questa la meta-comunicazione, la cui interpretazione corretta è
la condizione indispensabile per lo svolgimento di qualsiasi comunicazione efficace. Al di là
delle diversità di codici linguistici è infatti proprio la diversità dei codici simbolici che
differenzia sostanzialmente la comunicazione intra-culturale da quella inter-culturale. Come
spiega Graziella Favaro, “nella prima ciò che tutti diamo per scontato in quanto membri di uno
stesso contesto culturale ci aiuta a comprenderci l’un l’altro; nel secondo caso ciò che diamo per
scontato può ostacolare o rendere più difficile la comunicazione reciproca” 9 . Infatti, ciascuno dei
comunicanti di differente cultura utilizza competenze comunicative diverse, efficaci e pertinenti
nei propri contesti di riferimento, ma probabilmente inefficaci - inopportuni o disorientanti o
addirittura controproducenti - in altri contesti. E ciò è spesso causa di piccoli e grandi “incidenti
interculturali” che possono dare luogo all’avvio di conflitti su tutte le arene.
“A Trinidad, dopo aver inutilmente tentato di chiamare gli indigeni presso la nave mostrando
degli oggetti, Cristoforo Colombo cerca di attirarli improvvisando una “fiesta”. Così scrive nel
diario: - Feci salire sul castello di poppa un tamburino che suonava e alcuni ragazzi che
ballavano, pensando che si sarebbero avvicinati a vedere la festa. La risposta degli indigeni non
si fa attendere: - Appena ebbero sentito suonare e visto ballare, lasciarono i remi e posero mano
agli archi e li incoccarono e ciascuno di essi imbracciò il suo scudo e incominciarono a tirarci
frecce” 10
Lo stesso evento è letto e interpretato attraverso le diverse “cornici culturali” di cui ciascuno
è parte, perché assorbite fin da bambino all’interno della propria comunità: la danza è segno di
festa all’interno di una cornice e dichiarazione di guerra nell’altra. Le cornici sono perciò le
“premesse implicite” attraverso le quali diamo senso, operiamo nel mondo e ci relazioniamo con
gli altri, dandole per scontate. Al loro interno vi sono diversi piani di profondità decrescente in
cui ciascuno illumina e indirizza l’altro:
a) il piano ontologico dei valori
b) il piano delle rappresentazioni e delle norme
c) il piano dei comportamenti e delle pratiche culturali 11
Ma nelle relazioni interculturali fermarsi al comportamento agito c), decodificandolo
reciprocamente secondo i propri piani a) e b) significa condannarsi all’incomunicabilità e poi
all’ostilità.
8
Paul Watzlawick et alii Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio, Roma 1971
Duccio Demetrio, Graziella Favaro Didattica interculturale, FrancoAngeli, Milano 2002
10
cit. in Giuseppe Mantovani L’elefante invisibile. Alla scoperta delle differenze culturali, Giunti, 2005
11
vedi nel dettaglio i diversi piani nel box n.1
9
4
shock culturali ed empatia
Come per altre tipologie di conflitti, anche in quelli interculturali – sia che ci troviamo coinvolti
direttamente sia che operiamo come terze parti (perché insegnanti, educatori, operatori sociali o
operatori di pace…) – per lavorare alla loro trasformazione costruttiva, è necessario tenere
presenti i tre elementi necessari della trasformazione dei conflitti: empatia, creatività e
nonviolenza. 12
Nel caso degli incidenti interculturali - eventi critici definiti anche shock culturali particolarmente importante, e anzi indispensabile punto di partenza, è l’empatia, non solo come
elemento caratterizzante la “personalità nonviolenta” 13 , ma soprattutto come, diciamo così,
approccio epistemologico alla relazione: ossia disposizione a mettersi dal punto di vista
dell’altro, a provare a guardare le cose dalla sua angolazione culturale.
Avere un approccio empatico all’altro, al differente da noi, ci consente infatti di avviare un
processo di apertura e ampliamento della conoscenza che si sviluppa attraverso3 tappe:
1. prendere coscienza dalle nostre cornici
Le coordinate culturali nelle quali siamo immersi fin dalla nascita (e che condizionano e
influenzano i comportamenti e le pratiche) ci appaiono come naturali fino a quando non veniamo
a contatto (o in conflitto) con altre coordinate e cominciamo a capire che, queste come quelle,
sono un prodotto complesso di elaborazione storica. Sono una cornice che dà senso agli
avvenimenti del mondo, analogamente a quanto fanno le cornici di cui sono portatori gli altri.
Perciò l’incontro con il differente da noi ci consente di conoscere meglio noi stessi
2. avviare il decentramento cognitivo
A questo punto comincia il superamento dell’egocentrismo – che Piaget indica come fase
transitoria del bambino piccolo, che è in grado per esempio di comprendere chi è straniero per
lui ma non che anche lui è straniero ad altri, e che invece sul piano culturale si prolunga, a volte,
per tutta la vita e può diventare ideologia (etnocentrismo) – e si dà l’avvio al decentramento
cognitivo. Ossia alla capacità di leggere gli eventi anche a partire da codici culturali differenti
dai nostri, “uscendo” in qualche modo dalla nostra cornice.
Perciò l’incontro con il differente da noi aiuta ad aumentare il proprio campo visivo
3. operare per “doppie visioni”
Infine siamo pronti, all’interno di un incidente culturale piccolo o grande che sia, ad operare
non per semplice azione-reazione ( aut-aut) ma per doppie visioni (et-et), cercando di dare
all’evento critico diverse interpretazioni, senza giudizio di valore, per comprenderne le ragioni a
partire dalle differenti cornici di riferimento
Due litiganti vengono portati davanti ad un giudice conosciuto da tutti per la grande
saggezza. Il giudice, dopo aver ascoltato il primo litigante, commenta:"Hai ragione”. Poi,
sentito anche il secondo, anche a lui dichiara:" Hai ragione”. Si alza uno dal pubblico che
esclama:" Ma Eccellenza, non possono aver ragione entrambi”. Il giudice ci pensa su un attimo
e poi, serafico:"Hai ragione anche tu”
A commento di questa storiella Marianella Sclavi scrive: “il senso comune e la logica
classica ci dicono che se tutti hanno ragione non si è più in grado di decidere niente, si rimane
bloccati. Questo è vero quando operiamo in “sistemi semplici” entro i quali prevalgono le stesse
12
13
vedi Johan Galtung, La trasformazione nonviolenta dei conflitti, EGA, Torino 1998
vedi Giuliano Pontara, La personalità nonviolenta, EGA, Torino 1996
5
premesse implicite. Invece nel dialogo interculturale e più in generale nella gestione creativa dei
conflitti l’assumere che tutti hanno ragione è la condizione per fare dei passi avanti” 14
Perciò l’incontro con il differente da noi è un’indispensabile tappa verso la ricerca della verità
stereotipo, pregiudizio, discriminazione
Un ostacolo che può bloccare il processo di empatia cognitiva, impedendo così di operare
efficacemente alla trasformazione dei conflitti interculturali con creatività e nonviolenza, è il
processo che dalla “categorizzazione” porta allo stereotipo e poi al pregiudizio e alla
discriminazione.
Vediamo velocemente di che si tratta.
I manuali di psicologia sociale spiegano che classificare alcune persone come “stranieri” è
parte di quel processo di categorizzazione cognitiva in base al quale gli individui ordinano e
semplificano l’insieme dei dati che proviene dal mondo esterno, al fine di dare senso alla
multiforme realtà e poter agire al suo interno. Parte integrante di questo processo sono i
meccanismi di “semplificazione” e “distorsione percettiva”: vengono enfatizzati i dati che
consentono di inserire un elemento in una determinata categoria (mentre sono depotenziati quelli
che porrebbero difficoltà d’inserimento) in modo da realizzare per ciascun dato della realtà il
“miglior adattamento” possibile. Per l’inserimento nella categoria “straniero”, per esempio, si
enfatizza – tra le altre cose – la non conoscenza della lingua italiana, minimizzando le differenti
competenze linguistiche di ogni singolo “straniero”. Naturalmente la costruzione delle categorie
non è neutra ma avviene all’interno del processo di apprendimento sociale delle cornici culturali,
per cui siamo portati a leggere il mondo attraverso le categorie proprie della nostra cultura di
riferimento.
Quando ad una categoria sociale si attribuiscono poi determinate caratteristiche - a partire dalla
conoscenza diretta o indiretta di qualche membro di essa che è portatore di quella caratteristica,
estendendola quindi a tutti i membri della categoria e infine a ciascuno di essi – si schematizza e
cristallizza una realtà in movimento, creando lo stereotipo. E’ questa una forma di scorciatoia
cognitiva, la generalizzazione, che ci induce a considerare ciascuno non in quanto persona
singola ma solo come membro del gruppo di appartenenza.
Si parla poi di pregiudizio quando allo stereotipo si aggiungono giudizi di valore
accompagnati da emozioni, che rimangono inalterati anche di fronte a nuovi elementi di
conoscenza. Come spiega Aluisi Tosolini: “se riteniamo, pregiudizialmente, che ad un dato
gruppo di persone ben si attaglia l’etichetta di “ladri” (per esempio i rom), ben difficilmente
cambieremo opinione di fronte a persone che in tutta evidenza si comportano in modo difforme
dal nostro pregiudizio. E se proprio non riusciamo a reggere la dissonanza cognitiva generata da
un comportamento impensato (per esempio un ragazzo rom che ci insegue per restituirci il
portafoglio perso o la borsa dimenticata) possiamo fare ricorso alla logica dell’eccezione. Che, al
solito, conferma la regola”. 15
Quando dallo stereotipo e dal pregiudizio si passa all’azione conseguente ecco che entriamo
nel campo della discriminazione vera e propria, individuale, e/o sociale e/o politica. E gli
esempi nella storia e nella cronaca non mancano. 16
14
Marianella Sclavi Arte di ascoltare e mondi possibili, Le vespe, Milano 2002
http:/www.pavonerisorse.it/intercultura/pregiudizio.htm
16
vedi box n.2
15
6
nonviolenza e mediazione culturale
Nel contesto italiano attuale non siamo ancora giunti a forme di discriminazione propriamente
detta, almeno diffusa in dimensioni socialmente significative, perciò l’intervento nonviolento nei
conflitti interculturali può ancora essere considerato di carattere preventivo.
Se infatti utilizziamo come strumento di analisi il triangolo dei conflitti di Galtung 17 ,
B comportamento
---------------------------
A atteggiamento
linea della latenza
C contraddizione
vediamo che i tre elementi che compongono tutti i conflitti (diversamente combinati a seconda
che si tratti di conflitti semplici o complessi, con due o più attori ecc.), sono A l’atteggiamento,
ossia la disposizione e i presupposti anche individuali, C la contraddizione, ossia il contenuto, il
problema, e B il comportamento (in inglese behavior) l’azione messa in pratica. Gli elementi A e
C sono latenti, ossia spesso non emergono con evidenza, mentre l’elemento B è manifesto.
In questa delicata fase di trasformazione sociale e culturale del nostro paese, i conflitti
interculturali sono caratterizzati da una forte presenza dei due elementi conflittuali latenti: gli
atteggiamenti, per esempio sui piani della categorizzazione, dello stereotipo e del pregiudizio, e
le contraddizioni, rappresentate dai molti incidenti/shock culturali. Sono dunque presenti, in
maniera crescente, entrambi i presupposti di base necessari per far compiere ai conflitti il balzo –
più spesso di quanto ancora non avvenga – dal piano della latenza a quello del comportamento,
che potrebbe manifestarsi anche in forme di discriminazione e violenza. Se a queste condizioni
infatti aggiungiamo il martellamento sempre più assordante sul pericolo islamico che svolgono
parte degli intellettuali, della stampa e del mondo politico e specularmente la propaganda
jihadista che si diffonde anche in alcune moschee italiane, che armano gli animi di sentimenti
xenofobi e guerrafondai da un lato e violenti e fondamentalisti dall’altro, è evidente che lo
scenario della diffusione di comportamenti violenti sulle diverse scale - dalla discriminazione sui
banchi di scuola, al razzismo culturale, al terrorismo suicida - può farsi sempre più concreto,
anche in Italia. La partecipazione italiana alla guerra e le organizzazioni terroriste internazionali
buttano intanto benzina sul fuoco...
Per questo è importante intervenire con la nonviolenza prima che ciò accada e bisogna, come
direbbe Danilo Dolci, fare presto(e bene).
In questo senso un’esperienza che, a mio parere, andrebbe fortemente ri-lanciata, ri-motivata e
sostenuta è quella dei mediatori culturali. Attualmente si tratta di una incerta categoria
professionale, poco numerosa, con una formazione insufficiente e spesso usata dai servizi
sociali, educativi e sanitari come mera riserva di interpreti e traduttori. E invece l’investimento
politico e sociale sulla mediazione per la trasformazione dei conflitti interculturali è un terreno
d’intervento cruciale, al fine di rendere meno traumatico, per quanto possibile, l’inevitabile
passaggio alla società trans-culturale. Consentendo di operare inoltre sul serio in funzione della
17
J. Galtung Pace con mezzi pacifici, esperia, Milano 1996
7
sicurezza di tutti, che è data non dalle severe leggi repressive ma dalle buone pratiche
relazionali.
Si tratta di formare molti più mediatori proprio tra i giovani delle diverse comunità culturali e
nazionali presenti nelle nostre città e nei loro percorsi di studio bisognerebbe inserire
specificamente la nonviolenza, come filosofia e metodo di lettura e trasformazione dei conflitti.
Si tratterebbe di farne quei “costruttori di ponti, saltatori di muri, esploratori di frontiera, veri e
propri “traditori della compattezza etnica” che però non si devono mai trasformare in
transfughi”, secondo il profilo “professionale” che tracciava Alex Langer 18 . In questa direzione
qualcosa si comincia a muovere a livello di master universitario 19 , ma è insufficiente. Ciò di cui
c’è bisogno è una moltiplicazione delle persone e dei luoghi capaci di sostenere la mediazione
interculturale nel basso; capaci di costruire ponti, tessere reti e ricostruire relazioni interrotte tra
le persone e le comunità negli interstizi sensibili dei molti territori locali segnati dai conflitti,
dentro le nostre città e i nostri quartieri.
Insomma l’ aggiunta nonviolenta alla prevenzione e mediazione dei conflitti interculturali, nei
livelli micro e meso-sociale, si prospetta come un contributo ideale e metodologico alla
costituzione di un corpo civile interculturale di mediatori esperti in trasformazione
nonviolenta dei conflitti.
18
19
Tentativo di decalogo per la convivenza inter-etnica, oggi si può leggere su Azione nonviolenta, giugno 2005
per esempio il Master in “gestione dei conflitti interculturali e interreligisosi” dell’Università di Pisa
8
-
Piano ontologico e dei valori
Appartenenza religiosa
Concezione della vita/della morte
miti di fondazione
sfera pubblica/privata
autorità/libertà individuale
solidarietà
tabù e pudore
concezione della natura
-
Piano delle rappresentazioni e delle norme
modalità di apprendimento e di comunicazione
rapporto tra oralità e scrittura
diritti e doveri degli individui: leggi codificate e tradizioni
concezione del tempo, spazio, corpo
rappresentazione di malattia e salute
concezione della famiglia
relazioni interpersonali: uomo e donna, anziani e giovani, genitori e figli
concezione del lavoro, dei beni e del denaro
-
Piano dei comportamenti e delle pratiche culturali
Messaggi verbali
Messaggi non verbali
Linguaggio del corpo
modalità di occupare lo spazio
modalità di gestire il tempo
modalità di stabilire relazioni interpersonali; saluto, contatto, distanza …
elaborazione di progetti individuali
strategie di apprendimento
cibo, abbigliamento, segni esteriori….
1 da Graziella Favaro Manuela Fumagalli Capirsi diversi. Idee e pratiche di mediazione interculturale,
Carocci, Roma 2004
9
RADIOGRAFIA DI UN PREGIUDIZIO NEGATIVO
QUANDO
VEDO UNO
ZINGARO
PENSO
sporco e ignorante
mi vuole fregare
COMPONENTE
COGNITIVA
ATTUO
cambio marciapiede
scappo
SENTO
paura
COMPONENTE
EMOTIVA
COMPONENTE
COMPORTAMENTALE
SEQUENZA REALIZZATA
STEREOTIPO
PREGIUDIZIO
DISCRIMINAZIONE
2 Da Analisis y resolucion de conflictos interculturales Assoc. Amani. Ed. Popular. Madrid 1995, in italiano in Io
non vinco tu non perdi UNICEF, Roma 2004
10