L`impresa avvincente

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L`impresa avvincente
STRATEGIE
CSR/1. Come integrare la Csr nella strategia d’impresa
L’impresa
avvincente
La Corporate social responsibility, se entra nei sistemi
di valutazione e incentivazione del management,
crea valore e agevola il cambiamento,
spiega Danilo Devigili
Danilo Devigili
è partner
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L’IMPRESA N°11/2008
STRATEGIE
L
a Corporate social responsibility (Csr) è entrata in una fase cruciale della sua evoluzione
e le imprese “avvincenti”, secondo una felice
definizione coniata dai ricercatori di Altis, stanno
operando in direzione di una progressiva integrazione
nella strategia d’impresa perché convinti della sua
efficacia nella creazione di valore sostenibile a favore
di tutti gli stakeholder. Questo tema è stato oggetto di
una tavola rotonda tra alcuni top manager d’imprese
italiane e multinazionali, che si è tenuta il 29 ottobre,
in occasione del 2° convegno
g nazionale del Csr Mana-
ger Italia Network. Le posizioni emerse dai vari interventi ci consentono di formulare alcune considerazioni
rispetto alle caratteristiche dei processi in atto.
Cosa sta cambiando
Identificazione di responsabilità prioritarie. Le aziende declinano la Csr nelle pratiche di responsabilità
che più impattano sulla catena del valore, in modo da
concentrare gli investimenti e circoscrivere i perimetri
degli interventi alla cosiddetta “Core responsibility
strategy”. Le priorità sono scelte in funzione delle
caratteristiche del mercato, dei modelli d’impresa e
delle tensioni socio-ambientali che caratterizzano un
determinato momento storico. Obiettivo Lavoro, una
S.p.A. i cui proprietari sono espressione del mondo
cooperativo, ha ben presente questo concetto. Secondo
il presidente Alessandro Ramazza «sbagliare un inserimento lavorativo è un triplo fallimento: per l’impresa
cui lo forniamo, per noi come azienda ma soprattutto
per la persona che deve ricominciare un cammino. In
particolare, in una fase congiunturale come questa,
prendere in carico delle persone che hanno perso il
lavoro è questione assai delicata. Il risultato economico
dell’azienda, deve essere espressione di un processo
all’interno del quale la responsabilità sociale fa sì che
la persona sia al centro dell’attività e del servizio del
nostro lavoro».
Integrazione con i piani strategici d’impresa. Le imprese “avvincenti” si caratterizzano per un tale livello di
integrazione della Csr nella strategia, e un così intenso
utilizzo delle pratiche di responsabilità che preferiscono non parlare nemmeno più di responsabilità sociale
per non cadere in equivoci semantici che richiamano
sospetti sull’uso manipolatorio e superficiale della
sostenibilità socio-ambientale. Per Maurizio Chiarini,
amministratore delegato di Hera, «se la Csr si traduce
nella moda dei bilanci sociali è destinata a una lenta
morte, perché non serve a nessuno. Serve se entra
nelle viscere dell’azienda. E perché questo accada è
necessario che la Csr rifletta tre caratteristiche fondamentali. In primo luogo deve essere una componente
strutturale della strategia, dell’azienda, integrata con il
piano industriale, lo strumento che governa l’impresa
nel medio periodo. In secondo luogo deve entrare
direttamente nei processi di gestione aziendali. Infine
deve portare un contributo all’aumento della competitività dell’azienda».
Un obiettivo assegnato dal CdA ai top manager. La
Csr si può misurare verificando il raggiungimento
degli obiettivi socio-ambientali che il CdA fissa nell’ambito dei piani strategici e industriali. Il focus su
responsabilità precise permette di declinare il concetto
di sostenibilità in traguardi specifici che riguardano
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Quella tentazione di mettere la Csr nell’angolo
Sebastiano Renna, presidente CSR Manager Network Italia
Le turbolenze dei mercati finanziari e le loro conseguenze sull’economia reale stanno significativamente suggestionando quella parte dei player economici che in questi anni si era detta sempre
più convinta della necessità di dar corpo a politiche di corporate social responsibility (Csr) in nome
dell’aspirazione a una capacità competitiva di medio-lungo periodo. In realtà quanto successo
– e sta ancora succedendo – mette in luce una serie di questioni ben più pregnanti, che invitano a
una seria riflessione tutti coloro che nella Csr vedono invece un modello di conduzione strategica
delle imprese e dell’economia. Due mi sembrano le più significative. La prima riguarda il fatto che stiamo assistendo
all’ennesimo colpo assestato alla versione “filantropica” della Csr.
L’abbinamento tra trame speculative irresponsabili, malversazioni contabili e la “strong corporate citizenship” che hanno caratterizzato società come Lehman Brothers, Fannie Mae, Morgan Stanley o Goldman Sachs (secondo il “Nonprofit
Almanac 2008”, nel 2006 le prime 10 corporate foundation Usa – di cui 6 bancarie – hanno destinato 13 miliardi di dollari
a iniziative filantropiche) rappresenta un chiaro esempio di quell’uso strumentale della Csr (venuto già alla luce nel recente passato con i casi Enron e Parmalat) che usa il metro del volume di denaro trasferito alle “buone cause”, piuttosto
che la correttezza nella gestione del business per conquistare un’immagine rispettabile e la “licenza di operare”. Un
approccio che rischia di inquinare la credibilità di tutta la Csr. Lo scandalo ha infatti dato modo al columnist del Financial
Times Adam Jones, lo scorso 15 settembre, di irridere gli epigoni dello sviluppo sostenibile, definiti “sacerdoti della Csr
che vanno cacciati dal mercato”. Non basta trovarsi d’accordo sul fatto che Adam Jones ha sbagliato evidentemente
bersaglio. Sarebbe opportuno che quanto accaduto dia modo alla parte sana del mondo della Csr di fare una volta per
tutte “pulizia” al proprio interno, isolando ed espellendo coloro che considerano quello dell’etica e della sostenibilità
le diverse aree di intervento: ambiente,
risorse umane, operation, marketing e
vendite, ecc. Dario Rinero, presidente e
amministratore delegato di Coca-Cola
Hbc Italia, ci spiega che già da alcuni
anni «il Gruppo ha adottato per il Top
Management e il Senior Management dei
criteri di valutazione della performance
personale che rispondono a sette parametri ben precisi: management, business/financial, people development, leadership,
relationship, growth&innovation e infine
corporate social responsibility. Il perseguimento dell’obiettivo di responsabilità
sociale è misurato rispetto a sei aree: social
responsibility intesa come awareness e
behaviour, consumer education, employer
reputation, quality, safety and health ed
environment».
Il salto di qualità
Valutazione. Per trasformare in pratiche
concrete le linee guida e i principi cui si
ispirano i vari modelli di sostenibilità è
necessario riallineare i sistemi di valutazione introducendo, accanto ai tradizionali indicatori economico finanziari, anche
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obiettivi riconducibili a parametri socioambientali. In Granarolo, come chiarisce
il direttore generale Rossella Saoncella,
«all’interno di ciascuna funzione ci sono
degli obiettivi che possiamo ricondurre
alla nostra visione di Csr, vale a dire la ricerca di modelli gestionali che facciano il
bene dell’impresa e che siano al contempo
socialmente rilevanti. Abbiamo tradotto
questo concetto in una serie di progetti
funzionali che riguardano ad esempio la
qualità delle materie prime e la sicurezza
alimentare, la riduzione e il riutilizzo dell’acqua, il recupero dell’energia termica e
la rendicontazione finanziaria. I manager
sono valutati e incentivati sulla capacità
di realizzare questi progetti: per esempio
il direttore finanziario ha l’obiettivo di
applicare nei confronti della comunità
finanziaria le stesse regole di relazione
che hanno le società quotate, cosa che
facciamo su base volontaria non essendo
Granarolo in Piazza Affari».
Trasversalità. La Csr integrata con le
strategie non può esaurirsi nei compiti
assegnati a una funzione specifica ma
deve diventare parte del patrimonio di
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l’ennesimo “mercato” all’interno del quale si vorrebbe che le gerarchie restassero comunque dettate dal potere economico e lo status di “good citizenship” possa essere “acquistato” alla stregua di qualunque altro bene o servizio.
Il secondo tema è quello della credibilità dei rating. Le agenzie di rating sono nell’occhio del ciclone per la loro dipendenza economica dalle società sulle quali erano chiamate a esprimere il loro giudizio di rischiosità, risultato ben poco
attendibile in occasione dei recenti default. Ma anche tra gli analisti etici c’è evidentemente qualcosa da rivedere. Non
si spiegherebbe altrimenti come mai Fannie Mae sia rimasta dentro il Dow Jones Sustainability Index fino al 2005 o sia
stata classificata al primo posto nella lista delle “100 Best Corporate Citizens” dal Business Ethic’s magazine nel 2004,
nonostante fosse sotto inchiesta sin dal 2003 da parte dell’Ofheo (ente di controllo contabile federale) per aver manipolato i propri bilanci. Non è chiaro, oltretutto, per quale motivo sempre Fannie Mae abbia ottenuto un rating insufficiente
(4,57) da parte di un’agenzia (Etica Sgr), ma sia risultata perfettamente in linea con i criteri della Csr da parte di un’altra
agenzia di rating (Axia). O come mai, nel 2006, Bear Sterns (altra banca coinvolta nella mega speculazione sui mutui
subprime) venisse cancellata dal FTSE4Good proprio nel momento in cui il Dow Jones Sustainability Index ne decretava
l’ammissione nei propri ranghi. Entrambi gli indici si trovarono invece perfettamente d’accordo nell’ammettere, nel
2006, un’altra delle protagoniste della tempesta dei derivati “tossici”, Goldman Sachs, proprio nel momento in cui la
crisi cominciava a mostrare le prime avvisaglie. Ma non si era sempre detto che gli auditing di Csr consentirebbero di
far emergere le condizioni di sostenibilità e durabilità nel tempo dell’impresa? Le agenzie di rating risultate “benevole”
con le merchant bank Usa hanno tenuto conto solo dei loro (seppur meritori) programmi di charity o climate change,
oppure hanno guardato anche dentro i meccanismi di rischiosità del loro business?
È in questo contesto che il CSR Manager Network Italia – ormai vicino alla soglia dei 100 iscritti, appartenenti a grandi
aziende, pmi e società di consulenza – ha avviato il secondo biennio della sua gestione, in modo che il manager della
Csr trovi nel nostro Network una sponda capace di sostenerlo e supportarlo nella dialettica interna con il proprio
management di riferimento.
conoscenze e di competenze dei diversi
livelli manageriali. In questo senso il
Csr manager deve agire nei confronti dei
colleghi da consulente, da consigliere,
più che da esperto e gestore di strumenti.
La Csr non può esaurirsi nel bilancio sociale o nel codice etico, scritto da esperti
“isolati” dal contesto aziendale, le pratiche di sostenibilità vanno progettate e
condivise dalle diverse funzioni in modo
da essere parte costituente delle politiche
aziendali fino ad arrivare al superamento
della funzione stessa del Csr manager.
Come sottolinea Alberto Messaggi, cfo
del Gruppo Feralpi, «pur condividendo
questa prospettiva, in generale, per le
aziende italiane, salvo qualche eccezione, siamo ancora in una fase precedente
a quella di un completo assorbimento
della Csr nelle diverse funzioni aziendali. Oggi è ancora indispensabile poter
contare su Csr manager che abbiano una
profonda conoscenza di persone e processi aziendali, in modo da diventare il
punto di riferimento dell’organizzazione
sulle problematiche di sostenibilità che
investono trasversalmente l’impresa. Il
Csr manager, al contrario, non deve essere sicuramente una mera funzione di
pubbliche relazioni».
Misurazione. Gli effetti dell’implementazione della Core responsibility strategy
vanno misurati attraverso sistemi di rilevazioni interni ed esterni. L’introduzione
di obiettivi di Csr a livello di CdA e delle
prime linee manageriali assolve alla prima esigenza, però non può essere esaustiva perché è autoreferenziale. A questa
va affiancato un sistema di misurazione
personalizzato, sul modello e sulla strategia di responsabilità attuata dall’impresa,
che verifichi gli impatti socio-ambientali
rispetto agli statakeholder di riferimento,
in base a specifici indicatori costruiti
sulle aspettative dei diversi portatori di
interesse e in grado, possibilmente, di
quantificare la creazione di valore condiviso. Questo risulta tanto più necessario,
alla luce delle recenti critiche che hanno
investito le agenzie di rating etico, accusate da diversi osservatori di non essere
riuscite a far emergere le criticità di molte imprese coinvolte nei recenti default
finanziari.
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