Nicola Matteucci OPINIONE PUBBLICA

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Nicola Matteucci OPINIONE PUBBLICA
Nicola Matteucci
OPINIONE PUBBLICA
LA STRUTTURA ISTITUZIONALE DELL’OPINIONE PUBBLICA
[…] È necessario esaminare la struttura istituzionale (pubblica e sociale), che consente la formazione dell’opinione
pubblica, e la formulazione di questo concetto e della sua funzione, che avrà solo alla vigilia della Rivoluzione francese
la sua attuale espressione linguistica, mentre prima si usavano altre espressioni, come opinione generale, spirito
pubblico, pubblico illuminato, pubblicità. L’opinione pubblica sarà poi consacrata nell’art. 11 della Dichiarazione dei
diritti dell’uomo e del cittadino del 1789.
Lo spazio per l’affermazione di un’opinione pubblica, si forma in conseguenza della nascita in Europa dello Stato
assoluto, che, con il rivendicare a sé l’uso legittimo della forza, con il monopolio della politica e la conseguente
distruzione della società comunitaria, finisce per contrapporre rigorosamente pubblico e privato, politica e morale in due
sfere ben distinte. Ma, come l’economia si sposta dalla casa o dalla famiglia al mercato, così anche la morale cessa di
avere come proprio esclusivo ambito solo la vita privata: sia nel mercato che nell’opinione pubblica gli uomini
cominciano a incontrarsi, nel primo in modo competitivo, nel secondo in modo associativo, in una nuova sfera, che non
è né meramente privata né meramente pubblica, ma sociale, la società civile appunto, la quale mira a garantirsi
un’autonomia di governo.
Condizione filosofica per la possibilità di formarsi di un’opinione pubblica è la Riforma protestante, proprio perché
essa ammette l’interpretazione individuale della Bibbia,togliendo così all’autorità il monopolio di decidere quale sia la
verità; le sette puritane portano alle estreme conseguenze questo principio: esse si formano, tramite un covenant, come
associazione di liberi credenti, senza alcun momento istituzionale portatore della verità. Con la secolarizzazione
l’incontro fra gli uomini è facilitato dal formarsi, nelle città, di salotti, caffè, club, circoli, che non adempiono a una
funzione meramente privata o ricreativa, o di accademie, che non svolgono solo un’attività strettamente culturale; negli
Stati assoluti le massonerie con le loro logge adempiono in modo occulto alla stessa funzione.
La circolazione delle idee è facilitata, anzi straordinariamente potenziata, dalla invenzione della stampa: allo
strumento epistolare, che non perde però la propria efficacia e la propria potenza, si accompagnano ora libri e riviste,
giornali e gazzette, che vengono ampiamente discussi proprio in quegli spazi di incontro. L’apparizione della stampa,
nei paesi liberi, consente l’embrionale formazione di partiti politici; e così, l’opinione pubblica comincia ad influire sul
processo elettorale. La diffusione dei lumi e l’aumento della cultura favorisce la formazione di un pubblico colto e
informato, che comincia a pronunciare giudizi sulla politica, che si era concentrata negli organi di governo: ma sono
giudizi essenzialmente morali, pronunciati in nome della ragione sulle perversioni del potere, quasi per controllare in
nome della ratio la ragion di Stato. l’opinione pubblica, inizialmente, non vuole essere politica, ma di fatto, ben presto
lo diventa. In sintesi: l’opinione pubblica è un potente strumento di modernizzazione politica contro il vecchio ordine e
di secolarizzazione della cultura; e si forma così la base per una nuova legittimazione del potere, oltre quella sacrale e
tradizionale.
Per affermarsi l’opinione pubblica aveva bisogno di due condizioni a livello istituzionale: in primo luogo, che
venisse abolita la censura e si affermasse la piena libertà di stampa, anche per giudicare gli atti del governo; in secondo
luogo che scomparisse il principio degli arcana imperii, che garantiva la segretezza degli atti di Stato. così, da un lato,
l’Areopagitica di John Milton iniziò la lunga battaglia per la libertà di stampa; dall’altro lato si cominciò a rivendicare
la pubblicità dei dibattiti parlamentari, degli atti di governo, delle procedure giudiziarie e soprattutto di quelle
dell’amministrazione. Solo queste due condizioni potevano consentire il formarsi di una pubblica opinione in un
pubblico dibattito, ma di una pubblica opinione veramente informata: essa aspirava non già a conquistare il potere
politico, ma a controllarlo e a indirizzarlo, a mantenerlo nell’ambito della legge, impedendo ogni forma di arbitrio, e a
trasmettergli un consenso o un dissenso della società, che non passava attraverso la tradizionale procedura delle
elezioni. Questo consenso o dissenso ragionato, infatti, non si forma in una istituzione politica, e cioè nel Parlamento,
ma in un’arena che è pre-politica, come la società civile, nella quale tutti gli informati hanno accesso, non attraverso i
partiti, ma attraverso una libera stampa e un libero dibattito nella società.
Da quanto siamo venuti dicendo possiamo meglio differenziare l’opinione pubblica da concetti che sono stati
ritenuti ad essa simili. La polis greca è certamente un corpo politico tutto idealmente fondato sulla parola, su un
discorso persuasivo e non sulla violenza: discorso e azione politica sono la stessa cosa, poiché l’azione politica si
realizza nel discorso. La polis è il modo di vita nel quale solo il discorso ha senso e che solo consente agli uomini di
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comunicare attraverso il logos e cercare così il giusto e l’ingiusto, il bene e il male per il vivere bene. Ma, la polis è una
comunità politica e l’uomo, come animale politico, realizza il vivere bene solo nell’arena politica: il privato rispetto al
pubblico è nettamente svalutato, e ad esso nettamente contrapposto, senza alcuna mediazione di uno snodo sociale.
L’opinione pubblica, invece, si forma non nell’arena politica, ma nella società; e il suo giudizio per il vivere bene è un
giudizio sulla politica, non un’azione politica, che si esprime attraverso il discorso.
[…]Parimenti l’opinione pubblica, appunto perché nasce da un processo dialogico e discorsivo, si differenzia dai
comportamenti collettivi delle folle o delle masse, siano esse aggregato (panico, ressa, moda, boom) o di gruppo con il
suo spirito (il collettivo, o le chiese e i partiti in formazione): questo agire sociale collettivo senza modelli
istituzionalizzati, infatti, ha come forza di aggregazione o l’imitazione o l’identificazione con il leader carismatico, e
nasce da una reazione emozionale a uno stato di frustrazione, di inquietudine, di insicurezza, che trova una sua
soluzione non nella cultura, ma nell’eccitamento collettivo e nel contagio sociale. Siamo nel campo della psicologia di
massa.
1.
LA RIFLESSIONE SULL’OPINIONE PUBBLICA
Il maggior teorico dell’assolutismo Thomas Hobbes, è il primo che rileva il pericolo che deriva per l’ordine e la
saldezza dello Stato, dal lasciare gli individui liberi di giudicare su questioni politiche e religiose; nel Behemoth, ovvero
il lungo Parlamento, egli mostra come l’opinione pubblica, se lasciata libera a se stessa produca solo sedizioni e guerre
civili. Il monopolio di decidere sul vero e sul giusto spetta, così soltanto a chi detiene il potere sovrano.
La prima chiara rivendicazione dell’autonomia e della funzione dell’opinione si ha, invece, con il liberale John
Locke: nel Saggio sulla intelligenza umana egli parla di una legge dell’opinione o reputazione, che è una vera e propria
legge filosofica: essa è una norma riferita alle azioni, per giudicare se siano virtuose o viziose. Gli uomini, nel formare
la società politica, hanno rinunciato, a favore del potere politico, a usare la forza contro un concittadino, ma conservano
intatto il potere di giudicare la virtù e il vizio, il bene e il male delle sue azioni. La legge dell’opinione si colloca
accanto alla legge divina e alla legge civile; e ha la sua sanzione nel biasimo e nell’elogio da parte della società di
questa o di quella azione. Essendo un giudizio espresso dai cittadini, per segreto e tacito consenso, ogni società,
secondo i propri costumi, stabilirà le proprie leggi dell’opinione, che saranno diverse a seconda dei vari paesi. Anche se
questa opinione ci appare ancora legata alla reputazione (fama), anche se non è sottolineato il momento pubblico, e cioè
quello della discussione pubblica, essa tuttavia esprime un consenso di privati che non hanno abbastanza autorità a
fare una legge, ma possono sempre comminare una sanzione attraverso la censura privata (Saggio sull’intelligenza
umana, II, 28, 7-15). Nella costruzione dello Stato liberale, delineato da Locke, si deve sottolineare la radicale
distinzione fra legge morale, espressa dall’opinione pubblica, e legge civile, espressa dall’assemblea rappresentativa,
che è una vera e propria distinzione fra il potere politico e il potere filosofico. La contrapposizione fra morale e politica
è netta, anche se la morale non si erge a tribunale della politica, dato che il Locke ci parla non di uno Stato assoluto, ma
di uno Stato liberale.
Nella liberale Inghilterra, nel Settecento, continua l’approfondimento del concetto di opinione pubblica, soprattutto
con David Hume ed Edmund Burke. Il primo esalta quello spirito pubblico, che può formarsi nel suo paese, proprio per
l’estrema libertà concessa alla stampa di criticare le azioni del re e dei suoi ministri, anche se questo comporta dei
pericoli, come il favorire le calunnio o alimentare le lotte fra le fazioni (Saggi morali, politici e letterari, I, 2 e 3). Per
Hume ogni governo si fonda sempre sull’opinione, anche se questa può mutare nel suo fondamento: essa, infatti, può
essere basata o sul pubblico interesse, o sul diritto, che può essere o diritto di potere, (la legittimità del governo
esistente per la sua antichità) o diritto alla proprietà (la proprietà, per taluni, è il fondamento del potere).
Con più forza il politico Edmund Burke, in diverse lettere ai suoi elettori, sottolinea che sono l’opinione generale e
lo spirito pubblico a dare legittimità al potere del Parlamento – e segnatamente alla Camera bassa – tramite i partiti
politici, ma mostra ance che questa opinione pubblica non coincide mai necessariamente con il potere. Tuttavia questa
opinione generale è il veicolo e l’organo dell’onnipotenza legislativa. Inoltre Burke mostra gli elementi strutturali
dell’opinione pubblica, quando afferma: “In un paese libero ogni uomo pensa di avere interesse a tutte le questioni
pubbliche, di avere diritto di formarsi e di manifestare un’opinione su di esse. Egli le filtra, le esamina e discute. È
curioso, assetato, attento e geloso […]. Mentre in altri paesi nessuno, tranne coloro che sono esplicitamente chiamati a
un determinato ufficio, si occupa dei pubblici affari; e, non osando essi confrontare le loro opinioni, una capacità di
questo genere è estremamente rara in ogni settore della vita. Nei negozi e nelle fabbriche dei paesi liberi si può trovare
una saggezza e una sagacia pubblica più reale che nei gabinetti dei principi di paesi in cui nessuno osa avere
un’opinione, finché non fa parte del gabinetto stesso. la vostra importanza, quindi dipende nel suo complesso dall’uso
discreto della vostra regione”.
Negli Stati assoluti vigeva, invece, un principio, chiaramente affermato da Federico II nel 1784: “Un privato non è
autorizzato a esprimere giudizi pubblici, o addirittura di biasimo, sulle azioni, il comportamento, le leggi, le
disposizioni e le ordinanze dei Sovrani e delle Corti, dei servitori dello Stato, dei collegi e delle corti giudiziarie…Un
privato non è del resto affatto in grado di giudicare in proposito, poiché gli manca la piena coscienza delle circostanze
e dei motivi”. Proprio per questa diversa struttura dell’organizzazione del potere e in conseguenza di quell’ambiguo
rapporto fra philosophes e governanti, che ha il nome di dispotismo illuminato, si forma, soprattutto in Francia, un
diverso concetto di opinione pubblica, di cui ora indicheremo alcuni elementi strutturali.
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Pierre Bayle, che è alle radici dell’Illuminismo francese, aveva sempre contrapposto la raison all’opinione,
espressione questa dell’incertezza, perché si basava sul vuoto. Egli preparava la lotta contro la scolastica e l’autorità, il
pregiudizio e la tradizione; la raison doveva liberare l’uomo dalla superstizione. Ma portatore della raison non era il
pubblico raziocinante e disputante nella società, erano i sapienti della res publica litteraria e non i cittadini della
nazione. Così Jean-Baptiste d’Alembert nel 1753, nel Saggio sui rapporti fra intellettuali e potere, oppone ai politici – o
a coloro che detengono il potere – quelli che oggi definiremmo gli intellettuali, perché soltanto questi ultimi
costituiscono il “pubblico che giudica, cioè che pensa”: un pubblico che esprime posizioni critiche e non semplici
opinioni, e, tanto peggio, passioni e prevenzioni, adulazioni e cortigianerie. Il philosophe, che pur vive nei salotti e nelle
anticamere dei potenti, è decisamente distinto dal cortigiano o dal ciarlatano, ma anche dal popolo: solo la société des
gens de lettres esprime le public éclairé.
Pure Denis Diderot svaluta un’opinione pubblica, che si forma su voci che corrono “di bocca in bocca”; così
ripropone nel Discorso di un filosofo a un re come i consiglieri del Principe non i preti, ma solo “gli amici della ragione
e i promotori della scienza”. La battaglia contro il potere politico, resta, così assestata sulla rivendicazione della libertà
di stampa: “Sarebbe un paradosso assai strano, in un’epoca nella quale l’esperienza e il buon senso concorrono a
dimostrare che qualsiasi ostacolo è dannoso al commercio, affermare che soltanto i privilegi possono sostenere
l’editoria” scrive ancora Diderot nel saggio Sulla libertà di stampa. Anche i fisiocratici restano fermi a questa
posizione, pur sottolineando la necessità della discussione pubblica sui problemi pubblici: la loro opinione pubblica
resta quella di un public éclairè. Alla vigilia della Rivoluzione ancora Louis Sebastien Mercier, nel saggio, Nozioni
chiare sui governi distingue governanti e intellettuali: questi ultimi soltanto formano l’opinione pubblica, ai quali spetta,
da un lato, di illuminare il governo sui suoi doveri e, dall’altro, di spandere lumi su tutte le classi, per educarlo.
Si forma così, dentro le strutture dello Stato assoluto dove non c’è una Assemblea espressiva dell’opinione
pubblica, un ceto, quello dei philosophes o – modernamente – degli intellettuali, il quale in un ambiguo rapporto con il
dispotismo illuminato, non sottopone però quotidianamente a una verifica l’attività legislativa del governo. È un ceto
separato non solo dallo Stato, ma anche dalla società: gli scrittori, per dirla con Alexis de Tocqueville, erano divenuti i
più eminenti uomini politici della nazione, ma non partecipavano affatto alla quotidiana pratica degli affari,
all’amministrazione e, pur non rimanendo totalmente estranei alla politica, si limitavano a diffondere “una politica
astratta e letteraria”, basata su principi semplici, elementari, desunti dalla ragione e dalla legge di natura, che però non
avevano alcun raccordo con quella concreta esperienza della vita pratica, che aveva caratterizzato l’opinione pubblica
degli Inglesi (Antico regime e rivoluzione, III,1).
[…] A trattare con maggior sistematicità la funzione dell’opinione pubblica nello Stato liberale, saldando la
tradizione inglese (mediazione con la rappresentanza) e quella francese (il pubblico dei critici) è stato Immanuel Kant,
anche se non usa questo termine, ma quello di pubblicità o di pubblico. Domandandosi Che cosa è l’Illuminismo? egli
risponde che esso consiste nel “fare uso pubblico della propria ragione in tutti i campi”; ed è un uso che uno ne fa
“come studioso davanti all’intero pubblico dei lettori”, come membro della comunità e rivolgendosi alla comunità.
Questo uso pubblico della ragione, che deve essere libero, in ogni tempo, ha una duplice funzione e si rivolge a due
destinatari: da un lato, si rivolge al popolo, perché diventi sempre più capace di libertà di agire, mentre nella
comunicazione della propria opinione si ha una verifica della sua verità, proprio nel consenso degli altri uomini.
Dall’altro lato, si rivolge allo Stato assoluto, per mostrargli che è più vantaggioso trattare l’uomo non come una
macchina secondo le regole dello Stato di polizia, ma secondo la sua dignità: e qusta ragione deve salire sino ai troni,
per far sentire la propria influenza sui principi di governo, per far conoscere il lamenti del popolo. Dopo la Rivoluzione
francese in diversi scritti (Per la pace perpetua, Se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio, Sopra il
detto comune e Il conflitto di facoltà) il concetto di pubblicità viene meglio chiarito nell’ambito ideale di una
costituzione repubblicana. Infatti, per Kant, è “vocazione naturale degli uomini comunicare gli uni con gli altri nelle
materie che riguardano l’umanità in generale”; ed è anche un vero e proprio diritto inalienabile, al quale non possono
rinunciare, quello di giudicare l’ingiustizia commessa per errore o per ignoranza dal potere sovrano. per questo “deve
attribuirsi al cittadino, con il consenso del sovrano stesso, il potere di manifestare pubblicamente la sua opinione su ciò
che nei decreti sovrani crede che arrechi ingiustizia alla comunità”. E ora il sovrano non è solo il monarca assoluto, ma
anche un’Assemblea rappresentativa, perché “Quello che un popolo non può deliberare su se stesso non può neanche il
legislatore deliberare sul popolo”. Pertanto “la libertà di penna è l’unico palladio del popolo” (Sopra il detto comune).
Ma, a illuminare il popolo sui diritti e sui doveri, non devono essere persone ufficiali designate dallo Stato, ma liberi
cultori del diritto, filosofi: qui nella diffidenza verso il governo, che vuole sempre dominare, si precisa ancora la
distinzione fra politica e morale, l’autonomia della società civile, composta da individui autonomi e razionali, dallo
Stato. collegata a questa impostazione, la pubblicità serve a superare il conflitto esistente fra politica e morale, a
superarlo attraverso l’idea del diritto, che solo può fondare la pace: “la vera politica non può fare alcun progresso, se
prima non ha reso omaggio alla morale; e quantunque la politica per se stessa sia una difficile arte, l’unione di essa
con la morale non è affatto un’arte, poiché questa taglia i nodi che quella non può sciogliere non appena un contrasto
sorge tra di loro”. La pubblicità, appunto è ciò che consente di costringere la politica “a piegare le ginocchia davanti
alla morale” (Per la pace perpetua). Serve da mediazione fra politica e morale, fra Stato e società, e diventa così uno
spazio istituzionalizzato, organizzato nell’ambito dello Stato di diritto liberale, in cui gli individui autonomi e razionali
in un pubblico dibattito procedono ad una autocomprensione e ad un autointendimento.
[…] Il pensiero liberale inglese e francese, con Bentham, Constant e Guizot, continua l’impostazione di Locke, con
questa novità: viene accentuata la funzione pubblica o meglio politica dell’opinione pubblica, come istanza intermedia
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fra l’elettorato e il potere legislativo. L’opinione pubblica ha la funzione di consentire a tutti i cittadini un’attiva
partecipazione politica, mettendoli in condizione di discutere e di manifestare le proprie opinioni sulle questioni di
pubblico interesse: così si estende, oltre i governanti, la sagacia e la sapienza politica, e le discussioni del Parlamento
sono parte delle discussioni del pubblico. Questo, se da un lato serve come controllo o come potenziale di opposizione
alla classe politica, dall’altro lato consente l’onnipotenza del Parlamento allorché si governa con il consenso
dell’opinione pubblica: èssa è il tribunale della politica, che può forse commettere errori, ma è incorruttibile come
afferma Bentham. Ma, perché l’opinione pubblica possa svolgere la sua funzione, è necessaria la pubblicità delle
discussioni parlamentari e degli atti di governo, e una piena libertà di stampa. Benjamin Constant, inoltre studia nel
famoso Corso di politica costituzionale tutte le riforme istituzionali (ad esempio le leggi elettorali) per consentire alla
Camera dei deputati di essere l’espressione dell’opinione pubblica, la quale, per lui, in molti casi si è mostrata assai più
avanzata della rappresentanza nazionale, e per impedire che le assemblee abbiano uno spirito di corpo, che le isoli
dall’opinione pubblica.
Le successiva generazione dei liberali cominciò, invece, a temere che l’opinione pubblica non fosse poi così tanto
incorruttibile, come aveva creduto la prima: il pericolo di corruzione, però, non veniva tanto dal governo, quanto dalla
società civile stessa, attraverso il dispotismo della maggioranza o il conformismo di massa. Alexis de Tocqueville nella
Democrazia in America (I, II, 7 e II, I, 2) e, sulla sua scia John Stuart Mill in Sulla libertà mostrano come il dispotismo
di massa o della classe media operi non tanto attraverso le pubbliche autorità, per mezzo dell’apparato coercitivo dello
Stato, ma, piuttosto, con una pressione psicologica da parte della società sull’anima e non sul corpo dell’individuo, per
cui ad esso resta la drammatica scelta fra conformismo e l’emarginazione. Vi è un controllo sociale, più che un
controllo politico, a impedire il libero svolgimento della personalità individuale e il formarsi di un pubblico di individui
razionalmente disputanti. La crisi dell’opinione pubblica è, inoltre, dovuta ad altri due fattori: da un lato l’eclissi della
ragione, che per dimostrare la propria legittimità, deve dimostrare di essere utile praticamente e valorizzabile
tecnicamente per il benessere, per cui essa si riduce a calcolo mercantile e non ricerca più, nel dialogo razionale,
l’universalità delle opinioni; dall’altro lato all’industria culturale, che trasforma le creazioni intellettuali in semplici
merci destinate al successo e al consumo, è così il desiderio della gloria viene soppiantato da quello per il denaro.
L’ideale dialogo fra l’illuminista con il suo pubblico, cui guardava Kant, non ha, così, più le condizioni per realizzarsi; e
l’opinione pubblica si sfalda: “le opinioni umane non formano più che una specie di polvere intellettuale, che si agita in
tutti i sensi senza potersi raccogliere e posare”. (La democrazia in America, II, I, 1)
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CONCLUSIONE
[…] Le caratteristiche [del modello di opinione pubblica] sono essenzialmente tre: in primo luogo, l’opinione
pubblica è un atteggiamento razionale e critico di controllo di governo; e quindi non coincide mai con il potere o,
meglio non è la volontà generale del popolo, la volontà della nazione, della classe, delle masse, quale viene interpretata
ed espressa dalla classe politica: essa è l’espressione del potere culturale. In secondo luogo, non ci deve essere un
controllo da parte del governo dei canali di comunicazione, che sono appunto gli strumenti della formazione
dell’opinione pubblica: questo presuppone un pluralismo informativo, e cioè giornali, riviste e televisioni indipendenti,
un confronto e una competizione nella discussione, ma anche completezza nell’informazione e una continua verifica
dell’attendibilità delle notizie, perché, nell’ambito dell’opinione pubblica, ci devono essere dei meccanismi sanzionatori
per le notizie false o tendenziose. In terzo luogo, è necessario, allo stato diffuso, una cultura che si ispiri al razionalismo
critico, pronta ad accettare le prove e la falsificazione di un’opinione in base ai fatti: e quindi una cultura lontana tanto
dai fideistici ideologismo, quanto dall’abitudine a vedere, dentro ogni opinione, solo un interesse mascherato o
camuffato, perché questo impedisce il dibattito razionale e conduce al sofisma politico.
L’opinione pubblica appartiene all’ambito o all’universale politico; e, pertanto, bisogna distinguere fra la capacità
di giudizio politico e la ragione, che è, invece, la capacità di pensiero scientifico e filosofico. Nell’ambito politico non
c’è spazio per una epistemocrazia, perché non c’è una sola verità politica, ma solo opinioni, le quali, anche se
contengono un elemento di razionalità critica, nascono anche da sentimenti, fedi e speranze: la logica del vero/falso non
è pertanto applicabile a queste opinioni, salvo quando esse si riferiscano a un fatto ben preciso. Queste opinioni si
misurano nel dibattito e nella lotta per il consenso, perché questo soltanto è il criterio della loro qualità: per questo
l’opinione pubblica non è pura doxa. Nell’universale politico la difesa della libertà implica il rispetto delle opinioni, e
quindi del diritto di ciascuno di poter dire la propria: esse non devono essere represse o oppresse. Pertanto è necessario
un ambito politico strutturato in funzione di questa libertà sociale, perché gli opinanti fra loro sul pubblico non sono
persone private, nella misura in cui l’opinione pubblica si forma proprio dal loro incontro e dalle integrazioni delle
singole opinioni. Essa serve al controllo del potere, perché sia legittimo e non semplice dominio, ad opporre la ragione
alla ragion di Stato. (Nicola Matteucci, voce Opinione Pubblica, pp.169- 188, in Lo Stato moderno, Lessico e percorsi,
Bologna, Il Mulino, 1993)
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