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Andrea Binelli LINGUA, SEMIOLOGIA E TRADUZIONE DALL’INGLESE Andrea Binelli, Lingua, semiologia e traduzione dall’inglese Copyright © 2013 Tangram Edizioni Scientifiche Trento Gruppo Editoriale Tangram Srl – Via Verdi, 9/A – 38122 Trento www.edizioni-tangram.it – [email protected] Collana “Didattica” – NIC 11 Prima edizione: aprile 2006, UNI Service Seconda edizione: dicembre 2007, UNI Service Terza edizione: dicembre 2013, Printed in Italy ISBN 978-88-6458-091-3 In copertina: Martino Binelli, Un disegno per il babbo Stampa su carta ecologica proveniente da zone in silvicoltura, totalmente priva di cloro. Non contiene sbiancanti ottici, è acid free con riserva alcalina Sommario Introduzione 9 Parte Prima Dalla lingua alla semiologia 11 1.1 Le basi interdisciplinari della didattica della lingua e degli studi sulla traduzione 11 1.2 Le difficoltà nello studio della lingua 16 1.3 Il crescente interesse per la lingua e la linguistica 18 19 24 1.4 Lo strutturalismo 25 30 31 1.5 Segno, semantica, semiotica e semiologia 34 1.6 Di applicazione letteraria? 37 1.7 Semiotica e comunicazione 40 41 43 1.8 Codifica, decodifica, fattori e funzioni 45 1.3.1 La contemporaneità e l’urgenza della mediazione culturale e linguistica 1.3.2 Il tempo della linguistica 1.4.1 L’eredità dello strutturalismo 1.4.2 Lo snodo dalla stilistica alla semiologia e i rischi di certi “post” 1.7.1 Significato e codici 1.7.2 Linguaggio e lingua Parte seconda Semiotica della comunicazione letteraria o semiologia 51 2.1 I fattori della comunicazione letteraria: messaggio, contatto, contesto e codice 51 2.2 Fra mittente e destinatario 63 2.3 Ermeneutica e letteratura 73 76 77 2.3.1 Interpretazione e fattori 2.3.2 Intentio auctoris e intentio operis Parte terza Teoria e pratica della traduzione e traduzione dall’inglese 87 3.1 Lingua e società. Sapir/Whorf, Lotman e Hjelmslev 88 3.2 Mondi possibili in traduzione 99 102 110 112 3.3 Effetto equivalente 115 3.4 Equivalenza funzionale 118 3.5 Strumenti semiotici, linguistici e filologici 120 3.6 Tecniche di traduzione. Vinay, Darbelnet e Malone 126 3.7 Traduzione e isotopia 132 3.8 Traduzione dall’inglese all’italiano 136 137 158 160 162 166 170 174 177 179 3.9 Comparazione stilistica di traduzioni dall’inglese 181 182 186 Bibliografia 189 3.2.1 Culture-bound terms 3.2.2. Partire dai contesti 3.2.3 Disambiguazione e conoscenza enciclopedica 3.8.1 3.8.2 3.8.3 3.8.4 3.8.5 3.8.6 3.8.7 3.8.8 3.8.9 Analisi contrastiva italiano/inglese e traduzione Traduzione e testi metacomunicativi Traduzione e funzione fatica Intertestualità in traduzione La funzione conativa e gli advertisements Witticisms, fumetti e film Isotopie e traduzione delle short stories Traduzione e varietà di inglese Stile in traduzione Analisi e comparazione stilistica delle traduzioni Analisi e comparazione stilistica delle traduzioni LINGUA, SEMIOLOGIA E TRADUZIONE DALL’INGLESE 9 Introduzione Il materiale qui raccolto è il frutto di lezioni tenute nel corso di più anni presso alcune università italiane e straniere. Le lezioni erano per lo più indirizzate a studenti di Traduzione e di Lingua Inglese, e inserite all’interno dei seguenti corsi di laurea: Lingue e Letterature Straniere, Mediazione Linguistica, Storia, Lettere, Filosofia, Beni culturali e Communication Studies (Giornalismo). Questo significa che per quanto riguarda i corsi di laurea a carattere prettamente linguistico, il presente volume si candida a svolgere il ruolo di introduzione alla teoria e alla pratica della traduzione, soprattutto per quegli studenti che studiano o comunque parlano inglese, e non necessariamente solo per coloro che si specializzano in lingua inglese. Per quanto riguarda invece gli altri corsi succitati, non di introduzione si tratterà ma di una presentazione che si auspica esaustiva dell’ambito disciplinare della traduzione. Come si vedrà le lezioni hanno toccato numerosi argomenti e frequentato temi cari a svariate discipline, limitandosi talora a delinearne alcuni elementi essenziali. Si è così attraversato territori che rientrano anche nel patrimonio istituzionale di cattedre come quelle di Linguistica, di Glottodidattica, di Semiotica e di Teoria della Comunicazione. Oltre che dalle motivazioni teoriche di cui si renderà conto nelle prossime pagine, il percorso di ricerca qui tracciato è legittimato dalla volontà di trasmettere un approccio a tutto tondo all’esperienza 10 Introduzione traduttoria, da una precisa prospettiva nei confronti dei testi letterari e non letterari, e soprattutto da una certa passione per l’analisi critica e l’approfondimento teorico. Mi rendo infine conto che la presente introduzione sarebbe incompleta senza un riferimento esplicito a quegli studenti che, partecipando attivamente alle lezioni e ai laboratori di traduzione, hanno portato un contributo significativo alla realizzazione di questo lavoro. Per questo motivo ringrazio in particolar modo gli studenti di Lingua Inglese e di Lingua e Traduzione Inglese dell’Università di Trento, con cui ho avuto il piacere di misurarmi negli ultimi dieci anni. 11 Parte Prima Dalla lingua alla semiologia 1.1 Le basi interdisciplinari della didattica della lingua e degli studi sulla traduzione Introdurre l’insegnamento di una lingua straniera o gli studi sulla traduzione attraverso una pur rapida disamina delle strutture linguistiche e della semiologia significa, fra le altre cose, condividere alcune delle preoccupazioni e degli obiettivi della glottodidattica, conosciuta in ambito anglo-americano come Applied Linguistics1. La glottodidattica, o didattica della/e lingua/e, consiste infatti nello studio scientifico tanto dell’apprendimento quanto delle metodologie di insegnamento di una lingua, sia essa una lingua straniera o la linguamadre (mother-tongue) di un parlante nativo (native speaker). Essa Si faccia attenzione. In ambiente anglo-americano la Applied Linguistics “is a discipline which applies the findings of linguistics, among others, in education: e.g. or especially to teaching English as a foreign or second language” [P. H. Matthews, a cura di, Oxford Concise Dictionary of Linguistics (Oxford: OUP, 2007), p. 24] e dunque, per metodi e finalità, è più vicina allo statuto della Glottodidattica che alla Linguistica Applicata. Quest’ultima corrisponde infatti allo “studio scientifico della lingua orientato verso quegli aspetti della ricerca che hanno un’utilizzazione pratica” [Gian Luigi Beccaria, a cura di, Dizionario di linguistica e di filologia, metrica e retorica (Torino: Einaudi, 1994), p. 445]. 1 12 Parte Prima rappresenta quindi uno fra i tanti indirizzi di una disciplina assai più ampia, la linguistica generale (general linguistics), che a sua volta mira allo studio scientifico del linguaggio e delle strutture delle lingue. Lo scopo principale degli studi linguistici – scientifici in quanto aspirano all’oggettività e al rigore delle scienze cosiddette dure, sebbene debbano fronteggiare una materia così elusiva, soggettiva e idiosincratica come il linguaggio2 – è pertanto la descrizione analitica e la spiegazione esatta e non dilettantesca dei fenomeni linguistici. Quanto alla scientificità della linguistica, negata fra gli altri da un grande traduttologo come George Steiner, è emblematico il vago imbarazzo di Geoffrey Finch che, in una presentazione della materia, scrive, “Some people refer to it as ‘the science of language’, but”, si affanna immediatamente a precisare, “I have avoided this description because it can be misleading”3. È oggi opinione unanime che la didattica delle lingue, così come gli studi sulla traduzione, non abbiano alcuna possibilità di successo laddove non contemplino una presa di coscienza degli elementi fondamentali (da considerarsi, con Raffaele Simone, “gli stoikhéia, gli elementa, dei geometri greci […] conoscenze prime, le più iniziali, le più disaggregate e comprensibili”)4 di un ventaglio minimo di discipline: tra queste, oltre alla linguistica generale, si ricordino l’antropologia culturale, la pragmatica, la pedagogia, la psicologia e la sociologia. Nella pratica poi, vi si aggiungono discipline come letteratura, storia, filosofia e storia della cultura, le quali, tradizionalmente, Istintivamente il rigore con cui si formulano ipotesi, modelli e classificazioni dei fenomeni linguistici non sembra lo stesso con cui si può calcolare la velocità del suono, misurare l’estensione di una superficie o analizzare i componenti di un materiale. Sono diverse e radicate le resistenze che hanno storicamente caratterizzato il mai sopito conflitto fra le impostazioni più umanistiche e pertanto meno sistematiche dello studio della lingua e l’esigenza di individuarne le basi scientifiche. Si veda in merito la prefazione di Noam Chomsky alla prima edizione de Il linguaggio e la mente. 3 Geoffrey Finch, Key Concepts in Language and Linguistics (Basingstoke: Palgrave, 2000), p. 1. 4 Raffaele Simone, Fondamenti di linguistica (Bari: Laterza, 1990), p. xii. 2 Dalla lingua alla semiologia 13 si associano all’implementazione degli insegnamenti di lingua e traduzione. Insomma, i percorsi della glottodidattica e degli studi traduttivi sono soggetti a continui sconfinamenti in territori disciplinari contigui, con conseguente scambio di paradigmi analitici, strumenti di lavoro e prospettive. Del resto il carattere ‘pericolosamente’ interdisciplinare degli studi linguistici è una mera conseguenza della natura ‘eteroclita’ dell’oggetto in esame: il linguaggio stesso. Con il termine ‘eteroclita’, infatti, Ferdinand de Saussure indicava i numerosi collegamenti che associano ineluttabilmente il linguaggio a numerosi ambiti dell’esperienza – intesi come porzioni specifiche della realtà – e, di conseguenza, anche ad altrettanti domini del sapere (“discorsi”, per dirla con Michel Foucault e con il lessico della tradizione post-strutturalista) che di tali porzioni sono lo studio e l’organizzazione concettuale e sistematica. Pertanto, da qualsiasi punto di vista si voglia avvicinare il linguaggio e approfondirne la conoscenza, sarà di volta in volta inevitabile la collisione con disparati campi disciplinari. La revisione in chiave interdisciplinare degli studi linguistici ha certamente partecipato all’ampliamento degli orizzonti di ricerca della glottodidattica e all’aggiornamento delle tecniche di insegnamento delle lingue, contribuendo inoltre a quella ridefinizione degli ambiti che ha portato alla dignità accademica dei Translation Studies. La definizione Translation Studies (TS), a delimitare una disciplina di cui finalmente se ne riconosceva l’indipendenza e di cui se ne individuavano le competenze relativamente al “complex of problems clustered round the phenomenon of translating and translations”5, è attribuibile a James S. Holmes. Lo stesso Holmes utilizzò questo termine in un intervento, dal titolo appunto di “The Name and Nature of Translation Studies”, letto durante il Terzo Congresso Internazionale di Linguistica Applicata che si tenne a Copenaghen nel 1972. Ma in realtà l’etichetta TS ha iniziato a circolare senza intoppi solo in tempi più recenti. Del resto, la lettura presentata da Holmes in quell’occaJames S. Holmes, Translated!: Papers on Literary Translation and Translation Studies (Amsterdam: Rodopi, 1988), p. 67. 5 14 Parte Prima sione è rimasta a lungo di difficile reperibilità, almeno fino al 19886. Fatto sta che, già pochi anni dopo, e per la precisione nel 1976, durante l’ormai celebre Colloquio di Lovanio, il termine TS venne recuperato da Andrè Lefevere per immaginare una disciplina che si doveva occupare dei “problems raised by the production and description of translations” e per rivendicarne l’esigenza di autonomia da altri settori disciplinari come le letterature comparate e la linguistica7. Ma autonomia non era intesa come chiusura. Ciò di cui infatti si lamentavano Holmes e Lefevere era in sostanza la futile dispersione degli studi sulla traduzione, troppo spesso confluiti in numerosi percorsi di ricerca che continuavano ad avere come punto di riferimento discipline tradizionali diverse e solo raramente avviavano una proficua comunicazione tra di loro. A salvaguardia del vero, si aggiunga infine che, sebbene i TS e l’approccio interdisciplinare adeguato alla costituzione poliedrica della lingua siano fenomeni recenti, i rapporti fra le lingue rientrano fra le preoccupazioni dell’uomo da molto prima che a tali questioni si assegnasse uno spazio accademico specifico. Anzi, per gli studi sulla traduzione probabilmente vale proprio quanto Georges Mounin aveva già osservato in relazione alla linguistica in un suo resoconto storico: Che la linguistica generale sia una scienza giovanissima, non esclude il fatto che gli uomini abbiano condotto da molto tempo una tenace riflessione sui fenomeni del linguaggio; né che questa riflessione non costituisca, di per se stessa, una lunga storia primitiva, sempre interessante e spesso istruttiva, della linguistica generale8. Tant’è vero che, come annota lo stesso Mounin in un altro libro espressamente dedicato alla traduzione, gli esseri umani ricorrono alle traduzioni da oltre 3.000 anni: Gideon Toury, Descriptive Translation Studies and Beyond (Amsterdam/Philadelphia: John Benjamins, 1995), pp. 7-8. 7 Susan Bassnett, La traduzione: Teorie e pratica (Milano: Bompiani, 2003), p. 13. 8 Georges Mounin, Storia della linguistica dalle origini al XX secolo (Milano: Feltrinelli, 1968), p. 6. 6 Dalla lingua alla semiologia 15 Ora, anche risalendo nel tempo e per quanto lontano ci si spinga, la figura dell’interprete e del traduttore si ritrova sempre. Fin dal II millennio a.C., infatti negli stati dell’Asia Minore, – assiri, babilonesi, ittiti – esistono cancellerie dove lavorano scribi specializzati: lo scriba per le lettere in egiziano, ad esempio, e quello per le lettere in aramaico. […] in Egitto, poi, fin dall’Antico Regno alcuni alti funzionari portano già il titolo di capo interprete […]. Infine, anche nella Cina e nell’India arcaiche, come nell’America precolombiana, lunga deve essere la storia degli uomini-interpreti e degli uomini-traduttori9. Ovviamente che una questione non sia al centro delle attenzioni di chi studia e fa ricerca nelle strutture a questo proposte (istituzioni accademiche, statali o religiose) non significa che la questione stessa non venga posta e non rientri nelle preoccupazioni di altri settori della società. Il riconoscimento delle istituzioni sopra elencate ha però il pregio di favorire e spesso sollecitare un’indagine più sistematica delle diverse riflessioni che si sono date in precedenza. Che si collochi la nascita della linguistica nei paraggi di Port Royal (1660 circa), nelle opere sulla grammatica comparata di Franz Bopp (1791-1867) o nell’aule ginevrine in cui tenne le sue lezioni Ferdinand De Saussure (1857-1913), non vuol dire sottovalutare le competenze raggiunte in questo stesso ambito dalla civiltà egiziana, sumerica o accadica e, per quanto riguarda altre aree del pianeta, dalle civiltà indiane e cinesi. Tutt’altro. Lo studio di quelle civiltà acquisisce infatti un ulteriore, importantissimo valore. Del resto, si provi per un istante a comprendere l’im-portanza della traduzione considerando la seguente ipotesi negativa, ipotesi che certo non sfigurerebbe in un trattato di patafisica: cosa ne sarebbe del genere umano senza la traduzione? È possibile immaginare una storia dell’umanità in assenza di traduzioni? In un qualsiasi scritto di patafisica la risposta sarebbe sicuramente affermativa – a prescindere dalla lingua in cui verrebbe formulata – ma se si tralascia la scienza delle soluzioni immaginarie e si rientra nei più angusti confini della logica, risulta evidente in tutta la sua portata la funzione di 9 Georges Mounin, Teoria e storia della traduzione (Torino: Einaudi, 2006), p. 30. 16 Parte Prima principio fondamentale della conoscenza che la traduzione ricopre da secoli. 1.2 Le difficoltà nello studio della lingua È finalmente chiaro a chiunque che per imparare una seconda lingua è assolutamente indispensabile essere coscienti dei complessi meccanismi di funzionamento della propria. Per questo Johann Wolfgang von Goethe ammoniva che chi non conosce lingue straniere, non sa nulla della propria. D’altronde, anche quando ci si può legittimamente ritenere parlanti efficaci e consapevoli della propria lingua, in realtà non sempre si è in grado di spiegare le ragioni di certe scelte lessicali, grammaticali o sintattiche. Per quanto concerne gli italiani, ad esempio, in quanti sanno spiegare senza esitazioni di fronte a quali termini utilizziamo l’articolo determinato “lo” piuttosto di “il”? E ancora, in base a quale principio scegliamo gli ausiliari “essere” o “avere” con cui costruire i tempi composti? Lo stesso ovviamente vale per tutte le lingue. Il romanziere e giornalista inglese Nick Hornby racconta spesso di aver finalmente compreso la differenza fra simple past e present perfect solo dopo che, in un periodo di indigenza, è stato costretto a insegnare inglese agli stranieri. Nello stesso periodo pare anche aver scoperto che in inglese gli aggettivi relativi al colore precedono gli aggettivi relativi al luogo, mentre quelli relativi all’età precedono gli aggettivi relativi al colore: ecco perché, avrebbe osservato Hornby, “an old green shirt” suona bene, mentre “a green old shirt” suonerebbe irrimediabilmente esotico. Emblematico di questo iato fra competenza pratica e consapevolezza critica è il tutt’altro che provocatorio sottotitolo di un interessante libro di Harrie Ritchie, English for the Natives: Discover the Grammar You Don’t Know You Know10. Insomma, Harrie Ritchie, English for the Natives: Discover the Grammar You Don’t Know You Know (London: Hodder Stoughton 2013). 10 Dalla lingua alla semiologia 17 nel concreto comportamento linguistico utilizziamo con disinvoltura regole complicatissime e disponiamo di un vastissimo serbatoio di norme ed eccezioni che a livello cosciente ci sono totalmente ignote. Come infatti diventa chiaro mano a mano che si procede nello studio di una lingua straniera e nella pratica della traduzione, sviluppare competenze in una seconda lingua significa in primo luogo penetrare a fondo la propria e sviluppare una maggiore consapevolezza riguardo ai procedimenti linguistici in genere. Anche per questo motivo lavorare sui testi letterari, intesi come specchio e laboratorio di vita concreta, resta un metodo di apprendimento linguistico dalle potenzialità ineguagliabili. Ma di questo vedremo nel dettaglio nella seconda parte. Per ora si consideri che individuare un così paradossale scarto fra le capacità effettive di espressione linguistica e la consapevolezza riguardo all’utilizzo della lingua equivale a intuire il motivo principale per cui la linguistica in genere e tutte le sue branche ci appaiono oscure e contorte, forse più di un’altra materia astratta come la filosofia. Beninteso, il problema non consiste nel procedere in astratto. Anzi, varrà la pena di ricordare il monito di linguisti e filosofi allorché distinguono astrazione da astrattezza, precisando che a differenza della seconda, la prima non indica alcunché di negativo e tantomeno di oscuro o incomprensibile. Al contrario, nel laboratorio del linguista il procedere per astratto indica il metodo scientifico di derivazione galileiana per cui attraverso la descrizione di fatti caratterizzati da variabilità, si mira a identificare delle costanti e alcuni principi comuni e riproducibili, a partire dai quali sia possibile costruire, o meglio astrarre, ipotesi e modelli11. La reale complicazione in linguistica scaturisce dunque non dall’astrazione per sé, bensì dal fatto che in questo procedere per astrazione, nelle analisi come nel ricavarne modelli, oggetto e strumento dello studio coincidono, essendo in entrambi i casi il linguaggio stesso. Come osserva Simone, “una delle difficoltà essenziali della linguistica Giulio C. Lepschy, La linguistica strutturale (Torino: Einaudi, 1990), pp. 20‑23. 11 18 Parte Prima sta proprio nella delimitazione delle sue unità di analisi, che non ‘si danno’ all’osservazione, ma devono essere per così dire costruite”12. Si aggiunga che costruire in questo caso significa proprio astrarre, o meglio utilizzare il linguaggio per scomporre ed esplorare il linguaggio, una spirale vertiginosa da cui evidentemente non siamo in grado di uscire, come rivelò con straordinaria perspicacia il Ludwig Wittgenstein delle Ricerche Filosofiche13. 1.3 Il crescente interesse per la lingua e la linguistica Evidentemente fa parte della natura umana l’essere attratti, se non addirittura sedotti, proprio da ciò che ci risulta più complicato e oscuro. Intuitivamente, potrebbe essere questa una delle ragioni dietro la vivacità e il fervore che hanno caratterizzato gli studi linguistici del secolo appena concluso. Ovviamente, il concorso di altri fattori assai meno viscerali ha contribuito all’aumento di interesse per la linguistica e, nella fattispecie, per l’insegnamento delle lingue straniere e per la traduzione. Alcuni fra i motivi più recenti sono di ambito accademico, ovvero interni alle dinamiche della ricerca e dell’organizzazione universitaria, mentre altri sono piuttosto contestuali, in quanto legati a circostanze sociali oggettive, o meglio, alle nuove condizioni di vita esperite dall’individuo contemporaneo. Prima di approfondire i motivi interni al mondo della ricerca (che ovviamente sono vincolati, quando non ripercussione diretta, di condizioni esterne), vale decisamente la pena di riflettere per un istante sui motivi, per così dire, contestuali, siano essi di natura sociale, culturale o persino epistemologica. 12 13 Simone, Fondamenti, cit., p. IX. Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche (Torino: Einaudi, 1999). Dalla lingua alla semiologia 19 1.3.1 La contemporaneità e l’urgenza della mediazione culturale e linguistica Non è necessaria un’analisi sociologica dettagliata e approfondita della contemporaneità per rendersi conto del progressivo delinearsi di una nuova condizione umana e per distinguere alcune delle inevitabili ricadute epistemologiche di questa sugli individui. Chiunque percepisce chiaramente la velocità con cui i cambiamenti si susseguono cogliendoci spesso impreparati e rendendo gli usi e costumi di appena venti anni prima antiquati, non soltanto agli occhi delle nuove generazioni, ma anche a quelli di chi tali mutamenti li ha vissuti in prima persona. Molti sono ormai concordi nell’indicare nella compressione dello spazio e del tempo (time-space compression) postulata da David Harvey la cifra della nostra epoca14. Lo sviluppo tecnologico ha di fatto accelerato esponenzialmente i ritmi del nostro vivere e, soprattutto, ha trasformato il mondo in uno spazio ridotto entro cui uomini, oggetti, ma anche realtà pressoché virtuali come i capitali finanziari, le pratiche sociali e le informazioni si spostano a una velocità che sembra ormai cancellare l’antico vincolo della distanza. Questa mobilità si rispecchia nella dimensione planetaria assunta da scambi, commerci e migrazioni, e, pertanto, nel referente globale che qualsiasi considerazione e azione è ormai tenuta a presupporre. Un’affermazione o un gesto di un politico che poco tempo fa sarebbero rimasti appannaggio della scena interna di una nazione, oggi trovano regolarmente punti di riferimento e ascoltatori attenti nei luoghi più reconditi del mondo. A tal riguardo, è più di ogni altra cosa emblematica la rete elettronica mondiale (world wide web) che connette i calcolatori di ogni dove e permette la condivisone simultanea di notizie e conoscenze da parte di abitanti di ogni angolo del pianeta. Inizialmente questo fenomeno di globalizzazione pareva promettere il superamento di barriere ormai vetuste e la creazione di una nuova dimensione transnazionale di scambi, non solo virtuali. Sotto gli auspici di un’affascinante ibridazione culturale, si andava immagiDavid Harvey, The Condition of Postmodernity: An Enquiry into the Origins of Cultural Change (Cambridge, MA: Blackwell, 1990). 14 20 Parte Prima nando un territorio franco, creativo e libero da vincoli ‘tradizionali’ o ‘locali’, in questa circostanza percepiti come freni lungo la strada del progresso. In realtà ci si è presto resi conto che a beneficiare della nuova rapidità di movimento, sia che si concretizzi in un volo low-cost o piuttosto in una connessione telefonica a banda larga, è essenzialmente una minuscola parte della popolazione mondiale, ovviamente quella del cosiddetto primo mondo. Il resto delle persone, infatti, ne continua a essere esclusa, quando non ne deve pagare il prezzo in termini assai tangibili di devastazioni ambientali, processi di neo-colonialismo economico e disgregazione culturale e linguistica. In altri termini, una delle conseguenze più evidenti della globalizzazione è l’ulteriore polarizzazione fra regioni ricche e povere del pianeta, con una forte amplificazione delle ineguaglianze già esistenti. Nessun commentatore onesto nega che il potere politico stia da tempo abdicando a quello finanziario, deterritorializzato, ovvero privo di legami e di responsabilità verso i territori e le singole comunità. Questo nuovo organismo di potere si presenta come senza corpo, impalpabile, celato dietro i loghi delle multinazionali, ma non per questo meno potente o pervasivo. Le élites che oggi controllano l’economia, e di riflesso la politica mondiale, sono in grado di spostare i centri di produzione industriale unicamente in ragione dei loro profitti, avallare guerre di conquista adducendo pretesti sfrontatamente inventati. E ancora possono promuovere determinate produzioni culturali omologate – cui spesso si accede unicamente attraverso l’utilizzo della lingua inglese –, indurre desideri sempre più prevedibili e soprattutto funzionali all’espansione dei consumi, nonché avallare gli pseudo-valori che legittimerebbero le diverse forme di consumismo e di mercificazione imperante del reale. In questo modo anche le comunità più remote si vedono per la prima volta erodere, se non addirittura deprivare della prerogativa atavica di conferire identità ai propri componenti. Non a caso una reazione molto frequente è l’arroccamento delle comunità e il loro sollevamento di scudi per una difesa intransigente delle proprie tradizioni, siano esse connotate da prerogative storico-politiche o geografiche, legate a un discrimine etnico o religioso. Un simile atteggiamento è più che comprensibile