Leggi un`anteprima - Tangram Edizioni Scientifiche

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Leggi un`anteprima - Tangram Edizioni Scientifiche
Andrea Binelli
LINGUA, SEMIOLOGIA
E TRADUZIONE DALL’INGLESE
Andrea Binelli, Lingua, semiologia e traduzione dall’inglese
Copyright © 2013 Tangram Edizioni Scientifiche Trento
Gruppo Editoriale Tangram Srl – Via Verdi, 9/A – 38122 Trento
www.edizioni-tangram.it – [email protected]
Collana “Didattica” – NIC 11
Prima edizione: aprile 2006, UNI Service
Seconda edizione: dicembre 2007, UNI Service
Terza edizione: dicembre 2013, Printed in Italy
ISBN 978-88-6458-091-3
In copertina: Martino Binelli, Un disegno per il babbo
Stampa su carta ecologica proveniente da zone in silvicoltura, totalmente priva di cloro.
Non contiene sbiancanti ottici, è acid free con riserva alcalina
Sommario
Introduzione
9
Parte Prima
Dalla lingua alla semiologia
11
1.1 Le basi interdisciplinari della didattica della lingua e degli studi sulla
traduzione
11
1.2 Le difficoltà nello studio della lingua
16
1.3 Il crescente interesse per la lingua e la linguistica
18
19
24
1.4 Lo strutturalismo
25
30
31
1.5 Segno, semantica, semiotica e semiologia
34
1.6 Di applicazione letteraria?
37
1.7 Semiotica e comunicazione
40
41
43
1.8 Codifica, decodifica, fattori e funzioni
45
1.3.1 La contemporaneità e l’urgenza della mediazione culturale e linguistica
1.3.2 Il tempo della linguistica
1.4.1 L’eredità dello strutturalismo
1.4.2 Lo snodo dalla stilistica alla semiologia e i rischi di certi “post”
1.7.1 Significato e codici
1.7.2 Linguaggio e lingua
Parte seconda
Semiotica della comunicazione letteraria o semiologia
51
2.1 I fattori della comunicazione letteraria: messaggio, contatto, contesto
e codice
51
2.2 Fra mittente e destinatario
63
2.3 Ermeneutica e letteratura
73
76
77
2.3.1 Interpretazione e fattori
2.3.2 Intentio auctoris e intentio operis
Parte terza
Teoria e pratica della traduzione e traduzione
dall’inglese
87
3.1 Lingua e società. Sapir/Whorf, Lotman e Hjelmslev
88
3.2 Mondi possibili in traduzione
99
102
110
112
3.3 Effetto equivalente
115
3.4 Equivalenza funzionale
118
3.5 Strumenti semiotici, linguistici e filologici
120
3.6 Tecniche di traduzione. Vinay, Darbelnet e Malone
126
3.7 Traduzione e isotopia
132
3.8 Traduzione dall’inglese all’italiano
136
137
158
160
162
166
170
174
177
179
3.9 Comparazione stilistica di traduzioni dall’inglese
181
182
186
Bibliografia
189
3.2.1 Culture-bound terms
3.2.2. Partire dai contesti
3.2.3 Disambiguazione e conoscenza enciclopedica
3.8.1
3.8.2
3.8.3
3.8.4
3.8.5
3.8.6
3.8.7
3.8.8
3.8.9
Analisi contrastiva italiano/inglese e traduzione
Traduzione e testi metacomunicativi
Traduzione e funzione fatica
Intertestualità in traduzione
La funzione conativa e gli advertisements
Witticisms, fumetti e film
Isotopie e traduzione delle short stories
Traduzione e varietà di inglese
Stile in traduzione
Analisi e comparazione stilistica delle traduzioni
Analisi e comparazione stilistica delle traduzioni
LINGUA, SEMIOLOGIA
E TRADUZIONE DALL’INGLESE
9
Introduzione
Il materiale qui raccolto è il frutto di lezioni tenute nel corso di più
anni presso alcune università italiane e straniere. Le lezioni erano per
lo più indirizzate a studenti di Traduzione e di Lingua Inglese, e inserite all’interno dei seguenti corsi di laurea: Lingue e Letterature Straniere, Mediazione Linguistica, Storia, Lettere, Filosofia, Beni culturali e Communication Studies (Giornalismo). Questo significa che per
quanto riguarda i corsi di laurea a carattere prettamente linguistico, il
presente volume si candida a svolgere il ruolo di introduzione alla teoria e alla pratica della traduzione, soprattutto per quegli studenti che
studiano o comunque parlano inglese, e non necessariamente solo per
coloro che si specializzano in lingua inglese. Per quanto riguarda invece gli altri corsi succitati, non di introduzione si tratterà ma di una
presentazione che si auspica esaustiva dell’ambito disciplinare della
traduzione.
Come si vedrà le lezioni hanno toccato numerosi argomenti e frequentato temi cari a svariate discipline, limitandosi talora a delinearne alcuni elementi essenziali. Si è così attraversato territori che rientrano anche nel patrimonio istituzionale di cattedre come quelle di
Linguistica, di Glottodidattica, di Semiotica e di Teoria della Comunicazione. Oltre che dalle motivazioni teoriche di cui si renderà conto
nelle prossime pagine, il percorso di ricerca qui tracciato è legittimato
dalla volontà di trasmettere un approccio a tutto tondo all’esperienza
10 Introduzione
traduttoria, da una precisa prospettiva nei confronti dei testi letterari
e non letterari, e soprattutto da una certa passione per l’analisi critica
e l’approfondimento teorico.
Mi rendo infine conto che la presente introduzione sarebbe incompleta senza un riferimento esplicito a quegli studenti che, partecipando attivamente alle lezioni e ai laboratori di traduzione, hanno
portato un contributo significativo alla realizzazione di questo lavoro.
Per questo motivo ringrazio in particolar modo gli studenti di Lingua
Inglese e di Lingua e Traduzione Inglese dell’Università di Trento, con
cui ho avuto il piacere di misurarmi negli ultimi dieci anni.
11
Parte Prima
Dalla lingua alla semiologia
1.1 Le basi interdisciplinari della didattica della lingua e degli studi sulla traduzione
Introdurre l’insegnamento di una lingua straniera o gli studi sulla
traduzione attraverso una pur rapida disamina delle strutture linguistiche e della semiologia significa, fra le altre cose, condividere
alcune delle preoccupazioni e degli obiettivi della glottodidattica,
conosciuta in ambito anglo-americano come Applied Linguistics1. La
glottodidattica, o didattica della/e lingua/e, consiste infatti nello studio scientifico tanto dell’apprendimento quanto delle metodologie di
insegnamento di una lingua, sia essa una lingua straniera o la linguamadre (mother-tongue) di un parlante nativo (native speaker). Essa
Si faccia attenzione. In ambiente anglo-americano la Applied Linguistics “is a discipline which applies the findings of linguistics, among others, in education: e.g.
or especially to teaching English as a foreign or second language” [P. H. Matthews,
a cura di, Oxford Concise Dictionary of Linguistics (Oxford: OUP, 2007), p. 24] e
dunque, per metodi e finalità, è più vicina allo statuto della Glottodidattica che
alla Linguistica Applicata. Quest’ultima corrisponde infatti allo “studio scientifico
della lingua orientato verso quegli aspetti della ricerca che hanno un’utilizzazione
pratica” [Gian Luigi Beccaria, a cura di, Dizionario di linguistica e di filologia, metrica e retorica (Torino: Einaudi, 1994), p. 445].
1
12 Parte Prima
rappresenta quindi uno fra i tanti indirizzi di una disciplina assai più
ampia, la linguistica generale (general linguistics), che a sua volta
mira allo studio scientifico del linguaggio e delle strutture delle lingue. Lo scopo principale degli studi linguistici – scientifici in quanto aspirano all’oggettività e al rigore delle scienze cosiddette dure,
sebbene debbano fronteggiare una materia così elusiva, soggettiva e
idiosincratica come il linguaggio2 – è pertanto la descrizione analitica
e la spiegazione esatta e non dilettantesca dei fenomeni linguistici.
Quanto alla scientificità della linguistica, negata fra gli altri da un
grande traduttologo come George Steiner, è emblematico il vago imbarazzo di Geoffrey Finch che, in una presentazione della materia,
scrive, “Some people refer to it as ‘the science of language’, but”, si
affanna immediatamente a precisare, “I have avoided this description
because it can be misleading”3.
È oggi opinione unanime che la didattica delle lingue, così come
gli studi sulla traduzione, non abbiano alcuna possibilità di successo laddove non contemplino una presa di coscienza degli elementi
fondamentali (da considerarsi, con Raffaele Simone, “gli stoikhéia,
gli elementa, dei geometri greci […] conoscenze prime, le più iniziali, le più disaggregate e comprensibili”)4 di un ventaglio minimo
di discipline: tra queste, oltre alla linguistica generale, si ricordino
l’antropologia culturale, la pragmatica, la pedagogia, la psicologia e la
sociologia. Nella pratica poi, vi si aggiungono discipline come letteratura, storia, filosofia e storia della cultura, le quali, tradizionalmente,
Istintivamente il rigore con cui si formulano ipotesi, modelli e classificazioni dei
fenomeni linguistici non sembra lo stesso con cui si può calcolare la velocità del
suono, misurare l’estensione di una superficie o analizzare i componenti di un
materiale. Sono diverse e radicate le resistenze che hanno storicamente caratterizzato il mai sopito conflitto fra le impostazioni più umanistiche e pertanto meno
sistematiche dello studio della lingua e l’esigenza di individuarne le basi scientifiche. Si veda in merito la prefazione di Noam Chomsky alla prima edizione de Il
linguaggio e la mente.
3
Geoffrey Finch, Key Concepts in Language and Linguistics (Basingstoke: Palgrave,
2000), p. 1.
4
Raffaele Simone, Fondamenti di linguistica (Bari: Laterza, 1990), p. xii.
2
Dalla lingua alla semiologia
13
si associano all’implementazione degli insegnamenti di lingua e traduzione. Insomma, i percorsi della glottodidattica e degli studi traduttivi sono soggetti a continui sconfinamenti in territori disciplinari
contigui, con conseguente scambio di paradigmi analitici, strumenti
di lavoro e prospettive.
Del resto il carattere ‘pericolosamente’ interdisciplinare degli studi
linguistici è una mera conseguenza della natura ‘eteroclita’ dell’oggetto in esame: il linguaggio stesso. Con il termine ‘eteroclita’, infatti,
Ferdinand de Saussure indicava i numerosi collegamenti che associano ineluttabilmente il linguaggio a numerosi ambiti dell’esperienza –
intesi come porzioni specifiche della realtà – e, di conseguenza, anche ad altrettanti domini del sapere (“discorsi”, per dirla con Michel
Foucault e con il lessico della tradizione post-strutturalista) che di tali
porzioni sono lo studio e l’organizzazione concettuale e sistematica.
Pertanto, da qualsiasi punto di vista si voglia avvicinare il linguaggio
e approfondirne la conoscenza, sarà di volta in volta inevitabile la
collisione con disparati campi disciplinari.
La revisione in chiave interdisciplinare degli studi linguistici ha certamente partecipato all’ampliamento degli orizzonti di ricerca della
glottodidattica e all’aggiornamento delle tecniche di insegnamento
delle lingue, contribuendo inoltre a quella ridefinizione degli ambiti
che ha portato alla dignità accademica dei Translation Studies. La definizione Translation Studies (TS), a delimitare una disciplina di cui
finalmente se ne riconosceva l’indipendenza e di cui se ne individuavano le competenze relativamente al “complex of problems clustered
round the phenomenon of translating and translations”5, è attribuibile a James S. Holmes. Lo stesso Holmes utilizzò questo termine
in un intervento, dal titolo appunto di “The Name and Nature of
Translation Studies”, letto durante il Terzo Congresso Internazionale
di Linguistica Applicata che si tenne a Copenaghen nel 1972. Ma in
realtà l’etichetta TS ha iniziato a circolare senza intoppi solo in tempi
più recenti. Del resto, la lettura presentata da Holmes in quell’occaJames S. Holmes, Translated!: Papers on Literary Translation and Translation
Studies (Amsterdam: Rodopi, 1988), p. 67.
5
14 Parte Prima
sione è rimasta a lungo di difficile reperibilità, almeno fino al 19886.
Fatto sta che, già pochi anni dopo, e per la precisione nel 1976, durante l’ormai celebre Colloquio di Lovanio, il termine TS venne recuperato da Andrè Lefevere per immaginare una disciplina che si doveva
occupare dei “problems raised by the production and description of
translations” e per rivendicarne l’esigenza di autonomia da altri settori disciplinari come le letterature comparate e la linguistica7. Ma
autonomia non era intesa come chiusura. Ciò di cui infatti si lamentavano Holmes e Lefevere era in sostanza la futile dispersione degli
studi sulla traduzione, troppo spesso confluiti in numerosi percorsi
di ricerca che continuavano ad avere come punto di riferimento discipline tradizionali diverse e solo raramente avviavano una proficua
comunicazione tra di loro.
A salvaguardia del vero, si aggiunga infine che, sebbene i TS e l’approccio interdisciplinare adeguato alla costituzione poliedrica della
lingua siano fenomeni recenti, i rapporti fra le lingue rientrano fra le
preoccupazioni dell’uomo da molto prima che a tali questioni si assegnasse uno spazio accademico specifico. Anzi, per gli studi sulla traduzione probabilmente vale proprio quanto Georges Mounin aveva
già osservato in relazione alla linguistica in un suo resoconto storico:
Che la linguistica generale sia una scienza giovanissima, non esclude
il fatto che gli uomini abbiano condotto da molto tempo una tenace
riflessione sui fenomeni del linguaggio; né che questa riflessione non costituisca, di per se stessa, una lunga storia primitiva, sempre interessante
e spesso istruttiva, della linguistica generale8.
Tant’è vero che, come annota lo stesso Mounin in un altro libro
espressamente dedicato alla traduzione, gli esseri umani ricorrono alle
traduzioni da oltre 3.000 anni:
Gideon Toury, Descriptive Translation Studies and Beyond (Amsterdam/Philadelphia: John Benjamins, 1995), pp. 7-8.
7
Susan Bassnett, La traduzione: Teorie e pratica (Milano: Bompiani, 2003), p. 13.
8
Georges Mounin, Storia della linguistica dalle origini al XX secolo (Milano: Feltrinelli, 1968), p. 6.
6
Dalla lingua alla semiologia
15
Ora, anche risalendo nel tempo e per quanto lontano ci si spinga, la
figura dell’interprete e del traduttore si ritrova sempre. Fin dal II millennio a.C., infatti negli stati dell’Asia Minore, – assiri, babilonesi, ittiti – esistono cancellerie dove lavorano scribi specializzati: lo scriba per le
lettere in egiziano, ad esempio, e quello per le lettere in aramaico. […]
in Egitto, poi, fin dall’Antico Regno alcuni alti funzionari portano già il
titolo di capo interprete […]. Infine, anche nella Cina e nell’India arcaiche, come nell’America precolombiana, lunga deve essere la storia degli
uomini-interpreti e degli uomini-traduttori9.
Ovviamente che una questione non sia al centro delle attenzioni di
chi studia e fa ricerca nelle strutture a questo proposte (istituzioni
accademiche, statali o religiose) non significa che la questione stessa
non venga posta e non rientri nelle preoccupazioni di altri settori della società. Il riconoscimento delle istituzioni sopra elencate ha però il
pregio di favorire e spesso sollecitare un’indagine più sistematica delle
diverse riflessioni che si sono date in precedenza. Che si collochi la
nascita della linguistica nei paraggi di Port Royal (1660 circa), nelle opere sulla grammatica comparata di Franz Bopp (1791-1867) o
nell’aule ginevrine in cui tenne le sue lezioni Ferdinand De Saussure
(1857-1913), non vuol dire sottovalutare le competenze raggiunte in
questo stesso ambito dalla civiltà egiziana, sumerica o accadica e, per
quanto riguarda altre aree del pianeta, dalle civiltà indiane e cinesi.
Tutt’altro. Lo studio di quelle civiltà acquisisce infatti un ulteriore,
importantissimo valore.
Del resto, si provi per un istante a comprendere l’im-portanza della traduzione considerando la seguente ipotesi negativa, ipotesi che
certo non sfigurerebbe in un trattato di patafisica: cosa ne sarebbe
del genere umano senza la traduzione? È possibile immaginare una
storia dell’umanità in assenza di traduzioni? In un qualsiasi scritto
di patafisica la risposta sarebbe sicuramente affermativa – a prescindere dalla lingua in cui verrebbe formulata – ma se si tralascia la
scienza delle soluzioni immaginarie e si rientra nei più angusti confini della logica, risulta evidente in tutta la sua portata la funzione di
9
Georges Mounin, Teoria e storia della traduzione (Torino: Einaudi, 2006), p. 30.
16 Parte Prima
principio fondamentale della conoscenza che la traduzione ricopre
da secoli.
1.2 Le difficoltà nello studio della lingua
È finalmente chiaro a chiunque che per imparare una seconda lingua
è assolutamente indispensabile essere coscienti dei complessi meccanismi di funzionamento della propria. Per questo Johann Wolfgang
von Goethe ammoniva che chi non conosce lingue straniere, non sa
nulla della propria. D’altronde, anche quando ci si può legittimamente ritenere parlanti efficaci e consapevoli della propria lingua, in
realtà non sempre si è in grado di spiegare le ragioni di certe scelte
lessicali, grammaticali o sintattiche. Per quanto concerne gli italiani,
ad esempio, in quanti sanno spiegare senza esitazioni di fronte a quali
termini utilizziamo l’articolo determinato “lo” piuttosto di “il”? E ancora, in base a quale principio scegliamo gli ausiliari “essere” o “avere”
con cui costruire i tempi composti? Lo stesso ovviamente vale per tutte le lingue. Il romanziere e giornalista inglese Nick Hornby racconta
spesso di aver finalmente compreso la differenza fra simple past e present perfect solo dopo che, in un periodo di indigenza, è stato costretto
a insegnare inglese agli stranieri. Nello stesso periodo pare anche aver
scoperto che in inglese gli aggettivi relativi al colore precedono gli
aggettivi relativi al luogo, mentre quelli relativi all’età precedono gli
aggettivi relativi al colore: ecco perché, avrebbe osservato Hornby, “an
old green shirt” suona bene, mentre “a green old shirt” suonerebbe
irrimediabilmente esotico. Emblematico di questo iato fra competenza pratica e consapevolezza critica è il tutt’altro che provocatorio
sottotitolo di un interessante libro di Harrie Ritchie, English for the
Natives: Discover the Grammar You Don’t Know You Know10. Insomma,
Harrie Ritchie, English for the Natives: Discover the Grammar You Don’t Know
You Know (London: Hodder Stoughton 2013).
10
Dalla lingua alla semiologia
17
nel concreto comportamento linguistico utilizziamo con disinvoltura
regole complicatissime e disponiamo di un vastissimo serbatoio di
norme ed eccezioni che a livello cosciente ci sono totalmente ignote.
Come infatti diventa chiaro mano a mano che si procede nello
studio di una lingua straniera e nella pratica della traduzione, sviluppare competenze in una seconda lingua significa in primo luogo
penetrare a fondo la propria e sviluppare una maggiore consapevolezza riguardo ai procedimenti linguistici in genere. Anche per questo
motivo lavorare sui testi letterari, intesi come specchio e laboratorio
di vita concreta, resta un metodo di apprendimento linguistico dalle
potenzialità ineguagliabili. Ma di questo vedremo nel dettaglio nella
seconda parte. Per ora si consideri che individuare un così paradossale
scarto fra le capacità effettive di espressione linguistica e la consapevolezza riguardo all’utilizzo della lingua equivale a intuire il motivo
principale per cui la linguistica in genere e tutte le sue branche ci appaiono oscure e contorte, forse più di un’altra materia astratta come
la filosofia.
Beninteso, il problema non consiste nel procedere in astratto. Anzi,
varrà la pena di ricordare il monito di linguisti e filosofi allorché distinguono astrazione da astrattezza, precisando che a differenza della
seconda, la prima non indica alcunché di negativo e tantomeno di
oscuro o incomprensibile. Al contrario, nel laboratorio del linguista
il procedere per astratto indica il metodo scientifico di derivazione
galileiana per cui attraverso la descrizione di fatti caratterizzati da variabilità, si mira a identificare delle costanti e alcuni principi comuni
e riproducibili, a partire dai quali sia possibile costruire, o meglio
astrarre, ipotesi e modelli11.
La reale complicazione in linguistica scaturisce dunque non dall’astrazione per sé, bensì dal fatto che in questo procedere per astrazione,
nelle analisi come nel ricavarne modelli, oggetto e strumento dello
studio coincidono, essendo in entrambi i casi il linguaggio stesso.
Come osserva Simone, “una delle difficoltà essenziali della linguistica
Giulio C. Lepschy, La linguistica strutturale (Torino: Einaudi, 1990),
pp. 20‑23.
11
18 Parte Prima
sta proprio nella delimitazione delle sue unità di analisi, che non ‘si
danno’ all’osservazione, ma devono essere per così dire costruite”12. Si
aggiunga che costruire in questo caso significa proprio astrarre, o meglio utilizzare il linguaggio per scomporre ed esplorare il linguaggio,
una spirale vertiginosa da cui evidentemente non siamo in grado di
uscire, come rivelò con straordinaria perspicacia il Ludwig Wittgenstein delle Ricerche Filosofiche13.
1.3 Il crescente interesse per la lingua e la linguistica
Evidentemente fa parte della natura umana l’essere attratti, se non
addirittura sedotti, proprio da ciò che ci risulta più complicato e oscuro. Intuitivamente, potrebbe essere questa una delle ragioni dietro la
vivacità e il fervore che hanno caratterizzato gli studi linguistici del
secolo appena concluso. Ovviamente, il concorso di altri fattori assai
meno viscerali ha contribuito all’aumento di interesse per la linguistica e, nella fattispecie, per l’insegnamento delle lingue straniere e per
la traduzione. Alcuni fra i motivi più recenti sono di ambito accademico, ovvero interni alle dinamiche della ricerca e dell’organizzazione universitaria, mentre altri sono piuttosto contestuali, in quanto
legati a circostanze sociali oggettive, o meglio, alle nuove condizioni
di vita esperite dall’individuo contemporaneo. Prima di approfondire i motivi interni al mondo della ricerca (che ovviamente sono
vincolati, quando non ripercussione diretta, di condizioni esterne),
vale decisamente la pena di riflettere per un istante sui motivi, per
così dire, contestuali, siano essi di natura sociale, culturale o persino
epistemologica.
12
13
Simone, Fondamenti, cit., p. IX.
Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche (Torino: Einaudi, 1999).
Dalla lingua alla semiologia
19
1.3.1 La contemporaneità e l’urgenza della mediazione culturale e linguistica
Non è necessaria un’analisi sociologica dettagliata e approfondita della contemporaneità per rendersi conto del progressivo delinearsi di
una nuova condizione umana e per distinguere alcune delle inevitabili ricadute epistemologiche di questa sugli individui. Chiunque percepisce chiaramente la velocità con cui i cambiamenti si susseguono
cogliendoci spesso impreparati e rendendo gli usi e costumi di appena
venti anni prima antiquati, non soltanto agli occhi delle nuove generazioni, ma anche a quelli di chi tali mutamenti li ha vissuti in prima
persona. Molti sono ormai concordi nell’indicare nella compressione dello spazio e del tempo (time-space compression) postulata da
David Harvey la cifra della nostra epoca14. Lo sviluppo tecnologico
ha di fatto accelerato esponenzialmente i ritmi del nostro vivere e,
soprattutto, ha trasformato il mondo in uno spazio ridotto entro cui
uomini, oggetti, ma anche realtà pressoché virtuali come i capitali finanziari, le pratiche sociali e le informazioni si spostano a una
velocità che sembra ormai cancellare l’antico vincolo della distanza.
Questa mobilità si rispecchia nella dimensione planetaria assunta da
scambi, commerci e migrazioni, e, pertanto, nel referente globale che
qualsiasi considerazione e azione è ormai tenuta a presupporre. Un’affermazione o un gesto di un politico che poco tempo fa sarebbero
rimasti appannaggio della scena interna di una nazione, oggi trovano
regolarmente punti di riferimento e ascoltatori attenti nei luoghi più
reconditi del mondo. A tal riguardo, è più di ogni altra cosa emblematica la rete elettronica mondiale (world wide web) che connette
i calcolatori di ogni dove e permette la condivisone simultanea di
notizie e conoscenze da parte di abitanti di ogni angolo del pianeta.
Inizialmente questo fenomeno di globalizzazione pareva promettere
il superamento di barriere ormai vetuste e la creazione di una nuova
dimensione transnazionale di scambi, non solo virtuali. Sotto gli
auspici di un’affascinante ibridazione culturale, si andava immagiDavid Harvey, The Condition of Postmodernity: An Enquiry into the Origins of
Cultural Change (Cambridge, MA: Blackwell, 1990).
14
20 Parte Prima
nando un territorio franco, creativo e libero da vincoli ‘tradizionali’
o ‘locali’, in questa circostanza percepiti come freni lungo la strada
del progresso. In realtà ci si è presto resi conto che a beneficiare della
nuova rapidità di movimento, sia che si concretizzi in un volo low-cost
o piuttosto in una connessione telefonica a banda larga, è essenzialmente una minuscola parte della popolazione mondiale, ovviamente
quella del cosiddetto primo mondo. Il resto delle persone, infatti,
ne continua a essere esclusa, quando non ne deve pagare il prezzo in
termini assai tangibili di devastazioni ambientali, processi di neo-colonialismo economico e disgregazione culturale e linguistica. In altri
termini, una delle conseguenze più evidenti della globalizzazione è
l’ulteriore polarizzazione fra regioni ricche e povere del pianeta, con
una forte amplificazione delle ineguaglianze già esistenti.
Nessun commentatore onesto nega che il potere politico stia da
tempo abdicando a quello finanziario, deterritorializzato, ovvero
privo di legami e di responsabilità verso i territori e le singole comunità. Questo nuovo organismo di potere si presenta come senza corpo,
impalpabile, celato dietro i loghi delle multinazionali, ma non per
questo meno potente o pervasivo. Le élites che oggi controllano l’economia, e di riflesso la politica mondiale, sono in grado di spostare i
centri di produzione industriale unicamente in ragione dei loro profitti, avallare guerre di conquista adducendo pretesti sfrontatamente inventati. E ancora possono promuovere determinate produzioni
culturali omologate – cui spesso si accede unicamente attraverso l’utilizzo della lingua inglese –, indurre desideri sempre più prevedibili
e soprattutto funzionali all’espansione dei consumi, nonché avallare
gli pseudo-valori che legittimerebbero le diverse forme di consumismo e di mercificazione imperante del reale. In questo modo anche
le comunità più remote si vedono per la prima volta erodere, se non
addirittura deprivare della prerogativa atavica di conferire identità ai
propri componenti. Non a caso una reazione molto frequente è l’arroccamento delle comunità e il loro sollevamento di scudi per una
difesa intransigente delle proprie tradizioni, siano esse connotate da
prerogative storico-politiche o geografiche, legate a un discrimine etnico o religioso. Un simile atteggiamento è più che comprensibile