3. PAOLA DI MAURO, Da dandy. L`intellettuale dada contro

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3. PAOLA DI MAURO, Da dandy. L`intellettuale dada contro
§
PARAGRAFO
RIVISTA DI LETTERATURA & IMMAGINARI
Paragrafo
Rivista di Letteratura & Immaginari
pubblicazione periodica
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FRANCESCO LO MONACO
Redazione
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Paragrafo
IV (2008)
Sommario
INCONTRI
§1. GIOVANNI SOLINAS, La critica tra dialogo e conflitto. Conversazione
con Romano Luperini
9
FIGURE
§2. NICCOLÒ SCAFFAI, Fortuna e sfortuna di un poeta editore. Inediti
di Domenico Buratti
31
§3. PAOLA DI MAURO, Da dandy. L’intellettuale dada contro la guerra
55
§4. GABRIELE BUGADA, La pazzia del tiranno. Ritratti di un potere
bandito
73
QUESTIONI
§5. LUIGI MARFÉ, In viaggio con Erodoto. Appunti per una tipologia
dell’anti-turismo contemporaneo
99
§6. GIANPAOLO IANNICELLI, Tra le crepe della memoria. Dinamiche e
criticità del processo di trasmissione del passato
113
STERNIANA
§7. STEFANIA CONSONNI, Schemi di costruzione spaziale del tempo in
Tristram Shandy
135
§8. STEFANO A. MORETTI, “Quell’inquieto calesse”. Deviazioni spaziotemporali in Laurence Sterne e Prosper Mérimée
163
I COLLABORATORI DI QUESTO NUMERO
183
NUMERI ARRETRATI
185
§
3
Paola Di Mauro
Da dandy
L’intellettuale dada contro la guerra
Neujahr 1915: A bas la guerre
Hugo Ball, Die Flucht aus der Zeit, 1931
La guerra a cui non volevamo credere è scoppiata […]. Non soltanto è
più sanguinosa e rovinosa di ogni guerra del passato […] ma è anche perlomeno tanto crudele, accanita, spietata, quanto tutte le guerre che l’hanno preceduta. Essa infrange tutte le barriere riconosciute in tempo di pace e costituenti quello che si diceva il diritto delle genti, disconosce le
prerogative del ferito e del medico, non distingue fra popolazione combattente e popolazione pacifica, viola il diritto di proprietà. Abbatte
quanto trova sulla sua strada con una rabbia cieca e come se dopo di essa
non dovesse più esservi avvenire e pace fra gli uomini. Spezza tutti i legami di comunità che possono ancora sussistere fra i popoli in lotta e minaccia di lasciar dietro di sé un tale rancore da rendere impossibile per
molti anni una loro ricostituzione.1
Nel celebre scambio epistolare con Einstein, riflettendo circa l’insopprimibilità degli istinti aggressivi umani che avevano portato al conflitto
mondiale, Freud affermava: “Non si tratta […] di abolire completamente
l’aggressività umana; si può cercare di deviarla al punto che non debba
trovare espressione nella guerra”.2 In altre parole, era necessario ricorrere
“all’antagonista di questa pulsione: l’Eros”,3 affinché dall’equilibrio generato dall’interazione tra spinte distruttive ed erotiche si ricostituissero “le1
Sigmund Freud, “Zeitgemässes über Krieg und Tod” (1915), trad. it. di Cesare Musatti, “Considerazioni attuali sulla guerra e la morte”, in Id., Perché la guerra? Carteggio
con Einstein e altri scritti, Torino: Bollati Boringhieri, 1975, pp. 20-21.
2
Albert Einstein e Sigmund Freud, Warum Krieg? Ein Briefwechsel (1933), trad. it. di
Ermanno Sagittario, “Perché la guerra?”, ivi, p. 82.
3
Ibidem.
PARAGRAFO IV (2008), pp. 55-71
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gami emotivi”, unica chance di sopravvivenza per l’umanità condannatasi,
volontariamente, all’autodistruzione.
Come noto, la risoluta posizione dei due scienziati non è rappresentativa dell’entourage culturale dell’epoca, testimoniato piuttosto dal famigerato “appello dei novantatre”,4 l’indecoroso manifesto sottoscritto da note
personalità del mondo intellettuale e accademico tedesco allo scopo di
giustificare la violazione del diritto internazionale attuato dalla Germania. Rileva amaramente Reinhart Meyer: “all’intelligenza tedesca, soprattutto a quella accademica, era stata data la possibilità, al più tardi nella
guerra e nel dopoguerra, di imparare. Ma tranne alcune eccezioni essa si
mise sempre, anche dopo la guerra, dalla parte del capitale, del potere”.5
Riappare con ciò lo spettro di un Sonderweg calcato dagli intellettuali tedeschi che, scegliendo sostanzialmente un ruolo di conservatorismo e di
consenso all’establishment politico, confermarono, anche in tali circostanze, un’endemica incapacità critica nei confronti del potere costituito. Al
contrario, arte e letteratura divennero strumenti di propaganda con cui
professori, poeti, scrittori e critici, dimenticando la loro naturale attitudine al pacifismo, alimentarono il furor populi guerrafondaio. Tra di essi, secondo Miklavž Prosenc, “Klabund scriveva liriche da guerra. Karl Kraus,
almeno ancora nel novembre 1914, salutava la guerra […] come ‘la grande epoca’, Richard Dehmel, Ernst Lissauer e Richard Nordhausen ottenevano all’inizio del 1915 medaglie imperiali per meriti patriottici, e professori delle università tedesche pubblicavano testi programmatici con motti
patriottici in versi”.6 Il fatto che solamente nel 1915 si contino quattrocentocinquanta antologie di liriche inneggianti all’interventismo,7 conferma l’acuta osservazione di Cesare Cases sull’entusiastica adesione alla
guerra da parte degli esponenti degli sperimentalismi artistici tedeschi:
Quando scoppiò la guerra mondiale, vociani e futuristi, espressionisti e
neoclassici, bergsoniani e positivisti, nietzschiani e crociani, sindacalisti e
forcaioli la salutarono come un’esplosione necessaria e liberatrice, per cen4
Il testo dell’appello lanciato il 4 ottobre 1914 è riportato e commentato da Luciano
Canfora, Intellettuali in Germania tra reazione e rivoluzione, Bari: De Donato, 1979, pp.
32-33.
5
Reinhart Meyer, Dada in Zürich und Berlin. Literatur zwischen Revolution und Reaktion,
Regensburg: Scriptor, 1973, p. 15. Laddove non altrimenti indicato, la traduzione è mia.
6
Miklavž Prosenc, Die Dadaisten in Zürich, Bonn: Bouvier, 1967, p. 32.
7
Cfr. Wolfgang Paulsen e Helmut G. Hermann (a cura di), Sinn aus Unsinn. Dada International, Bern: Francke, 1982, p. 88.
L’INTELLETTUALE DADA CONTRO LA GUERRA
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to ragioni diverse, ma con una convergenza di fondo di cui solo oggi forse
si comincia a riconoscere pienamente il significato senza farsi più illusioni
sulle scarse riserve o sulle scarse eccezioni. [La] guerra non era altro che la
conferma di una fine del mondo che poeti ed artisti portavano già in sé.8
Noto è lo zelo interventista con cui, all’interno di tale congerie artisticoletteraria, i marinettiani affermarono la nascita di una nuova estetica del
bello e della guerra. Seguendo la visione del tecnicismo razionalistico come soddisfacimento artistico, l’umanità avrebbe dovuto “vivere il proprio
annientamento come un godimento estetico di prim’ordine”.9 Così Walter Benjamin:
Nel manifesto di Marinetti per la guerra coloniale d’Etiopia si dice che da
vent’anni i futuristi si oppongono a che la guerra venga definita come antiestetica. Pertanto asseriscono: […] la guerra è bella, perché – grazie alle maschere antigas, ai terrificanti megafoni, ai lanciafiamme, ed ai piccoli carri
armati – fonda il dominio dell’uomo sulla macchina soggiogata. La guerra è
bella perché inaugura la sognata metallizzazione del corpo umano.10
Se non altro, “questo manifesto”, potremmo constatare assieme a Benjamin, “ha il vantaggio di essere chiaro”.11
Dai glorificatori della guerra si distinguevano i dadaisti, rappresentanti di quelle ‘scarse riserve’ immaginate da Cases, che non si rivolsero,
nemmeno sporadicamente, al fiat ars pereat mundus loro contemporaneo.
Basti pensare a definizioni quali la “ripugnante meccanicistica visione del
mondo”12 o alla veemenza con cui Hugo Ball, un antesignano del Dada
zurighese, si scagliava contro la desacralizzante civiltà delle macchine: “La
necrofilia moderna. Credere alla materia è come credere alla morte. Il
trionfo di questo tipo di religione è un’orrenda devianza. La macchina
conferisce una specie di vita apparente alla morta materia”.13
8
Cesare Cases, “Arte e letteratura tra le due guerre” (1970), in Id., Il testimone secondario. Saggi e interventi sulla cultura del Novecento, Torino: Einaudi, 1985, pp. 123-24.
9
Walter Benjamin, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit
(1955), trad. it. di Enrico Filippini, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa, Torino: Einaudi, 2000, p. 48.
10
Ivi, p. 47.
11
Ibidem.
12
Richard Huelsenbeck e Tristan Tzara, Dada siegt. Bilanz und Erinnerung, Hamburg:
Nautilus, 1985, p. 11.
13
Hugo Ball, Die Flucht aus der Zeit (1931), Luzern: Stocker, 1946, p. 4-5. D’ora in
avanti la sigla FZ farà riferimento a questo volume.
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PAOLA DI MAURO
Mai i dadaisti presero parte a proclami apologetici di guerra, indignandosene, invece, e disprezzandola come espressione parossistica della
meccanicizzazione disumanizzante del mondo: “La guerra si basa su di un
errore grossolano”, diceva Ball, “scambia le persone con le macchine. Si
dovrebbero decimare le macchine al posto delle persone” (FZ, p. 30). Sin
dagli esordi zurighesi, essi si distinsero come ‘intellettuali disorganici’ rispetto al gruppo sociale dominante,14 giudicando la Germania responsabile in primis dello scatenarsi del conflitto bellico:
Eravamo d’accordo sul fatto che la guerra dei singoli governi fosse stata
tramata dai più bassi e materialistici motivi di gabinetto. [Non] abbiamo
avuto timore di dire talvolta anche ai filistei zurighesi grassi e ottusi, che
consideravamo loro come dei maiali e gli imperatori tedeschi come i responsabili della guerra.15
Nonostante sia significativo il debutto del Dada nell’“atmosfera compressa” della Zurigo neutrale, allora “occupata da un esercito internazionale di
rivoluzionari, riformatori, poeti, pittori, musicisti, filosofi, politici, e apostoli della pace”,16 i dadaisti disdegnavano il pacifismo generalmente
umanitario degli altri esuli svizzeri: “Non erano pacifisti del tipo di Roman Rolland, anche lui rifugiato in quel tempo in Svizzera”, precisa Sandro Volta, “ma gente in rivolta contro tutte le menzogne dell’ordinamento sociale, di cui la guerra era soltanto la conseguenza”.17 In altre parole,
vedevano il conflitto bellico come parossistica evoluzione del più generale
decadimento del sistema capitalistico annunciato nei contemporanei proclami bolscevichi.
Al contempo però, la presenza di Lenin a Zurigo, che da lì a poco avrebbe compiuto il celebre viaggio in treno verso Leningrado, non suscitò entusiasmi negli artisti della porta accanto. Il capo bolscevico, infatti, risiedeva al
14
Antonio Gramsci, Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura (1949), Torino: Einaudi, 1966. Tra tutti, solo Ball, per poco, sarà interventista, come sappiamo da Steinke,
che commenta così il temporaneo traviamento: “colto da un attacco di fervore patriottico,
si arruolò volontario”. Gerhard Edward Steinke, The Life and Work of Hugo Ball: Founder
of Dadaism, The Hague: Mouton, 1967, p. 111.
15
Richard Huelsenbeck (a cura di), Dada. Eine literarische Dokumentation, Reinbek:
Rowohlt, 1984, p. 115-16. D’ora in avanti la sigla DLD farà riferimento a questo volume.
16
Hans Arp, Unsern täglichen Traum… Erinnerungen, Dichtungen und Betrachtungen
aus dem Jahren 1914-1954 (1955), Zürich: Die Arche, 1995, p. 59.
17
Sandro Volta, “Prefazione”, in Tristan Tzara, 7 Dada Manifeste (1918), trad. it. a cura
di Sandro Volta, Manifesti del dadaismo e lampisterie, Torino: Einaudi, 1964, p. 17.
L’INTELLETTUALE DADA CONTRO LA GUERRA
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numero sei di quella stessa Spiegelgasse del Cabaret Voltaire dove i dada continuavano, indisturbati e indipendenti, le loro attività (DKA, p. 14):
Strani accadimenti: mentre a Zurigo, nella Spiegelgasse 1, c’era un
Cabaret, abitava di fronte a noi nella stessa Spiegelgasse al numero 6, se
non vado errando, il signor Ulianow-Lenin. Egli dovette sentire ogni sera
le nostre musiche e le nostre tirate, non so se con gioia e vantaggio. Il Dadaismo, come segno e gesto, è il contrario del Bolscevismo? (FZ, p. 163)
Nel caffè Terrasse di Zurigo Tzara e Lenin si riunivano per giocare a scacchi; pare inoltre che il rivoluzionario russo assistesse alle soirée dalla finestra del suo appartamento nella Spiegelgasse.18 Come conciliare questa descrizione di felice convivenza con quella di Schwarz che riferisce di un
Lenin così infastidito dagli spettacoli dada da allertare la polizia?19 Di
fronte a congetture così discordanti, sui rapporti tra i bolscevichi dell’arte
e quelli della politica, verosimile è l’ipotesi di una reciproca “cordiale indifferenza”.20
Indifferente la società zurighese lo era verso i bolscevichi, che “colti e
tranquilli progettavano la rivoluzione mondiale” (DKA, p. 14), mentre
con preoccupazione guardava ai dadaisti. “I zurighesi non avevano nulla
contro Lenin, poiché non era provocatorio. Invece il Dada li indignava.
[…] Il borghese vedeva nel dadaista un mostro dissoluto, un rivoluzionario scellerato, un asiatico scostumato”.21
Alla domanda se il Dada zurighese fu movimento politicizzato, risponde la scarsa eco che in esso ebbero gli avvenimenti politici contemporanei. Come evidenziato da Hugnet, “nel 1917, al momento dell’immane crollo dello zarismo, Dada organizzava esposizioni e conferenze sull’espressionismo e l’arte astratta”.22 Come si giustifica, ad esempio, che la
Conferenza socialista internazionale di Zimmerwald (1915) non venga
nemmeno menzionata? Della famosa assemblea svizzera non vi è traccia
negli scritti dei dada; né essi presero mai parte a forme organizzate di protesta: anche la notizia di una presunta associazione di scrittori rivoluzio18
Ibidem.
Arturo Schwarz, “Lo spirito dadaista”, in Stefano Cecchetto e Elena Cardenas Malagodi (a cura di), Dada a Zurigo. Cabaret Voltaire 1916-1920, Milano: Mazzotta, 2003, p. 5.
20
Georges Hugnet, L’aventure Dada, 1916-1922 (1971), trad. it. a cura di Giampiero
Posani, Per conoscere l’avventura dada: 1916-1922, Milano: Mondadori, 1977, p. 24.
21
Hans Arp, op. cit., p. 60.
22
Georges Hugnet, op. cit., p. 24.
19
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nari fondata da Hans Richter nel 1919, viene smentita leggendo il memorandum dell’avanguardista berlinese.23 In definitiva, il gruppo fu contraddistinto da un certo velleitarismo:
Il Dadaismo nasce e si sviluppa, dunque, con una fortissima carica antiborghese, fondamentalmente antiautoritaria e anarchica, incapace di
prendere coscienza, al di là del gesto esemplare e del culto incondizionato
della libertà individuale contro ogni forma di super io, della dialettica
concreta della lotta di classe e di identificarsi, oltre al solidarismo, nella
classe operaia e nelle sue organizzazioni storiche.24
Tuttavia, la composizione internazionale del Dada zurighese era una caratteristica che, di per sé, si opponeva ai nazionalismi guerrafondai: “I
movimenti artistici immediatamente precedenti la prima guerra mondiale”, precisa Rubin, “avevano avuto in generale un carattere nazionale, e
nel promuovere consapevolmente un’arte che non tenesse conto dei confini, Dada divenne il primo movimento programmaticamente internazionale di pittori e scultori”.25
Tale caratteristica si rispecchiò nell’allestimento di eventi artistici, come le soirées francesi e russe di musica, danza e poesia (DKA, p. 13), o negli sperimentalismi poetici: si pensi alle versioni gemelle del componimento plurilingue di Tzara Per fare una poesia dadaista, o alla poesia di
Huelsenbeck, Janco e Tzara L’ammiraglio cerca una casa da affittare, recitata simultaneamente in tedesco, inglese e francese.
All’interno del Cabaret Voltaire, quasi “simbolo di una koinè plurima e
sopranazionale” e baluardo contro la “virtus e la purezza germanica”,26 si
respiravano particolari atmosfere danubiane. Come dimenticare, tra le
curiose etimologie dell’espressione diadica, quella basata sulla forma affermativa delle lingue slave: ‘da-da’?27 Fu lo slavismo, rappresentato, tra
23
Hans Richter, Dada-Kunst Antikunst, Köln: DuMont, 1999, p. 45. D’ora in poi la sigla DKA farà riferimento a questo volume.
24
Giampiero Posani, “Introduzione”, in Tristan Tzara, 7 Dada Manifeste (1918), trad.
it. di Ornella Volta, Manifesti del dadaismo e lampisterie, a cura di Giampiero Posani, Torino: Einaudi, 1990, p. xxxiii. D’ora in poi la sigla MDL farà riferimento a questo volume.
25
William S. Rubin, Dada and Surrealist Art (1968), trad. it. di Domenico Tarizzo,
L’arte dada e surrealista, Milano: Rizzoli, 1972, p. 75.
26
Claudio Magris, Danubio (1986), Milano: Garzanti, 1999, p. 28.
27
Così Richter: “il nome Dada per il nostro movimento aveva rapporti di parentela con
le forme affermative slave ‘da, da’” (DKA, p. 30). Sull’etimologia della parola dada cfr.
Paola Di Mauro, Antiarte Dada, Acireale-Roma: Bonanno, 2005, pp. 108-09.
L’INTELLETTUALE DADA CONTRO LA GUERRA
/ 61
l’altro, fisicamente dai rumeni Tzara e Janco e dal pittore ucraino Slodki,
a determinare l’identità vitalistica del movimento, quella paradossale joie
de vivre slava come tradizionale controcanto alle incessanti guerre. “Pomiràt’ tak s mùzykoj”: se si deve morire, recita il noto proverbio russo,
meglio con la musica.
“Nel ricordo mi sembra quasi idilliaca”,28 avrebbe detto più volte Arp,
ripensando a Zurigo. La definizione è eloquente. Di fronte all’imperversare della guerra, le percezioni dell’isolamento zurighese quale condizione
‘privilegiata’ e della città svizzera come idillio sicuro, ridimensionano la
leggenda del Dada come movimento artistico-letterario engagée. Anche il
controverso appellativo di Kerndadas,29 chiamato a designare l’autenticità
del gruppo di Zurigo, secondo le intenzioni apolitiche dello scrittore di
Hannover, ne mette in luce un tratto significativo.
In tale contesto, si inquadrano le relazioni privilegiate con gli anarchici. Ball, in diretto contatto con Bakunin, Kropotkin, Landauer e Mereschkoski, definiva l’anarchismo principio politico vicino al Dada: “premessa è il credo rousseauiano nella bontà naturale dell’essere umano e all’ordine immanente della natura primigenia” (FZ, p. 25). L’utopismo anarchico,
conciliabile con le nuances chimeriche del Dada zurighese, sarebbe stato
caldeggiato anche da Serner e Tzara: “Ball, Serner, Tzara e Richter erano
necessariamente coinvolti nei dibattiti dell’internazionale anarchica che si
diffondevano attraverso la stampa, se non addirittura direttamente informati da Brupbacher”.30 Tuttavia, lo stesso Ball si mantenne sempre a rassicurante distanza da concrete imprese sovversive, precisando: “Mai darei il
benvenuto al caos, mai getterei bombe, farei saltare ponti e mai potrei sbarazzarmi delle idee. Non sono un anarchico” (FZ, p. 26). In effetti:
Non si tratta di valutare i dadaisti sulla base dell’anarchismo, di evidenziare il loro interesse alle idee sociali o alle utopie come indizio di impegno politico, bensì […] del patrimonio ideale anarchico, che i dadaisti
certamente conoscevano, e che doveva essere penetrato quale componente indispensabile nel concepimento artistico del Dada.31
28
Hans Arp, op. cit., p. 59 (corsivo mio).
Schwitters usava l’appellativo di Kerndadas, i dada autentici, per distinguere il gruppo
di Zurigo, dedito all’arte, dai berlinesi Huelsendadas, i dadaisti di Huelsenbeck politicamente degenerati. Cfr. Werner Schmalenbach, Kurt Schwitters, Köln: DuMont, 1984, p. 47.
30
Miklavž Prosenc, op. cit., p. 100.
31
Eckhard Philipp, Dadaismus. Einführung in den literarischen Dadaismus und die
Wortkunst des ‘Sturm’-Kreises, München: Fink, 1980, p. 41.
29
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PAOLA DI MAURO
“Il nostro tipo di Candido contro il tempo”, scriveva Ball (FZ, p. 94), facendo del protagonista del sarcastico romanzo di Voltaire il portavoce di
un rassicurante progetto di esistenza per l’artista. Tuttavia, la proverbiale
cura dell’orticello personale di Candido, vagheggiata come utopia, sarebbe stata abbandonata dai dadaisti assieme all’ottimistica joie de vivre zurighese. Alcune circostanze contribuirono alla necessaria metamorfosi. Forse a causa dei ripetuti oltraggi contro la benpensante società zurighese e
dei numerosi disordini verificatisi durante gli spettacoli, i locali della
Spiegelgasse vennero chiusi.32
Nel secondo cenacolo zurighese della Galerie Dada nella Bahnhofstrasse, che rappresentò una sorta di transizione verso la dimensione realmente
poco idilliaca di Berlino, la variegata formazione del Dada si semplificava: Tzara sarebbe diventato leader indiscusso del gruppo, mentre Ball, in
crisi mistica, se ne sarebbe allontanato, stabilendosi nel paese ticinese di
Sant’Abbondio.
I dadaisti che, nel 1918, arrivarono a Berlino si confrontarono con
una realtà assai diversa:
Spartaco era in tutte le strade, in tutti i luoghi, e in una Berlino sconvolta
si eccitava il Dada: chi sta fermo viene colpito a fuoco, ordine del prefetto
della polizia. Niente gas, né elettricità, né acqua, e tutto questo già da più
giorni. A ogni angolo della strada controlli per il porto d’armi, manifestazioni di massa, incontri per Spartaco, di notte al centro rumore di mitragliatrici […]. E in tutto ciò si dovevano comporre versi ben levigati, dipingere nature morte o donne nude? Al diavolo.33
Durante i tre anni dell’esperienza berlinese si sentì la necessità che “architetture artistiche e questioni sociali”34 camminassero di pari passo, come
provano i numerosi dibattiti su arte, letteratura, politica e società: “non
solo l’arte, ma anche i pensieri e i sentimenti, la politica e la società dovettero essere trascinati nella cerchia d’azione del Dada” (DKA, p. 105).
Evidentemente, in questa fase, non erano le utopie anarcoidi ad affascinare i dadaisti, che ora si avvicinavano, semmai, a formazioni ideologi32
Cfr. Fritz Glauser, “Dada-Erinnerungen”, in Peter Schifferli (a cura di), Dada in Zürich. Bildchronik und Erinnerungen der Gründer, Zürich: Sanssouci, 1957, p. 23.
33
Raoul Hausmann, Am Anfang war Dada (1972), a cura di Karl Riha, Gießen: Anabas, 1992, p. 16.
34
Hanne Bergius, Das Lachen Dadas. Die Berliner Dadaisten und ihre Aktionen, Gießen:
Anabas, 1989, p. 40.
L’INTELLETTUALE DADA CONTRO LA GUERRA
/ 63
camente strutturate: i fratelli Herzfelde, George Grosz e Franz Jung si
unirono alle milizie del Partito comunista, nella cui sfera gravitavano, pur
non essendovi formalmente iscritti, molti dadaisti.
Berlino richiedeva gesti esemplari. Se, infatti, come asseriva Huelsenbeck “era la città della fame sempre più dilagante, dove la rabbia repressa si
trasformava in smisurata cupidigia”,35 era precisamente in tale contesto che
“[s]i dovevano trovare mezzi completamente diversi, se si voleva dire qualcosa alla gente”.36 Colpisce, in enunciati simili, la ricerca instancabile di
gesti efficaci: “il gesto dada si presentava nella metropoli berlinese aggressivo, battagliero, cinico e radicale politicamente”.37 A questo proposito e a
scanso di equivoci, Fähnders propone una distinzione tra “provocazione
politicizzata”, del Dada, e “politica provocatoria”,38 dietro la quale si legge
un giudizio impietoso sulla pressoché inesistente progettualità del movimento. Effettivamente, se da una parte il Dada fu “una visione relativa,
antiborghese, anticapitalistica, attivista di teste pensanti politicamente”
(DLD, p. 32), dall’altra, il “flirt con il comunismo” (DKA, p. 115) fu un
pretesto ‘antiartistico’, una posizione generica di protesta, come precisava
Huelsenbeck: “Non erano nemmeno i contenuti del comunismo che ci attraevano. Ciò per cui, per così dire, simpatizzavamo, era l’impeto rivoluzionario”.39 In un successivo autodafé, il dadaista avrebbe giudicato con severità certe frequentazioni radicali, chiarendo, forse condizionato dall’aria
non troppo liberale della nuova dimora newyorkese del 1957, la differenza
tra entusiasmo personale e militanza politica:
Quando, nell’anno 1918, portai il Dadaismo a Berlino, si unì a noi un
tale, il cui carattere sospetto mi si è chiarito piano piano, il proprietario
delle edizioni Malik, il cui nome era Wieland Herzfelde […]. Gli Herzfelde, Jung e l’altro, e con essi il mio amico Hausmann, ci spinsero al comunismo e io devo ammettere adesso, con vergogna, che ideologicamente fui dalla loro parte.40
Inoltre, alla luce della tradizionale vulgata del Dada berlinese come movi35
Herbert Kapfer, “Bruitistisch, abstrakt, konkret”, in Richard Huelsenbeck, Phantastische Gebete (1916), Gießen: Anabas, 1993, p. 75.
36
Ibidem (corsivo mio).
37
Hanne Bergius, op. cit., p. 9.
38
Walter Fähnders, “Avantgarde und politische Bewegung”, Text + Kritik, 2001, p. 73.
39
Richard Huelsenbeck, Mit Witz, Licht und Grütze. Auf den Spuren des Dadaismus,
Hamburg: Nautilus, 1985, p. 78.
40
Richard Huelsenbeck, Phantastische Gebete, cit., p. 77.
64 /
PAOLA DI MAURO
mento inquadrato ideologicamente, come interpretare un atto paradossale quale l’invio del telegramma da parte di Huelsenbeck, Baader e Grosz a
sostegno dell’impresa fiumana di Gabriele D’Annunzio? Medesima perplessità suscita la fondazione del fantomatico Consiglio centrale rivoluzionario dadaista dove, ad onta delle emergenze berlinesi di quegli anni, si
sostenevano rivendicazioni equivoche come “l’introduzione della disoccupazione progressiva attraverso l’ampia meccanicizzazione di ogni attività”
oppure “l’introduzione della poesia simultanea come preghiera di stato
comunista” o ancora “l’immediata espropriazione del possesso e il sostentamento comunista di tutti, così come l’edificazione di città-giardino e
città-luce appartenenti alla comunità”.41
L’eversione semantica di tali enunciati, tuttavia, attuata tramite il capovolgimento delle tradizionali espressioni utilizzate dalla politica, comportava uno slittamento del discorso su un piano metapolitico che evidenziava, oltre ai limiti terminologici e concettuali, anche l’inefficacia
della tradizionale retorica. Osserva Fähnders: “Si tratta della ridicolizzazione della semantica politica fino alla messa in ridicolo di determinate
strutture e postulati politici che tradizionalmente si muovono sui binari
del pensiero lineare”.42 In tal senso, sebbene i dadaisti rimasero, salvo rare
eccezioni, sostanzialmente estranei all’engagement tradizionale, essi avviarono, con le loro pratiche antiartistiche e iconoclastiche, una riflessione
ante litteram molto significativa sul linguaggio della politica.
Il dadaista lotta contro la società borghese alla quale appartiene, penetrandone con lo sguardo la falsità, l’ipocrisia e il cinismo, ma proprio con
questi stessi mezzi. Lui è il dis-illuso, che scopre l’illusione per mezzo dell’illusione, svela il bluff con il bluff, l’apparenza con l’apparenza e la maschera con la maschera.43
Nella caleidoscopica rappresentazione della realtà come festa mascherata,
i dadaisti volevano apparire nei panni di buffoni: “Finalmente il grande
successo era arrivato!”, si rallegrava Picabia delle sue esibizioni, “eravamo
trattati come pazzi, fanfaroni e clown” (DLD, p.111).
“Volevamo ridere, ridere e fare ciò che i nostri istinti esigevano. Volevamo creare tutto da soli – il nostro nuovo mondo” (DLD, p. 62). Come
41
Der Zweemann, 2, 1919, pp. 18-19.
Walter Fähnders, op. cit., p. 73.
43
Hubert Schings, Narrenspiele oder die Erschaffung einer verkehrten Welt. Studien zu
Mythos und Mythopoiese im Dadaismus, Frankfurt: Lang, 1996, p. 63.
42
L’INTELLETTUALE DADA CONTRO LA GUERRA
/ 65
evidenzia Bachtin nel suo lavoro sul comico e la letteratura, ridere è
espressione di una precisa concezione del mondo.44 Di tanto in tanto, i
dadaisti davano a vedere che cosa ci fosse dietro lo scherno, quale concezione della realtà portasse con sé. Dichiara Huelsenbeck con fierezza:
“Chi si irrita del Dada, chi crede di considerare i dadaisti come arlecchini
e inetti e il Dadaismo come una stupidaggine, non ha capito […] che i
dadaisti sono uomini che hanno capito il senso della loro epoca meglio di
tutti gli altri”.45
Ideatori di burle o di “scherzi filosofici”,46 secondo la nota definizione
di Alfred Kerr che ammantava, con tale espressione, lo scherno dada di
un elogio malsicuro, i dadaisti furono dotati di quella saggezza superiore
che fa percepire la realtà come poderoso spettacolo di insensatezza.
Quello che conferisce alla figura del clown la sua eccentrica superiorità
sugli imperatori e sui giudici è il fatto che, al contrario dei potenti presi
in trappola dal loro abbigliamento e dagli attributi esterni di una vana tirannia, il clown è un ‘re derisorio’ […]. Toccherà a noi intuire che egli
rappresenta noi tutti, che siamo tutti dei pagliacci, e che la nostra vera dignità (giacché a questo punto si può parafrasare Pascal) consiste nell’ammissione del nostro essere pagliacci. Se impariamo a osservare attentamente, vedremo che i nostri abiti sono tutti costumi di lustrini. Totus
mundus agit histrioniam.47
Dell’artista da saltimbanco il dada possiede tutte le contraddittorie qualità, la capacità di “librarsi in volo e piombare a terra, trionfo e declino;
agilità e atarassìa; gloria e sacrificio”,48 ondeggiando saturninamente tra
“una buffonata e una messa funebre” (FZ, p. 78), come scriveva Ball riferendosi al potere catartico del riso nel contesto luttuoso del suo tempo.
44
Michail M. Bachtin, Tvorcestvo Fransua Rable i narodnaja kulturasrednevekovja i Renessansa (1965), trad. it. di Mili Romano, L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso,
carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, Torino: Einaudi, 1982, p. 66.
45
Richard Huelsenbeck, “Die dadaistische Bewegung. Eine Selbstbiographie”, in Jeanpaul Goergen (a cura di), Urlaute dadaistischer Poesie: Der Berliner Dada-Abend vom 12.
April 1918, Hannover: Postskriptum, 1994, p. 35.
46
Karin Füllner, “Ulk mit Weltanschauung. Die dadaistische Großveranstaltung im
Spiegel der zeitgenössischen Presse”, in Id., Richard Huelsenbeck. Texte und Aktionen eines
Dadaisten, Heidelberg: Winter Universitätsverlag, 1983, p. 170.
47
Jean Starobinski, Portrait de l’artiste en saltimbanque, (1983), trad. it. di Corrado Bologna, Ritratto dell’artista da saltimbanco, Torino: Bollati Boringhieri, 1998, p. 122.
48
Ivi, p. 117.
66 /
PAOLA DI MAURO
La beffa, riprendendo la sua antica funzione di consolidamento psicologico quale compensazione emotiva e vitalistica di fronte a situazioni di
emergenza, fu un raffinato escamotage di esorcizzazione del terrore. “Rivolta[ndosi] all’idea che la logica potesse servire per giustificare l’uccisione e la mutilazione di milioni di esseri”, il riso fu il “mezzo preferito della
guerriglia dada”49 per sublimare la paura scatenata dagli eventi terrificanti
della guerra.
Tematiche simili emergono anche da prospettive individuali, come
dalla descrizione autobiografica di Tzara che, affidando le sue ultime volontà pseudotestamentarie al fascino pernicioso della morte, dichiarava:
“Mi suicidio al 65%. Ho la vita molto a buon mercato, per me non è che
il 30% della vita […]. La morte è un po’ più cara. Ma la vita è affascinante e la morte altrettanto affascinante” (MDL, p. 34). Anche alla luce del
suicidio del sofisticato Jacques Vaché,50 dadaista ante litteram la cui magnifica “forza impressionifica” avrebbe fortemente influenzato tutto l’entourage avanguardistico primonovecentesco, non era di poco conto l’affermazione di Tzara: “prendetevi voi stessi a pugni in piena faccia e cascate
morti” (MDL, p. 22).
Tuttavia il nesso illustrato da Agamben tra autoannientamento e produzione artistica avanguardistica,51 non comprende la specifica evoluzione
dei dada tedeschi, tesi piuttosto verso il ‘rischio’ come forma vitalistica di
sfida alla quieta esistenza borghese; basti pensare alle rocambolesche avventure descritte da Huelsenbeck (cfr. DLD, p. 34) o alla biografia del dadaista di Colonia Baargeld, scomparso, non suicida, come sostiene Schwarz,52
ma più prosaicamente travolto da una valanga sul Monte Bianco.53
Una particolare propensione ai piaceri psichedelici, tuttavia, conferma
la vocazione dada alla bohème. Il consumo di droghe fu letale al libraio
antiquario Hans Hack, il mecenate di Zurigo, il cui negozio era punto
d’incontro del gruppo, trovato morto a causa di una dose eccessiva di cocaina. Lo stesso Ball, che avrebbe messo in guardia dai pericoli del dandi49
William S. Rubin, op. cit., p. 9 (corsivo mio).
In realtà, Vaché, che morì nel 1918, non ebbe mai contatti con i dadaisti, il suo accostamento ideale al Dada fu opera di Breton con cui intrattenne uno scambio epistolare.
Cfr. Jacques Vaché, Lettres de guerre (1919), trad. it. di Elena Paul, Lettere di guerra, Palermo: Duepunti, 2005.
51
Giorgio Agamben, L’uomo senza contenuto, Macerata: Quodlibet, 2000.
52
Arturo Schwarz, op. cit., p. 17.
53
William S. Rubin, op. cit., p. 11.
50
L’INTELLETTUALE DADA CONTRO LA GUERRA
/ 67
smo e della vita scapestrata,54 mostra comprovata conoscenza delle sostanze stupefacenti che descriveva in termini altamente nobilitanti e come
reali alternative alla sterilità della vita moderna:
Per chi ha perso dubbi e speranze, le droghe possono offrire una consolazione. Le droghe sono condizioni umane di felicità e di disperazione, che
conducono in un aldilà immaginario. La dose di cui ognuno ha bisogno
per continuare a sopportare la vita si regola in relazione alla propria costituzione fisica, a seconda del livello di nostalgia o delusione. Le droghe
servono a integrare l’ideale. (FZ, pp. 43-44)
Il Dadaismo “era una rivolta della personalità oppressa da ogni lato”, diceva Huelsenbeck. “Era la ribellione contro la massificazione, la stupidizzazione, la distruzione. Era il grido di aiuto dell’uomo creativo contro la
banalità”.55 I dadaisti si cimentarono nella difficile impresa di rimanere
fedeli ai proclami di antiartisticità attraverso un accurato repulisti da ogni
tradizionalismo, con un’attenzione scrupolosa affinché “squilli di tromba
dell’antiarte”, così Richter, non trasmettessero vibrazioni di antiche convenzioni (DKA, p. 51).
Da qui si comprende il giudizio di Luigi Forte sulla centralità di un
dissidio con “l’ossessiva riproduzione dell’immago paterna”;56 da qui
l’identificazione del gruppo sulla base di un’intesa spiccatamente generazionale che, secondo Tzara, esprimeva l’inquietudine della giovinezza di
tutti i tempi.57 Che nel 1918 tutti i membri del gruppo berlinese avessero
appena vent’anni, eccetto l’architetto Baader, poco più che quarantenne
ma irruente e scapestrato più degli altri, basterebbe a giustificare la definizione del Dada come “nuovo, appassionato Sturm und Drang”.58
Questi tratti giovanilistici chiariscono anche la mancata intesa tra i
dada berlinesi e Kurt Schwitters, che veniva apostrofato come “il talentuoso piccolo borghese”;59 anche Grosz non fece mistero della sua antipatia verso l’avanguardista di Hannover quando, a dispetto di tutte le con54
Cfr. Hugo Ball, Flametti oder vom Dandysmus der Armen (1918), trad. it. di Piergiulio
Taino, Flametti o del dandismo dei poveri, Pasian di Prato: Campanotto, 2006.
55
Richard Huelsenbeck, Mit Witz, Licht und Grütze, cit., p. 79.
56
Luigi Forte, “Dada o le metamorfosi del gioco”, in Id. Le forme del dissenso, Milano:
Garzanti, 1987, p. 61.
57
Cfr. Robert Motherwell (a cura di), The Dada Painters and Poets, New York: Wittenborn, 1967, p. 6.
58
Valerio Magrelli, Profilo del Dada, Roma: Lucarini, 1990, pp. 40.
59
Richard Huelsenbeck, Mit Witz, Licht und Grütze, cit., p. 96.
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PAOLA DI MAURO
venienze, lo lasciò davanti alla porta del suo appartamento berlinese (cfr.
DKA, pp. 147-48). In tal senso, si ridimensiona anche la querelle sulla politicità del Dada come principale causa delle incomprensioni tra DadaBerlin e Schwitters. Basti solo osservare che Max Ernst, a sua volta dadaista sui generis e senz’altro critico nei confronti dell’egagement dada, giudicava inconciliabile il programma di un’arte politica e antiborghese con la
prospettiva elitaria dei berlinesi, coniando, a questo proposito, il termine
Kurfürsten-Dammdadaismus, con cui alludeva sarcasticamente al legame
tra i dadaisti e il boulevard più rappresentativo di Berlino.60
Che il dandismo fosse un fenomeno molto diffuso in Dada, trova conferma nell’adozione di “ingegnosi apparati di liturgia sociale”,61 chiamati a
mettere alla berlina ogni vezzo aristocratico: tra questi, l’attribuzione, tipicamente bohémien, di soprannomi (Hausmann era il Dadasoph, Grosz il Propagandada, Mehring il Pipidada, Baader l’Oberdada, Herzfelde il Progressdada, Heartfield il Monteurdada), l’attenzione per l’abbigliamento – come ci
rammentano “la passione per le stoffe inglesi di Arp (che portava scarpe disegnate da lui stesso), la predilezione di Heartfield per gli abiti di Savile
Row, la raffinata eleganza di Picabia, o la provocatoria moda del monocolo
adottata da Tzara, Grosz, Hausmann, Breton e Arp” –62 la frequentazione
assidua dei caffè zurighesi Terrasse e Odeon o altri luoghi di ritrovo, come la
scuola delle ballerine di Laban, legate a doppio filo al Cabaret Voltaire.
L’intrinseca natura rivoluzionaria, instabile, scintillante di Dada non
poteva non contagiare anche i rapporti d’amicizia fra i suoi adepti. Il rapporto tra sé e gli altri era immancabilmente scandito da punte di adesione
allucinata e vertiginosa o di dissociazione radicale:
Noi siamo cinque amici, e la cosa più stupefacente è che non andiamo
mai completamente d’accordo, sebbene ci unisca principalmente la stessa
convinzione. La costellazione cambia. Ora Arp e Huelsenbeck si capiscono e sembrano inseparabili, ora Arp e Janco fanno comunella contro H.,
ora H. e Tzara contro Arp ecc ecc. Si tratta di un’ininterrotta e cangiante
attrazione e repulsione. Bastano un lampo, un gesto, un nervosismo che
la costellazione si trasforma. (FZ, p. 89)
60
Cfr. Jörgen Schäfer, Dada Köln. Max Ernst, Hans Arp, Johannes Theodor Baargeld und
ihre literarischen Zeitschriften, Wiesbaden: Dt. Universitätsverlag, 1993, p. 91.
61
Valerio Magrelli, op. cit., p. 96.
62
Ibidem.
63
Hans Bolliger, Guido Magnaguagno e Raimund Meyer, Dada in Zürich, Zürich: Die
Arche, 1985, p. 28.
L’INTELLETTUALE DADA CONTRO LA GUERRA
/ 69
Tuttavia, l’unione indissolubile di questo “movimento eterogeneo di amici e artisti”63 era costituita da uno spirito di solidarietà straordinariamente
forte, particolarmente all’interno del gruppo di Zurigo, i cui membri erano paragonabili, secondo l’efficace metafora di Richter, ai colori di un arcobaleno, visivamente diversi, ma risultanti da un’unica rifrazione luminosa (DKA, p. 25). Incontri più epifanici furono quelli del gruppo a Berlino, dove l’inquietudine sociale si rifletteva anche all’interno delle turbolente relazioni interpersonali, come dimostrano la contesa leadership tra
Huelsenbeck e Hausmann64 o l’assenza di un manifesto firmato da tutti i
componenti del gruppo.
D’altronde, “l’arte è una cosa privata”, ribadirono più volte i dadaisti,
“l’artista la fa per sé” (MDL, p. 23). Non solo l’antiarte dada doveva essere privata, ma più ermetica rimaneva, meglio era: “Ciò di cui abbiamo bisogno”, affermava Tzara, “sono opere […] incomprensibili” (p. 49).
Fornivano un correttivo a questo soggettivismo estremo, da una parte
il carattere conviviale delle manifestazioni dada, dall’altra il rifiuto, pressocché categorico, dell’idea di ‘genio’. Tale significativa incongruenza con
lo stereotipo del dandy spiega la concezione estetica ‘casuale e spontaneistica’ del Dada, per cui l’atto creativo non doveva dipendere da specifiche
capacità individuali, quanto piuttosto dall’originalità della vita stessa. Infatti: “Dada è immediato e naturale. Si è dadaisti vivendo”.65
In merito al rapporto tra individuo e gruppo nel Dada, le interpretazioni critiche sono discordanti. Mentre Sylvia Brandt sostiene che, “[s]ebbene uno spirito di gruppo giochi nel Dada un ruolo importante, il singolo è soprattutto il rappresentante di sé medesimo”,66 Prosenc, convinto
della natura politicizzata del movimento, insiste sullo spirito d’aggregazione: “[i dadaisti] si presentavano insieme, si sostenevano reciprocamente
nelle preparazioni, progettavano insieme, discutevano giorno e notte e
scrivevano persino collettivamente”.67 A questi bisogni aggregativi corrispondeva la creazione di veri e propri sottogruppi quali la Società anonima
per lo sfruttamento del vocabolario dadaista del 1919 di Arp, Serner e Tzara,
64
Così Hausmann: “Huelsenbeck non ebbe su di noi il minimo influsso. Rimase sempre un corpo estraneo. Venne tollerato come un’appendice, una sorta di alibi per il nome
‘dada’” (op. cit., p. 102).
65
Richard Huelsenbeck, “Einleitung”, Dada Almanach, numero unico, 1920.
66
Sylvia Brandt, Bravo! & Bum Bum Neue Produktions- und Rezeptionsformen im Theater der historischen Avantgarde: Futurismus, Dada und Surrealismus. Eine vergleichende Untersuchung, Frankfurt: Lang, 1995, p. 29.
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PAOLA DI MAURO
FATAGAGA68
di Arp ed Ernst oppure le collaborazioni tra la Taeuber e Arp,
sulla base delle quali l’artista alsaziano così rifletteva: “Gli artefici dell’arte
concreta non dovevano portare la firma del loro autore. Questi dipinti,
queste sculture – queste cose – dovevano essere anonime”.69
Si spiegano così azioni letterarie quali la falsificazione o lo scambio di
firme, unite ad altre numerose pratiche, escogitate per impedire la riconoscibilità autoriale, che i dadaisti, eccelsi nell’arte della dissimulazione,
esercitavano con grande maestria. Ne è esempio emblematico il concepimento, volutamente incerto, della parola ‘dada’:
Ognuno si identificava così tanto con l’altro, che fu persino insignificante
chi fosse il padre spirituale delle singole metafore, figure, paradossi o invenzioni. Caratteristico di questa atmosfera è che nel 1916 nessuno dei
dadaisti si curò di stabilire chi di loro avesse trovato il simbolo.70
Nella negazione dell’originalità e nel rifiuto di appropriazione individualistica si manifestava un volontario disconoscimento dei valori di autorialità e paternità artistiche. Ma proprio perché si rifiutavano di concepire, i
dadaisti furono tanto prolifici: essi riuscirono a superare la dimensione
proiettiva edipica e giovanilistica primonovecentesca sublimando l’‘azione
criminosa’ nella prassi antiartistica:
L’assassinio operato dall’avanguardia non coincide con la volontà di potenza o con la follia distruttrice, ma intende presentarsi come il retorico
gesto di una detronizzazione a cui la coscienza aspira, la metafora dell’impotenza che si esalta in aggressività verso gli idoli dei padri. Nel pensiero e
nella prassi antiletteraria si compie il reato.71
Se da una parte il dadandy cambiava i connotati meramente individualistici dell’aristocratico esteta primonovecentesco, presentandone una sottile parodia, egli sfuggiva, dall’altra, allo stereotipo dell’intellettuale impegnato: la vocazione dell’uno all’azione si contrapponeva all’altra, contemplativa e solitaria. L’impegno corrispose, forse solo ad un desiderio, a un
voler essere: un saturnino che sogna di essere mercuriale e che risente di
67
Miklavž Prosenc, op. cit., p. 57.
Si tratta dell’acronimo di Fabrication de Tableaux Gasométriques Garantis. Cfr. Hans
Arp, op. cit., p. 79.
69
Ibidem.
70
Ivi, p. 70.
71
Luigi Forte, op. cit., p. 62 (il corsivo è mio).
68
L’INTELLETTUALE DADA CONTRO LA GUERRA
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queste due spinte,72 si potrebbe affermare parafrasando Italo Calvino e riconducendo quella del dada a una distonia più universale. Arduo stabilire, a posteriori, quale tra le due identità avrebbe prevalso sull’altra: se alla
lunga, avrebbe avuto la meglio il sapienziale fallire del bohémien o la strenua e lucida resistenza dell’intellettuale.
Non ci fu tempo di scegliere. Quando le tecniche della provocazione
cominciarono ad usurarsi mostrando la propria inefficacia, ai dadaisti si
presentò il problema di escogitare, pena la propria sopravvivenza, nuovi
modi espressivi all’altezza della carica sovversiva inizialmente proposta. Il
problema del mantenimento della prassi rivoluzionaria si scontrava con il
processo di consunzione delle forme espressive scelte che, per quanto dirompenti e innovative, finiscono sempre per fare i conti con la propria
ineluttabile deperibilità. Nel riconoscere l’essenza e l’insuperabilità di
questo dilemma, i dadandy, proclamando la propria palingenesi, si sarebbero dissolti, lasciando tuttavia le risonanze di un monito fecondo di
fronte all’aridità di assolute quanto fragili certezze:
Quando si è poveri di spirito, si possiede un’intelligenza sicura e solida,
una logica feroce, un punto di vista irremovibile. Cercate di essere vuoti e
di riempire le vostre cellule celebrali come viene. Distruggete sempre quel
che avete dentro di voi. A seconda degli incontri che fate. Solo così potete
capire molte cose. (MDL, pp. 59-60)
72
Italo Calvino, “Rapidità”, in Id., Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio (1985), Milano: Mondadori, 2002, p. 60. “Ma secondo l’opinione più diffusa, il temperamento influenzato da Mercurio, portato agli scambi e ai commerci e alla destrezza, si
contrappone al temperamento influenzato da Saturno, melanconico, contemplativo, solitario. Dall’antichità si ritiene che il temperamento saturnino sia proprio degli artisti dei
poeti, dei cogitatori, e mi pare che questa caratterizzazione corrisponda al vero”. Ivi, p. 59.