Lavoratori immigrati nel settore domestico in Italia
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Lavoratori immigrati nel settore domestico in Italia
Lavoratori immigrati nel settore domestico in Italia A cura di: Paola Conterno, Associazione Nazionale Oltre le Frontiere (ANOLF) Judith Portocarrero, Associazione Nazionale Oltre le Frontiere (ANOLF) Lavoratori immigrati nel settore domestico in Italia | 1 INTRODUZIONE E RIASSUNTO 1. Introduzione. Il prolungamento della speranza di vita che caratterizza l’Italia ha implicato l’insorgere di problematiche tra gli anziani, legate a malattie croniche e alla non autosufficienza. Di fronte all’aumento dei bisogni di assistenza, le famiglie, cui compete principalmente la responsabilità di cura, hanno trovato una soluzione attraverso l’assunzione di assistenti familiari (badanti) straniere che convivono giorno e notte con gli anziani che accudiscono: si è affermato così un sistema di welfare privato – data anche la limitata offerta di servizi pubblici di assistenza domiciliare – basato sul ricorso alle assistenti familiari (badanti) straniere, risorsa sempre più essenziale per le famiglie, ma fragile, poiché impiegata in un settore scarsamente tutelato e caratterizzato da un’irregolarità diffusa a livello contrattuale. La fortissima domanda di assistenza da parte degli anziani e delle loro famiglia ha visto parimenti la crescita della presenza di collaboratrici domestiche (colf) e assistenti familiari (badanti): un gruppo sempre più numeroso che contava nel 2007 (anno del riconoscimento contrattuale della figura professionale) oltre 700.000 presenze sul territorio nazionale (colf più badanti), composto in prevalenza da donne tra i 30 e i 50 anni, immigrate in Italia dai paesi dell’Europa dell’Est, dal Sud America, dall’Africa in cerca di lavoro. A loro vanno aggiunte le 294.744 colf (collaboratrici domestiche) e badanti (assistenti familiari) che hanno presentato domanda di regolarizzazione a settembre 2009 (la cosiddetta “sanatoria”). Sale quindi ad un milione il numero delle colf e badanti regolari1. Ma i numeri tradiscono in realtà una scarsa conoscenza del fenomeno, caratterizzato da una forte presenza di lavoro sommerso o addirittura di fenomeni criminali di vero e proprio racket per un posto di lavoro. L’affermazione del fenomeno delle assistenti familiari (badanti), a cui sempre più spesso è affidata la cura degli anziani – dalla sua comparsa in Italia negli anni ’90 ad oggi – ha dato origine alla necessità di comprendere il mondo delle lavoratrici della cura e dell’assistenza domiciliare agli anziani. (2006-2008) nell’ambito della Iniziativa comunitaria Equal. L’obiettivo del progetto è stata la sperimentazione di soluzioni innovative per far fronte a una complessa situazione dell’assistenza domiciliare agli anziani diventata ormai una questione sociale, non più riconducibile al solo rapporto privato tra famiglie ed assistenti familiari (badanti), da gestire dentro le mura domestiche, ma che sollecita necessariamente l’intervento delle politiche sociali, per rendere la cura domiciliare parte della filiera di welfare locale, a costi sostenibili per gli utenti e retribuzione contrattuale per le lavoratrici. Coadiuvati dal prof. Lazzarini, dalla dr.ssa Santagati e dal prof. Bollani dell’Università di Torino gli operatori ANOLF CISL Piemonte hanno intrapreso un percorso di indagine di tipo documentale, quantitativo e qualitativo, per acquisire informazioni a largo spettro sugli aspetti della vita sociale e lavorativa delle assistenti familiari (badanti). L’indagine offre un contributo alla conoscenza del fenomeno e presenta un’analisi sociologica che approfondisce, in particolare, le criticità dell’esperienza di lavoro alla luce del percorso migratorio e della condizione familiare delle assistenti, il nodo della qualificazione professionale e le possibili prospettive di miglioramento della situazione lavorativa. l’indagine coglie le contraddizioni di un’esperienza lavorativa spesso totalizzante come quella delle assistenti familiari (badanti) in cui la cura degli altri non lascia tempo e spazio per la cura di sé, dimensione fondamentale per la persona e premessa per una piena integrazione nella società di accoglienza. I risultati della ricerca evidenziano un legame tra migrazione e discriminazione lavorativa; per le lavoratrici assistenti familiari (badanti) l’obiettivo della regolarità del soggiorno e del contratto di lavoro costituisce un punto di partenza, in vista di un effettivo miglioramento della propria qualità di vita, e la formazione intesa come strumento di tutela contro lo sfruttamento ma anche come mezzo di promozione sociale. I risultati della ricerca condotta sono parte integrante della pubblicazione “Tra cura degli altri e cura di sé. Percorsi di inclusione lavorativa e sociale delle assistenti familiari”, Franco Angeli Editore, Collana Politiche Migratorie. 2. Riassunto La presente ricerca è stata condotta nel corso del progetto denominato SolidAssistenza 1 Caritas Migrantes, (2009) Immigrazione. Dossier statistico 2009 Lavoratori immigrati nel settore domestico in Italia | 2 PRINCIPALI CARATTERISTICHE DEL SETTORE STUDIATO Analisi della legislazione dal punto di vista del dialogo sociale 1. Procedura per la regolarizzazione e l'assunzione di colf (collaboratrici domestiche) e badanti (assistenti familiari) straniere. Secondo la legge in vigore in materia di immigrazione e asilo (la cosiddetta Bossi-Fini) è possibile assumere una collaboratrice domestica o un’assistente familiare extracomunitaria già presente regolarmente in Italia e in possesso di Permesso di Soggiorno idoneo a svolgere attività lavorativa. Diversamente si deve aspettare la pubblicazione del Decreto flussi - che fissa il numero massimo di ingressi di lavoratori stranieri in Italia (la “quota” di stranieri ai quali aprire le porte) - per fare la domanda di nullaosta al lavoro secondo la nuova procedura telematica. Tocca quindi al futuro datore di lavoro proporre l’assunzione allo straniero, il quale – in base a questa offerta – si fa poi rilasciare il visto dall’ambasciata o dal consolato italiano nel suo paese. Dopo la pubblicazione del decreto flussi, il datore di lavoro presenta la richiesta. Se la domanda è accettata, il datore di lavoro ritira copia del Nulla Osta allo Sportello Unico per l’Immigrazione e lo invia allo straniero il quale può così ritirare il visto di ingresso all’ambasciata o consolato italiano nel suo paese. Nella maggior parte dei casi lo straniero riceve sì l’offerta di lavoro nel proprio paese - dove “in teoria” dovrebbe trovarsi - ma “in pratica” è irregolarmente presente in Italia (dove – nella maggior parte dei casi - è entrato con regolare visto turistico, poi scaduto) e il quale torna nel proprio paese a ritirare il visto di ingresso per lavoro. Il permesso di soggiorno (il documento che permette all’extracomunitario di stare in Italia) deve essere richiesto entro 8 giorni lavorativi dall’arrivo in Italia. Il permesso di soggiorno per lavoro si ottiene solo con l’esistenza del Contratto di Soggiorno tra datore di lavoro ed extracomunitario. Il datore di lavoro e il lavoratore extracomunitario devono recarsi allo Sportello Unico per l’Immigrazione e firmare il Contratto di Soggiorno. Dopodiché l’extracomunitario deve recarsi agli uffici postali per fare domanda di primo permesso di soggiorno entro 8 giorni lavorativi. Il datore di lavoro dovrà comunicare l’assunzione a: Questura (se il cittadino è extracomunitario), Anagrafe, Centri per l’Impiego, Inps e Inail. I cittadini neocomunitari non hanno obblighi di visto d’ingresso e possono essere assunti con comunicazione a Inps e Inail, centri per l’Impiego e anagrafe (se il lavoratore è convivente). 2. La “SANATORIA” settembre 2009 Il Governo italiano ha inserito all’interno del cosiddetto 'pacchetto anticrisi' (legge 3 agosto 2009, n.102, articolo 1-ter) un emendamento che stabiliva la procedura di emersione dei rapporti di lavoro irregolari, per la regolarizzazione di colf (collaboratrici domestiche) e badanti (assistenti familiari). Si è trattato di una procedura on line attiva dal 1° al 30 settembre 2009, attraverso la quale la posizione dei cittadini extracomunitari privi di titolo di soggiorno che abilita allo svolgimento di una attività lavorativa, impiegati presso le famiglie come lavoratori domestici di sostegno al bisogno familiare (colf) o come assistenti di persone non autosufficienti o affette da patologie o handicap (badanti), poteva essere regolarizzata. Tutti i datori di lavoro che volevano partecipare alla procedura di emersione dal lavoro irregolare dovevano effettuare il pagamento di un contributo di 500 euro per ciascun lavoratore, utilizzando il modello F24. Per i lavoratori italiani, comunitari e extracomunitari muniti di permesso di soggiorno che consente attività di lavoro subordinato e in corso di validità, la dichiarazione di emersione doveva essere presentata all’Inps. L’INPS provvedeva all’iscrizione del rapporto di lavoro (dopo la verifica dell’avvenuto pagamento della quota forfetaria e della rispondenza di quanto dichiarato alle norme vigenti in materia di lavoro domestico) e ne dava comunicazione al datore di lavoro, inviando contestualmente i bollettini necessari per il pagamento dei contributi successivi al 2° trimestre 2009. Per i lavoratori extracomunitari privi del titolo di soggiorno o in possesso di un permesso di soggiorno che non consente lo svolgimento di attività di lavoro subordinato la domanda andava presentata allo Sportello unico per l’immigrazione, esclusivamente in via telematica, attraverso il sito internet del Ministero dell’Interno. Le stime parlavano di 700 mila domande, ma il bilancio è stato di gran lunga inferiore alle aspettative. Si è infatti fermato 294.744 domande il bilancio della regolarizzazione di colf e badanti (queste ultime pari a un terzo del totale), ossia circa la metà dei clandestini stimati nel lavoro domestico, colf più badanti2. Anche se con questi numeri è difficile parlare di un flop, è evidente che centinaia di migliaia di famiglie e lavoratori sono rimaste nel sommerso. La maggior parte dei moduli sono stati richiesti a Milano (53 mila, il 15% del totale) Roma (39 mila), Napoli (28 mila) e Brescia (13 mila), mentre ucraini (44 mila, il 13% del totale), marocchini (41 mila) e moldavi (30 mila) guidano la classifica per nazionalità. Secondo le Acli, il 30 e il 40% delle famiglie interessate alla regolarizzazione hanno rinunciato a presentare domanda. Hanno pesato i limiti di reddito e di l’orario minimo di 20 ore, ma soprattutto, sottolinea l’associazione, “quando prendevano atto dei costi effettivi del rapporto di lavoro e dei diritti conseguenti spettanti ai lavoratori, le famiglie tornavano sui propri passi”. Per la popolazione immigrata irregolare la sanatoria è stata l’occasione per ottenere il tanto agognato permesso di soggiorno: in molti non ci speravano più. Per le famiglie, l’unico beneficio era quello di uscire dall’illegalità. Ma molte famiglie non hanno evidentemente dato a questo grande rilevanza. Sulle famiglie sono ricaduti la maggior parte degli oneri. I quali presi uno a uno avevano un peso relativo, ma è la loro somma, sottovalutata, che ha fatto la differenza: 1. i 500 euro forfettari sono stati evidentemente un buon deterrente psicologico; 2. il minimo di 20 ore alla settimana per cui il lavoratore doveva essere assunto ha escluso una larga fetta di mercato, quella del lavoro a ore, oggi in crescita. Di fatto, il vincolo posto dal decreto anticrisi per la regolarizzazione di badanti e colf non è di poco conto: al fine dell’accoglimento della domanda proposta, occorre infatti che il datore di lavoro dichiari di avere alle proprie dipendenze un/a badante o colf da almeno 3 mesi, e per un numero di ore settimanali non inferiore a 20. Limite facilmente raggiunto dalle badanti, che spesso assistono persone non autosufficienti e che dunque hanno bisogno di lunghi orari in cui essere seguite, ma più difficile per il personale domestico, che sovente non esercita attività lavorativa di almeno 20 ore settimanali per una singola famiglia. 3. La complessità dell’iter procedurale ha fatto la sua parte. 4. Ma la resistenza maggiore è dovuta al dover assumere e pagare d’ora in poi tutti gli oneri contributivi, rientrando in un contesto di regole, di diritti e di doveri. 2 Superabile: Colf e Badanti Molte famiglie non ci sono state, non hanno voluto, non se la sono sentita. Gli esclusi dalla regolarizzazione da oggi rischiano grosso. Secondo il nuovo Decreto Sicurezza, chi dà lavoro a un irregolare va incontro a una condanna per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e a sanzioni per decine di migliaia di euro, colf e badanti senza permesso possono invece essere punite per il reato di ingresso e soggiorno illegale in Italia (multe da 5 a 10 mila euro) ed espulse. Per quanti hanno presentato la domanda, inizia invece una lunga attesa. Sportelli Unici per l’immigrazione e Questure sono già impegnati con flussi di ingresso e ricongiungimenti familiari, hanno montagne di arretrati e ancora attendono rinforzi. Nelle province con più richieste, ci vorrà certo più di un anno prima di poter firmare il contratto e chiedere, finalmente, il permesso di soggiorno. 3. Il contratto collettivo nazionale. Il lavoro delle collaboratrici domestiche (colf) e delle assistenti familiari (badanti) rientra nel quadro del lavoro domestico. Il rapporto di lavoro è regolato dall’attuale CONTRATTO COLLETTIVO NAZIONALE DI LAVORO SULLA DISCIPLINA DEL RAPPORTO DI LAVORO DOMESTICO, entrato in vigore il 01/0372007. (Decorrenza 1° marzo 2007 – Scadenza 28 febbraio 2011) . Con l’entrata in vigore del contratto collettivo nazionale avviene quindi il riconoscimento contrattuale della figura professionale di colf e badanti. Le controparti stipulanti sono state, da una parte: - FIDALDO – FEDERAZIONE ITALIANA DATORI DI LAVORO DOMESTICO aderente a Confedilizia, costituita da: Nuova Collaborazione, Assindatcolf, Associazione Datori di Lavoro di Collaboratori Domestici, Associazione Datori Lavoro Domestico - DOMINA – ASSOCIAZIONE NAZIONALE DATORI DI LAVORO DOMESTICO e dall’altra parte - la FEDERAZIONE ITALIANA LAVORATORI COMMERCIO, TURISMO E SERVIZI (FILCAMSCGIL) - la FEDERAZIONE ITALIANA SINDACATI ADDETTI AI SERVIZI COMMERCIALI AFFINI E DEL TURISMO (FISASCAT-CISL) - la UNIONE ITALIANA LAVORATORI TURISMO COMMERCIO E SERVIZI (UILTuCS-UIL) - FEDERCOLF, FEDERAZIONE SINDACALE DEI LAVORATORI A SERVIZIO DELL’UOMO A seconda delle mansione che svolgono le collaboratrici domestiche (colf) e le assistenti familiari (badanti) vengono inquadrate in uno degli 8 livelli previsti dal contratto ai quali corrispondono diverse retribuzioni. La “scala” parte dai collaboratori domestici alle prime armi (livello A) e arriva alle assistenti familiari con adeguata formazione che assistono persone non autosufficienti (Livello D Super). Le assistenti familiari (badanti) sono inquadrate nei livelli: - B super (Assistente a persone autosufficienti, valore mensile per l’ anno 2009 Euro 776,62,), - C super (Assistente a persone non autosufficienti non formato, valore mensile per l’ anno 2009 Euro 880,17) - D super (Assistente a persone non autosufficienti formato, valore mensile per l’ anno 2009 Euro 1087,27). Per le assistenti conviventi sono previste un massimo di 54 ore di lavoro a settimana, oltre le quali è dovuto lo straordinario, mentre scendono a 40 le ore settimanali per le non conviventi. Ogni rapporto di lavoro contiene condizioni economiche diverse che non devono essere in contrasto con il contratto collettivo. Le parti non possono mai concordare una retribuzione inferiore ai minimi contrattuali. Vanno specificati l’orario di lavoro, le ferie, il giorno di riposo settimanale e la mezza giornata di riposa infrasettimanale. Il contratto collettivo specifica le ore di permesso retribuito (40) di cui possono usufruire le assistenti familiari per frequentare corsi di formazione professionale, disciplina il lavoro ripartito, (grazie al quale 2 lavoratori assumono un’unica obbligazione lavorativa e possono dividersi lo stesso posto, accordandosi la sostituzione fra di loro su giorni e orari) e l’interruzione del rapporto di lavoro sia per licenziamento, dimissioni oppure scadenza del contratto a tempo determinato. Molti sono gli aspetti il regolati dal contratto di lavoro, tra cui: 1) le prestazioni notturne divise, in discontinue prestazioni assistenziali notturne (di cura alla persona) comprese tra le 20.00 e le 8.00 e le prestazioni notturne esclusivamente d'attesa (presenza notturna) comprese tra le 21.00 e le 8.00. 2) l’obbligo di vitto e alloggio a carico del datore di lavoro se il lavoratore è convivente o se ha un orario giornaliero pari o superiore alle 6 ore. 3) il periodo di prova che è retribuito ed è di 30 giorni per il livello D Super e di 8 giorni per gli altri livelli, superato il quale il 4) 5) 6) 7) 8) 9) 10) lavoratore viene automaticamente confermato. Il riposo giornaliero per il lavoratore convivente, che ha diritto ad 11 ore consecutive nell’arco della stessa giornata e ad un riposo intermedio non retribuito non inferiore alle 2 ore giornaliere, normalmente nelle ore pomeridiane. gli straordinari, con maggiorazioni orarie del 25% per prestazioni tra le ore 6.00 alle ore 22.00, del 50% per prestazioni tra le ore 22.00 alle ore 6.00, 40% per prestazioni nelle 12 ore di riposo settimanale, 60% per prestazioni nella giornata di riposo domenicale o nei giorni festivi e del 10% per prestazioni eccedenti le 40 ore settimanali tra le ore 6.00 alle ore 22.00 per lavoratori non conviventi. il riposo settimanale che è di 36 ore, da godere 24 ore di domenica, e le altre 12 ore in altro giorno della settimana, da concordare. le giornate festive riconosciute, in cui il lavoratore ha diritto al riposo e alla retribuzione. le ferie, che sono irrinunciabili, vengono pagate e comprendono un periodo di 26 giorni lavorativi all’anno. la tredicesima mensilità di retribuzione aggiuntiva, che viene percepita entro il mese di dicembre in occasione del Natale. il trattamento di fine rapporto di lavoro (TFR). Per quanto riguarda le tutele previdenziali, le assistenti familiari possono beneficiare dell’indennità di disoccupazione, dell’assegno al nucleo familiare, dell’indennità di malattia, delle prestazioni di infortunio o malattia professionale, dell’indennità di maternità (2 mesi prima del parto e 3 mesi successivi) pari all’80% della retribuzione, dell’indennità per Congedo Parentale per assistere i figli minori di 8 anni in cui il lavoratore riceve un’indennità pari al 30% della retribuzione. L’indennità di maternità e di congedo parentale è pagata dal datore di lavoro poi rimborsato dall’INPS con il conguaglio dei contributi. Ogni trimestre, a scadenze fisse, i datori di lavoro versano i contributi per l’assistente familiare impiegata. I contributi vengono utilizzati da Inps e Inail per liquidare alcune indennità (disoccupazione, malattie e maternità, infortunio sul lavoro e assegni familiari) e anche per il trattamento pensionistico. Al termine del rapporto di lavoro al lavoratore spetta il trattamento di fine rapporto. Il diritto alla pensione matura per i lavoratori stranieri con le stesse regole valide per gli italiani. Analisi dei lavoratori impiegati nel settore domestico. 1 milione sono, secondo stime, le donne immigrate che si prendono cura delle nostre famiglie. Si tratta in prevalenza di donne tra i 30 e i 50 anni, immigrate in Italia dai paesi dell’Europa dell’Est, dal Sud America, dall’Africa in cerca di lavoro. Secondo i dati INAIL dell’ottobre 2008, nel settore dell’assistenza familiare a livello nazionale 1 lavoratore su 4 è rumeno. In Piemonte I dati relativi alle provenienze principali vedono una netta prevalenza dell'Europa dell'est, con il 69,7% (in particolare Romania, ma anche Ucraina, Moldavia, Albania, Russia), cui seguono America Latina con 15,6% (Perù, Ecuador, Brasile). Africa con 12,4% (Marocco, Nigeria), Asia con il 2,3% 3 (Cina, Filippine). 3 www.piemonteimmigrazione.it CARATTERISTICE DEL GRUPPO LAVORATIVO ANALIZZATO Le dinamiche di mercato Le donne straniere stanno rappresentando una risposta alle trasformazioni della società italiana, evidenziate nei mutamenti economici, demografici, familiari e sociali, che riguardano fondamentalmente l’aumento della popolazione anziana, l’attiva partecipazione delle donne al mercato del lavoro, la difficile gestione della doppia presenza nel lavoro e in famiglia, la mancata redistribuzione dei compiti tra uomini e donne, la copertura limitata dei servizi pubblici nell’assistenza domiciliare. Le dinamiche di domanda e di offerta del mercato privato della cura si innestano sul mondo problematico degli anziani. Nell’attuale contesto italiano emergono molteplici fragilità e difficoltà nella relazione tra assistenti familiari, anziani e famiglie, tra cui si evidenziano: - I processi di discriminazione subiti dalle assistenti straniere, nell’ambito di un lavoro poco tutelato, scarsamente remunerato e spesso irregolare a livello contrattuale; - La problematicità della condizione di dipendenza e di debolezza dell’anziano non autosufficiente - La complessa questione della responsabilità della cura all’interno delle famiglie, in cui le donne, di frequente, assumono il ruolo di caregiver, in modo gratuito, naturale e dato per scontato Le collaboratrici domestiche e le assistenti familiari immigrate sono diventate una componente consolidata del sistema dei servizi alla persona; la sanatoria del 2002 ha trasformato le famiglie in datori di lavoro, in un settore dove non sono richieste conoscenze e competenze pregresse. Il vitto e l’alloggio di solito vengono compresi nell’offerta di lavoro e non essere regolari a livello di permesso di soggiorno e/o contratto di lavoro può risultare in apparenza essere più conveniente per tutti i soggetti coinvolti. Se le assistenti famigliari possono essere una risposta flessibile e vantaggiosa (ma di bassa professionalità e limitate garanzie per la salute delle persone coinvolte), è ancora più grave l’irregolarità nei contratti di lavoro, in particolare sul piano contributivo. Il lavoro di cura, anche se configura un modello di welfare definito come nascosto, semisommerso, poco visibile, segmentato, viene regolato dalle domande delle famiglie e dall’offerta di una forza lavoro, in prevalenza femminile e straniera, che trova in questo settore un primo canale precario e poco tutelato di inserimento lavorativo e abitativo sul territorio italiano. Le famiglie trovano invece soluzioni individuali e private dentro le mura domestiche, attraverso un lavoro scarsamente qualificato, sottopagato e poco tutelato. La regolarizzazione realizzatasi a settembre 2009 e chiusasi con 294.744 domande di assunzione di lavoratori non comunitari come collaboratori familiari o badanti, ha evidenziato ancora una volta la complementarità tra esigenze della popolazione italiana e disponibilità di quella immigrata. Inoltre, con alcune ulteriori accortezze, il provvedimento avrebbe consentito l’emersione di un numero maggiore di persone, con benefici innegabili non solo per esse stesse e per le famiglie da assistere, ma anche per lo Stato: l’operazione ha fruttato, infatti, 154 milioni di euro in contributi arretrati e marche, mentre nel periodo 2010-2012 farà entrare nelle casse dell’Inps 1,3 miliardi di euro supplementari. TARGET GROUP di lavoratori analizzato. L’indagine sociologica svolta nell’ambito del progetto SolidAssistenza in una prima fase ha utilizzato una metodologia qualitativa basandosi su interviste semi-strutturare realizzate con un gruppo di 50 donne che hanno permesso di precisare le ipotesi alla base del questionario strutturato somministrato ad un campione di 500 assistenti - che si è posto l’obiettivo di indagare la qualità della vita delle lavoratrici straniere tra esperienza migratoria e di lavoro, condizione familiare, progetti di formazione e di vita. Indagine qualitativa. Il campione intervistato di prevalenza femminile, rispecchia la predominanza delle donne nel lavoro di cura, dove di 50 interviste solo 3 sono uomini. Il 50% delle donne intervistate provengono dall’Europa centro orientale (Ucraina, Moldavia, Romania, Russia e Albania), il 16% provengono dall’Africa, in particolare del Maghreb, il 20% dall’America Latina (Perú, Ecuador), il 4% sono filippine e 10% italiane. In quanto all’età, il gruppo più numeroso e compreso tra i 30 e i 50 anni; A livello di condizione contrattuale, il 18% dichiara di non avere nessun contratto, il 6% ha un contratto a tempo determinato, il 6% un contratto di collaborazione e il 70% un contratto a tempo indeterminato. Il 12% non è in possesso del permesso di soggiorno. In quanto al percorso formativo, il 24% è in possesso di una istruzione di base (fino a 14 anni circa), il 16% possiede una qualifica professionale (cuoca, sarta, segretaria, operatrice socio-sanitaria), il 32% possiede il diploma e il 28% ha compiuto studi universitari. Molte sono qualificate in ambiti dell’assistenza sociosanitaria (infermieri, operatrici sociosanitarie, medici) di cui alcune (12%) hanno ottenuto il riconoscimento del livello di formazione pregresso, frequentando e qualificandosi come OSS (Operatore Socio Sanitario) o ADEST (Assistente domiciliare e dei servizi tutelari). Per quanto riguarda la condizione familiare ed abitativa, quasi la metà delle assistenti familiari (44%) convive con l’anziano per cui lavora, rimanendo a disposizione di giorno e di notte. Alcune sono da sole in Italia, poiché nubili o perché hanno lasciato marito e/o figli in patria; altre vivono con l’anziano e un figlio ricongiunto; altre invece se vivono laddove lavorano, hanno mariti e figli che vivono in appartamenti propri, vicino alla residenza dell’anziano assistito. Il resto delle donne svolge orario diurno presso l’abitazione dell’anziano, solo una svolge un turno di notte. Vi sono anche donne separate o divorziate che vivono con i figli, con compagni italiani, con altri familiari o amici. Indagine quantitativa. Nell’indagine quantitativa sulla qualità della vita delle assistenti familiari si è proceduto con la somministrazione di un questionario strutturato in 68 domande a risposta chiusa, a un campione di 503 donne provenienti di 31 nazionalità diverse distribuito a quote di 100 assistenti familiari regolari per ogni territorio provinciale (Alessandria, Asti, Cuneo, Novara, Vercelli), da cui solo il 0,6% é in possesso della cittadinanza italiana, dimostrando un radicamento ancora debole nel contesto nazionale, a livello del loro riconoscimento politico. In quanto riguarda l’età del campione, sono più anziane (con più di 40 anni) le ucraine e le donne provenienti da altri paesi europei, sono invece più giovani (meno di 40) le marocchine, le rumene e le latinoamericane. Le donne che svolgono il lavoro di cura hanno titoli di studio medio-alti (quasi i ¾ sono diplomate, hanno frequentato l’università o sono laureate), mentre meno di ¼ ha solo una scolarizzazione di base; nonostante ciò, i titoli di studio posseduti non sono funzionali al lavoro di assistenza. I dati sulle professioni svolte nel paese d’origine mostrano che il 26.4% del campione è costituito da operarie, il 22,7% ha svolto un lavoro impiegatizio, il 13,9% sono state disoccupate, mentre il 9,1% erano insegnanti, l’8,2% lavoravano nel settore dell’assistenza, il 4,4% nel lavoro domestico, mentre il 7,4% è costituito da dirigenti e lavoratrici autonome. Considerando lo stato civile delle donne si osserva che circa la metà (48,3%) è coniugata, il 20% è separata o divorziata, il 16% è single e nubile, l’8% vedova e il 5% convive con un compagno. Dell’analisi della condizione abitativa delle assistenti familiari, i dati confermano che nel 58,7% dei casi la donna non vive con la famiglia, mentre il 34,6% delle intervistate vive con coniuge o figli o altri parenti. La maggioranza del campione (58,4%) è costituito di lavoratrici co-residenti con l’anziano, mentre il 31% lavora solo di giorno nella abitazione dell’assistito, e sono poche (2,8%) quelle che fanno il turno di notte. Invece, per le donne coniugate, è minore la percentuale di quelle che coabitano con l’assistito, che viene ridotta di circa 10 punti rispetto a quelle che non convivono. In quanto al tipo di migrazione, si è in presenza di una migrazione di donne capofamiglia o primo migranti (3/4 del campione) in cui le moglie (76%) o le madri (65%) a migrare per prima, invece le donne sole o senza figli costituiscono una minoranza esigua. Molte di loro, come responsabili dell’economia familiare, fanno crescere i figli in patria, affidandoli a familiari e parenti, e svolgono a distanza il loro ruolo materno. CONDIZIONI LAVORATIVE GRUPPO ANALIZZATO DEL Il Percorso migratorio e il lavoro di cura Le donne che scelgono di migrare per lavorare nel campo dell’assistenza agli anziani, in modalità fissa o co-residente, possono avere motivazioni differenti: per alcune, quelle che partono da sole, la migrazione rappresenta una possibilità di emancipazione dall’uomo e di affermazione della propria autonomia; per altre implica migrare per prime, nella consapevolezza di essere le più adatte ad inserirsi nel mercato del lavoro italiano, ma con un progetto di ricongiungimento familiare (figli e marito); infine, per altre ancora, la partenza ha una motivazione strumentale di mero guadagno, per poter poi rientrare rapidamente in patria. Motivazioni della migrazione Tra le motivazione principali che hanno influito sulla scelta di partire dal proprio paese, in risposta alla domanda del questionario “qual è il motivo fondamentale per cui ha deciso di venire in Italia?” le donne lavoratrici segnalano maggiormente i fattori di espulsione piuttosto che quelli di attrazione. Per il 40% del campione i problemi economici familiari, particolarmente gravi per le donne rumene, sono riconosciuti come principali fattori da cui scaturisce la decisione di migrare. Seguono le condizioni oggettive di crisi economica e politica del proprio paese d’origine (20%): in totale oltre il 60% del campione attribuisce a tali aspetti un’importanza fondamentale. I fattori di espulsione strutturali caratterizzano in particolare le donne provenienti dai paesi europei, dall’America Latina e dall’Ucraina. I problemi economici familiari sono più gravi per rumene, latinoamericane ed ucraine. Le cause di espulsione della migrazione sono descritte nel racconto di alcune donne intervistate: “Sono i tempi brutti e le difficoltà economiche che abbiamo adesso nel nostro paese. Siamo arrivati qui per lavoro. Non conta l’età, non conta assolutamente niente. Io ho 53 anni compiuti, sto qui. Speriamo nel miglioramento delle condizioni nel nostro paese. Per adesso non si vede assolutamente niente e per questo dobbiamo farci coraggio, forza e tirare avanti con il lavoro che c’è (41)” “In quel periodo c’era una forte inflazione nel mio paese e non si poteva più andare avanti con la famiglia (3)” “Prima sono entrata come turista. Pensavo: qualcosa trovo, qualcosa prendo e poi torno presto. Invece dopo è morto mio suocero, avevamo bisogno di soldi e d’accordo con mio marito ho deciso: io rimango qui (44). Per quanto riguarda i fattori di attrazione, circa il 16% del campione intervistato imputa la decisione di migrare in Italia ad aspetti come la differenza di salario e la facilità dell’inserimento nel mercato del lavoro, in particolare sottolineata dalle donne dell’area Maghreb. L’attrazione per l’Italia è più esplicita per le magrebine. Il ricongiungimento familiare caratterizza soprattutto le nordafricane e le albanesi. “Sono venuta in Italia perché speravo di trovare qualcosa di meglio di quello che avevo nel mio paese (1)” “Qui c’è lavoro per me e mio marito e anche i miei figli stanno meglio (10)” “Mi sono fermata perché sapevo che qui in Italia c’è bisogno di persone per assistere le persone anziane (41)” Modalità d’ingresso. irregolarità. Regolarità ed Per quanto riguarda la modalità di ingresso, il visto turistico (della durata di tre mesi, acquistato in agenzie turistiche specializzate nel paese di origine) sembra essere la strada di accesso più comune e riguarda il 60% delle donne. È importante distinguere la presenza delle cosiddette overstayers, giunte in Italia in maniera regolare con apparenti motivi di turismo e poi prolungano la permanenza oltre i tre mesi per inserirsi nel mercato del lavoro, dalle clandestine vere e proprie che, in Italia, non sono così numerose. La quota di coloro che dichiarano di essere entrate in maniera irregolare, senza alcun visto, è del 17%, mentre sono il 12,8% le donne ricongiunte (ricongiungimento familiare) e 6% quelle giunte con un visto per lavoro, anche se questo è nella maggior parte dei casi l’unico reale motivo della migrazione. L’aumento dell’immigrazione irregolare, in sintesi, oltre che il fenomeno degli ingressi clandestini, è dovuto a coloro che si fermano sul territorio oltre la scadenza del visto. La vocazione turistica dell’Italia agevola tale prassi e talvolta proprio le immigrate utilizzano i visti turistici per alternarsi sullo stesso posto di lavoro. L’immigrazione/permanenza irregolare poi alimenta l’occupazione irregolare. Il percorso più comune (riguardante il 70% circa del campione e soprattutto le europee) si caratterizza quindi per una prima fase di irregolarità cui segue successiva regolarizzazione. La reiterazione, le corso degli anni, di regolarizzazione per sanare la condizione degli stranieri presente irregolarmente in Italia 8sanatoria 2002 e sanatoria 2009) legittima, in qualche misura, la pratica dell’entrata irregolare. Il 20% del campione intervistato si è regolarizzato nel 2002, l’anno della grande regolarizzazione di assistenti e lavoratrici domestiche. “Sono arrivata in Italia nel 1999 come turista in aereo ed il viaggio mi è costato 1200 dollari; sono venuta da sola. Sono entrata con visto turistico e poi sono diventata clandestina e nel 2002 mi sono regolarizzata con la sanatoria (3)”. “Sono entrata come turista in modo regolare poi sono diventata clandestina; dopo alcuni mesi ho trovato un datore di lavoro che mi ha fatto avere i documenti profittando del decreto flussi del 2004 con un contratto stagionale in agricoltura per 9 mesi; nel 2005 ho avuto un altro contratto uguale ed ho dovuto pagarmi tutte le spese contributive e previdenziali, che sarebbero state a carico del datore di lavoro. Ho anche dovuto subire ricatti, umiliazione e minacce come una bestia. Adesso prego Dio di poter essere fortunata ed ottenere un contratto a tempo indeterminato e poter finalmente regolarizzare la mia posizione in maniera definitiva (1). Tra le donne contraddistinte da un percorso di regolarità (nel assaggio tra visto e permesso di soggiorno) si delineano tre percorsi diversi: - Visto per motivi familiari: il gruppo delle mogli giunte per ricongiungimento familiare costituisce il 39% delle regolari - Visto turistico: il gruppo di turiste che hanno trasformato il visto turistico in permesso con finalità di turismo costituisce il 21% delle regolari - Visto per lavoro: il gruppo delle lavoratrici, donne che all’inizio del percorso migratorio hanno una motivazione di lavoro riconosciuta legalmente nei visti e nei permessi di soggiorno ottenuti costituisce il 15% delle regolari “Sono venuta in maniera regolare, con un contratto a richiesta…… perché in Italia c’era mia sorella, è lei che mi ha dato questa possibilità e mi ha detto che c’era lavoro. Adesso vivo da sei anni in Italia e provengo da Lima, in Perù (4)” Vantaggi della regolarizzazione Il 52,6% del campione sostiene che diventare regolari, a livello di soggiorno, offre sicurezza e tutela da parte della legge: se si è in regola si è titolari di diritti, si viene riconosciuti come persone, si può uscire dall’invisibilità e dalla marginalità. Il desiderio di tutela è maggiore per le donne con un’età più avanzata. Per il 19,9% del campione questa sicurezza diventa una vera e propria difesa: la regolarità rendi possibile superare la paura dell’espulsione. Una percentuale minore riconosce invece il valore di sentirsi cittadina (8,8%). Per altre la regolarità tutela lo sfruttamento lavorativo, anche se la famiglia dell’anziano – ovvero i datori di lavoro – può avere un ruolo promozionale nel momento in cui favorisce e suggerisce la regolarizzazione. I cambiamenti più significativi citati dal campione - avvenuti in seguito alla regolarizzazione – sono: - in primo luogo essere regolari dà l’opportunità di tornare in patria più di frequente per andare a trovare la famiglia senza correre il rischio di non poter più rientrare in Italia (46% del campione) - dalla regolarità del soggiorno deriva la possibilità di avere un contratto (23%) e di rivendicare i propri diritti (17,4%) - la possibilità di poter effettuare il ricongiungimento familiare offre la prospettiva di far rimanere la propria famiglia a tempo indeterminato sul territorio italiano; le regolari possono comprare o affittare una casa, ma anche chiedere un prestito - sul lavoro, la regolarità dà diritto al riposo, ad aspirare ad un lavoro diverso dall’assistenza agli anziani - alla regolarità si collegano diritti sociali come l’iscrizione al sistema sanitario nazionale, il diritto alla pensione, ecc. - infine una sicurezza emotiva, una sensazione di libertà nel camminare per strada senza timore né tremore Accesso al mercato del lavoro domestico Alla domanda del questionario “prima della partenza aveva un’idea del tipo di lavoro che avrebbe trovato in Italia?” circa il 52% del campione dichiarava di non avere avuto nessuna conoscenza del lavoro che avrebbe potuto svolgere in Italia e, quindi, di non possedere informazioni sul mercato del lavoro italiano. Il gruppo delle “disinformate” all’oscuro delle prospettive lavorative offerte dall’Italia costituisce il gruppo più a rischio di sfruttamento e discriminazione. Tra coloro che dichiarano di aver posseduto una consapevolezza dell’offerta di lavoro in Italia (46,3%) - in prevalenza donne arrivate di recente (a partire dal 2001), in genere più anziane, rassegnate a svolgere lavori da straniere e provenienti in genere da paesi dell’Europa dell’est – un dato emerge con chiarezza: l’81,6% pensa che un’immigrata non possa svolgere altra professione che l’assistente familiare o la collaboratrice domestica. Le fonti di informazione più diffuse sono relative a canali informali: il 65% del campione è stato aiutato attraverso il passaparola e il contatto con parenti, conoscenti e connazionali che hanno lavorato o lavorano in Italia. L’esistenza di reti di parenti o connazionali in Italia è superiore alla media per ucraine e rumene (78% e 76%), inferiore per latinoamericane (48%) e maghrebine (51%). Anche i canali di ricerca e di accesso al mercato del lavoro italiano sono caratterizzati da un alto livello di informalità. Le reti relazionali in cui sono inserite le donne funzionano collocando in nicchie etniche di lavoro – come l’assistenza agli anziani facilitando quindi l’accesso al mondo del lavoro, ma solo ad uno specifico e determinato settore, da cui è quasi impossibile uscire. Si tratta di reti di connazionali (46%) e di autoctoni (22,6%) che hanno assunto nel tempo un ruolo sempre più importante e strategico per la collocazione dei migranti nel mercato del lavoro e che rappresentano il capitale sociale delle assistenti familiari: l’amica che ospita in casa e offre referenze alla famiglia italiana (e che spesso richiede di essere compensata in denaro per la prestazione), le istituzioni di orientamento cattolico (16% dei casi), in particolare per le comunità di religione cattolica proveniente da America latina o paesi dell’Europa dell’est. “Ho trovato questo lavoro tramite una conoscente di una mia amica, che mi ha fatto pagare 250 euro solo per essere raccomandata da lei alla famiglia dove lavoro adesso (19)” “Un’amica mia ha aiutato, ha trovato, dove la mia amica lavorava, il nipote della mia signora – lei è senza figlie – cercava una badante, e lei ha detto “senti, io ho una mia amica,, lei è brava, se volete io chiamo lei”. E lui ha detto “va bene, chiama”. E allora lei mi ha chiamato (37) Nessun altro soggetto pubblico o privato viene indicato dalle donne del campione come ente in grado di intervenire in questo mercato privato – e destrutturato – della cura: le donne si collocano nelle famiglie italiane attraverso reti di connazionali, contatti personali, intermediazione delle parrocchie, mentre si manifestano le difficoltà degli enti pubblici nella gestione di questo immenso mercato privato di domanda e offerta di lavoro, la cui gestione si traduce nell’incontro tra domanda e offerta, nella contrattazione diretta che dipende dall’arbitrarietà e dalla buona volontà dei singoli. La questione diventa complessa quando appaiono sulla scena attori non troppo corretti (assistenti approfittatrici, anziani pericolosi, famiglie sfruttatrici). La relazione lavorativa diventa, quindi, un incontro e uno scontro tra persone in stato di necessità, in cui ognuno cerca di rispondere ad un bisogno, un’esigenza di lavoro, di assistenza, di sostituzione nel proprio ruolo di caregiver, ma che si risolve nel trovare soluzioni di emergenza – precarie, provvisorie, informali, basate sul “fai da te” – che nel lungo periodo non sono conveniente per nessuno dei soggetti in gioco. “La badanza non esiste in termini di professionalità. Esiste la necessità di una persona e esiste la necessità di un’alta persona che si scontrano. La famiglia quando pensa alla badante non pensa alla professionalità che questa esprime, ha necessità che qualcuno accetti un contratto a 25 ore (Focus Group, Alessandria). Le prime assistenti familiari provenivano dai continenti africano e asiatico, ma con la forte immigrazione prima dal Sud America poi dai Paesi dell’Est europeo, le africane hanno perso posti di lavoro perché le famiglie, avendo possibilità di assumere una persona bianca, la preferiscono ad una di colore poiché la sentono più vicina alla propria cultura. Normalmente sono le famiglie a scegliere l’assistente familiare, raramente la scelta è fatta personalmente dall’anziano. Le famiglie, dopo un primo approccio con la persona disponibile, si rivolgono agli Enti preposti per la messa in regola del rapporto di collaborazione (l’apertura della posizione all’Inps, all’Inail, le comunicazioni in Questura) e per avviare la gestione del rapporto di lavoro. In alcuni casi si rivolgono ai patronati di sindacati, Acli, ecc. per predisporre le buste paga, elaborare i punteggi dei contributi fino al termine del rapporto di lavoro ed essere tutelati qualora non venissero rispettati i patti. Condizione familiare ¾ del campione è composto da donne capofamiglia o primo migranti, in cui cioè sono soprattutto le mogli (76%) e le madri (65%) a migrare per prime. Una esegua minoranza è costituita da donne sole e senza figli. Le donne immigrate, che sono le principali responsabili dell’economia familiare, spesso sono costrette a far crescere i propri figli in patria, affidandoli a familiari e parenti. Per le donne senza una famiglia in Italia (58,7%), la coabitazione con l’assistito è la scelta prevalente, mentre la presenza di figli, del marito o di entrambi (34,6%) riduce notevolmente la disponibilità a vivere con l’anziano. Le donne che hanno lasciato in patria la loro famiglia sono combattute tra la possibilità di lavorare e di contribuire a raggiungere un benessere materiale, sacrificandosi per i propri familiari e le sofferenze per la mancanza delle persone care e la separazione dagli affetti. Sono sposata, ho due figli che si stanno laureando. Se fosse la tua mamma al mio posto, tu come la prenderesti? I primi tempi era orribile, era una tragedia. I miei familiari mi dicevano “non abbiamo bisogno di niente, torna a casa”. Io non vorrei che i i miei figli venissero qua (12). Per le madri, il rapporto con i figli lasciati al Paese di origine costituisce un legame importante, che rende maggiormente accettabile la migrazione e le faticose condizioni di lavoro, nell’ottica di dare loro un futuro migliore. In alcuni casi sono donne che hanno superato i cinquanta anni di età e che, dopo aver raggiunto la pensione nel Paese d’origine, hanno la necessità di aumentare le entrate economiche per sé e per la propria famiglia, e quindi giungono in Italia per far fronte a spese improvvise (ad es. un’operazione costosa) o necessarie (ad es. gli studi universitari dei figli). “La mia famiglia è nel mio paese d’origine, in Moldavia. Ho due figli grandi, di 32 e 33 anni, sono nonna di quattro nipoti. Io sono qui e mio marito alla sua età non può venire a trovare un lavoro qui, per questo non ho fatto il ricongiungimento. Faccio tutto io per aiutare tante famiglie, a tutti quanti. (41) Le donne coniugate hanno dal canto loro un’ulteriore preoccupazione latente: temono che la distanza e la lontananza fisica e affettiva possa incidere sul rapporto di coppia con il marito. Per tutte loro la migrazione si rivela come un evento che mette alla prova la solidità dei legami amorosi: i vecchi legami possono finire, portando a separazioni e divorzi, possono nascere nuovi amori con connazionali o con italiani che incidono sulle loro scelte e sui progetti di vita. Tra le donne immigrate è diffusa la pratica di spedire a casa una quantità di denaro che coincide con una somma che va dalla metà a quasi tutto quello che guadagnano all’estero. L’82,5% delle donne del campione, infatti, sostiene di inviare abitualmente denaro alla famiglia rimasta in patria, e tra coloro che vivono presso gli anziani che assistono, la percentuale supera il 90%. L’utilizzo delle rimesse in patria per mantenere i figli a scuola e mantenere i propri genitori raggiunge il 56,%, quelle per acquistare la casa il 16,%, mentre quelle per avviare un’attività in proprio solo il 3%. Le madri dei Paesi dell’Est emigrano per aiutare i figli a prepararsi un avvenire migliore, offrendo loro la possibilità di studiare fino al diploma o la laurea-. Per le assistenti familiari di altre provenienze, come Africa e America Latina, vi è soprattutto l’impegno verso la famiglia di origine che si è indebitata pesantemente per permettere il viaggio. In genere i guadagni vengono introdotti in Patria per via informale. Le rimesse costituiscono un ruolo centrale nella riproduzione materiale e simbolica di un network familiare esteso al di là dei confini domestici e territoriali. Per quanto riguarda l’utilizzo delle rimesse, i soldi sono destinati principalmente al mantenimento della famiglia rimasta in patria: per il 30% del campione intervistato sono destinati al sostegno dei figli negli studi, il 29,% li invia ai genitori e alle famiglie in difficoltà, mentre per il 16,% sono destinati all’acquisto di un bene immobile (casa). La preoccupazione delle donne madri è pertanto quella di mantenere i figli negli studi e di aumentare il capitale culturale della famiglia, nella speranza che si traduca in una mobilità socioeconomica, oppure ci si propone di aiutare economicamente i membri del nucleo familiare. Le singles, invece, destinano i loro soldi alla famiglia d’origine ovvero ai genitori, ed emerge una situazione paradossale di donne che migrano per mantenere economicamente i propri genitori anziani, prendendosi cura di altri anziani in Italia. Si evidenzia il fatto che le rimesse costituiscono solo uno dei modi per restare in contatto con la propria famiglia, seppur a distanza: le donne utilizzano molteplici modalità per tenere viva la relazione e la comunicazione, per telefono, attraverso i messaggi, le lettere, le fotografie e i pacchi inviati con la corriera, e con l’utilizzo delle nuove tecnologie, per e-mail e via messenger. Nel percorso migratorio delle assistenti familiari questa situazione di disagio, sofferenza ed isolamento non può che essere una condizione transitoria. Se in un primo momento per le immigrate l’anziano rappresenta la famiglia lasciata in patria, con cui la coabitazione è un’occasione per intessere relazioni affettive e trovare una compagnia che permette di sfuggire al senso di solitudine, il ricongiungimento (di coniuge e/o figli) costituisce una vera e propria svolta, che impone necessarie trasformazioni nella propria esperienza lavorativa. Il passaggio della condizione di lavoro fissa al lavoro diurno, per esempio, costituisce un miglioramento in termini di disponibilità di tempo da dedicare ai propri cari. Ma nel contempo possono nascere nuovi problemi di relazione con i figli ricongiunti (che non riconoscono il genitore o che sono stati obbligati alla migrazione contro il loro volere), e si devono affrontare nuove difficoltà economiche per garantire la sussistenza a sé e alla propria famiglia, sostenendo per la prima volta le spese di vitto e alloggio, che prima erano a carico della famiglia presso cui si lavorava. “Ho sei figli qui in Italia e ancora una in Ecuador. Li vedo solo due ore al giorno, anche se sono vicini a me sembra che siano più lontani dall’Ecuador. E questo mi dispiace, soffro molto, mi sento quasi una schiava. I miei figli sentono la mia mancanza, ma non c’è alternativa: prendere o lasciare.(3)” Spesso le seconde generazioni vivono in famiglie monoparentali (in cui spesso il genitore presente è appunto la madre). Da un lato l’attività lavorativa a tempo pieno permette al genitore la possibilità di ottenere denaro e risorse per garantire un certo livello di benessere materiale ai figli presenti in Italia, ma dall’altro lato gli sottrae tempi e spazi da dedicare alla loro cura. La madre assume la totale responsabilità della crescita dei figli. Trovare un equilibrio tra il tempo per il lavoro e il tempo per i figli è un problema per tutte le donne che si trovano ad affrontare la sfida di un lavoro extradomestico, ma per le straniere si rivela ancora più complicato, poiché non hanno alcun sostegno da parte della famiglia allargata e svolgono un lavoro incompatibile a livello di orario proprio con i compiti familiari. Condizioni contrattuali Nel campione, il 37,9% afferma che solo una parte dello stipendio è evidenziato sulla busta paga, mentre il 17,4% lo riceve totalmente in nero; invece, solo il 41,3% delle intervistate riceve l’intero stipendio in busta paga. I servizi che si occupano di assistenti familiari da alcuni anni hanno avviato un coordinamento nell’ottica di garantire sia le famiglie sia le lavoratrici, in modo da superare la giungla in cui ciascuno cerca il proprio interesse a scapito di quello che, in quel momento, è in una posizione più debole. Per quanto riguarda il contratto di lavoro, il 74,8% del campione dichiara di averlo, invece il 18,7% dichiara di non averlo. La pratica dell’assumere senza contratto è particolarmente presente quando l’assistente familiare è priva di permesso di soggiorno ed avviene più frequentemente per coloro che provengono da Maghreb e America Latina. Per quanto riguarda il versamento dei contributi, il 47,5% delle assistenti afferma che è il datore di lavoro a versare i contributi, mentre il 25,9% versa la propria quota spettante. Dal campione emerge che il 63% fruisce delle ferie, mentre il 34% afferma di non aver fatto le ferie. Dato l’impegno continuativo, cui si devono aggiungere le difficoltà proprie di una persona straniera, le ferie dovrebbero essere assolutamente fruite per evitare pesanti ricadute sulla salute fisica e mentale. Un terzo delle intervistate, pur lavorando in modo continuativo tutto l’anno, non solo non fruisce delle ferie, ma i giorni che dovrebbero essere di ferie non vengono pagati come “straordinario”. Il lavoro di cura Per l’assistente familiare il poter vivere in casa dell’anziano significa, da un lato, essere sollevata dai problemi d’affitto, vitto e da tutte le spese relative all’abitazione, dall’altro comporta l’entrare in un sistema con tutte le problematiche ad esso connesse: oltre gestire ed accudire l’anziano, spesso l’assistente familiare conduce l’intero ménage della casa, si sobbarca le richieste discordanti tra figli e genitore, è sottoposta allo stress correlato all’aggravarsi della malattia e quindi della dipendenza, in particolare negli ultimi tempi di vita della persona assistita. Per la famiglia l’ingresso di una persona di cultura diversa può provocare una serie di problemi nella rete relazionale per la diversità di vedute e di orientamenti valoriali. In altre situazioni invece, la presenza dell’assistente proveniente da un’altra cultura è occasione per avviare elaborazioni interculturali: la famiglia italiana riscopre alcuni valori che aveva perso o accantonato per rincorrere obiettivi quali successo, competitività, sovrapposizione di ruoli, e la persona straniera può sviluppare processi di rielaborazione dei propri comportamenti e atteggiamenti. Sovente l’assistente familiare è considerata quasi come una sostituta dei figli, un’intermediaria tra i figli e il genitore. Di solito si cerca una donna sui 40-50 anni, perché una persona troppo giovane non riuscirebbe a seguire con sufficiente cura l’anziano, in quanto si annoierebbe a fargli compagnia, e una persona troppo anziana, ovviamente, non avrebbe la forza fisica per compiere azioni di cura indispensabili ad una persona non autosufficiente. Alcune famiglie si affezionano all’assistente familiare e, quando la persona anziana viene a mancare, si impegnano a cercare una soluzione alternativa, altre famiglie invece l’allontanano immediatamente senza preoccuparsi della precaria condizione in cui a volte l’assistente si viene a trovare. Le problematiche della salute delle persone anziane, alla base dell’assunzione di un’assistente familiare, sono fondamentalmente di due tipi: la demenza senile, per la quale le assistenti familiari non hanno quasi mai né conoscenze né competenze specifiche, pertanto rischiano facilmente di compromettere il proprio stato di salute, e le malattie geriatriche, che non richiedono competenze infermieristiche specifiche se i figli o il medico curante spiegano con chiarezza la terapia da somministrare ed i relativi tempi. Rimane comunque impegnativo, dal punto di vista psicologico, il rapporto relazionale per la prolungata permanenza accanto alla persona da assistere. Le famiglie chiedono esplicitamente all’assistente la conoscenza della lingua italiana per la conversazione con l’anziano, ma spesso non usano altrettanta chiarezza nella consegna circa le mansioni da svolgere e le modalità di comportamento, per cui possono nascere incomprensioni: ci si aspetta che il proprio genitore sia trattato con affetto, o che non si abbia un comportamento troppo direttivo, ma, nel contempo, le si affida una persona in toto, dall’assistenza infermieristica alla gestione della casa, dal fare compagnia fino ad una sorveglianza che esige che il malato sia continuamente controllato e guidato (nel caso di un malato di Alzheimer). “Al livello psicologico...(sospira) siccome l’anziano non sta bene con la testa devi essere con i nervi di ferro, sempre mi spinge, mi colpisce, mi sputa, sputa per terra. Neanche l’anziana è tanto a posto con la testa, spesso va fuori di se, comincia a gridare, a litigare con l’anziano, lui si innervosisce di più. Litigano spesso, due tre volte alla settimana, io mi metto tra loro per calmarli, spesso succede che lui la prende per capelli, la colpisce... (sospira). E’ uno stress permanente e mi fa tanto male la testa... (comincia a piangere).(13)” L’88,9% delle assistenti familiari intervistate svolge il proprio lavoro in casa dell’anziano, solo il 2,6% in case di riposo e il 0,4% in ospedali. Riguardo alle modalità di permanenza sul posto di lavoro, il 51,1% dichiara di rimanervi giorno e notte: anche se ciò non sempre vuol dire continuità di lavoro, inteso come mansioni da svolgere, significa comunque una presenza continuamente vigile e la certezza di essere facilmente disturbate. “Nessuna badante può dire con certezza quante ore lavora. Realmente lavoriamo 24 ore su 24. Come faccio a non alzarmi di notte quando la signora sta male, a dormire quando mi chiama di notte? Si può essere indifferenti, non avvicinarsi, non assistere una persona malata fuori orario di servizio? Il mio riposo è alla fine di settimana quando esco di casa. Nel mio contratto sono previste 40 ore settimanali, otto ore al giorno, ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare (19).” Il 34,1% afferma di essere occupata solo di giorno, mentre una percentuale molto bassa (2,7%) svolge il servizio di assistenza esclusivamente notturna. La permanenza sul posto di lavoro in modo continuativo (giorno e notte) decresce col crescere degli anni di permanenza in Italia; il che significa che, col tempo, le assistenti familiari cercano una soluzione più consona alla propria igiene mentale. La permanenza presso la casa dell’anziano di giorno e di notte è direttamente proporzionale allo stato di irregolarità e in molti casi diventa quasi una forma di complicità reciproca con conseguenze sullo stipendio e altre forme di ricatto. Il lavoro di cura coinvolge profondamente l’assistente familiare per i tempi lunghi dell’impegno, per la tipologia stessa del lavoro e per il vivere in casa dell’assistito. Dal campione si evince che il 56,7% dispone di una stanza propria, il 33,8% dorme nella stessa stanza dell’anziano o è sistemata in maniera precaria nella parte di corridoio attigua alla sua stanza. Il disporre o no di una stanza propria diventa un fattore discriminante di particolare significato per la qualità della vita: avere una stanza propria permette privacy, momenti di distacco, rifugio che offre un po’ di sollievo; il dormire nella stessa stanza con l’anziano significa ulteriori disagi durante la notte. I dati indicano che sono presenti classi di stipendio piuttosto diversificate, ma la retribuzione non dipende tanto dal numero di ore o dalla condizione dell’anziano, ma da condizioni fortuite, legate al fatto che il contratto viene stipulato in gran parte dai singoli contraenti. Le fasce di stipendio che registrano frequenze maggiori sono quelle tra 600 e 800 euro, con una percentuale del 47%, e tra 800 e 1.000 euro, con una percentuale del 26%. Consideriamo il fatto che spesso si tratta di donne straniere intenzionate a rimanere in Italia per pochi anni e per tanto disponibili ad accettare orari massacranti pur di guadagnare, nel più breve tempo possibile, quanto si sono prefisse prima di tornare in patria. Sono persone alla loro prima esperienza, in buona salute e pertanto con un alto grado di accettazione di orari prolungati, ma senza una precisa consapevolezza di eventuali ricadute future sulla propria salute. La loro condizione di vita diventa ancora più grave se non hanno l’opportunità di incontrare connazionali, sia perché la casa dell’anziano è sita in una zona decentrata e i mezzi pubblici sono radi o le fermate sono lontane, sia per la difficoltà di raggiungere la città più vicina nel tempo libero, che non sempre è sufficiente per consentire di andare, stare e tornare. Per ridurre e curare l’accumularsi dello stress, le assistenti familiari avrebbero bisogno della presenza di qualcuno che le ascolti e le capisca per esternare paure, eventuali angherie subite, stati di disagio, preoccupazioni. A volte, ciò che la persona desidera veramente è parlare: chiede di essere aiutata a dare un senso all’esperienza che sta vivendo, ha bisogno di sostegno psicologico per evitare crolli che, purtroppo, si verificano numerosi. Le mansioni da svolgere dovrebbero consistere nell'accudire l’anziano, senza intervenire a livello infermieristico. Siccome spesso gli anziani non hanno una disponibilità economica tale da poter assumere più persone per le varie mansioni, l’assistente familiare si trova a doversi far carico di tutto. L’urgenza di trovare un’assistente familiare che risolva il “problema anziano” pare sia il motivo fondamentale alla base della somma pattuita e delle modalità di pagamento (intero stipendio in busta, o parte in busta parte in nero), ma dipende anche del desiderio dell’assistente familiare di evitare di pagare le trattenute fiscali o ridurre i versamenti all’Inps. In un contesto di emergenza per entrambi le parti succede che non si tenga conto di alcuni elementi oggettivi come: situazione di salute dell’anziano, orario, sistemazione per dormire, ferie, ecc.; fattori che, se esplicitati, permetterebbero di definire con maggiore equità lo stipendio adeguato, il tempo libero necessario per recuperare l’equilibrio psicofisico, eventuali aiuti esterni, ecc. Ci sono assistenti familiari che contestano il fatto che la famiglia chieda le referenze senza offrire alcuna garanzia al momento dell’assunzione; le assistenti familiari vanno effettivamente incontro a situazioni a volte rischiose: ci sono anziani che al momento del contratto non lasciano trasparire nulla, poi quando inizia il rapporto di lavoro e l’assistente familiare è a casa loro, presentano richieste di altro tipo, da cui non è semplice venirne fuori perché l’assistente, soprattutto se è irregolare, teme di perdere il posto di lavoro. Ci sono casi di assistenti che vogliono lavorare il meno possibile, cercano una persona da assistere che sia il più “fuori di testa possibile”, per poter avere la casa a disposizione e usarla come vogliono, fino ad utilizzarla come “casa di appuntamenti”. Anche per quanto riguarda il rapporto con le colleghe si possono individuare comportamenti molto diversificati: alcune sfruttano il più possibile ogni occasione a proprio vantaggio: se desiderano cambiare famiglia, vendono il posto di lavoro a qualche connazionale per una cifra che spesso è pari a uno stipendio mensile e si fanno pagare per dare informazioni, altre invece offrono un aiuto disinteressato soprattutto alle nuove arrivate. Le condizioni di precarietà psicofisica dell’anziano di cui si deve occupare giorno e notte l’assistente familiare, da un lato, e la discrepanza tra le attese, immaginate partendo del proprio Paese, e la realtà, dall’altro permettono di sottolineare che, per occupazioni come questa, sia necessaria una formazione specifica, una preparazione psicologica mirata e un sostegno adeguato a questo ruolo. Il lavoro di cura dell’anziano non autosufficiente non può essere inteso come “occupazione rifugio” per donne straniere, perché ciò significherebbe che, per aiutare l’uno, si corre il rischio di mettere in difficoltà l’altra. Sono infatti numerose le assistenti familiari che denunciano malattie psicosomatiche, squilibri del comportamento (alcoolismo) o vere e proprie malattie psichiatriche. Il progettare tempi brevi di permanenza pone l’assistente familiare in una condizione di permanente estraneità, di passività circa l’integrazione e la ricerca di altre occupazioni; guadagnare tanto nel più breve tempo possibile è una strada quasi inevitabile di “autodistruzione”. Per il 36,2% delle assistenti familiari, il principale problema percepito come causa del loro disagio anche fisico, è la solitudine legata all’orario prolungato, al fatto di vivere sovente in ambienti ove gli orari dei mezzi pubblici sono poco compatibili con quelli del tempo libero, alla difficoltà di avviare nuove amicizie, ecc. I problemi di salute (25,2%) e gli stati di depressione (24,7%) mostrano percentuali abbastanza alte, che manifestano una condizione di malessere piuttosto diffusa. Si sono inoltre raccolti dati che riguardano casi di maltrattamento fisico (8,9% dei casi) e maltrattamento psichico (8,3%). In quanto alla fruizione dell’assistenza sanitaria, emerge che il 41,3% non si è mai rivolta al S.S.N. sia per la difficoltà di esprimere in italiano i sintomi del proprio malessere, sia perché molte non sanno di poterne fruire anche se non regolari e, quando ci si rivolge alle istituzioni in stato di clandestinità, c’è il timore dell’espulsione. L’assistente familiare ha la percezione di svolgere un’occupazione socialmente significativa, ma si rende conto che è poco stimata e, in molti casi, si colloca in una posizione deludente rispetto al proprio titolo di studio e alla professione svolta in patria. Il lavoro svolto in patria permette di capire l’entità del disagio di chi svolgeva attività intellettuali o professionali di un certo livello o prestigio e si trova ora a svolgere il ruolo di assistente familiare in un Paese straniero. Solo il 13,9% era disoccupata in patria, le altre svolgevano un lavoro, o non soddisfacente, o non rispondente al desiderio di migliorare la condizione socio-economica propria e della famiglia. Per molt, la professione svolta in patria evidenzia quanto fossero lontane dal lavoro di assistente familiare; emerge che il motivo determinante dell’emigrazione è quello di guadagnare, anche a costo di svolgere un lavoro umile e faticoso. Dall’analisi sul grado di soddisfazione delle assistenti familiari, attraverso la valutazione dei vari aspetti del proprio lavoro, emerge che vengono valutati prevalentemente tra poco e abbastanza: la retribuzione (81,3%), il riposo e tempo libero (73,7%), la sicurezza sul posto di lavoro (62,4%) e la varietà delle mansioni (60,9%); invece, presentano migliori valutazioni, tra abbastanza e molto: i rapporti con l’anziano (73,2%), i rapporti con la famiglia (67,4%) e l’utilità sociale del lavoro (58,8%). La consapevolezza di svolgere un lavoro utile, ma di percepirlo come molto impegnativo a livello psicofisico, induce a un giudizio severo sulla retribuzione percepita. Si può affermare invece, che una buona relazione con l’anziano sia il fattore più importante nell’attuale condizione delle assistenti familiari. Il lavoro di assistenza agli anziani, viene valutato dal campione come pesante dal 27,9%, utile dal 21,4%, poco considerato invece, dal 17,3% perché svolgendo un’attività delicata, che non solo non riceve un adeguato riconoscimento, sente riconfermata la sua condizione straniera nel fatto che nessuna italiana lo vorrebbe svolgere. Il 13,5% lo considera precario, in quanto il lavoro è legato alla sopravvivenza dell’assistito ed è segnato della difficoltà do trovare in tempi brevi un’altra persona per non trovarsi senza casa, senza stipendio e rischiare anche la perdita del permesso di soggiorno. L’82,1% delle assistenti familiari ritiene temporaneo questo lavoro, e solo il 14,5% lo considerano definitivo; invece, rispetto alle prossime decisioni, il 50,9% pensa di tornare in patria, mentre il 31% desidera il ricongiungimento dei propri familiari, hanno il desiderio di essere capofila di una catena familiare di immigrazione, certamente progettando un lavoro diverso di quello di cura. Prospettive per il futuro La maggioranza delle donne che svolge il lavoro di cura ha una vita appiattita sulla dimensione del presente e della quotidianità, permeata dai ricordi del passato ma che nega il futuro, denso di incertezze e paure. In queste donne lacerate e divise tra il Paese d’origine e l’Italia, tra il passato e il presente, può originarsi il desiderio e la volontà di radicarsi in un nuovo territorio senza perdere le proprie origini, uscendo della marginalità. Per molte, il termine di paragone rimane il Paese d’origine: per quanto sfruttate possano sentirsi, la propensione a percepirsi come fortunate rispetto a chi è rimasto a casa e ad accettare condizioni di lavoro pesanti è alta. Il 53,8% delle donne del campione non immagina il proprio futuro in Italia, ma manifesta l’intenzione di tornare in patria; il 30,8%, invece, propende per un ricongiungimento dei familiari (mariti e figli) in Italia, evidenziando un attaccamento al contesto d’immigrazione, nonché un desiderio di stabilizzarsi e radicarsi sul territorio italiano con tutta la propria famiglia. L’11,5% costituito da singles e ragazze giovani intende rimanere da sola in Italia. Le donne ultracinquantenni, in genere ucraine, hanno una maggiore propensione a tornare in patria, coabitano con l’anziano e hanno orari di lavoro molto lunghi, sono in grado di reggere in tali situazioni di sfruttamento (e autosfruttamento) solo per periodi di tempo determinato. “Nel futuro penso di tornare in patria, anzi vorrei farlo più presto possibile. Però per adesso non è ancora possibile perché mi serve una somma di denaro per poter cominciare in’attività in proprio. Io amo molto gli animali, perciò in futuro vorrei avere una fattoria e occuparmi dell’allevamento degli animali. Visto che mio marito è un medico veterinario, penso col suo aiuto di farcela.” “Stare un po’ qua per aiutare i figli, Ho paura però che un domani qua qualcosa cambiasse e qualcuno mi dicesse di andarmene via di qua. Mio marito tanto tempo fa non mi capiva, mi diceva di tornare perchè non può più vivere senza di me, adesso capisce che devo stare qua ancora un pochino.” “Tutti pensano di tornare a casa. Io sono arrivata qua in Italia con il pensiero di tornare a casa, quando mi hanno chiesto “quanto vuoi stare qua?”, ho risposto due anni”. Sono passati quasi sei anni.” “Ho proposto ad una donna ucraina “c’è un lavoro in una casa di riposo”. Lei guadagna 200 euro circa, ci ha pensato un pò e dopo mi ha richiamato. “No Padre, io devo anche pagare la casa, mangiare, tutto il resto. Sarò libera, però preferisco essere chiusa nella casa, ma avere di più, perché non sono qua per perdere ma per guadagnare dei soldi”. (Focus group, Novara)” Invece, le donne più giovani (sotto i 30 anni), hanno una minor propensione al rientro; vivono in Italia per conto loro o con qualche familiare. La stessa situazione si presenta per le donne separate o divorziate, che non hanno legami affettivi significativi per cui valga la pena rientrare nel Paese d’origine. Il ricongiungimento, prima dei figli, ma anche di mariti e genitori, appare una strategia più diffusa tra rumene, maghrebine e latinoamericane. Scarso interesse alla riunificazione della propria famiglia nel contesto italiano lo mostrano le donne ultracinquantenni, disposte a sacrificarsi temporaneamente per poi rientrare. Il progetto migratorio delle assistenti familiari dipende della percezione del proprio lavoro, inteso come prospettiva stabile o temporanea; per cui notevole è la percentuale (53,8%) di coloro che considerano temporaneo l’impegno nell’assistenza in previsione di un rientro in patria. Sebbene la condizione di lavoro come assistente agli anziani sia considerata transitoria dalla maggior parte delle donne, non sempre questo atteggiamento si traduce di un rientro in patria; molte vorrebbero migliorare la propria situazione di lavoro e cambiare possibilmente professione, per cui non c’è una coincidenza tra chi pensa che il lavoro sia temporaneo (82%) e chi pensa di tornare in patria (53,8%), e risulta evidente che chi intende rimanere in Italia, pensando di stabilizzarsi, non auspica di svolgere per tutta la vita un lavoro di cura. Dalle interviste si evince che il ritorno viene progettato solo quando si pensa di aver raggiunto gli obiettivi che ci si era preposti, dopo aver accumulato abbastanza denaro per vivere serenamente e aiutare tutti i familiari, per integrare la propria pensione o per avviare un’impresa; risulta invece un fenomeno diffuso tra le donne dell’Europa dell’est il prolungamento inconsapevole del progetto migratorio, in quanto esse partono con l’idea di trattenersi in Italia solo pochi mesi, e di tornare a casa con dei risparmi considerevoli, ma poi prolungano il loro soggiorno; tale atteggiamento ha ricadute negative sull’inserimento lavorativo delle donne che rimangono senza aver scelto di restare. Il ritorno è un orizzonte sempre vivo nella quotidianità delle donne e costituisce la speranza che dà la forza di resistere alle difficili condizioni di lavoro e di vita. L’altra importante prospettiva delle donne intervistate concerne il ricongiungimento familiare in Italia. Il desiderio di far arrivare il marito, i figli e i familiari, si trasforma in un senso di grande appagamento quando si realizza, poiché insieme al benessere economico e materiale raggiungono anche la soddisfazione affettiva. Il lavoro di assistenza agli anziani, nel caso in cui si desideri rimanere in Italia, non si considera definitivo perché obbliga le donne a stare lontane della propria famiglia; si intende, invece, migliorare la propria condizione, riprendendo gli studi oppure aprendo un ristorante tipico in Italia o svolgendo la professione esercitata in patria. Il lavoro di cura rappresenta l’inizio di un processo di emancipazione per la donna migrante, di ottenimento dell’indipendenza economica, una prima forma di promozione sociale delle immigrate che può preludere ad un miglioramento attraverso una formazione specifica sull’assistenza o sulla mediazione culturale. In questo senso, l’Italia viene considerata un Paese che offre lavoro e opportunità, anche quando non si vedono altre prospettive che quelle di svolgere il lavoro di assistenza per tutta la carriera lavorativa. Per alcune le aspettative per il futuro consistono in un desiderio di normalità, regolarità e legalità, negato loro da un percorso migratorio problematico e pieno di ostacoli; mettersi in regola a livello di permesso di soggiorno, avere un lavoro con un contratto, poter portare i propri figli in Italia, avere un letto matrimoniale in cui ricongiungersi con il proprio marito sono alcune tra le aspirazioni delle intervistate. A proposito della seconda generazione, molto forte è la fiducia delle mamme straniere nella scuola e nella formazione, considerate i principali canali di mobilità sociale in Italia per i propri figli. Si desidera che loro riescano ad avere successo nel contesto d’immigrazione e si rifiuta quindi l’idea di un loro inserimento in lavori poco qualificati, come è accaduto per i genitori. Spesso sono figli che si collocano a cavallo tra la prima e la seconda generazione di migranti, in quanto condividono con la prima la motivazione economica della migrazione, l’appartenenza a famiglie spezzate, l’orientamento strumentale verso il lavoro; con la seconda condividono la giovane età e la prospettiva di realizzare in Italia le principali tappe di passaggio al ruolo adulto. “Un sogno per il futuro: comprarmi una casa in Perú e che miei figli diventino professionisti. Questo il vantaggio più grande, qui con poco si può studiare.” “Mi manca una figlia, però ce la faccio, prima deve terminare gli studio, infatti sta svolgendo la facola di infermeria giù in Nigeria, non appena avrà terminato gli studio se vorrà potrà raggiungermi.” “Vorrei che venga riconosciuto e considerato il nostro lavoro e che non venga battezzato con il nome di badante, perché a qualcuno piace così. Deve venire considerato piú un lavoro che si fa’ per questa società italiana ed anche il ruolo importante che abbiamo. Cosa succederebbe se noi non volessimo fare più questi lavori di assistenza, baby-sitter, collaboratrici domestiche? Penso che la società non ha pensato a questo. Ma tra non molto usciranno dei problemi perché la nuova generazione rifiuta di fare ciò e chiederà di più, e noi come genitore che abbiamo passato questo non vorremo vedere i nostri figli cosi. Per quello mandiamo i nostri figli ad avere una preparazione, se non ci sarà di meglio si ritornerà con un titolo europeo che nel nostro paese ha una grande validità. Io voglio far venire i miei figli, farli studiare e conoscere l’Europa, un altro mondo. Sempre rispettando la nostra cultura.” Riguardo all’atteggiamento nei confronti della cittadinanza italiana, emerge che il 47,1% del campione esprime la volontà di richiedere la cittadinanza in futuro, il 19,5% non ha nessuna intenzione in tal proposito, mentre il 29,4% si mostra confuso e incerto. Chi intende tornare in patria mostra scarso interesse per l’acquisizione della cittadinanza; invece il ricongiungimento familiare definisce un progetto di stabilizzazione e radicamento sul territorio, cui consegue la richiesta della cittadinanza. “Io spero di far venire gli altri figli che ho lasciato in Marocco, cosi stanno vicino a me. Mi piacerebbe essere italiana. Mi sono trovata meglio qui: qui ho trovato il cappotto, il pantalone, la gonna. là non c’era niente.” CONCLUSIONI E RACCOMANDAZIONI L'Italia si trova di fronte ad una crescente domanda di assistenti familiari straniere a breve, medio e lungo termine a causa dell’invecchiamento demografico della sua popolazione. Fare emergere il lavoro privato di cura, sostenerlo, qualificarlo, sono obiettivi non facili. Sulle assistenti familiari si moltiplicano iniziative e progetti, diversi tra loro ma convergenti nello sforzo di fare emergere e sostenere il lavoro privato di cura. Molti progetti per l'assistenza domiciliare sono stati attuati in questi ultimi anni in Italia, finanziati da diverse istituzioni: il Fondo Sociale Europeo, nell’ambito del programma Equal, fondi regionali, fondi provinciali, fondi comunali. Sono stati finanziati principalmente 4 tipologie di progetti: 1. Sportelli per l’incontro di domanda (famiglie) e offerta (lavoratrici migrante), che offrono consulenza sulle procedure di regolarizzazione e il contratto di lavoro domestico, il personale sostitutivo nei periodo di ferie, assenza per malattia, ecc. 2. Formazione professionale qualificare il lavoro di domiciliare; volta a assistenza 3. La creazione di Albi (comunali, provinciali) di assistenti familiari; 4. Bonus, voucher, e assegni di cura per chi assume un’assistente familiare in regola (o per chi regolarizza) I servizi pubblici per gli anziani si differenziano da regione a regione e, talvolta, da provincia a provincia. Questi includono RSA (residenza per anziani), centri di assistenza diurni, assistenza domiciliare. Negli ultimi 5 anni, nella maggior parte delle regioni italiane, gli sforzi del pubblico sono stati principalmente mirati al sostegno all'assistenza domiciliare. La maggior parte delle regioni dà un voucher, bonus o assegni di cura per le persone non auto-sufficienti e / o le loro famiglie. Alcune regioni offrono assegni di cura solo a coloro che assumono una badante, altri offrono assegni di cura come sostegno mensile per la famiglia (senza controllare come viene speso). I livelli di reddito per ottenere l’assegno di cura variano da regione a regione. Il numero dei beneficiari varia da regione a regione (dallo 0,3% al 4%). Come affrontare le sfide future? Gli interventi si possono suddividere in due obiettivi di policy: 1) sostenere la domanda di assistenza 2) sostenere l’offerta di assistenza. Sostenere la domanda. Nel primo rientrano gli sforzi volti a venire incontro alle famiglie e alla loro domanda di cura: condividendone le responsabilità, sostenendo le diverse capacità di spesa, aiutandole a gestire gli oneri legati alla ricerca di una figura adeguata al bisogno. Nel primo caso troviamo: 1. assegni di cura e sostegni economici 2. agevolazioni fiscali 3. sportelli volti ad agevolare l’incontro con l’offerta di lavoro. a) Assegni di cura Alcune Regioni erogano un sostegno economico, sotto forma di assegno di cura, agli anziani che ricorrono a un’assistente familiare; si tratta di una misura differente dall’abituale assegno di cura regionale, privo di vincoli cogenti sull’utilizzo. Sono Abruzzo, Emilia-Romagna, Veneto, Valle d’Aosta, FriuliVenezia Giulia e Sardegna. La finalità di questo tipo di assegni può essere duplice: a) “sostenere e regolarizzare”. Sostenere le famiglie e favorire l’emersione del lavoro nero. Il contributo è vincolato alla regolare assunzione di un’assistente ed è finalizzato non solo a sostenere le famiglie, ma anche incentivare l’emersione del lavoro sommerso. È il caso per esempio di Abruzzo, EmiliaRomagna, Friuli-Venezia Giulia, e del Veneto. b) “sostenere, regolarizzare, qualificare”. Sostenere le famiglie, favorire l’emersione del lavoro nero e qualificare il lavoro di cura. In questo caso il contributo è vincolato non solo alla regolare assunzione dell’operatrice, ma anche alla sua iscrizione all’albo, o registro, delle assistenti qualificate. Il contributo badanti, in questi casi, si inserisce in una strategia più ampia, che vuole non solo sostenere e far emergere, ma anche qualificare il lavoro privato di cura, connetterlo il più possibile alla rete dei servizi sociali e sociosanitari. Rientrano in questa categoria la Sardegna e la Valle d’Aosta. Alcune informazioni sui beneficiari rivelano criticità comuni a queste misure. Criticità legate essenzialmente al basso tasso di partecipazione dimostrato da anziani e famiglie. Colpisce infatti il loro numero limitato, nei vari contesti. In Veneto nel 2007 hanno beneficiato del contributo badanti un totale di 2.800 famiglie, a fronte di 24.000 beneficiari di assegni di cura: poco più di uno su dieci. In Friuli-Venezia Giulia i beneficiari nello stesso anno sono stati meno di 400, a fronte di oltre 3.000 utenti dell’assegno per l’autonomia: un rapporto di poco superiore. Dimensioni molto contenute. È infatti ragionevole stimare che almeno metà dei beneficiari degli assegni di cura si avvalgano di una badante (Ola, 2005; Regione Lombardia, 2008), come conferma anche il monitoraggio della Regione Emilia-Romagna sugli assegni di cura, dove risulta che una percentuale non inferiore al 40-45% di coloro che lo ricevono ricorrono contemporaneamente a un’assistente familiare (Regione EmiliaRomagna, 2006). Il tasso di adesione a queste misure, dunque, è un problema: i fruitori reali sono molto meno di quelli potenziali. Perché questo tipo di assegni incontra una risposta così tiepida? Possiamo rispondere in modo sintetico: perché le famiglie preferiscono comunque il mercato irregolare, anche rinunciando a un incentivo economico. L’entità dei contributi costituisce da questo punto di vista una variabile chiave, che presenta notevoli differenze, solitamente proporzionate secondo la rilevanza del carico assistenziale. L’importo può essere fisso o variabile: è fisso in Emilia-Romagna e in Sardegna, rispettivamente 160 e 250 euro al mese; è modulato in relazione al numero di ore lavorative e in base all’Isee: per esempio tra 50 e 260 euro in Veneto, tra 120 e 200 euro in Friuli-Venezia Giulia. Fisse o variabili, si tratta di cifre che non arrivano – nella maggior parte dei casi – a coprire gli oneri contributivi a carico delle famiglie, vale a dire il differenziale di costo tra mercato nero e mercato regolare. Un assegno che si proponga di incentivare davvero l’emersione deve avere una consistenza economica coerente. Ma la possibilità di migliorare il tasso di partecipazione dipenderà anche dalla capacità di offrire un insieme coordinato di servizi. Che è il valore aggiunto che l’ente pubblico può fornire, rispetto al mercato privato, e che risiede nella possibilità di offrire interventi diversi: di facilitazione dell’incontro tra domanda e offerta di assistenza, di un sostegno continuativo nel tempo, di tutela, di integrazione tra interventi sociali e sanitari, domiciliari e (anche temporaneamente) residenziali. b) Agevolazioni fiscali Gli oneri contributivi a carico delle famiglie costituiscono l’ostacolo più rilevante all’emersione dal mercato nero. È infatti noto come l’assistenza privata sia caratterizzata da una larga quota di mercato sommerso, che secondo le stime del 2008 (precedenti alla sanatoria 2009) riguardava il 60-70 per cento delle assistenti familiari (Iref, 2008; Fondazione Ismu, 2008; Pasquinelli e Rusmini, 2008). Aumentare la regolarizzazione dei rapporti di lavoro è un prerequisito per sostenere l’intervento delle assistenti familiari, qualificarne le funzioni, aiutare le famiglie nella direzione di un mercato che si collega con il sistema dei servizi, sociali e sociosanitari. La disciplina fiscale consente – per chi ha un reddito non superiore a 40 mila euro – una detrazione del 19 per cento di un importo non superiore a 2.100 euro annui per l’assistenza ad anziani non autosufficienti. Il totale dà 399 euro. Esiste inoltre la possibilità di una deduzione fiscale dai redditi del datore di lavoro, entro un limite massimo di 1.549 euro. Anche sommando le due possibilità, le agevolazioni risultano molto limitate. A fronte di oneri contributivi che possono raggiungere i 3.000 euro all’anno, l’attuale sconto fiscale sfiora, nel migliore dei casi, il 15 per cento di tali oneri. I minimi retributivi sono aumentati in media del 30 per cento con il contratto colf in vigore da marzo 2007, mentre le possibilità di detrazione sono rimaste uguali, sostanzialmente irrilevanti al fine di fare emergere il sommerso. Inoltre, vige un sistema di adeguamenti annuali dei minimi retributivi, aggiornati dall’Inps, con le aliquote contributive per i lavoratori domestici, in base all’indice del costo della vita. Il divario economico tra mercato regolare e irregolare risulta consistente, particolarmente pronunciato nel caso della co-residenza. In questo caso un’assunzione comporta un costo di circa il 40 per cento superiore rispetto a un impiego irregolare, senza contratto. Le stesse assistenti familiari – peraltro – tendono a rinunciare a un rapporto regolare, in cambio di maggiore liquidità. Tranne quando si avvicina il momento di rinnovare il permesso di soggiorno, quando devono dimostrare di avere un lavoro. L’escamotage diventa allora quello di assumere la badante per il minimo, 25 ore alla settimana, anche quando lavora molto di più, fino alla co-residenza. È questa una pratica sempre più ricorrente: conviene al datore di lavoro, che paga pochi contributi pur essendo in regola, conviene al lavoratore, che ha un contratto che non ne penalizza più di tanto la retribuzione netta. Ma la convenienza del mercato irregolare non è solo economica. Molte famiglie preferiscono il mercato nero per l’immediatezza di risposte che vi trova, i gradi di libertà e l’assenza di vincoli. Aspetti valorizzati dalle stesse assistenti familiari, in special modo quelle con progetti migratori di breve durata, che preferiscono rinunciare alle tutele contrattuali in cambio di una massimizzazione economica del proprio tempo di lavoro (Pasquinelli, Rusmini, 2008). Ciò rinvia alla necessità di affiancare alle agevolazioni fiscali altri tipi di intervento, family friendly e labour friendly. È necessario arrivare a detrarre una parte ben più rilevante degli oneri contributivi, in modo da rendere l’assunzione regolare meno penalizzante. Maggiori agevolazioni fiscali possono costituire un segnale nuovo da parte dello Stato, perché innalzano i livelli di socializzazione dei costi della cura, che le famiglie si accollano e che gestiscono in modo molto privatizzato. Ipotesi diverse sono state avanzate in questa direzione (si veda: Baldini et al., 2008), tra cui in particolare l’aumento dell’importo degli sconti fiscali, e una fiscalizzazione degli oneri contributivi a carico delle famiglie. Di queste due proposte, largamente condivisibili, colpisce il costo relativamente contenuto che esse avrebbero sui conti dello Stato, oscillante tra 184 a 636 milioni di euro. Entrambe le proposte avanzate ipotizzano agevolazioni proporzionali alle disponibilità di reddito delle famiglie, in modo tale che nelle fasce di reddito più basse le agevolazioni arrivano a coprire più di due terzi degli oneri contributivi. Esse riguarderebbero una quota significativa di anziani che si avvalgono di assistenti familiari, il 4 per cento degli ultra 65enni. Una soluzione ancora più incisiva è l’offerta di un credito di imposta per le famiglie che si avvalgono di un’assistente familiare. Ipotizzando un credito fino a tremila euro, la spesa stimata si aggirerebbe intorno a 1,4 miliardi di euro (Baldini et al., 2008). Un impegno rilevante, che tuttavia assicurerebbe la drastica riduzione del mercato nero, oltre ad affermare con i fatti il ruolo di uno Stato family friendly, che si prende cura degli oneri familiari. c) Sportelli per domanda/offerta l’incontro Ciò che più manca nel mercato sommerso è l’informazione: con famiglie sotto pressione e impreparate, canali di reclutamento casuali e dove l’incrocio, il cosiddetto matching tra domanda e offerta, avviene in modo più o meno estemporaneo, generando catene di problemi a non finire. In questi anni si sono moltiplicati sportelli dedicati, probabilmente i servizi più riusciti in questo settore. Gli sportelli incontrano due solitudini. Quella dell’assistente familiare che vuole affrancarsi dal circuito chiuso delle proprie connazionali, e quella di una famiglia alla ricerca, spesso urgente, di un aiuto. Entrambi cercano naturalmente una risposta alle proprie richieste immediate, ma anche un contesto che li ascolti, che ne valuti capacità da un lato, bisogni dall’altro. Un contesto capace di accompagnamento. Nelle realtà regionali vanno affermandosi due tipi di sportelli: luoghi di semplice informazione per le famiglie, oppure servizi di orientamento, accompagnamento, sostegno continuativo. Le evidenze disponibili mostrano buoni riscontri al primo livello, con una grande quantità di primi contatti, sia tra chi domanda lavoro (le famiglie) sia e soprattutto tra chi lo offre (assistenti familiari). I numeri diminuiscono di molto quando si passa dai primi contatti agli abbinamenti, i matching realizzati, nonché ai contratti regolarmente stipulati (1 su 10). La disponibilità a stipulare un contratto di lavoro rimane bassa per evidenti motivi di convenienza reciproca. In nero una badante prende al netto di più e costa di meno alla famiglia, a parità di ore lavorate. In una situazione di questo tipo cercare di fare emergere il lavoro di cura solo attraverso l’azione di sportello rischia di essere velleitario. La pura intermediazione di lavoro, se non collegata ad altri interventi, ha il fiato corto e lo sforzo sembra sproporzionato ai risultati. L’intermediazione è ciò che le persone chiedono, ma dietro si nascondono bisogni ben più ampi. Le famiglie in particolare non cercano solo la “badante giusta”, ma sono interessate a un luogo che dia informazioni, che ascolti, a cui ci si possa appoggiare nel tempo, di cui ci si possa fidare, un luogo capace di rompere la solitudine del mercato. Possiamo codificare la complessità delle variabili che intervengono nel processo di incontro tra il bisogno della famiglia e l’offerta di lavoro, per avanzare qualche ulteriore osservazione. Le esperienze si differenziano su due passaggi cruciali: 1. l’approfondimento nella lettura del bisogno, familiare da un lato e delle competenze lavorative dall’altro. In particolare, la presenza o meno di un vero e proprio “bilancio di competenze” aiuta a rendere l’attività di matching più adeguata e gli abbinamenti più efficaci; 2. l’accompagnamento successivo all’abbinamento. Un accordo formale tra le parti non garantisce di per sé alcuna stabilità: problemi, dissonanze, malintesi possono nascere dal giorno dopo. I nodi più ricorrenti possono riguardare le divergenze di carattere rispetto alle aspettative, il livello di apprezzamento del lavoro, la qualità della sistemazione abitativa, la fruizione delle ore di riposo, il livello retributivo, nonché il turn-over dell’assistente familiare e le sostituzioni. Da qui l’importanza di sportelli che si collegano ai servizi sociali e che facciano da “sponda” rispetto a rapporti caratterizzati da una ricorrente instabilità. Il valore aggiunto più prezioso degli sportelli sta infatti nel poter collegare i sostegni della domanda (contributi, orientamento, case management) ai sostegni dell’offerta (formazione, processi di accreditamento, albi professionali). Diventando luoghi in cui i diversi interventi lavorano in modo complementare. È auspicabile che queste esperienze crescano, coordinandosi, anche attraverso sostegni regionali (oggi ampiamente carenti). La pura intermediazione tra domanda e offerta di lavoro coglie solo una dimensione dei bisogni in gioco, che riguardano anche ascolto, accompagnamento, lettura della domanda e bilancio delle competenze. Attività che difficilmente possono svolgere call center o bacheche informatiche, oggi in aumento. 1) sostenere l’offerta. Il secondo obiettivo riguarda chi offre assistenza, le “badanti”: comprende le azioni finalizzate a facilitarne la regolarizzazione, qualificarne il ruolo professionale, riconoscerne l’apporto nel quadro di un mercato regolato. Il sostegno dell’offerta di assistenza riguarda soprattutto: 1) formazione professionale, accreditamento delle competenze, 2) albi professionali a) La formazione regionale La formazione delle assistenti familiari è uno degli interventi più ricorrenti nella regolazione del mercato privato di cura. I percorsi formativi per l’assistente familiare, definiti a livello regionale, possono ricoprire tre funzioni: 1 Garantire un livello di competenza di base. La definizione di un percorso standard garantisce un livello minimo ed uniforme di acquisizione di competenze. 2. Uniformare la validità territoriale del titolo. Il riconoscimento del titolo sul territorio regionale consente alle assistenti di operare in un Comune / Provincia diverso da quello dove hanno frequentato il corso. 3. Offrire un percorso di crescita professionale. Le badanti possono intraprendere un percorso di qualificazione che, se opportunamente collegato a qualifiche di livello più elevato, attraverso il riconoscimento dei crediti, consente loro di progredire professionalmente e di progettare un proprio percorso professionale. Le Regioni che hanno definito i termini e i contenuti del percorso formativo per le assistenti familiari sono 9: Toscana, Campania, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Liguria e recentemente il Lazio, la Valle d’Aosta, la Lombardia e le Marche. Altre Regioni come la Sardegna, il Veneto, l’Umbria ed il Piemonte stanno cercando di farlo (Rusmini, 2009). Nel complesso, alcuni riscontri evidenziano la presenza di nodi critici nella formazione delle assistenti familiari: 1. Elevati abbandoni: conciliare la formazione con l’impegno richiesto dal lavoro di cura non è facile: da un lato le donne occupate come assistenti familiari vedono spesso la formazione come tempo sottratto al lavoro remunerato, dall’altro le famiglie hanno difficoltà (e scarso interesse) a rinunciare anche solo per qualche ora alla presenza dell’assistente. 2. Ridotta adesione da parte delle Assistenti Familiari con progetti di breve periodo: le persone maggiormente interessate ad intraprendere un percorso formativo sono le donne con progetti migratori di lungo periodo, in particolar modo quelle che aspirano a lavorare in strutture come case di riposo e ospedali. Questo significa che la frequenza ai corsi può essere favorita dal riconoscimento di crediti formativi che consentano sviluppi successivi. 3. Il rischio – o l’opportunità, a seconda dei punti di vista – che la formazione incentivi un cambio del settore lavorativo: ossia che le assistenti proseguano il loro percorso di formazione passando ad altra qualifica professionale (ASA, OSS), transitando al sistema dei servizi pubblici. Si riproduce, così, un lavoro privato di cura scarsamente qualificato. Non va inoltre dimenticato che l’accesso alla formazione è possibile solo per le assistenti familiari regolarmente soggiornanti in Italia. Sono quindi escluse dagli interventi di qualificazione le assistenti irregolari, che secondo le stime 2008 (prima della sanatoria) rappresentavano oltre un terzo del totale (Pasquinelli e Rusmini, 2008). Si evidenzia, pertanto, la necessità di una maggiore coerenza tra gli interventi regionali di regolazione del mercato privato e le politiche nazionali per l’immigrazione. b) albi professionali A fianco dell’attività di sportello si possono creare albi o “elenchi” di assistenti familiari accreditate, ossia di badanti che hanno seguito un percorso formativo o che dimostrano competenze specifiche nel fare questo lavoro. Si tratta di esperienze ancora sporadiche: pochi sono gli enti locali che si sono attivati in questa direzione, ritenendola delicata soprattutto dal punto di vista delle responsabilità che pone all’ente locale. La presenza di un albo infatti solleva delicati aspetti di natura giuridica circa l’attività domestica e di aiuto delle assistenti. E tuttavia gli albi chiudono idealmente il cerchio di un possibile raccordo tra domanda e offerta e che risulta fondamentale per incentivare pratiche di emersione. CONCLUSIONI A dispetto di quelle previsioni che davano il fenomeno “badanti” per transitorio e di corto respiro, questa presenza si sta oggi sempre più consolidando. La strada per fare emergere e qualificare questo settore di attività sembra ancora lunga. Possiamo concludere che: - Lo sforzo di sostenere le famiglie e migliorare la qualità dell’assistenza deve appoggiarsi a politiche nazionali per l’immigrazione e la defiscalizzazione orientate alle medesime finalità. Molte assistenti familiari sono prive del permesso di soggiorno. Con l’ultima sanatoria questa quota si è significativamente ridotta, ma rimane un sistema (quello del decreto flussi), in particolare nella chiamata a distanza, palesemente inadeguato per questo tipo di attività e i soggetti interessati. Le sanatorie non sono mai una via d’uscita elegante per i governi. Hanno un effetto diseducativo, che conduce invariabilmente a nuove infrazioni delle leggi e alla necessità di nuove sanatorie. D’altronde, appaiono difficilmente evitabili quando i numeri delle persone in condizione irregolare, nonché degli italiani che vengono anch’essi a trovarsi fuori legge in quanto favoreggiatori di un reato, raggiungono gli attuali livelli. Anziché aggiustare a posteriori situazioni che non si ha avuto il coraggio lungimirante di governare a priori, nel futuro bisognerebbe provare a cercare altre soluzioni. Se ne possono individuare almeno due. La prima consiste nella regolarizzazione su base individuale, come avviene in Francia, di persone che non si possono più ragionevolmente espellere per vari motivi: per il soggiorno prolungato sul territorio (per esempio, cinque anni), l’inserimento lavorativo di fatto, l’instaurazione di legami affettivi stabili, la presenza di minori da accudire. Per l’ultima circostanza, la presenza di minori, la legge italiana già consente la concessione di un permesso di soggiorno. La seconda strada potrebbe consistere nella conversione del titolo di soggiorno, come è avvenuto a più riprese negli Stati Uniti. Chi entra con un permesso turistico di tre mesi e trova qualcuno disposto ad assumerlo, segnatamente nell’ambito familiare, magari con determinate garanzie (contratto regolare, cauzione, mediazione di uno sponsor istituzionale o associativo e così via), potrebbe essere autorizzato a trasformare in un permesso di lavoro il suo titolo provvisorio di soggiorno. Si eviterebbe così la sofferenza di un tempo di irregolarità spesso prolungato, che per le madri, significa anni senza poter rientrare in patria e rivedere i figli, e il danno erariale del mancato versamento di tasse e contributi. In definitiva, la sanatoria rappresenta una apprezzabile presa d’atto che la criminalizzazione degli immigrati irregolari è prima di tutto irrealistica: serve a scopi di propaganda politica, ma non a risolvere i problemi effettivi del governo dell’immigrazione e del suo incontro con le esigenze del mercato del lavoro italiano. Meglio delle sanatorie sarebbero però politiche più avvedute di prevenzione della formazione di ingenti bacini di immigrazione laboriosa, ma giuridicamente irregolare, che diventano poi ardui da svuotare senza altri danni per il paese. - A livello fiscale l’obiettivo deve essere quello di rendere meno onerosa l’assunzione di una assistente familiare, arrivando a poter detrarre almeno metà degli oneri contributivi. - Costruire un’alternativa richiede una rete di interventi che si sostengano in modo circolare. Sportelli dedicati all’incontro domanda/offerta, formazione, albi delle assistenti accreditate, sostegni economici. Azioni isolate portano a poco o nulla. Perché il valore aggiunto che l’ente pubblico può offrire sta nel collegare interventi diversi: sostegni economici e servizi, tutele sul lato della domanda e su quello dell’offerta. Prendiamo il caso della formazione: che ne è delle assistenti familiari che vengono formate? Se non esiste un mercato regolato che le accoglie e le valorizza, la formazione serve a poco. Corsi di formazione sospesi nel vuoto, non inseriti in un disegno più ampio, rischiano di essere inefficaci, perché privi di sbocchi attraenti e percorribili. La maggiore funzione di utilità rischia così di essere il “trampolino” per profili successivi, la possibilità di crediti formativi per diventare altro: Asa, Oss. Interventi che si relazionano in modo circolare possono trovare un baricentro negli sportelli rivolti all’incontro tra domanda e offerta di assistenza. Essi possono diventare davvero il trait d’union tra le famiglie – con le loro esigenze di informazione e sostegno – e le donne immigrate – a cui proporre un contesto regolato di formazione e accreditamento delle competenze. BIBLIOGRAFIA E FONTI • • • • • • • • • • • • • • • • Tra Cura degli altri e Cura di Sé, G. Lazzarini, M: Santagati, L. Bollani, Franco Angeli Editore, 2007 Dossier Statistico Caritas Migrantes Immigrazione 2009, Superabile: Colf e Badanti, 2009 Badanti, la nuova Generazione, Istituto per la ricerca sociale, 2008 Gori, S. Pasquinelli, Gli assegni di cura, in C. Gori (a cura di), Le riforme regionali per i non autosufficienti, Roma, Carocci, 2008. S. Pasquinelli, G. Rusmini, Badanti: la nuova generazione, Dossier di ricerca, Milano, 2008, L'ennesima ultima sanatoria, di Maurizio Ambrosini, 2009 Assistenza Pubblica e Privata,, Analisi del ruolo degli enti locali, Raffaella Sarti, elena De Marchi, Università di Urbino e di Bologna,n 2009 L’assistenza agli anziani non autosufficienti in Italia Rapporto 2009. Rapporto promosso dall’IRCCS-INRCA per l’Agenzia nazionale per l’invecchiamento www.piemonteimmigrazione.it http://www.interno.it/mininterno/export/sites/default/it/ I sostegni al lavoro privato di cura,Sergio Pasquinelli, Giselda Rusmini. L’assistenza agli anziani non autosufficienti in Italia. Rapporto 2009. Rapporto promosso dall’IRCCS-INRCA per l’Agenzia nazionale per l’invecchiamento. Rusmini G. (2009), Formare le assistenti familiari: percorsi a confronto, in www.qualificare.info, n. 19, marzo. Pasquinelli S., Rusmini G. (2008), Badanti: la nuova generazione, Dossier di ricerca, in www.qualificare.info, area download. Pasquinelli S. (a cura di) (2007), Nuovi strumenti di sostegno alle famiglie, Roma, Carocci. Pasquinelli S. (2008), Badante e clandestina, in www.lavoce.info, giugno. ABOUT THE PROJECT This case study was written in the frame of the “Decent Work for All: A Key for Effective Industrial Relations”, a one-year project which aims to produce recommendations on how to improve working conditions around Europe in sectors with higher incidences of precarious working conditions (ie construction, health and long-term care) and more vulnerable groups (ie youth, undocumented migrants) through coordinated efforts by governments, employers and trade unions in the framework of social dialogue. It also looks into the role of social partners in fighting precarious labour and promoting decent work and quality jobs. All “Decent Work for All: A Key for Effective Industrial Relations” briefings are materials on www.solidar.org SOLIDAR is a European network of 52 NGOs active in over 90 countries working to advance social justice in Europe and worldwide. SOLIDAR lobbies the EU and international institutions in three primary areas: social affairs (more social Europe), international cooperation (development cooperation) and education (lifelong learning for all). Project Coordinators: Mauro Striano and Mathias Maucher, SOLIDAR