Lavoratori immigrati nel settore domestico in Italia

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Lavoratori immigrati nel settore domestico in Italia
Lavoratori immigrati nel settore
domestico in Italia
A cura di:
Paola Conterno, Associazione Nazionale Oltre le Frontiere (ANOLF)
Judith Portocarrero, Associazione Nazionale Oltre le Frontiere (ANOLF)
Lavoratori immigrati nel settore domestico in Italia | 1
INTRODUZIONE E RIASSUNTO
1. Introduzione.
Il prolungamento della speranza di vita che
caratterizza l’Italia ha implicato l’insorgere di
problematiche tra gli anziani, legate a malattie
croniche e alla non autosufficienza. Di fronte
all’aumento dei bisogni di assistenza, le
famiglie, cui compete principalmente la
responsabilità di cura, hanno trovato una
soluzione attraverso l’assunzione di assistenti
familiari (badanti) straniere che convivono
giorno e notte con gli anziani che accudiscono:
si è affermato così un sistema di welfare
privato – data anche la limitata offerta di servizi
pubblici di assistenza domiciliare – basato sul
ricorso alle assistenti familiari (badanti)
straniere, risorsa sempre più essenziale per le
famiglie, ma fragile, poiché impiegata in un
settore scarsamente tutelato e caratterizzato
da un’irregolarità diffusa a livello contrattuale.
La fortissima domanda di assistenza da parte
degli anziani e delle loro famiglia ha visto
parimenti la crescita della presenza di
collaboratrici domestiche (colf) e assistenti
familiari (badanti): un gruppo sempre più
numeroso che contava nel 2007 (anno del
riconoscimento contrattuale della figura
professionale) oltre 700.000 presenze sul
territorio nazionale (colf più badanti), composto
in prevalenza da donne tra i 30 e i 50 anni,
immigrate in Italia dai paesi dell’Europa
dell’Est, dal Sud America, dall’Africa in cerca di
lavoro.
A loro vanno aggiunte le 294.744 colf
(collaboratrici domestiche) e badanti (assistenti
familiari) che hanno presentato domanda di
regolarizzazione a settembre 2009 (la
cosiddetta “sanatoria”). Sale quindi ad un
milione il numero delle colf e badanti regolari1.
Ma i numeri tradiscono in realtà una scarsa
conoscenza del fenomeno, caratterizzato da
una forte presenza di lavoro sommerso o
addirittura di fenomeni criminali di vero e
proprio racket per un posto di lavoro.
L’affermazione del fenomeno delle assistenti
familiari (badanti), a cui sempre più spesso è
affidata la cura degli anziani – dalla sua
comparsa in Italia negli anni ’90 ad oggi – ha
dato origine alla necessità di comprendere il
mondo delle lavoratrici della cura e
dell’assistenza domiciliare agli anziani.
(2006-2008)
nell’ambito
della
Iniziativa
comunitaria Equal. L’obiettivo del progetto è
stata la sperimentazione di soluzioni innovative
per far fronte a una complessa situazione
dell’assistenza
domiciliare
agli
anziani
diventata ormai una questione sociale, non più
riconducibile al solo rapporto privato tra
famiglie ed assistenti familiari (badanti), da
gestire dentro le mura domestiche, ma che
sollecita necessariamente l’intervento delle
politiche sociali, per rendere la cura domiciliare
parte della filiera di welfare locale, a costi
sostenibili per gli utenti e retribuzione
contrattuale per le lavoratrici.
Coadiuvati dal prof. Lazzarini, dalla dr.ssa
Santagati e dal prof. Bollani dell’Università di
Torino gli operatori ANOLF CISL Piemonte
hanno intrapreso un percorso di indagine di
tipo documentale, quantitativo e qualitativo,
per acquisire informazioni a largo spettro sugli
aspetti della vita sociale e lavorativa delle
assistenti familiari (badanti). L’indagine offre
un contributo alla conoscenza del fenomeno e
presenta
un’analisi
sociologica
che
approfondisce, in particolare, le criticità
dell’esperienza di lavoro alla luce del percorso
migratorio e della condizione familiare delle
assistenti, il nodo della qualificazione
professionale e le possibili prospettive di
miglioramento della situazione lavorativa.
l’indagine
coglie
le
contraddizioni
di
un’esperienza lavorativa spesso totalizzante
come quella delle assistenti familiari (badanti)
in cui la cura degli altri non lascia tempo e
spazio per la cura di sé, dimensione
fondamentale per la persona e premessa per
una piena integrazione nella società di
accoglienza. I risultati della ricerca evidenziano
un legame tra migrazione e discriminazione
lavorativa; per le lavoratrici assistenti familiari
(badanti) l’obiettivo della regolarità del
soggiorno e del contratto di lavoro costituisce
un punto di partenza, in vista di un effettivo
miglioramento della propria qualità di vita, e la
formazione intesa come strumento di tutela
contro lo sfruttamento ma anche come mezzo
di promozione sociale.
I risultati della ricerca condotta sono parte
integrante della pubblicazione “Tra cura degli
altri e cura di sé. Percorsi di inclusione
lavorativa e sociale delle assistenti familiari”,
Franco Angeli Editore, Collana Politiche
Migratorie.
2. Riassunto
La presente ricerca è stata condotta nel corso
del progetto denominato SolidAssistenza
1
Caritas Migrantes, (2009) Immigrazione.
Dossier statistico 2009
Lavoratori immigrati nel settore domestico in Italia | 2
PRINCIPALI CARATTERISTICHE
DEL SETTORE STUDIATO
Analisi della legislazione dal punto di vista
del dialogo sociale
1. Procedura per la regolarizzazione e
l'assunzione di colf (collaboratrici
domestiche) e badanti (assistenti
familiari) straniere.
Secondo la legge in vigore in materia di
immigrazione e asilo (la cosiddetta Bossi-Fini)
è possibile assumere una collaboratrice
domestica
o
un’assistente
familiare
extracomunitaria già presente regolarmente in
Italia e in possesso di Permesso di Soggiorno
idoneo a svolgere attività lavorativa.
Diversamente
si
deve
aspettare
la
pubblicazione del Decreto flussi - che fissa il
numero massimo di ingressi di lavoratori
stranieri in Italia (la “quota” di stranieri ai quali
aprire le porte) - per fare la domanda di
nullaosta al lavoro secondo la nuova
procedura telematica.
Tocca quindi al futuro datore di lavoro proporre
l’assunzione allo straniero, il quale – in base a
questa offerta – si fa poi rilasciare il visto
dall’ambasciata o dal consolato italiano nel suo
paese. Dopo la pubblicazione del decreto
flussi, il datore di lavoro presenta la richiesta.
Se la domanda è accettata, il datore di lavoro
ritira copia del Nulla Osta allo Sportello Unico
per l’Immigrazione e lo invia allo straniero il
quale può così ritirare il visto di ingresso
all’ambasciata o consolato italiano nel suo
paese.
Nella maggior parte dei casi lo straniero riceve
sì l’offerta di lavoro nel proprio paese - dove “in
teoria” dovrebbe trovarsi - ma “in pratica” è
irregolarmente presente in Italia (dove – nella
maggior parte dei casi - è entrato con regolare
visto turistico, poi scaduto) e il quale torna nel
proprio paese a ritirare il visto di ingresso per
lavoro.
Il permesso di soggiorno (il documento che
permette all’extracomunitario di stare in Italia)
deve essere richiesto entro 8 giorni lavorativi
dall’arrivo in Italia.
Il permesso di soggiorno per lavoro si ottiene
solo con l’esistenza del Contratto di Soggiorno
tra datore di lavoro ed extracomunitario. Il
datore di lavoro e il lavoratore extracomunitario
devono recarsi allo Sportello Unico per
l’Immigrazione e firmare il Contratto di
Soggiorno.
Dopodiché l’extracomunitario deve recarsi agli
uffici postali per fare domanda di primo
permesso di soggiorno entro 8 giorni lavorativi.
Il datore di lavoro dovrà comunicare
l’assunzione a: Questura (se il cittadino è
extracomunitario), Anagrafe, Centri per
l’Impiego, Inps e Inail.
I cittadini neocomunitari non hanno obblighi di
visto d’ingresso e possono essere assunti con
comunicazione a Inps e Inail, centri per
l’Impiego e anagrafe (se il lavoratore è
convivente).
2. La “SANATORIA” settembre 2009
Il Governo italiano ha inserito all’interno del
cosiddetto 'pacchetto anticrisi' (legge 3 agosto
2009, n.102, articolo 1-ter) un emendamento
che stabiliva la procedura di emersione dei
rapporti
di
lavoro
irregolari,
per
la
regolarizzazione
di
colf
(collaboratrici
domestiche) e badanti (assistenti familiari).
Si è trattato di una procedura on line attiva dal
1° al 30 settembre 2009, attraverso la quale la
posizione dei cittadini extracomunitari privi di
titolo di soggiorno che abilita allo svolgimento
di una attività lavorativa, impiegati presso le
famiglie come lavoratori domestici di sostegno
al bisogno familiare (colf) o come assistenti di
persone non autosufficienti o affette da
patologie o handicap (badanti), poteva essere
regolarizzata.
Tutti i datori di lavoro che volevano partecipare
alla
procedura
di
emersione
dal
lavoro irregolare
dovevano
effettuare
il
pagamento di un contributo di 500 euro per
ciascun lavoratore, utilizzando il modello F24.
Per i lavoratori italiani, comunitari e
extracomunitari muniti di permesso di
soggiorno che consente attività di lavoro
subordinato e in corso di validità, la
dichiarazione di emersione doveva essere
presentata
all’Inps. L’INPS
provvedeva
all’iscrizione del rapporto di lavoro (dopo la
verifica dell’avvenuto pagamento della quota
forfetaria e della rispondenza di quanto
dichiarato alle norme vigenti in materia di
lavoro domestico) e ne dava comunicazione al
datore di lavoro, inviando contestualmente i
bollettini necessari per il pagamento dei
contributi successivi al 2° trimestre 2009.
Per i lavoratori extracomunitari privi del
titolo di soggiorno o in possesso di un
permesso di soggiorno che non consente
lo svolgimento di attività di lavoro
subordinato la domanda andava presentata
allo Sportello unico per l’immigrazione,
esclusivamente in via telematica, attraverso il
sito internet del Ministero dell’Interno.
Le stime parlavano di 700 mila domande, ma il
bilancio è stato di gran lunga inferiore alle
aspettative. Si è infatti fermato 294.744
domande il bilancio della regolarizzazione di
colf e badanti (queste ultime pari a un terzo
del totale), ossia circa la metà dei
clandestini stimati nel lavoro domestico,
colf più badanti2.
Anche se con questi numeri è difficile parlare
di un flop, è evidente che centinaia di migliaia
di famiglie e lavoratori sono rimaste nel
sommerso.
La maggior parte dei moduli sono stati richiesti
a Milano (53 mila, il 15% del totale) Roma (39
mila), Napoli (28 mila) e Brescia (13 mila),
mentre ucraini (44 mila, il 13% del totale),
marocchini (41 mila) e moldavi (30 mila)
guidano la classifica per nazionalità.
Secondo le Acli, il 30 e il 40% delle famiglie
interessate alla regolarizzazione hanno
rinunciato a presentare domanda. Hanno
pesato i limiti di reddito e di l’orario minimo di
20
ore,
ma
soprattutto,
sottolinea
l’associazione, “quando prendevano atto dei
costi effettivi del rapporto di lavoro e dei diritti
conseguenti spettanti ai lavoratori, le famiglie
tornavano sui propri passi”.
Per la popolazione immigrata irregolare la
sanatoria è stata l’occasione per ottenere il
tanto agognato permesso di soggiorno: in molti
non ci speravano più. Per le famiglie, l’unico
beneficio era quello di uscire dall’illegalità. Ma
molte famiglie non hanno evidentemente dato
a questo grande rilevanza. Sulle famiglie sono
ricaduti la maggior parte degli oneri. I quali
presi uno a uno avevano un peso relativo, ma
è la loro somma, sottovalutata, che ha fatto la
differenza:
1. i 500
euro
forfettari
sono
stati
evidentemente
un
buon
deterrente
psicologico;
2. il minimo di 20 ore alla settimana per cui il
lavoratore doveva essere assunto ha
escluso una larga fetta di mercato, quella
del lavoro a ore, oggi in crescita. Di fatto, il
vincolo posto dal decreto anticrisi per la
regolarizzazione di badanti e colf non è di
poco conto: al fine dell’accoglimento della
domanda proposta, occorre infatti che il
datore di lavoro dichiari di avere alle
proprie dipendenze un/a badante o colf da
almeno 3 mesi, e per un numero di ore
settimanali non inferiore a 20. Limite
facilmente raggiunto dalle badanti, che
spesso
assistono
persone
non
autosufficienti e che dunque hanno
bisogno di lunghi orari in cui essere
seguite, ma più difficile per il personale
domestico, che sovente non esercita
attività lavorativa di almeno 20 ore
settimanali per una singola famiglia.
3. La complessità dell’iter procedurale ha
fatto la sua parte.
4. Ma la resistenza maggiore è dovuta al
dover assumere e pagare d’ora in poi tutti
gli oneri contributivi, rientrando in un
contesto di regole, di diritti e di doveri.
2
Superabile: Colf e Badanti
Molte famiglie non ci sono state, non
hanno voluto, non se la sono sentita.
Gli esclusi dalla regolarizzazione da oggi
rischiano grosso. Secondo il nuovo Decreto
Sicurezza, chi dà lavoro a un irregolare va
incontro a una condanna per favoreggiamento
dell’immigrazione clandestina e a sanzioni per
decine di migliaia di euro, colf e badanti senza
permesso possono invece essere punite per il
reato di ingresso e soggiorno illegale in Italia
(multe da 5 a 10 mila euro) ed espulse.
Per quanti hanno presentato la domanda,
inizia invece una lunga attesa. Sportelli Unici
per l’immigrazione e Questure sono già
impegnati
con
flussi
di
ingresso
e
ricongiungimenti familiari, hanno montagne di
arretrati e ancora attendono rinforzi. Nelle
province con più richieste, ci vorrà certo più di
un anno prima di poter firmare il contratto e
chiedere, finalmente, il permesso di soggiorno.
3. Il contratto collettivo nazionale.
Il lavoro delle collaboratrici domestiche (colf) e
delle assistenti familiari (badanti) rientra nel
quadro del lavoro domestico. Il rapporto di
lavoro è regolato dall’attuale CONTRATTO
COLLETTIVO NAZIONALE DI LAVORO
SULLA DISCIPLINA DEL RAPPORTO DI
LAVORO DOMESTICO, entrato in vigore il
01/0372007. (Decorrenza 1° marzo 2007 –
Scadenza 28 febbraio 2011) .
Con l’entrata in vigore del contratto collettivo
nazionale avviene quindi il riconoscimento
contrattuale della figura professionale di colf e
badanti.
Le controparti stipulanti sono state, da una
parte:
- FIDALDO
–
FEDERAZIONE
ITALIANA DATORI DI LAVORO
DOMESTICO aderente a Confedilizia,
costituita da: Nuova Collaborazione,
Assindatcolf, Associazione Datori di
Lavoro di Collaboratori Domestici,
Associazione Datori Lavoro Domestico
- DOMINA
–
ASSOCIAZIONE
NAZIONALE DATORI DI LAVORO
DOMESTICO
e dall’altra parte
- la FEDERAZIONE ITALIANA
LAVORATORI COMMERCIO,
TURISMO E SERVIZI (FILCAMSCGIL)
- la FEDERAZIONE ITALIANA
SINDACATI ADDETTI AI SERVIZI
COMMERCIALI AFFINI E DEL
TURISMO (FISASCAT-CISL)
- la UNIONE ITALIANA LAVORATORI
TURISMO COMMERCIO E SERVIZI
(UILTuCS-UIL)
- FEDERCOLF, FEDERAZIONE
SINDACALE DEI LAVORATORI A
SERVIZIO DELL’UOMO
A seconda delle mansione che svolgono le
collaboratrici domestiche (colf) e le assistenti
familiari (badanti) vengono inquadrate in uno
degli 8 livelli previsti dal contratto ai quali
corrispondono diverse retribuzioni. La “scala”
parte dai collaboratori domestici alle prime
armi (livello A) e arriva alle assistenti familiari
con adeguata formazione che assistono
persone non autosufficienti (Livello D Super).
Le
assistenti
familiari
(badanti)
sono
inquadrate nei livelli:
- B super (Assistente a persone
autosufficienti, valore mensile per l’
anno 2009 Euro 776,62,),
- C super (Assistente a persone non
autosufficienti non formato, valore
mensile per l’ anno 2009 Euro 880,17)
- D super (Assistente a persone non
autosufficienti formato, valore mensile
per l’ anno 2009 Euro 1087,27).
Per le assistenti conviventi sono previste un
massimo di 54 ore di lavoro a settimana, oltre
le quali è dovuto lo straordinario, mentre
scendono a 40 le ore settimanali per le non
conviventi.
Ogni rapporto di lavoro contiene condizioni
economiche diverse che non devono essere in
contrasto con il contratto collettivo. Le parti
non possono mai concordare una retribuzione
inferiore ai minimi contrattuali. Vanno
specificati l’orario di lavoro, le ferie, il giorno di
riposo settimanale e la mezza giornata di
riposa infrasettimanale.
Il contratto collettivo specifica le ore di
permesso retribuito (40) di cui possono
usufruire le assistenti familiari per frequentare
corsi di formazione professionale, disciplina il
lavoro ripartito, (grazie al quale 2 lavoratori
assumono un’unica obbligazione lavorativa e
possono
dividersi
lo
stesso
posto,
accordandosi la sostituzione fra di loro su
giorni e orari) e l’interruzione del rapporto di
lavoro sia per licenziamento, dimissioni oppure
scadenza del contratto a tempo determinato.
Molti sono gli aspetti il regolati dal contratto di
lavoro, tra cui:
1) le
prestazioni
notturne
divise,
in
discontinue
prestazioni
assistenziali
notturne (di cura alla persona) comprese
tra le 20.00 e le 8.00 e le prestazioni
notturne
esclusivamente
d'attesa
(presenza notturna) comprese tra le 21.00
e le 8.00.
2) l’obbligo di vitto e alloggio a carico del
datore di lavoro se il lavoratore è
convivente o se ha un orario giornaliero
pari o superiore alle 6 ore.
3) il periodo di prova che è retribuito ed è di
30 giorni per il livello D Super e di 8 giorni
per gli altri livelli, superato il quale il
4)
5)
6)
7)
8)
9)
10)
lavoratore
viene
automaticamente
confermato.
Il riposo giornaliero per il lavoratore
convivente, che ha diritto ad 11 ore
consecutive nell’arco della stessa giornata
e ad un riposo intermedio non retribuito
non inferiore alle 2 ore giornaliere,
normalmente nelle ore pomeridiane.
gli straordinari, con maggiorazioni orarie
del 25% per prestazioni tra le ore 6.00 alle
ore 22.00, del 50% per prestazioni tra le
ore 22.00 alle ore 6.00, 40% per
prestazioni nelle 12 ore di riposo
settimanale, 60% per prestazioni nella
giornata di riposo domenicale o nei giorni
festivi e del 10% per prestazioni eccedenti
le 40 ore settimanali tra le ore 6.00 alle ore
22.00 per lavoratori non conviventi.
il riposo settimanale che è di 36 ore, da
godere 24 ore di domenica, e le altre 12
ore in altro giorno della settimana, da
concordare.
le giornate festive riconosciute, in cui il
lavoratore ha diritto al riposo e alla
retribuzione.
le ferie, che sono irrinunciabili, vengono
pagate e comprendono un periodo di 26
giorni lavorativi all’anno.
la tredicesima mensilità di retribuzione
aggiuntiva, che viene percepita entro il
mese di dicembre in occasione del Natale.
il trattamento di fine rapporto di lavoro
(TFR).
Per quanto riguarda le tutele previdenziali,
le assistenti familiari possono beneficiare
dell’indennità
di
disoccupazione,
dell’assegno
al
nucleo
familiare,
dell’indennità di malattia, delle prestazioni
di infortunio o malattia professionale,
dell’indennità di maternità (2 mesi prima
del parto e 3 mesi successivi) pari all’80%
della retribuzione, dell’indennità per
Congedo Parentale per assistere i figli
minori di 8 anni in cui il lavoratore riceve
un’indennità pari al 30% della retribuzione.
L’indennità di maternità e di congedo
parentale è pagata dal datore di lavoro poi
rimborsato dall’INPS con il conguaglio dei
contributi.
Ogni trimestre, a scadenze fisse, i datori di
lavoro versano i contributi per l’assistente
familiare impiegata. I contributi vengono
utilizzati da Inps e Inail per liquidare alcune
indennità (disoccupazione, malattie e
maternità, infortunio sul lavoro e assegni
familiari) e anche per il trattamento
pensionistico.
Al termine del rapporto di lavoro al
lavoratore spetta il trattamento di fine
rapporto. Il diritto alla pensione matura per
i lavoratori stranieri con le stesse regole
valide per gli italiani.
Analisi dei lavoratori impiegati nel settore
domestico.
1 milione sono, secondo stime, le donne
immigrate che si prendono cura delle nostre
famiglie. Si tratta in prevalenza di donne tra i
30 e i 50 anni, immigrate in Italia dai paesi
dell’Europa dell’Est, dal Sud America,
dall’Africa in cerca di lavoro.
Secondo i dati INAIL dell’ottobre 2008, nel
settore dell’assistenza familiare a livello
nazionale 1 lavoratore su 4 è rumeno.
In Piemonte I dati relativi alle provenienze
principali vedono una netta prevalenza
dell'Europa dell'est, con il 69,7% (in particolare
Romania, ma anche Ucraina, Moldavia,
Albania, Russia), cui seguono America Latina
con 15,6% (Perù, Ecuador, Brasile). Africa con
12,4% (Marocco, Nigeria), Asia con il 2,3%
3
(Cina, Filippine).
3
www.piemonteimmigrazione.it
CARATTERISTICE DEL GRUPPO
LAVORATIVO ANALIZZATO
Le dinamiche di mercato
Le donne straniere stanno rappresentando una
risposta alle trasformazioni della società
italiana, evidenziate nei mutamenti economici,
demografici, familiari e sociali, che riguardano
fondamentalmente
l’aumento
della
popolazione anziana, l’attiva partecipazione
delle donne al mercato del lavoro, la difficile
gestione della doppia presenza nel lavoro e in
famiglia, la mancata redistribuzione dei compiti
tra uomini e donne, la copertura limitata dei
servizi pubblici nell’assistenza domiciliare.
Le dinamiche di domanda e di offerta del
mercato privato della cura si innestano sul
mondo problematico degli anziani. Nell’attuale
contesto italiano emergono molteplici fragilità e
difficoltà nella relazione tra assistenti familiari,
anziani e famiglie, tra cui si evidenziano:
- I processi di discriminazione subiti dalle
assistenti straniere, nell’ambito di un
lavoro
poco
tutelato,
scarsamente
remunerato e spesso irregolare a livello
contrattuale;
- La problematicità della condizione di
dipendenza e di debolezza dell’anziano
non autosufficiente
- La
complessa
questione
della
responsabilità della cura all’interno delle
famiglie, in cui le donne, di frequente,
assumono il ruolo di caregiver, in modo
gratuito, naturale e dato per scontato
Le collaboratrici domestiche e le assistenti
familiari immigrate sono diventate una
componente consolidata del sistema dei
servizi alla persona; la sanatoria del 2002 ha
trasformato le famiglie in datori di lavoro, in un
settore dove non sono richieste conoscenze e
competenze pregresse. Il vitto e l’alloggio di
solito vengono compresi nell’offerta di lavoro e
non essere regolari a livello di permesso di
soggiorno e/o contratto di lavoro può risultare
in apparenza essere più conveniente per tutti i
soggetti coinvolti.
Se le assistenti famigliari possono essere una
risposta flessibile e vantaggiosa (ma di bassa
professionalità e limitate garanzie per la salute
delle persone coinvolte), è ancora più grave
l’irregolarità nei contratti di lavoro, in
particolare sul piano contributivo.
Il lavoro di cura, anche se configura un
modello di welfare definito come nascosto,
semisommerso, poco visibile, segmentato,
viene regolato dalle domande delle famiglie e
dall’offerta di una forza lavoro, in prevalenza
femminile e straniera, che trova in questo
settore un primo canale precario e poco
tutelato di inserimento lavorativo e abitativo sul
territorio italiano. Le famiglie trovano invece
soluzioni individuali e private dentro le mura
domestiche, attraverso un lavoro scarsamente
qualificato, sottopagato e poco tutelato.
La regolarizzazione realizzatasi a settembre
2009 e chiusasi con 294.744 domande di
assunzione di lavoratori non comunitari come
collaboratori familiari o badanti, ha evidenziato
ancora una volta la complementarità tra
esigenze della popolazione italiana e
disponibilità di quella immigrata.
Inoltre, con alcune ulteriori accortezze, il
provvedimento avrebbe consentito l’emersione
di un numero maggiore di persone, con
benefici innegabili non solo per esse stesse e
per le famiglie da assistere, ma anche per lo
Stato: l’operazione ha fruttato, infatti, 154
milioni di euro in contributi arretrati e marche,
mentre nel periodo 2010-2012 farà entrare
nelle casse dell’Inps 1,3 miliardi di euro
supplementari.
TARGET GROUP di lavoratori analizzato.
L’indagine sociologica svolta nell’ambito del
progetto SolidAssistenza in una prima fase ha
utilizzato
una
metodologia
qualitativa
basandosi su interviste semi-strutturare
realizzate con un gruppo di 50 donne che
hanno permesso di precisare le ipotesi alla
base
del
questionario
strutturato
somministrato ad un campione di 500
assistenti - che si è posto l’obiettivo di
indagare la qualità della vita delle lavoratrici
straniere tra esperienza migratoria e di lavoro,
condizione familiare, progetti di formazione e
di vita.
Indagine qualitativa.
Il campione intervistato di prevalenza
femminile, rispecchia la predominanza delle
donne nel lavoro di cura, dove di 50 interviste
solo 3 sono uomini.
Il 50% delle donne intervistate provengono
dall’Europa
centro
orientale
(Ucraina,
Moldavia, Romania, Russia e Albania), il 16%
provengono dall’Africa, in particolare del
Maghreb, il 20% dall’America Latina (Perú,
Ecuador), il 4% sono filippine e 10% italiane.
In quanto all’età, il gruppo più numeroso e
compreso tra i 30 e i 50 anni;
A livello di condizione contrattuale, il 18%
dichiara di non avere nessun contratto, il 6%
ha un contratto a tempo determinato, il 6% un
contratto di collaborazione e il 70% un
contratto a tempo indeterminato. Il 12% non è
in possesso del permesso di soggiorno.
In quanto al percorso formativo, il 24% è in
possesso di una istruzione di base (fino a 14
anni circa), il 16% possiede una qualifica
professionale (cuoca, sarta, segretaria,
operatrice socio-sanitaria), il 32% possiede il
diploma e il 28% ha compiuto studi universitari.
Molte sono qualificate in ambiti dell’assistenza
sociosanitaria
(infermieri,
operatrici
sociosanitarie, medici) di cui alcune (12%)
hanno ottenuto il riconoscimento del livello di
formazione
pregresso,
frequentando
e
qualificandosi come OSS (Operatore Socio
Sanitario) o ADEST (Assistente domiciliare e
dei servizi tutelari).
Per quanto riguarda la condizione familiare
ed abitativa, quasi la metà delle assistenti
familiari (44%) convive con l’anziano per cui
lavora, rimanendo a disposizione di giorno e di
notte.
Alcune sono da sole in Italia, poiché nubili o
perché hanno lasciato marito e/o figli in patria;
altre vivono con l’anziano e un figlio
ricongiunto; altre invece se vivono laddove
lavorano, hanno mariti e figli che vivono in
appartamenti propri, vicino alla residenza
dell’anziano assistito. Il resto delle donne
svolge orario diurno presso l’abitazione
dell’anziano, solo una svolge un turno di notte.
Vi sono anche donne separate o divorziate che
vivono con i figli, con compagni italiani, con
altri familiari o amici.
Indagine quantitativa.
Nell’indagine quantitativa sulla qualità della
vita delle assistenti familiari si è proceduto con
la somministrazione di un questionario
strutturato in 68 domande a risposta
chiusa, a un campione di 503 donne
provenienti di 31 nazionalità diverse distribuito
a quote di 100 assistenti familiari regolari per
ogni territorio provinciale (Alessandria, Asti,
Cuneo, Novara, Vercelli), da cui solo il 0,6% é
in possesso della cittadinanza italiana,
dimostrando un radicamento ancora debole
nel contesto nazionale, a livello del loro
riconoscimento politico.
In quanto riguarda l’età del campione, sono
più anziane (con più di 40 anni) le ucraine e le
donne provenienti da altri paesi europei, sono
invece più giovani (meno di 40) le marocchine,
le rumene e le latinoamericane.
Le donne che svolgono il lavoro di cura hanno
titoli di studio medio-alti (quasi i ¾ sono
diplomate, hanno frequentato l’università o
sono laureate), mentre meno di ¼ ha solo una
scolarizzazione di base; nonostante ciò, i titoli
di studio posseduti non sono funzionali al
lavoro di assistenza.
I dati sulle professioni svolte nel paese
d’origine mostrano che il 26.4% del campione
è costituito da operarie, il 22,7% ha svolto un
lavoro impiegatizio, il 13,9% sono state
disoccupate, mentre il 9,1% erano insegnanti,
l’8,2% lavoravano nel settore dell’assistenza, il
4,4% nel lavoro domestico, mentre il 7,4% è
costituito da dirigenti e lavoratrici autonome.
Considerando lo stato civile delle donne si
osserva che circa la metà (48,3%) è coniugata,
il 20% è separata o divorziata, il 16% è single
e nubile, l’8% vedova e il 5% convive con un
compagno.
Dell’analisi della condizione abitativa delle
assistenti familiari, i dati confermano che nel
58,7% dei casi la donna non vive con la
famiglia, mentre il 34,6% delle intervistate vive
con coniuge o figli o altri parenti. La
maggioranza del campione (58,4%) è costituito
di lavoratrici co-residenti con l’anziano, mentre
il 31% lavora solo di giorno nella abitazione
dell’assistito, e sono poche (2,8%) quelle che
fanno il turno di notte. Invece, per le donne
coniugate, è minore la percentuale di quelle
che coabitano con l’assistito, che viene ridotta
di circa 10 punti rispetto a quelle che non
convivono.
In quanto al tipo di migrazione, si è in
presenza di una migrazione di donne
capofamiglia o primo migranti (3/4 del
campione) in cui le moglie (76%) o le madri
(65%) a migrare per prima, invece le donne
sole o senza figli costituiscono una minoranza
esigua. Molte di loro, come responsabili
dell’economia familiare, fanno crescere i figli in
patria, affidandoli a familiari e parenti, e
svolgono a distanza il loro ruolo materno.
CONDIZIONI
LAVORATIVE
GRUPPO ANALIZZATO
DEL
Il Percorso migratorio e il lavoro di cura
Le donne che scelgono di migrare per lavorare
nel campo dell’assistenza agli anziani, in
modalità fissa o co-residente, possono avere
motivazioni differenti: per alcune, quelle che
partono da sole, la migrazione rappresenta
una possibilità di emancipazione dall’uomo e di
affermazione della propria autonomia; per altre
implica
migrare
per
prime,
nella
consapevolezza di essere le più adatte ad
inserirsi nel mercato del lavoro italiano, ma con
un progetto di ricongiungimento familiare (figli
e marito); infine, per altre ancora, la partenza
ha una motivazione strumentale di mero
guadagno, per poter poi rientrare rapidamente
in patria.
Motivazioni della migrazione
Tra le motivazione principali che hanno influito
sulla scelta di partire dal proprio paese, in
risposta alla domanda del questionario “qual è
il motivo fondamentale per cui ha deciso di
venire in Italia?” le donne lavoratrici
segnalano maggiormente i fattori di
espulsione piuttosto che quelli di attrazione.
Per il 40% del campione i problemi economici
familiari, particolarmente gravi per le donne
rumene, sono riconosciuti come principali
fattori da cui scaturisce la decisione di migrare.
Seguono le condizioni oggettive di crisi
economica e politica del proprio paese
d’origine (20%): in totale oltre il 60% del
campione
attribuisce
a
tali
aspetti
un’importanza fondamentale.
I fattori di espulsione strutturali caratterizzano
in particolare le donne provenienti dai paesi
europei, dall’America Latina e dall’Ucraina. I
problemi economici familiari sono più gravi per
rumene, latinoamericane ed ucraine.
Le cause di espulsione della migrazione sono
descritte nel racconto di alcune donne
intervistate:
“Sono i tempi brutti e le difficoltà economiche
che abbiamo adesso nel nostro paese. Siamo
arrivati qui per lavoro. Non conta l’età, non
conta assolutamente niente. Io ho 53 anni
compiuti, sto qui. Speriamo nel miglioramento
delle condizioni nel nostro paese. Per adesso
non si vede assolutamente niente e per questo
dobbiamo farci coraggio, forza e tirare avanti
con il lavoro che c’è (41)”
“In quel periodo c’era una forte inflazione nel
mio paese e non si poteva più andare avanti
con la famiglia (3)”
“Prima sono entrata come turista. Pensavo:
qualcosa trovo, qualcosa prendo e poi torno
presto. Invece dopo è morto mio suocero,
avevamo bisogno di soldi e d’accordo con mio
marito ho deciso: io rimango qui (44).
Per quanto riguarda i fattori di attrazione, circa
il 16% del campione intervistato imputa la
decisione di migrare in Italia ad aspetti come la
differenza
di
salario
e
la
facilità
dell’inserimento nel mercato del lavoro, in
particolare sottolineata dalle donne dell’area
Maghreb. L’attrazione per l’Italia è più esplicita
per le magrebine. Il ricongiungimento familiare
caratterizza soprattutto le nordafricane e le
albanesi.
“Sono venuta in Italia perché speravo di
trovare qualcosa di meglio di quello che avevo
nel mio paese (1)”
“Qui c’è lavoro per me e mio marito e anche i
miei figli stanno meglio (10)”
“Mi sono fermata perché sapevo che qui in
Italia c’è bisogno di persone per assistere le
persone anziane (41)”
Modalità
d’ingresso.
irregolarità.
Regolarità
ed
Per quanto riguarda la modalità di ingresso,
il visto turistico (della durata di tre mesi,
acquistato in agenzie turistiche specializzate
nel paese di origine) sembra essere la strada
di accesso più comune e riguarda il 60% delle
donne. È importante distinguere la presenza
delle cosiddette overstayers, giunte in Italia in
maniera regolare con apparenti motivi di
turismo e poi prolungano la permanenza oltre i
tre mesi per inserirsi nel mercato del lavoro,
dalle clandestine vere e proprie che, in Italia,
non sono così numerose. La quota di coloro
che dichiarano di essere entrate in maniera
irregolare, senza alcun visto, è del 17%,
mentre sono il 12,8% le donne ricongiunte
(ricongiungimento familiare) e 6% quelle
giunte con un visto per lavoro, anche se
questo è nella maggior parte dei casi l’unico
reale motivo della migrazione.
L’aumento dell’immigrazione irregolare, in
sintesi, oltre che il fenomeno degli ingressi
clandestini, è dovuto a coloro che si fermano
sul territorio oltre la scadenza del visto. La
vocazione turistica dell’Italia agevola tale
prassi e talvolta proprio le immigrate utilizzano
i visti turistici per alternarsi sullo stesso posto
di
lavoro.
L’immigrazione/permanenza
irregolare
poi
alimenta
l’occupazione
irregolare.
Il percorso più comune (riguardante il 70%
circa del campione e soprattutto le europee)
si caratterizza quindi per una prima fase di
irregolarità
cui
segue
successiva
regolarizzazione. La reiterazione, le corso
degli anni, di regolarizzazione per sanare la
condizione
degli
stranieri
presente
irregolarmente in Italia 8sanatoria 2002 e
sanatoria 2009) legittima, in qualche misura, la
pratica dell’entrata irregolare. Il 20% del
campione intervistato si è regolarizzato nel
2002, l’anno della grande regolarizzazione di
assistenti e lavoratrici domestiche.
“Sono arrivata in Italia nel 1999 come turista in
aereo ed il viaggio mi è costato 1200 dollari;
sono venuta da sola. Sono entrata con visto
turistico e poi sono diventata clandestina e nel
2002 mi sono regolarizzata con la sanatoria
(3)”.
“Sono entrata come turista in modo regolare
poi sono diventata clandestina; dopo alcuni
mesi ho trovato un datore di lavoro che mi ha
fatto avere i documenti profittando del decreto
flussi del 2004 con un contratto stagionale in
agricoltura per 9 mesi; nel 2005 ho avuto un
altro contratto uguale ed ho dovuto pagarmi
tutte le spese contributive e previdenziali, che
sarebbero state a carico del datore di lavoro.
Ho anche dovuto subire ricatti, umiliazione e
minacce come una bestia. Adesso prego Dio
di poter essere fortunata ed ottenere un
contratto a tempo indeterminato e poter
finalmente regolarizzare la mia posizione in
maniera definitiva (1).
Tra le donne contraddistinte da un percorso di
regolarità (nel assaggio tra visto e permesso di
soggiorno) si delineano tre percorsi diversi:
- Visto per motivi familiari: il gruppo delle
mogli giunte per ricongiungimento familiare
costituisce il 39% delle regolari
- Visto turistico: il gruppo di turiste che
hanno trasformato il visto turistico in
permesso con finalità di turismo costituisce
il 21% delle regolari
- Visto per lavoro: il gruppo delle lavoratrici,
donne che all’inizio del percorso migratorio
hanno una motivazione di lavoro
riconosciuta legalmente nei visti e nei
permessi di soggiorno ottenuti costituisce il
15% delle regolari
“Sono venuta in maniera regolare, con un
contratto a richiesta…… perché in Italia c’era
mia sorella, è lei che mi ha dato questa
possibilità e mi ha detto che c’era lavoro.
Adesso vivo da sei anni in Italia e provengo da
Lima, in Perù (4)”
Vantaggi della regolarizzazione
Il 52,6% del campione sostiene che diventare
regolari, a livello di soggiorno, offre sicurezza e
tutela da parte della legge: se si è in regola si
è titolari di diritti, si viene riconosciuti come
persone, si può uscire dall’invisibilità e dalla
marginalità. Il desiderio di tutela è maggiore
per le donne con un’età più avanzata. Per il
19,9% del campione questa sicurezza diventa
una vera e propria difesa: la regolarità rendi
possibile superare la paura dell’espulsione.
Una percentuale minore riconosce invece il
valore di sentirsi cittadina (8,8%). Per altre la
regolarità tutela lo sfruttamento lavorativo,
anche se la famiglia dell’anziano – ovvero i
datori di lavoro – può avere un ruolo
promozionale nel momento in cui favorisce e
suggerisce la regolarizzazione. I cambiamenti
più significativi citati dal campione - avvenuti in
seguito alla regolarizzazione – sono:
- in primo luogo essere regolari dà
l’opportunità di tornare in patria più di
frequente per andare a trovare la famiglia
senza correre il rischio di non poter più
rientrare in Italia (46% del campione)
- dalla regolarità del soggiorno deriva la
possibilità di avere un contratto (23%) e di
rivendicare i propri diritti (17,4%)
- la possibilità di poter effettuare il
ricongiungimento
familiare
offre
la
prospettiva di far rimanere la propria
famiglia a tempo indeterminato sul
territorio italiano; le regolari possono
comprare o affittare una casa, ma anche
chiedere un prestito
- sul lavoro, la regolarità dà diritto al riposo,
ad aspirare ad un lavoro diverso
dall’assistenza agli anziani
- alla regolarità si collegano diritti sociali
come l’iscrizione al sistema sanitario
nazionale, il diritto alla pensione, ecc.
- infine una sicurezza emotiva, una
sensazione di libertà nel camminare per
strada senza timore né tremore
Accesso al mercato del lavoro domestico
Alla domanda del questionario “prima della
partenza aveva un’idea del tipo di lavoro che
avrebbe trovato in Italia?” circa il 52% del
campione dichiarava di non avere avuto
nessuna conoscenza del lavoro che avrebbe
potuto svolgere in Italia e, quindi, di non
possedere informazioni sul mercato del lavoro
italiano. Il gruppo delle “disinformate”
all’oscuro delle prospettive lavorative offerte
dall’Italia costituisce il gruppo più a rischio di
sfruttamento e discriminazione.
Tra coloro che dichiarano di aver posseduto
una consapevolezza dell’offerta di lavoro in
Italia (46,3%) - in prevalenza donne arrivate di
recente (a partire dal 2001), in genere più
anziane, rassegnate a svolgere lavori da
straniere e provenienti in genere da paesi
dell’Europa dell’est – un dato emerge con
chiarezza: l’81,6% pensa che un’immigrata
non possa svolgere altra professione che
l’assistente familiare o la collaboratrice
domestica.
Le fonti di informazione più diffuse sono
relative a canali informali: il 65%
del
campione è stato aiutato attraverso il
passaparola e il contatto con parenti,
conoscenti e connazionali che hanno lavorato
o lavorano in Italia. L’esistenza di reti di parenti
o connazionali in Italia è superiore alla media
per ucraine e rumene (78% e 76%), inferiore
per latinoamericane (48%) e maghrebine
(51%).
Anche i canali di ricerca e di accesso al
mercato del lavoro italiano sono caratterizzati
da un alto livello di informalità. Le reti
relazionali in cui sono inserite le donne
funzionano collocando in nicchie etniche di
lavoro – come l’assistenza agli anziani facilitando quindi l’accesso al mondo del
lavoro, ma solo ad uno specifico e determinato
settore, da cui è quasi impossibile uscire. Si
tratta di reti di connazionali (46%) e di
autoctoni (22,6%) che hanno assunto nel
tempo un ruolo sempre più importante e
strategico per la collocazione dei migranti nel
mercato del lavoro e che rappresentano il
capitale sociale delle assistenti familiari:
l’amica che ospita in casa e offre referenze alla
famiglia italiana (e che spesso richiede di
essere compensata in denaro per la
prestazione), le istituzioni di orientamento
cattolico (16% dei casi), in particolare per le
comunità di religione cattolica proveniente da
America latina o paesi dell’Europa dell’est.
“Ho trovato questo lavoro tramite una
conoscente di una mia amica, che mi ha fatto
pagare
250
euro
solo
per
essere
raccomandata da lei alla famiglia dove lavoro
adesso (19)”
“Un’amica mia ha aiutato, ha trovato, dove la
mia amica lavorava, il nipote della mia signora
– lei è senza figlie – cercava una badante, e lei
ha detto “senti, io ho una mia amica,, lei è
brava, se volete io chiamo lei”. E lui ha detto
“va bene, chiama”. E allora lei mi ha chiamato
(37)
Nessun altro soggetto pubblico o privato viene
indicato dalle donne del campione come ente
in grado di intervenire in questo mercato
privato – e destrutturato – della cura: le donne
si collocano nelle famiglie italiane attraverso
reti di connazionali, contatti personali,
intermediazione delle parrocchie, mentre si
manifestano le difficoltà degli enti pubblici nella
gestione di questo immenso mercato privato di
domanda e offerta di lavoro, la cui gestione si
traduce nell’incontro tra domanda e offerta,
nella contrattazione diretta che dipende
dall’arbitrarietà e dalla buona volontà dei
singoli. La questione diventa complessa
quando appaiono sulla scena attori non troppo
corretti (assistenti approfittatrici, anziani
pericolosi, famiglie sfruttatrici).
La relazione lavorativa diventa, quindi, un
incontro e uno scontro tra persone in stato di
necessità, in cui ognuno cerca di rispondere
ad un bisogno, un’esigenza di lavoro, di
assistenza, di sostituzione nel proprio ruolo di
caregiver, ma che si risolve nel trovare
soluzioni di emergenza – precarie, provvisorie,
informali, basate sul “fai da te” – che nel lungo
periodo non sono conveniente per nessuno dei
soggetti in gioco.
“La badanza non esiste in termini di
professionalità. Esiste la necessità di una
persona e esiste la necessità di un’alta
persona che si scontrano. La famiglia quando
pensa alla badante non pensa alla
professionalità che questa esprime, ha
necessità che qualcuno accetti un contratto a
25 ore (Focus Group, Alessandria).
Le prime assistenti familiari provenivano dai
continenti africano e asiatico, ma con la forte
immigrazione prima dal Sud America poi dai
Paesi dell’Est europeo, le africane hanno
perso posti di lavoro perché le famiglie,
avendo possibilità di assumere una persona
bianca, la preferiscono ad una di colore poiché
la sentono più vicina alla propria cultura.
Normalmente sono le famiglie a scegliere
l’assistente familiare, raramente la scelta è
fatta personalmente dall’anziano. Le famiglie,
dopo un primo approccio con la persona
disponibile, si rivolgono agli Enti preposti per la
messa in regola del rapporto di collaborazione
(l’apertura della posizione all’Inps, all’Inail, le
comunicazioni in Questura) e per avviare la
gestione del rapporto di lavoro. In alcuni casi si
rivolgono ai patronati di sindacati, Acli, ecc. per
predisporre le buste paga, elaborare i punteggi
dei contributi fino al termine del rapporto di
lavoro ed essere tutelati qualora non venissero
rispettati i patti.
Condizione familiare
¾ del campione è composto da donne
capofamiglia o primo migranti, in cui cioè sono
soprattutto le mogli (76%) e le madri (65%) a
migrare per prime. Una esegua minoranza è
costituita da donne sole e senza figli. Le donne
immigrate, che sono le principali responsabili
dell’economia familiare, spesso sono costrette
a far crescere i propri figli in patria, affidandoli
a familiari e parenti.
Per le donne senza una famiglia in Italia
(58,7%), la coabitazione con l’assistito è la
scelta prevalente, mentre la presenza di figli,
del marito o di entrambi (34,6%) riduce
notevolmente la disponibilità a vivere con
l’anziano.
Le donne che hanno lasciato in patria la loro
famiglia sono combattute tra la possibilità di
lavorare e di contribuire a raggiungere un
benessere materiale, sacrificandosi per i propri
familiari e le sofferenze per la mancanza delle
persone care e la separazione dagli affetti.
Sono sposata, ho due figli che si stanno
laureando. Se fosse la tua mamma al mio
posto, tu come la prenderesti? I primi tempi
era orribile, era una tragedia. I miei familiari mi
dicevano “non abbiamo bisogno di niente,
torna a casa”. Io non vorrei che i i miei figli
venissero qua (12).
Per le madri, il rapporto con i figli lasciati al
Paese di origine costituisce un legame
importante,
che
rende
maggiormente
accettabile la migrazione e le faticose
condizioni di lavoro, nell’ottica di dare loro un
futuro migliore.
In alcuni casi sono donne che hanno superato
i cinquanta anni di età e che, dopo aver
raggiunto la pensione nel Paese d’origine,
hanno la necessità di aumentare le entrate
economiche per sé e per la propria famiglia, e
quindi giungono in Italia per far fronte a spese
improvvise (ad es. un’operazione costosa) o
necessarie (ad es. gli studi universitari dei
figli).
“La mia famiglia è nel mio paese d’origine, in
Moldavia. Ho due figli grandi, di 32 e 33 anni,
sono nonna di quattro nipoti. Io sono qui e mio
marito alla sua età non può venire a trovare un
lavoro qui, per questo non ho fatto il
ricongiungimento. Faccio tutto io per aiutare
tante famiglie, a tutti quanti. (41)
Le donne coniugate hanno dal canto loro
un’ulteriore preoccupazione latente: temono
che la distanza e la lontananza fisica e
affettiva possa incidere sul rapporto di coppia
con il marito. Per tutte loro la migrazione si
rivela come un evento che mette alla prova la
solidità dei legami amorosi: i vecchi legami
possono finire, portando a separazioni e
divorzi, possono nascere nuovi amori con
connazionali o con italiani che incidono sulle
loro scelte e sui progetti di vita.
Tra le donne immigrate è diffusa la pratica di
spedire a casa una quantità di denaro che
coincide con una somma che va dalla metà a
quasi tutto quello che guadagnano all’estero.
L’82,5% delle donne del campione, infatti,
sostiene di inviare abitualmente denaro alla
famiglia rimasta in patria, e tra coloro che
vivono presso gli anziani che assistono, la
percentuale supera il 90%.
L’utilizzo delle rimesse in patria per mantenere
i figli a scuola e mantenere i propri genitori
raggiunge il 56,%, quelle per acquistare la
casa il 16,%, mentre quelle per avviare
un’attività in proprio solo il 3%. Le madri dei
Paesi dell’Est emigrano per aiutare i figli a
prepararsi un avvenire migliore, offrendo loro
la possibilità di studiare fino al diploma o la
laurea-. Per le assistenti familiari di altre
provenienze, come Africa e America Latina, vi
è soprattutto l’impegno verso la famiglia di
origine che si è indebitata pesantemente per
permettere il viaggio.
In genere i guadagni vengono introdotti in
Patria per via informale. Le rimesse
costituiscono
un
ruolo
centrale
nella
riproduzione materiale e simbolica di un
network familiare esteso al di là dei confini
domestici e territoriali. Per quanto riguarda
l’utilizzo delle rimesse, i soldi sono destinati
principalmente al mantenimento della famiglia
rimasta in patria: per il 30% del campione
intervistato sono destinati al sostegno dei figli
negli studi, il 29,% li invia ai genitori e alle
famiglie in difficoltà, mentre per il 16,% sono
destinati all’acquisto di un bene immobile
(casa).
La preoccupazione delle donne madri è
pertanto quella di mantenere i figli negli studi e
di aumentare il capitale culturale della famiglia,
nella speranza che si traduca in una mobilità
socioeconomica, oppure ci si propone di
aiutare economicamente i membri del nucleo
familiare. Le singles, invece, destinano i loro
soldi alla famiglia d’origine ovvero ai genitori,
ed emerge una situazione paradossale di
donne
che
migrano
per
mantenere
economicamente i propri genitori anziani,
prendendosi cura di altri anziani in Italia.
Si evidenzia il fatto che le rimesse
costituiscono solo uno dei modi per restare in
contatto con la propria famiglia, seppur a
distanza: le donne utilizzano molteplici
modalità per tenere viva la relazione e la
comunicazione, per telefono, attraverso i
messaggi, le lettere, le fotografie e i pacchi
inviati con la corriera, e con l’utilizzo delle
nuove tecnologie, per e-mail e via messenger.
Nel percorso migratorio delle assistenti
familiari questa situazione di disagio,
sofferenza ed isolamento non può che essere
una condizione transitoria. Se in un primo
momento
per
le
immigrate
l’anziano
rappresenta la famiglia lasciata in patria, con
cui la coabitazione è un’occasione per
intessere relazioni affettive e trovare una
compagnia che permette di sfuggire al senso
di solitudine, il ricongiungimento (di coniuge
e/o figli) costituisce una vera e propria svolta,
che impone necessarie trasformazioni nella
propria esperienza lavorativa.
Il passaggio della condizione di lavoro fissa al
lavoro diurno, per esempio, costituisce un
miglioramento in termini di disponibilità di
tempo da dedicare ai propri cari. Ma nel
contempo possono nascere nuovi problemi di
relazione con i figli ricongiunti (che non
riconoscono il genitore o che sono stati
obbligati alla migrazione contro il loro volere),
e si devono affrontare nuove difficoltà
economiche per garantire la sussistenza a sé
e alla propria famiglia, sostenendo per la prima
volta le spese di vitto e alloggio, che prima
erano a carico della famiglia presso cui si
lavorava.
“Ho sei figli qui in Italia e ancora una in
Ecuador. Li vedo solo due ore al giorno, anche
se sono vicini a me sembra che siano più
lontani dall’Ecuador. E questo mi dispiace,
soffro molto, mi sento quasi una schiava. I miei
figli sentono la mia mancanza, ma non c’è
alternativa: prendere o lasciare.(3)”
Spesso le seconde generazioni vivono in
famiglie monoparentali (in cui spesso il
genitore presente è appunto la madre). Da un
lato l’attività lavorativa a tempo pieno permette
al genitore la possibilità di ottenere denaro e
risorse per garantire un certo livello di
benessere materiale ai figli presenti in Italia,
ma dall’altro lato gli sottrae tempi e spazi da
dedicare alla loro cura. La madre assume la
totale responsabilità della crescita dei figli.
Trovare un equilibrio tra il tempo per il lavoro e
il tempo per i figli è un problema per tutte le
donne che si trovano ad affrontare la sfida di
un lavoro extradomestico, ma per le straniere
si rivela ancora più complicato, poiché non
hanno alcun sostegno da parte della famiglia
allargata e svolgono un lavoro incompatibile a
livello di orario proprio con i compiti familiari.
Condizioni contrattuali
Nel campione, il 37,9% afferma che solo una
parte dello stipendio è evidenziato sulla busta
paga, mentre il 17,4% lo riceve totalmente in
nero; invece, solo il 41,3% delle intervistate
riceve l’intero stipendio in busta paga.
I servizi che si occupano di assistenti familiari
da
alcuni
anni
hanno
avviato
un
coordinamento nell’ottica di garantire sia le
famiglie sia le lavoratrici, in modo da superare
la giungla in cui ciascuno cerca il proprio
interesse a scapito di quello che, in quel
momento, è in una posizione più debole.
Per quanto riguarda il contratto di lavoro, il
74,8% del campione dichiara di averlo, invece
il 18,7% dichiara di non averlo. La pratica
dell’assumere
senza
contratto
è
particolarmente presente quando l’assistente
familiare è priva di permesso di soggiorno ed
avviene più frequentemente per coloro che
provengono da Maghreb e America Latina.
Per quanto riguarda il versamento dei
contributi, il 47,5% delle assistenti afferma che
è il datore di lavoro a versare i contributi,
mentre il 25,9% versa la propria quota
spettante.
Dal campione emerge che il 63% fruisce delle
ferie, mentre il 34% afferma di non aver
fatto le ferie. Dato l’impegno continuativo, cui
si devono aggiungere le difficoltà proprie di
una persona straniera, le ferie dovrebbero
essere assolutamente fruite per evitare pesanti
ricadute sulla salute fisica e mentale.
Un terzo delle intervistate, pur lavorando in
modo continuativo tutto l’anno, non solo non
fruisce delle ferie, ma i giorni che dovrebbero
essere di ferie non vengono pagati come
“straordinario”.
Il lavoro di cura
Per l’assistente familiare il poter vivere in casa
dell’anziano significa, da un lato, essere
sollevata dai problemi d’affitto, vitto e da tutte
le spese relative all’abitazione, dall’altro
comporta l’entrare in un sistema con tutte le
problematiche ad esso connesse: oltre gestire
ed accudire l’anziano, spesso l’assistente
familiare conduce l’intero ménage della casa,
si sobbarca le richieste discordanti tra figli e
genitore, è sottoposta allo stress correlato
all’aggravarsi della malattia e quindi della
dipendenza, in particolare negli ultimi tempi di
vita della persona assistita.
Per la famiglia l’ingresso di una persona di
cultura diversa può provocare una serie di
problemi nella rete relazionale per la diversità
di vedute e di orientamenti valoriali. In altre
situazioni invece, la presenza dell’assistente
proveniente da un’altra cultura è occasione per
avviare elaborazioni interculturali: la famiglia
italiana riscopre alcuni valori che aveva perso
o accantonato per rincorrere obiettivi quali
successo, competitività, sovrapposizione di
ruoli, e la persona straniera può sviluppare
processi
di
rielaborazione
dei
propri
comportamenti e atteggiamenti.
Sovente l’assistente familiare è considerata
quasi
come
una
sostituta
dei
figli,
un’intermediaria tra i figli e il genitore. Di solito
si cerca una donna sui 40-50 anni, perché una
persona troppo giovane non riuscirebbe a
seguire con sufficiente cura l’anziano, in
quanto si annoierebbe a fargli compagnia, e
una persona troppo anziana, ovviamente, non
avrebbe la forza fisica per compiere azioni di
cura indispensabili ad una persona non
autosufficiente.
Alcune famiglie si affezionano all’assistente
familiare e, quando la persona anziana viene a
mancare, si impegnano a cercare una
soluzione alternativa, altre famiglie invece
l’allontanano
immediatamente
senza
preoccuparsi della precaria condizione in cui a
volte l’assistente si viene a trovare.
Le problematiche della salute delle persone
anziane, alla base dell’assunzione di
un’assistente
familiare,
sono
fondamentalmente di due tipi: la demenza
senile, per la quale le assistenti familiari non
hanno quasi mai né conoscenze né
competenze specifiche, pertanto rischiano
facilmente di compromettere il proprio stato di
salute, e le malattie geriatriche, che non
richiedono
competenze
infermieristiche
specifiche se i figli o il medico curante
spiegano con chiarezza la terapia da
somministrare ed i relativi tempi. Rimane
comunque impegnativo, dal punto di vista
psicologico, il rapporto relazionale per la
prolungata permanenza accanto alla persona
da assistere.
Le
famiglie
chiedono
esplicitamente
all’assistente la conoscenza della lingua
italiana per la conversazione con l’anziano, ma
spesso non usano altrettanta chiarezza nella
consegna circa le mansioni da svolgere e le
modalità di comportamento, per cui possono
nascere incomprensioni: ci si aspetta che il
proprio genitore sia trattato con affetto, o che
non si abbia un comportamento troppo
direttivo, ma, nel contempo, le si affida una
persona in toto, dall’assistenza infermieristica
alla gestione della casa, dal fare compagnia
fino ad una sorveglianza che esige che il
malato sia continuamente controllato e guidato
(nel caso di un malato di Alzheimer).
“Al livello psicologico...(sospira) siccome
l’anziano non sta bene con la testa devi essere
con i nervi di ferro, sempre mi spinge, mi
colpisce, mi sputa, sputa per terra. Neanche
l’anziana è tanto a posto con la testa, spesso
va fuori di se, comincia a gridare, a litigare con
l’anziano, lui si innervosisce di più. Litigano
spesso, due tre volte alla settimana, io mi
metto tra loro per calmarli, spesso succede
che lui la prende per capelli, la colpisce...
(sospira). E’ uno stress permanente e mi fa
tanto
male
la
testa...
(comincia
a
piangere).(13)”
L’88,9% delle assistenti familiari intervistate
svolge il proprio lavoro in casa dell’anziano,
solo il 2,6% in case di riposo e il 0,4% in
ospedali.
Riguardo alle modalità di permanenza sul
posto di lavoro, il 51,1% dichiara di rimanervi
giorno e notte: anche se ciò non sempre vuol
dire continuità di lavoro, inteso come mansioni
da svolgere, significa comunque una presenza
continuamente vigile e la certezza di essere
facilmente disturbate.
“Nessuna badante può dire con certezza
quante ore lavora. Realmente lavoriamo 24
ore su 24. Come faccio a non alzarmi di notte
quando la signora sta male, a dormire quando
mi chiama di notte? Si può essere indifferenti,
non avvicinarsi, non assistere una persona
malata fuori orario di servizio? Il mio riposo è
alla fine di settimana quando esco di casa. Nel
mio contratto sono previste 40 ore settimanali,
otto ore al giorno, ma tra il dire e il fare c’è di
mezzo il mare (19).”
Il 34,1% afferma di essere occupata solo di
giorno, mentre una percentuale molto bassa
(2,7%) svolge il servizio di assistenza
esclusivamente notturna.
La permanenza sul posto di lavoro in modo
continuativo (giorno e notte) decresce col
crescere degli anni di permanenza in Italia; il
che significa che, col tempo, le assistenti
familiari cercano una soluzione più consona
alla propria igiene mentale. La permanenza
presso la casa dell’anziano di giorno e di notte
è direttamente proporzionale allo stato di
irregolarità e in molti casi diventa quasi una
forma di complicità reciproca con conseguenze
sullo stipendio e altre forme di ricatto.
Il lavoro di cura coinvolge profondamente
l’assistente familiare per i tempi lunghi
dell’impegno, per la tipologia stessa del lavoro
e per il vivere in casa dell’assistito.
Dal campione si evince che il 56,7% dispone
di una stanza propria, il 33,8% dorme nella
stessa stanza dell’anziano o è sistemata in
maniera precaria nella parte di corridoio
attigua alla sua stanza. Il disporre o no di una
stanza propria diventa un fattore discriminante
di particolare significato per la qualità della
vita: avere una stanza propria permette
privacy, momenti di distacco, rifugio che offre
un po’ di sollievo; il dormire nella stessa stanza
con l’anziano significa ulteriori disagi durante
la notte.
I dati indicano che sono presenti classi di
stipendio piuttosto diversificate, ma la
retribuzione non dipende tanto dal numero di
ore o dalla condizione dell’anziano, ma da
condizioni fortuite, legate al fatto che il
contratto viene stipulato in gran parte dai
singoli contraenti.
Le fasce di stipendio che registrano frequenze
maggiori sono quelle tra 600 e 800 euro, con
una percentuale del 47%, e tra 800 e 1.000
euro, con una percentuale del 26%.
Consideriamo il fatto che spesso si tratta di
donne straniere intenzionate a rimanere in
Italia per pochi anni e per tanto disponibili ad
accettare orari massacranti pur di guadagnare,
nel più breve tempo possibile, quanto si sono
prefisse prima di tornare in patria. Sono
persone alla loro prima esperienza, in buona
salute e pertanto con un alto grado di
accettazione di orari prolungati, ma senza una
precisa consapevolezza di eventuali ricadute
future sulla propria salute.
La loro condizione di vita diventa ancora più
grave se non hanno l’opportunità di incontrare
connazionali, sia perché la casa dell’anziano è
sita in una zona decentrata e i mezzi pubblici
sono radi o le fermate sono lontane, sia per la
difficoltà di raggiungere la città più vicina nel
tempo libero, che non sempre è sufficiente per
consentire di andare, stare e tornare.
Per ridurre e curare l’accumularsi dello stress,
le assistenti familiari avrebbero bisogno della
presenza di qualcuno che le ascolti e le
capisca per esternare paure, eventuali
angherie
subite,
stati
di
disagio,
preoccupazioni. A volte, ciò che la persona
desidera veramente è parlare: chiede di
essere aiutata a dare un senso all’esperienza
che sta vivendo, ha bisogno di sostegno
psicologico per evitare crolli che, purtroppo, si
verificano numerosi.
Le mansioni da svolgere dovrebbero
consistere nell'accudire l’anziano, senza
intervenire a livello infermieristico. Siccome
spesso gli anziani non hanno una disponibilità
economica tale da poter assumere più persone
per le varie mansioni, l’assistente familiare si
trova a doversi far carico di tutto.
L’urgenza di trovare un’assistente familiare
che risolva il “problema anziano” pare sia il
motivo fondamentale alla base della somma
pattuita e delle modalità di pagamento (intero
stipendio in busta, o parte in busta parte in
nero), ma dipende anche del desiderio
dell’assistente familiare di evitare di pagare le
trattenute fiscali o ridurre i versamenti all’Inps.
In un contesto di emergenza per entrambi le
parti succede che non si tenga conto di alcuni
elementi oggettivi come: situazione di salute
dell’anziano, orario, sistemazione per dormire,
ferie, ecc.; fattori che, se esplicitati,
permetterebbero di definire con maggiore
equità lo stipendio adeguato, il tempo libero
necessario
per
recuperare
l’equilibrio
psicofisico, eventuali aiuti esterni, ecc.
Ci sono assistenti familiari che contestano il
fatto che la famiglia chieda le referenze senza
offrire
alcuna
garanzia
al
momento
dell’assunzione; le assistenti familiari vanno
effettivamente incontro a situazioni a volte
rischiose: ci sono anziani che al momento del
contratto non lasciano trasparire nulla, poi
quando inizia il rapporto di lavoro e l’assistente
familiare è a casa loro, presentano richieste di
altro tipo, da cui non è semplice venirne fuori
perché l’assistente, soprattutto se è irregolare,
teme di perdere il posto di lavoro.
Ci sono casi di assistenti che vogliono lavorare
il meno possibile, cercano una persona da
assistere che sia il più “fuori di testa possibile”,
per poter avere la casa a disposizione e usarla
come vogliono, fino ad utilizzarla come “casa
di appuntamenti”.
Anche per quanto riguarda il rapporto con le
colleghe si possono individuare comportamenti
molto diversificati: alcune sfruttano il più
possibile ogni occasione a proprio vantaggio:
se desiderano cambiare famiglia, vendono il
posto di lavoro a qualche connazionale per
una cifra che spesso è pari a uno stipendio
mensile e si fanno pagare per dare
informazioni, altre invece offrono un aiuto
disinteressato soprattutto alle nuove arrivate.
Le condizioni di precarietà psicofisica
dell’anziano di cui si deve occupare giorno e
notte l’assistente familiare, da un lato, e la
discrepanza tra le attese, immaginate partendo
del proprio Paese, e la realtà, dall’altro
permettono
di
sottolineare
che,
per
occupazioni come questa, sia necessaria una
formazione specifica, una preparazione
psicologica mirata e un sostegno adeguato a
questo ruolo. Il lavoro di cura dell’anziano non
autosufficiente non può essere inteso come
“occupazione rifugio” per donne straniere,
perché ciò significherebbe che, per aiutare
l’uno, si corre il rischio di mettere in difficoltà
l’altra.
Sono infatti numerose le assistenti familiari che
denunciano malattie psicosomatiche, squilibri
del comportamento (alcoolismo) o vere e
proprie malattie psichiatriche. Il progettare
tempi brevi di permanenza pone l’assistente
familiare in una condizione di permanente
estraneità, di passività circa l’integrazione e la
ricerca di altre occupazioni; guadagnare tanto
nel più breve tempo possibile è una strada
quasi inevitabile di “autodistruzione”.
Per il 36,2% delle assistenti familiari, il
principale problema percepito come causa
del loro disagio anche fisico, è la solitudine
legata all’orario prolungato, al fatto di vivere
sovente in ambienti ove gli orari dei mezzi
pubblici sono poco compatibili con quelli del
tempo libero, alla difficoltà di avviare nuove
amicizie, ecc.
I problemi di salute (25,2%) e gli stati di
depressione (24,7%) mostrano percentuali
abbastanza alte, che manifestano una
condizione di malessere piuttosto diffusa.
Si sono inoltre raccolti dati che riguardano casi
di maltrattamento fisico (8,9% dei casi) e
maltrattamento psichico (8,3%).
In quanto alla fruizione dell’assistenza
sanitaria, emerge che il 41,3% non si è mai
rivolta al S.S.N. sia per la difficoltà di
esprimere in italiano i sintomi del proprio
malessere, sia perché molte non sanno di
poterne fruire anche se non regolari e, quando
ci si rivolge alle istituzioni in stato di
clandestinità, c’è il timore dell’espulsione.
L’assistente familiare ha la percezione di
svolgere
un’occupazione
socialmente
significativa, ma si rende conto che è poco
stimata e, in molti casi, si colloca in una
posizione deludente rispetto al proprio titolo di
studio e alla professione svolta in patria.
Il lavoro svolto in patria permette di capire
l’entità del disagio di chi svolgeva attività
intellettuali o professionali di un certo livello o
prestigio e si trova ora a svolgere il ruolo di
assistente familiare in un Paese straniero. Solo
il 13,9% era disoccupata in patria, le altre
svolgevano un lavoro, o non soddisfacente, o
non rispondente al desiderio di migliorare la
condizione socio-economica propria e della
famiglia. Per molt, la professione svolta in
patria evidenzia quanto fossero lontane dal
lavoro di assistente familiare; emerge che il
motivo determinante dell’emigrazione è quello
di guadagnare, anche a costo di svolgere un
lavoro umile e faticoso.
Dall’analisi sul grado di soddisfazione delle
assistenti familiari, attraverso la valutazione
dei vari aspetti del proprio lavoro, emerge che
vengono valutati prevalentemente tra poco e
abbastanza: la retribuzione (81,3%), il riposo e
tempo libero (73,7%), la sicurezza sul posto di
lavoro (62,4%) e la varietà delle mansioni
(60,9%);
invece,
presentano
migliori
valutazioni, tra abbastanza e molto: i rapporti
con l’anziano (73,2%), i rapporti con la famiglia
(67,4%) e l’utilità sociale del lavoro (58,8%). La
consapevolezza di svolgere un lavoro utile, ma
di percepirlo come molto impegnativo a livello
psicofisico, induce a un giudizio severo sulla
retribuzione percepita. Si può affermare
invece, che una buona relazione con l’anziano
sia il fattore più importante nell’attuale
condizione delle assistenti familiari.
Il lavoro di assistenza agli anziani, viene
valutato dal campione come pesante dal
27,9%, utile dal 21,4%, poco considerato
invece, dal 17,3% perché svolgendo un’attività
delicata, che non solo non riceve un adeguato
riconoscimento, sente riconfermata la sua
condizione straniera nel fatto che nessuna
italiana lo vorrebbe svolgere. Il 13,5% lo
considera precario, in quanto il lavoro è legato
alla sopravvivenza dell’assistito ed è segnato
della difficoltà do trovare in tempi brevi un’altra
persona per non trovarsi senza casa, senza
stipendio e rischiare anche la perdita del
permesso di soggiorno.
L’82,1% delle assistenti familiari ritiene
temporaneo questo lavoro, e solo il 14,5% lo
considerano definitivo; invece, rispetto alle
prossime decisioni, il 50,9% pensa di tornare
in patria, mentre il 31% desidera il
ricongiungimento dei propri familiari, hanno il
desiderio di essere capofila di una catena
familiare
di
immigrazione,
certamente
progettando un lavoro diverso di quello di cura.
Prospettive per il futuro
La maggioranza delle donne che svolge il
lavoro di cura ha una vita appiattita sulla
dimensione del presente e della quotidianità,
permeata dai ricordi del passato ma che nega
il futuro, denso di incertezze e paure.
In queste donne lacerate e divise tra il Paese
d’origine e l’Italia, tra il passato e il presente,
può originarsi il desiderio e la volontà di
radicarsi in un nuovo territorio senza perdere
le proprie origini, uscendo della marginalità.
Per molte, il termine di paragone rimane il
Paese d’origine: per quanto sfruttate possano
sentirsi, la propensione a percepirsi come
fortunate rispetto a chi è rimasto a casa e ad
accettare condizioni di lavoro pesanti è alta.
Il 53,8% delle donne del campione non
immagina il proprio futuro in Italia, ma
manifesta l’intenzione di tornare in patria; il
30,8%,
invece,
propende
per
un
ricongiungimento dei familiari (mariti e figli) in
Italia, evidenziando un attaccamento al
contesto d’immigrazione, nonché un desiderio
di stabilizzarsi e radicarsi sul territorio italiano
con tutta la propria famiglia. L’11,5% costituito
da singles e ragazze giovani intende rimanere
da sola in Italia.
Le donne ultracinquantenni, in genere ucraine,
hanno una maggiore propensione a tornare in
patria, coabitano con l’anziano e hanno orari di
lavoro molto lunghi, sono in grado di reggere in
tali
situazioni
di
sfruttamento
(e
autosfruttamento) solo per periodi di tempo
determinato.
“Nel futuro penso di tornare in patria, anzi
vorrei farlo più presto possibile. Però per
adesso non è ancora possibile perché mi
serve una somma di denaro per poter
cominciare in’attività in proprio. Io amo molto
gli animali, perciò in futuro vorrei avere una
fattoria e occuparmi dell’allevamento degli
animali. Visto che mio marito è un medico
veterinario, penso col suo aiuto di farcela.”
“Stare un po’ qua per aiutare i figli, Ho paura
però che un domani qua qualcosa cambiasse
e qualcuno mi dicesse di andarmene via di
qua. Mio marito tanto tempo fa non mi capiva,
mi diceva di tornare perchè non può più vivere
senza di me, adesso capisce che devo stare
qua ancora un pochino.”
“Tutti pensano di tornare a casa. Io sono
arrivata qua in Italia con il pensiero di tornare a
casa, quando mi hanno chiesto “quanto vuoi
stare qua?”, ho risposto due anni”. Sono
passati quasi sei anni.”
“Ho proposto ad una donna ucraina “c’è un
lavoro in una casa di riposo”. Lei guadagna
200 euro circa, ci ha pensato un pò e dopo mi
ha richiamato. “No Padre, io devo anche
pagare la casa, mangiare, tutto il resto. Sarò
libera, però preferisco essere chiusa nella
casa, ma avere di più, perché non sono qua
per perdere ma per guadagnare dei soldi”.
(Focus group, Novara)”
Invece, le donne più giovani (sotto i 30 anni),
hanno una minor propensione al rientro;
vivono in Italia per conto loro o con qualche
familiare. La stessa situazione si presenta per
le donne separate o divorziate, che non hanno
legami affettivi significativi per cui valga la
pena rientrare nel Paese d’origine.
Il ricongiungimento, prima dei figli, ma anche di
mariti e genitori, appare una strategia più
diffusa
tra
rumene,
maghrebine
e
latinoamericane.
Scarso
interesse
alla
riunificazione della propria famiglia nel
contesto italiano lo mostrano le donne
ultracinquantenni, disposte a sacrificarsi
temporaneamente per poi rientrare.
Il progetto migratorio delle assistenti familiari
dipende della percezione del proprio lavoro,
inteso come prospettiva stabile o temporanea;
per cui notevole è la percentuale (53,8%) di
coloro che considerano temporaneo l’impegno
nell’assistenza in previsione di un rientro in
patria.
Sebbene la condizione di lavoro come
assistente agli anziani sia considerata
transitoria dalla maggior parte delle donne,
non sempre questo atteggiamento si traduce di
un rientro in patria; molte vorrebbero migliorare
la propria situazione di lavoro e cambiare
possibilmente professione, per cui non c’è una
coincidenza tra chi pensa che il lavoro sia
temporaneo (82%) e chi pensa di tornare in
patria (53,8%), e risulta evidente che chi
intende rimanere in Italia, pensando di
stabilizzarsi, non auspica di svolgere per tutta
la vita un lavoro di cura.
Dalle interviste si evince che il ritorno viene
progettato solo quando si pensa di aver
raggiunto gli obiettivi che ci si era preposti,
dopo aver accumulato abbastanza denaro per
vivere serenamente e aiutare tutti i familiari,
per integrare la propria pensione o per avviare
un’impresa; risulta invece un fenomeno diffuso
tra
le
donne
dell’Europa
dell’est
il
prolungamento inconsapevole del progetto
migratorio, in quanto esse partono con l’idea di
trattenersi in Italia solo pochi mesi, e di tornare
a casa con dei risparmi considerevoli, ma poi
prolungano
il
loro
soggiorno;
tale
atteggiamento
ha
ricadute
negative
sull’inserimento lavorativo delle donne che
rimangono senza aver scelto di restare.
Il ritorno è un orizzonte sempre vivo nella
quotidianità delle donne e costituisce la
speranza che dà la forza di resistere alle
difficili condizioni di lavoro e di vita.
L’altra importante prospettiva delle donne
intervistate concerne il ricongiungimento
familiare in Italia. Il desiderio di far arrivare il
marito, i figli e i familiari, si trasforma in un
senso di grande appagamento quando si
realizza, poiché insieme al benessere
economico e materiale raggiungono anche la
soddisfazione affettiva.
Il lavoro di assistenza agli anziani, nel caso in
cui si desideri rimanere in Italia, non si
considera definitivo perché obbliga le donne a
stare lontane della propria famiglia; si intende,
invece, migliorare la propria condizione,
riprendendo gli studi oppure aprendo un
ristorante tipico in Italia o svolgendo la
professione esercitata in patria.
Il lavoro di cura rappresenta l’inizio di un
processo di emancipazione per la donna
migrante, di ottenimento dell’indipendenza
economica, una prima forma di promozione
sociale delle immigrate che può preludere ad
un miglioramento attraverso una formazione
specifica sull’assistenza o sulla mediazione
culturale. In questo senso, l’Italia viene
considerata un Paese che offre lavoro e
opportunità, anche quando non si vedono altre
prospettive che quelle di svolgere il lavoro di
assistenza per tutta la carriera lavorativa.
Per alcune le aspettative per il futuro
consistono in un desiderio di normalità,
regolarità e legalità, negato loro da un
percorso migratorio problematico e pieno di
ostacoli; mettersi in regola a livello di
permesso di soggiorno, avere un lavoro con un
contratto, poter portare i propri figli in Italia,
avere
un
letto
matrimoniale
in
cui
ricongiungersi con il proprio marito sono
alcune tra le aspirazioni delle intervistate.
A proposito della seconda generazione, molto
forte è la fiducia delle mamme straniere nella
scuola e nella formazione, considerate i
principali canali di mobilità sociale in Italia per i
propri figli. Si desidera che loro riescano ad
avere successo nel contesto d’immigrazione e
si rifiuta quindi l’idea di un loro inserimento in
lavori poco qualificati, come è accaduto per i
genitori. Spesso sono figli che si collocano a
cavallo tra la prima e la seconda generazione
di migranti, in quanto condividono con la prima
la motivazione economica della migrazione,
l’appartenenza
a
famiglie
spezzate,
l’orientamento strumentale verso il lavoro; con
la seconda condividono la giovane età e la
prospettiva di realizzare in Italia le principali
tappe di passaggio al ruolo adulto.
“Un sogno per il futuro: comprarmi una casa in
Perú e che miei figli diventino professionisti.
Questo il vantaggio più grande, qui con poco si
può studiare.”
“Mi manca una figlia, però ce la faccio, prima
deve terminare gli studio, infatti sta svolgendo
la facola di infermeria giù in Nigeria, non
appena avrà terminato gli studio se vorrà potrà
raggiungermi.”
“Vorrei che venga riconosciuto e considerato il
nostro lavoro e che non venga battezzato con
il nome di badante, perché a qualcuno piace
così. Deve venire considerato piú un lavoro
che si fa’ per questa società italiana ed anche
il ruolo importante che abbiamo. Cosa
succederebbe se noi non volessimo fare più
questi lavori di assistenza, baby-sitter,
collaboratrici domestiche? Penso che la
società non ha pensato a questo. Ma tra non
molto usciranno dei problemi perché la nuova
generazione rifiuta di fare ciò e chiederà di più,
e noi come genitore che abbiamo passato
questo non vorremo vedere i nostri figli cosi.
Per quello mandiamo i nostri figli ad avere una
preparazione, se non ci sarà di meglio si
ritornerà con un titolo europeo che nel nostro
paese ha una grande validità.
Io voglio far venire i miei figli, farli studiare e
conoscere l’Europa, un altro mondo. Sempre
rispettando la nostra cultura.”
Riguardo all’atteggiamento nei confronti della
cittadinanza italiana, emerge che il 47,1% del
campione esprime la volontà di richiedere la
cittadinanza in futuro, il 19,5% non ha nessuna
intenzione in tal proposito, mentre il 29,4% si
mostra confuso e incerto. Chi intende tornare
in patria mostra scarso interesse per
l’acquisizione della cittadinanza; invece il
ricongiungimento familiare definisce un
progetto di stabilizzazione e radicamento sul
territorio, cui consegue la richiesta della
cittadinanza.
“Io spero di far venire gli altri figli che ho
lasciato in Marocco, cosi stanno vicino a me.
Mi piacerebbe essere italiana. Mi sono trovata
meglio qui: qui ho trovato il cappotto, il
pantalone, la gonna. là non c’era niente.”
CONCLUSIONI E
RACCOMANDAZIONI
L'Italia si trova di fronte ad una crescente
domanda di assistenti familiari straniere a
breve, medio e lungo termine a causa
dell’invecchiamento demografico della sua
popolazione.
Fare emergere il lavoro privato di cura,
sostenerlo, qualificarlo, sono obiettivi non facili.
Sulle assistenti familiari si moltiplicano
iniziative e progetti, diversi tra loro ma
convergenti nello sforzo di fare emergere e
sostenere il lavoro privato di cura.
Molti progetti per l'assistenza domiciliare sono
stati attuati in questi ultimi anni in Italia,
finanziati da diverse istituzioni: il Fondo
Sociale Europeo, nell’ambito del programma
Equal, fondi regionali, fondi provinciali, fondi
comunali. Sono stati finanziati principalmente 4
tipologie di progetti:
1. Sportelli per l’incontro di domanda
(famiglie) e offerta (lavoratrici migrante),
che offrono consulenza sulle procedure di
regolarizzazione e il contratto di lavoro
domestico, il personale sostitutivo nei
periodo di ferie, assenza per malattia, ecc.
2. Formazione
professionale
qualificare il lavoro di
domiciliare;
volta
a
assistenza
3. La creazione di Albi (comunali, provinciali)
di assistenti familiari;
4. Bonus, voucher, e assegni di cura per chi
assume un’assistente familiare in regola (o
per chi regolarizza)
I servizi pubblici per gli anziani si differenziano
da regione a regione e, talvolta, da provincia a
provincia. Questi includono RSA (residenza
per anziani), centri di assistenza diurni,
assistenza domiciliare.
Negli ultimi 5 anni, nella maggior parte delle
regioni italiane, gli sforzi del pubblico sono stati
principalmente mirati al sostegno all'assistenza
domiciliare. La maggior parte delle regioni dà
un voucher, bonus o assegni di cura per le
persone non auto-sufficienti e / o le loro
famiglie.
Alcune regioni offrono assegni di cura solo a
coloro che assumono una badante, altri
offrono assegni di cura come sostegno
mensile per la famiglia (senza controllare
come viene speso). I livelli di reddito per
ottenere l’assegno di cura variano da regione a
regione. Il numero dei beneficiari varia da
regione a regione (dallo 0,3% al 4%).
Come affrontare le sfide future?
Gli interventi si possono suddividere in due
obiettivi di policy:
1) sostenere la domanda di assistenza
2) sostenere l’offerta di assistenza.
Sostenere la domanda. Nel primo rientrano
gli sforzi volti a venire incontro alle famiglie e
alla loro domanda di cura: condividendone le
responsabilità, sostenendo le diverse capacità
di spesa, aiutandole a gestire gli oneri legati
alla ricerca di una figura adeguata al bisogno.
Nel primo caso troviamo:
1. assegni di cura e sostegni economici
2. agevolazioni fiscali
3. sportelli volti ad agevolare l’incontro
con l’offerta di lavoro.
a) Assegni di cura
Alcune Regioni erogano un sostegno
economico, sotto forma di assegno di cura,
agli anziani che ricorrono a un’assistente
familiare; si tratta di una misura differente
dall’abituale assegno di cura regionale, privo di
vincoli cogenti sull’utilizzo. Sono Abruzzo,
Emilia-Romagna, Veneto, Valle d’Aosta, FriuliVenezia Giulia e Sardegna. La finalità di
questo tipo di assegni può essere duplice:
a) “sostenere e regolarizzare”. Sostenere le
famiglie e favorire l’emersione del lavoro
nero. Il contributo è vincolato alla regolare
assunzione di un’assistente ed è finalizzato
non solo a sostenere le famiglie, ma anche
incentivare l’emersione del lavoro sommerso.
È il caso per esempio di Abruzzo, EmiliaRomagna, Friuli-Venezia Giulia, e del Veneto.
b) “sostenere, regolarizzare, qualificare”.
Sostenere le famiglie, favorire l’emersione del
lavoro nero e qualificare il lavoro di cura. In
questo caso il contributo è vincolato non solo
alla regolare assunzione dell’operatrice, ma
anche alla sua iscrizione all’albo, o registro,
delle assistenti qualificate. Il contributo
badanti, in questi casi, si inserisce in una
strategia più ampia, che vuole non solo
sostenere e far emergere, ma anche
qualificare il lavoro privato di cura, connetterlo
il più possibile alla rete dei servizi sociali e
sociosanitari. Rientrano in questa categoria la
Sardegna e la Valle d’Aosta.
Alcune informazioni sui beneficiari rivelano
criticità comuni a queste misure. Criticità
legate essenzialmente al basso tasso di
partecipazione dimostrato da anziani e
famiglie. Colpisce infatti il loro numero limitato,
nei vari contesti.
In Veneto nel 2007 hanno beneficiato del
contributo badanti un totale di 2.800 famiglie, a
fronte di 24.000 beneficiari di assegni di cura:
poco più di uno su dieci.
In Friuli-Venezia Giulia i beneficiari nello
stesso anno sono stati meno di 400, a fronte di
oltre 3.000 utenti dell’assegno per l’autonomia:
un rapporto di poco superiore.
Dimensioni molto contenute. È infatti
ragionevole stimare che almeno metà dei
beneficiari degli assegni di cura si avvalgano di
una badante (Ola, 2005; Regione Lombardia,
2008), come conferma anche il monitoraggio
della Regione Emilia-Romagna sugli assegni
di cura, dove risulta che una percentuale non
inferiore al 40-45% di coloro che lo ricevono
ricorrono
contemporaneamente
a
un’assistente familiare (Regione EmiliaRomagna, 2006).
Il tasso di adesione a queste misure, dunque,
è un problema: i fruitori reali sono molto meno
di quelli potenziali.
Perché questo tipo di assegni incontra una
risposta così tiepida? Possiamo rispondere in
modo
sintetico:
perché
le
famiglie
preferiscono
comunque
il
mercato
irregolare, anche rinunciando a un
incentivo economico.
L’entità dei contributi costituisce da questo
punto di vista una variabile chiave, che
presenta notevoli differenze, solitamente
proporzionate secondo la rilevanza del carico
assistenziale. L’importo può essere fisso o
variabile: è fisso in Emilia-Romagna e in
Sardegna, rispettivamente 160 e 250 euro al
mese; è modulato in relazione al numero di ore
lavorative e in base all’Isee: per esempio tra
50 e 260 euro in Veneto, tra 120 e 200 euro in
Friuli-Venezia Giulia. Fisse o variabili, si
tratta di cifre che non arrivano – nella
maggior parte dei casi – a coprire gli oneri
contributivi a carico delle famiglie, vale a
dire il differenziale di costo tra mercato
nero e mercato regolare.
Un assegno che si proponga di incentivare
davvero l’emersione deve avere una
consistenza economica coerente. Ma la
possibilità di migliorare il tasso di
partecipazione dipenderà anche dalla
capacità di offrire un insieme coordinato di
servizi. Che è il valore aggiunto che l’ente
pubblico può fornire, rispetto al mercato
privato, e che risiede nella possibilità di
offrire interventi diversi: di facilitazione
dell’incontro tra domanda e offerta di
assistenza, di un sostegno continuativo nel
tempo, di tutela, di integrazione tra
interventi sociali e sanitari, domiciliari e
(anche temporaneamente) residenziali.
b) Agevolazioni fiscali
Gli oneri contributivi a carico delle famiglie
costituiscono
l’ostacolo
più
rilevante
all’emersione dal mercato nero. È infatti noto
come l’assistenza privata sia caratterizzata da
una larga quota di mercato sommerso, che
secondo le stime del 2008 (precedenti alla
sanatoria 2009) riguardava il 60-70 per cento
delle
assistenti
familiari
(Iref,
2008;
Fondazione Ismu, 2008; Pasquinelli e Rusmini,
2008).
Aumentare la regolarizzazione dei rapporti di
lavoro è un prerequisito per sostenere
l’intervento
delle
assistenti
familiari,
qualificarne le funzioni, aiutare le famiglie nella
direzione di un mercato che si collega con il
sistema dei servizi, sociali e sociosanitari.
La disciplina fiscale consente – per chi ha un
reddito non superiore a 40 mila euro – una
detrazione del 19 per cento di un importo non
superiore a 2.100 euro annui per l’assistenza
ad anziani non autosufficienti. Il totale dà 399
euro.
Esiste inoltre la possibilità di una deduzione
fiscale dai redditi del datore di lavoro, entro un
limite massimo di 1.549 euro. Anche
sommando le due possibilità, le agevolazioni
risultano molto limitate. A fronte di oneri
contributivi che possono raggiungere i 3.000
euro all’anno, l’attuale sconto fiscale sfiora, nel
migliore dei casi, il 15 per cento di tali oneri.
I minimi retributivi sono aumentati in media del
30 per cento con il contratto colf in vigore da
marzo 2007, mentre le possibilità di detrazione
sono rimaste uguali, sostanzialmente irrilevanti
al fine di fare emergere il sommerso. Inoltre,
vige un sistema di adeguamenti annuali dei
minimi retributivi, aggiornati dall’Inps, con le
aliquote contributive per i lavoratori domestici,
in base all’indice del costo della vita.
Il divario economico tra mercato regolare e
irregolare risulta consistente, particolarmente
pronunciato nel caso della co-residenza. In
questo caso un’assunzione comporta un costo
di circa il 40 per cento superiore rispetto a un
impiego irregolare, senza contratto. Le stesse
assistenti familiari – peraltro – tendono a
rinunciare a un rapporto regolare, in cambio di
maggiore liquidità. Tranne quando si avvicina il
momento di rinnovare il permesso di
soggiorno, quando devono dimostrare di avere
un lavoro.
L’escamotage diventa allora quello di
assumere la badante per il minimo, 25 ore alla
settimana, anche quando lavora molto di più,
fino alla co-residenza. È questa una pratica
sempre più ricorrente: conviene al datore di
lavoro, che paga pochi contributi pur essendo
in regola, conviene al lavoratore, che ha un
contratto che non ne penalizza più di tanto la
retribuzione netta.
Ma la convenienza del mercato irregolare non
è solo economica. Molte famiglie preferiscono
il mercato nero per l’immediatezza di risposte
che vi trova, i gradi di libertà e l’assenza di
vincoli. Aspetti valorizzati dalle stesse
assistenti familiari, in special modo quelle con
progetti migratori di breve durata, che
preferiscono rinunciare alle tutele contrattuali
in cambio di una massimizzazione economica
del proprio tempo di lavoro (Pasquinelli,
Rusmini, 2008).
Ciò rinvia alla necessità di affiancare alle
agevolazioni fiscali altri tipi di intervento, family
friendly e labour friendly. È necessario arrivare
a detrarre una parte ben più rilevante degli
oneri contributivi, in modo da rendere
l’assunzione regolare meno penalizzante.
Maggiori agevolazioni fiscali possono costituire
un segnale nuovo da parte dello Stato, perché
innalzano i livelli di socializzazione dei costi
della cura, che le famiglie si accollano e che
gestiscono in modo molto privatizzato. Ipotesi
diverse sono state avanzate in questa
direzione (si veda: Baldini et al., 2008), tra cui
in particolare l’aumento dell’importo degli
sconti fiscali, e una fiscalizzazione degli oneri
contributivi a carico delle famiglie. Di queste
due
proposte,
largamente
condivisibili,
colpisce il costo relativamente contenuto che
esse avrebbero sui conti dello Stato, oscillante
tra 184 a 636 milioni di euro.
Entrambe le proposte avanzate ipotizzano
agevolazioni proporzionali alle disponibilità di
reddito delle famiglie, in modo tale che nelle
fasce di reddito più basse le agevolazioni
arrivano a coprire più di due terzi degli oneri
contributivi. Esse riguarderebbero una quota
significativa di anziani che si avvalgono di
assistenti familiari, il 4 per cento degli ultra
65enni.
Una soluzione ancora più incisiva è l’offerta di
un credito di imposta per le famiglie che si
avvalgono
di
un’assistente
familiare.
Ipotizzando un credito fino a tremila euro, la
spesa stimata si aggirerebbe intorno a 1,4
miliardi di euro (Baldini et al., 2008). Un
impegno rilevante, che tuttavia assicurerebbe
la drastica riduzione del mercato nero, oltre ad
affermare con i fatti il ruolo di uno Stato family
friendly, che si prende cura degli oneri
familiari.
c) Sportelli
per
domanda/offerta
l’incontro
Ciò che più manca nel mercato sommerso è
l’informazione: con famiglie sotto pressione e
impreparate, canali di reclutamento casuali e
dove l’incrocio, il cosiddetto matching tra
domanda e offerta, avviene in modo più o
meno estemporaneo, generando catene di
problemi a non finire.
In questi anni si sono moltiplicati sportelli
dedicati, probabilmente i servizi più riusciti in
questo settore. Gli sportelli incontrano due
solitudini. Quella dell’assistente familiare che
vuole affrancarsi dal circuito chiuso delle
proprie connazionali, e quella di una famiglia
alla ricerca, spesso urgente, di un aiuto.
Entrambi cercano naturalmente una risposta
alle proprie richieste immediate, ma anche un
contesto che li ascolti, che ne valuti capacità
da un lato, bisogni dall’altro. Un contesto
capace di accompagnamento.
Nelle realtà regionali vanno affermandosi due
tipi di sportelli: luoghi di semplice informazione
per le famiglie, oppure servizi di orientamento,
accompagnamento, sostegno continuativo.
Le evidenze disponibili mostrano buoni
riscontri al primo livello, con una grande
quantità di primi contatti, sia tra chi domanda
lavoro (le famiglie) sia e soprattutto tra chi lo
offre
(assistenti
familiari).
I
numeri
diminuiscono di molto quando si passa dai
primi contatti agli abbinamenti, i matching
realizzati, nonché ai contratti regolarmente
stipulati (1 su 10).
La disponibilità a stipulare un contratto di
lavoro rimane bassa per evidenti motivi di
convenienza reciproca. In nero una badante
prende al netto di più e costa di meno alla
famiglia, a parità di ore lavorate. In una
situazione di questo tipo cercare di fare
emergere il lavoro di cura solo attraverso
l’azione di sportello rischia di essere velleitario.
La pura intermediazione di lavoro, se non
collegata ad altri interventi, ha il fiato corto e lo
sforzo sembra sproporzionato ai risultati.
L’intermediazione è ciò che le persone
chiedono, ma dietro si nascondono bisogni
ben più ampi. Le famiglie in particolare non
cercano solo la “badante giusta”, ma sono
interessate a un luogo che dia informazioni,
che ascolti, a cui ci si possa appoggiare nel
tempo, di cui ci si possa fidare, un luogo
capace di rompere la solitudine del mercato.
Possiamo codificare la complessità delle
variabili che intervengono nel processo di
incontro tra il bisogno della famiglia e l’offerta
di lavoro, per avanzare qualche ulteriore
osservazione. Le esperienze si differenziano
su due passaggi cruciali:
1. l’approfondimento nella lettura del bisogno,
familiare da un lato e delle competenze
lavorative dall’altro. In particolare, la
presenza o meno di un vero e proprio
“bilancio di competenze” aiuta a rendere
l’attività di matching più adeguata e gli
abbinamenti più efficaci;
2. l’accompagnamento
successivo
all’abbinamento. Un accordo formale tra le
parti non garantisce di per sé alcuna
stabilità: problemi, dissonanze, malintesi
possono nascere dal giorno dopo. I nodi
più ricorrenti possono riguardare le
divergenze di carattere rispetto alle
aspettative, il livello di apprezzamento del
lavoro, la qualità della sistemazione
abitativa, la fruizione delle ore di riposo, il
livello retributivo, nonché il turn-over
dell’assistente familiare e le sostituzioni.
Da qui l’importanza di sportelli che si
collegano ai servizi sociali e che facciano
da
“sponda”
rispetto
a
rapporti
caratterizzati da una ricorrente instabilità.
Il valore aggiunto più prezioso degli sportelli
sta infatti nel poter collegare i sostegni della
domanda (contributi, orientamento, case
management)
ai
sostegni
dell’offerta
(formazione, processi di accreditamento, albi
professionali). Diventando luoghi in cui i diversi
interventi lavorano in modo complementare.
È auspicabile che queste esperienze
crescano, coordinandosi, anche attraverso
sostegni regionali (oggi ampiamente carenti).
La pura intermediazione tra domanda e offerta
di lavoro coglie solo una dimensione dei
bisogni in gioco, che riguardano anche ascolto,
accompagnamento, lettura della domanda e
bilancio delle competenze. Attività che
difficilmente possono svolgere call center o
bacheche informatiche, oggi in aumento.
1) sostenere l’offerta. Il secondo obiettivo
riguarda chi offre assistenza, le “badanti”:
comprende le azioni finalizzate a
facilitarne
la
regolarizzazione,
qualificarne il ruolo professionale,
riconoscerne l’apporto nel quadro di un
mercato regolato. Il sostegno dell’offerta
di assistenza riguarda soprattutto:
1) formazione
professionale,
accreditamento delle competenze,
2) albi professionali
a) La formazione regionale
La formazione delle assistenti familiari è uno
degli interventi più ricorrenti nella regolazione
del mercato privato di cura. I percorsi formativi
per l’assistente familiare, definiti a livello
regionale, possono ricoprire tre funzioni:
1 Garantire un livello di competenza di
base. La definizione di un percorso standard
garantisce un livello minimo ed uniforme di
acquisizione di competenze.
2. Uniformare la validità territoriale del
titolo. Il riconoscimento del titolo sul territorio
regionale consente alle assistenti di operare in
un Comune / Provincia diverso da quello dove
hanno frequentato il corso.
3. Offrire un percorso di crescita
professionale.
Le
badanti
possono
intraprendere un percorso di qualificazione
che, se opportunamente collegato a qualifiche
di
livello
più
elevato,
attraverso
il
riconoscimento dei crediti, consente loro di
progredire professionalmente e di progettare
un proprio percorso professionale.
Le Regioni che hanno definito i termini e i
contenuti del percorso formativo per le
assistenti
familiari
sono
9:
Toscana,
Campania, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia
Giulia, Liguria e recentemente il Lazio, la Valle
d’Aosta, la Lombardia e le Marche. Altre
Regioni come la Sardegna, il Veneto, l’Umbria
ed il Piemonte stanno cercando di farlo
(Rusmini, 2009).
Nel complesso, alcuni riscontri evidenziano la
presenza di nodi critici nella formazione delle
assistenti familiari:
1. Elevati abbandoni: conciliare la formazione
con l’impegno richiesto dal lavoro di cura non è
facile: da un lato le donne occupate come
assistenti
familiari
vedono
spesso
la
formazione come tempo sottratto al lavoro
remunerato, dall’altro le famiglie hanno
difficoltà (e scarso interesse) a rinunciare
anche solo per qualche ora alla presenza
dell’assistente.
2. Ridotta adesione da parte delle
Assistenti Familiari con progetti di breve
periodo: le persone maggiormente interessate
ad intraprendere un percorso formativo sono le
donne con progetti migratori di lungo periodo,
in particolar modo quelle che aspirano a
lavorare in strutture come case di riposo e
ospedali. Questo significa che la frequenza ai
corsi può essere favorita dal riconoscimento di
crediti formativi che consentano sviluppi
successivi.
3. Il rischio – o l’opportunità, a seconda dei
punti di vista – che la formazione incentivi
un cambio del settore lavorativo: ossia che
le assistenti proseguano il loro percorso di
formazione passando ad altra qualifica
professionale (ASA, OSS), transitando al
sistema dei servizi pubblici. Si riproduce, così,
un lavoro privato di cura scarsamente
qualificato.
Non va inoltre dimenticato che l’accesso alla
formazione è possibile solo per le assistenti
familiari regolarmente soggiornanti in Italia.
Sono quindi escluse dagli interventi di
qualificazione le assistenti irregolari, che
secondo le stime 2008 (prima della sanatoria)
rappresentavano oltre un terzo del totale
(Pasquinelli e Rusmini, 2008).
Si evidenzia, pertanto, la necessità di una
maggiore coerenza tra gli interventi
regionali di regolazione del mercato privato
e le politiche nazionali per l’immigrazione.
b) albi professionali
A fianco dell’attività di sportello si possono
creare albi o “elenchi” di assistenti familiari
accreditate, ossia di badanti che hanno seguito
un percorso formativo o che dimostrano
competenze specifiche nel fare questo lavoro.
Si tratta di esperienze ancora sporadiche:
pochi sono gli enti locali che si sono attivati in
questa
direzione,
ritenendola
delicata
soprattutto dal punto di vista delle
responsabilità che pone all’ente locale. La
presenza di un albo infatti solleva delicati
aspetti di natura giuridica circa l’attività
domestica e di aiuto delle assistenti. E tuttavia
gli albi chiudono idealmente il cerchio di un
possibile raccordo tra domanda e offerta e che
risulta fondamentale per incentivare pratiche di
emersione.
CONCLUSIONI
A dispetto di quelle previsioni che davano il
fenomeno “badanti” per transitorio e di corto
respiro, questa presenza si sta oggi sempre
più consolidando. La strada per fare emergere
e qualificare questo settore di attività sembra
ancora lunga. Possiamo concludere che:
-
Lo sforzo di sostenere le famiglie e
migliorare la qualità dell’assistenza
deve
appoggiarsi
a
politiche
nazionali per l’immigrazione e la
defiscalizzazione
orientate
alle
medesime finalità.
Molte assistenti familiari sono prive del
permesso di soggiorno. Con l’ultima
sanatoria
questa
quota
si
è
significativamente ridotta, ma rimane un
sistema (quello del decreto flussi), in
particolare nella chiamata a distanza,
palesemente inadeguato per questo
tipo di attività e i soggetti interessati.
Le sanatorie non sono mai una via d’uscita
elegante per i governi. Hanno un effetto
diseducativo, che conduce invariabilmente
a nuove infrazioni delle leggi e alla
necessità di nuove sanatorie. D’altronde,
appaiono difficilmente evitabili quando i
numeri delle persone in condizione
irregolare, nonché degli italiani che
vengono anch’essi a trovarsi fuori legge in
quanto favoreggiatori di un reato,
raggiungono gli attuali livelli.
Anziché aggiustare a posteriori situazioni
che non si ha avuto il coraggio
lungimirante di governare a priori, nel
futuro bisognerebbe provare a cercare
altre soluzioni. Se ne possono individuare
almeno due. La prima consiste nella
regolarizzazione su base individuale,
come avviene in Francia, di persone che
non si possono più ragionevolmente
espellere per vari motivi: per il soggiorno
prolungato sul territorio (per esempio,
cinque anni), l’inserimento lavorativo di
fatto, l’instaurazione di legami affettivi
stabili, la presenza di minori da accudire.
Per l’ultima circostanza, la presenza di
minori, la legge italiana già consente la
concessione di un permesso di soggiorno.
La seconda strada potrebbe consistere
nella conversione del titolo di soggiorno,
come è avvenuto a più riprese negli Stati
Uniti. Chi entra con un permesso
turistico di tre mesi e trova qualcuno
disposto ad assumerlo, segnatamente
nell’ambito
familiare,
magari
con
determinate garanzie (contratto regolare,
cauzione, mediazione di uno sponsor
istituzionale o associativo e così via),
potrebbe essere autorizzato a trasformare
in un permesso di lavoro il suo titolo
provvisorio di soggiorno. Si eviterebbe così
la sofferenza di un tempo di irregolarità
spesso prolungato, che per le madri,
significa anni senza poter rientrare in
patria e rivedere i figli, e il danno erariale
del mancato versamento di tasse e
contributi.
In definitiva, la sanatoria rappresenta una
apprezzabile
presa
d’atto
che
la
criminalizzazione degli immigrati irregolari
è prima di tutto irrealistica: serve a scopi di
propaganda politica, ma non a risolvere i
problemi
effettivi
del
governo
dell’immigrazione e del suo incontro con le
esigenze del mercato del lavoro italiano.
Meglio delle sanatorie sarebbero però
politiche più avvedute di prevenzione della
formazione
di
ingenti
bacini
di
immigrazione laboriosa, ma giuridicamente
irregolare, che diventano poi ardui da
svuotare senza altri danni per il paese.
-
A livello fiscale l’obiettivo deve
essere quello di rendere meno
onerosa
l’assunzione
di
una
assistente familiare, arrivando a
poter detrarre almeno metà degli
oneri contributivi.
-
Costruire un’alternativa richiede
una rete di interventi che si
sostengano in modo circolare.
Sportelli
dedicati
all’incontro
domanda/offerta, formazione, albi
delle
assistenti
accreditate,
sostegni economici.
Azioni isolate portano a poco o nulla. Perché il
valore aggiunto che l’ente pubblico può offrire
sta nel collegare interventi diversi: sostegni
economici e servizi, tutele sul lato della
domanda e su quello dell’offerta.
Prendiamo il caso della formazione: che ne è
delle assistenti familiari che vengono formate?
Se non esiste un mercato regolato che le
accoglie e le valorizza, la formazione serve a
poco. Corsi di formazione sospesi nel vuoto,
non inseriti in un disegno più ampio, rischiano
di essere inefficaci, perché privi di sbocchi
attraenti e percorribili. La maggiore funzione di
utilità rischia così di essere il “trampolino” per
profili successivi, la possibilità di crediti
formativi per diventare altro: Asa, Oss.
Interventi che si relazionano in modo circolare
possono trovare un baricentro negli sportelli
rivolti all’incontro tra domanda e offerta di
assistenza. Essi possono diventare davvero il
trait d’union tra le famiglie – con le loro
esigenze di informazione e sostegno – e le
donne immigrate – a cui proporre un contesto
regolato di formazione e accreditamento delle
competenze.
BIBLIOGRAFIA E FONTI
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ABOUT THE PROJECT
This case study was written in the frame of the “Decent Work for All: A Key for Effective Industrial
Relations”, a one-year project which aims to produce recommendations on how to improve working
conditions around Europe in sectors with higher incidences of precarious working conditions (ie
construction, health and long-term care) and more vulnerable groups (ie youth, undocumented
migrants) through coordinated efforts by governments, employers and trade unions in the framework
of social dialogue. It also looks into the role of social partners in fighting precarious labour and
promoting decent work and quality jobs.
All “Decent Work for All: A Key for Effective Industrial Relations” briefings are materials on
www.solidar.org
SOLIDAR is a European network of 52 NGOs active in over 90 countries working to advance social
justice in Europe and worldwide. SOLIDAR lobbies the EU and international institutions in three
primary areas: social affairs (more social Europe), international cooperation (development
cooperation) and education (lifelong learning for all).
Project Coordinators: Mauro Striano and Mathias Maucher, SOLIDAR