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si mangiare cupis fasolos vade Cremonam
ANNO IV • N. 12 • FEBBRAIO 2012
Paravento
YP
Bora Bora
(paravento triestino)
«Ed è da lì che vieni?».
L’acqua nel bicchiere che faccio dondolare è densa più del normale. Del normale dell’acqua. Lascia tracce
ad arco che poi si sciolgono lente, scivolando sulle pareti del vetro. Fottuto gioco di vai e torna, che però con
me non attacca. Io non tornerò.
«Cosa?», le chiedo senza prestarle troppa attenzione, gli occhi fissi nel trasparente vorticare che cerca di
darmela a bere sull’andare e poi tornare. A me la dai a bere? E giù una sorsata, giù a Niagara dritta diretta, e
mi accorgo che acqua non è se non di fuoco.
Augh! Sambuca. Scelta dolciastra, non so come mai. Di solito sono per più amari lidi a fine serata. Mi sto
rammollendo.
Torno sul pianeta, almeno con la testa. Il corpo è chissà dove, probabilmente in quell’affollatissimo posto
non molto lontano da qui, il luogo a più alta densità di popolazione dell’universo. Fanculo City Town. Bella
città. Ci torno spesso. Appena posso. Anche con la testa. Ho molti amici, là. Più che qua di sicuro.
«Cosa?», le ripeto, stavolta guardando in quelle sue due schegge di smeraldo che corrispondono perfettamente all’identikit del meraviglioso assassino sguardo di donna, e in cui ciascun uomo degno di chiamarsi
tale dovrebbe aver la fortuna di imbattersi almeno una volta nella vita. Taglio mediorientale, il suo. Non di
queste parti. Meglio. Come ho fatto a dimenticarmi di lei, che poco prima si è venuta a sedere proprio di fianco a me in questo quasi vuoto e morto e spento bar del quasi centro di una non mia città, davvero non lo so.
Anzi, lo so. Troppi pensieri. Troppe preoccupazioni. Lavoro finito. Niente lavoro adesso. Ci faremo sentire.
Ok. Addio. Che cazzo ci fai ancora qui? Tornatene da dove sei venuto. Tornatene là, a Fanculo City Town. Vedrai che lì stai bene, dai. Che ti costa? Pigli il treno, coda tra le gambe, muso pesto, e via…
No. Là ci andrete voi. Tutti quanti. Tanto là c’è posto. C’è sempre posto. Io non tornerò.
«Vieni davvero da Marte?», le esce dolce vellutato da quella sua piccola bocca rossa, ideale piattaforma
d’atterraggio per del sano amore fatto al volo. Alla svelta. Senza fretta. Come viene. Amore, e basta.
«No, purtroppo, ma quasi… La città da dove vengo è un avamposto alieno, abitato da alieni…», e alzo la
mano verso il barman, che se ne sta appoggiato in lontananza in un composto fancazzo, straccio in mano, aria assente, anima al lumicino. Altri due va’, gli faccio capire con le dita, qualcosa di più robusto stavolta va’,
gli faccio con un pugno chiuso stretto, e lui capisce, capisce che non ha scelta, che non può far altro, e ubbidisce zitto. D’altronde, chi mai ha avuto scelta, chi mai ha potuto far altro, chi mai ha disobbedito, o urlato? Io
forse, anzi, io di sicuro, anche se non sempre. Scostante, sono stato. Ecco. Scostante. Sono stato. Sono. Scostante.
Adesso sto ubbidendo al mio volermi trito e senza pensieri, magari con qualche dolor d’animo in meno. E
sto zitto, mi va bene così. Non posso far altro. Non ho scelta.
«Allora vedi? Sei un alieno!», continua a esser dolce lei, e nemmeno so perché, e nemmeno che nome abbia. Dolce con me. Mah… Il mondo non è cambiato di una virgola. Va sempre a culo indietro.
«No, io sono un alienato… È diverso… Gli alieni sono gli altri, quelli marchiati dalla Fabbrica…», e mentre
mi esce questo frammento di perla di quella che riconosco essere Filosofia Postmoderna Del Mio Antico Cazzo arriva per fortuna il barman, Loyd si chiama, come i Lloyd di London City Town ma più povero di una L.
Si sa, i Lloyd’s si prendono sempre tutto. Il banco vince di continuo. Ma a Loyd la cosa non sembra importare
granché. Non è che una L in meno gli cambi la vita. Magari una S sì, qualche S in più farebbe di sicuro la differenza. La S dei fottuti verdoni.
A proposito…
«Quanto ti devo, Loyd?», gli chiedo molle, con un ghigno che cerca di fare il verso al pazzo Jack Torrance
ma non ci riesce, e di sicuro non ho due pezzi da venti e uno da dieci che aspettano la primavera prossima nel
portafogli. Non ce l’ho mai avuto un portafogli, io, e se per caso ne ho avuto uno l’ho perso quasi subito, e da
allora non ne ho più voluti avere. Troppo ingombro per troppo pochi fogli, soprattutto di banca.
Loyd ormeggia i due bicchieri nel golfo stanco dei miei avambracci distesi sul bancone. Whiskaccio scaccio da discount, dal colore.
«Fanno dieci, tondi tondi…», e si mette ad asciugare il ripiano col suo straccio.
Che diavolo. Dev’essere una deformazione congenita della professione del barman quella di passare il maledetto straccio sul maledetto banco. Alla fine di una carriera passata a passarlo, con ogni probabilità egli soffrirà del gomito del barista penso, mentre mi frugo nelle tasche in cerca di risposte numeriche filigranate.
Beh, non è un mio problema, io ne ho già abbastanza del mio. Del mio problema. Del mio gomito. Il gomito
del cliente del barman. Solitamente alzato. Forse un po’ troppo alzato, ultimamente.
Trovo risposte di carta, tante carte, e sotto i polpastrelli sembrano salvezza, bevute, più tempo per star
fermo a curarsi le ferite della vita, cazzo sono ricco stasera penso, ma poi sotto gli occhi le carte sono per lo
più scartoffie, pagine di improvvisazioni mentali che ho l’abitudine di scrivere durante il giorno, non valide
come moneta d’acquisto. Potrebbero diventarla però, moneta d’acquisto, un giorno, ma questo è solo uno dei
miei sogni più ancestrali. La poesia non si paga, ed è impagabile. E poi ci vuole costanza, e io da bravo nullatenente non ce l’ho. Sono scostante, ecco. Scostante, sono.
Per fortuna poi, e meno male, tra le inutili cartacce ne spunta una utile, bluastra, con sopra i ponti e le
stelle e tutto quanto ci dev’essere per fare di un pezzo di carta un serio pezzo da venti. Ce la posso ancora fare.
«Ed ecco a te venti, tondi tondi, Loyd…».
«Ed ecco a te cinque, tondi tondi…», mi fa lui, anzi Loyd, passandomi uno straccio di banconota verdognola, smunta, striminzita, uscita da una sua lugubre tasca.
«Ehi Loyd… Il conto non quadra…», ma lui se ne va verso un’altra mano alzata, quasi senz’anima come
prima.
«Quelli sono per la staffa di ieri sera!», mi fa di rimando, senza cuore come sempre. Guardo la banconota,
lì, sul piano di finta radica di noce di quel bar di finto lusso. Muta. Morta. Anche a guardarla non raddoppia.
È verde, certo, e io lo sono quasi, al verde.
«Tieni bambola, questo lo offre la ditta Lupaschi…», le dico, un po’ alla Bogey, facendole scivolare davanti
il drink con una mossa lenta e morbida del braccio. Ho gomiti ben oliati, io, anche se non ho mai lavorato
troppo nella mia vita. Mica sono matto. Mica sono come gli altri, io. Lei sorride con tutto: bocca, occhi, mani,
gambe, tette, e che tette che tiene! Le sue guance sono infuocate come una foresta vietnamita sotto un diluvio
di napalm, rosse come la bandiera cinese senza le stelle, senza la falce e senza il martello. Cose che magari
tiene nascoste in quella borsetta di coccodrillo che non molla per un attimo, ma spero di no, a parte per le
stelle. Una cosa è certa, a questo punto: non ha intenzione di mollare nemmeno me.
Facciamo un cin, tintinniamo alla salute, che almeno quella non ci abbandoni, trangugiamo. Io trangugio.
Lei sorseggia, prende tempo, non ha fretta. Brava. La fretta è cattiva consigliera, e io adoro i cattivi consigli.
Li tratto alla stessa stregua di quelli buoni: non presto loro ascolto.
«Lupaschi? È così che ti chiami?».
«Già…», e rimiro il bicchiere già vuoto. Già inutile.
«E di nome?».
«Slao…», e ho già sete. Ancora.
«Slao? Strano nome per un alieno…».
«Già…», e rimiro il bicchiere di lei, ancora pieno, ancora utile.
«Sta per Stanislao… Ma Stan è troppo americano come diminutivo, e a me l’America non è mai stata troppo simpatica…», le spiego.
«Ah… Nemmeno a me… Sai, io sono di Hanoi, nel Vietnam…», e gli smeraldi le brillano sotto le luci calde
da finto night club del bar. Verdi come la speranza mia di poterli rivedere, appena sveglio, ogni giorno, sempre. Ma che dico? Basta legami stabili! Non posso permettermelo. E anche se potessi, non vorrei. Troppo dolore per troppo poco antidolorifico.
«Nientemeno…», e alzo di nuovo la mano come uno scolaretto verso il maestro Loyd, lui mi interroga con
gli occhi: io gli rispondo con un dito che non è un medio, anche se se lo meriterebbe. Annuisce, ubbidisce,
mesce, porta altra merda, si prende lo straccio di banconota che resta, passa lo straccio che ha e se ne torna a
consumarsi in fondo al banco. Il banco vince sempre. Il banco mangia tutto. Anche la vita e l’anima di Loyd si
è pappato.
«Salute a te… Ma come ti chiami?», le chiedo col bicchiere a mezz’aria.
«Edith…».
«Mmm… Nome tipicamente vietnamita…», e rimiro l’ambra scura che tenta di sapere di buon whisky senza riuscirci bene.
«Veramente, il mio vero nome è Tsing Thao Lee, ma è troppo vietnamita per i miei gusti… E visto che adoro Parigi, e amo la Piaf, ecco qui… Edith», e sorseggia.
«Ma dai, Tsing Thao? Come la birra? Mi piace già…», e stavolta sorseggio anch’io, me lo gusto con gusto
quell’ultimo bicchiere di follia per bambinette.
«Mi fa piacere… E tu, non sei marchiato, allora?».
«Marchiato?».
«Prima dicevi che nella tua città sono tutti marchiati…», e con le sue manine olivigne pesca una delle sigarette lunghe e sottili dal pacchetto nella sua borsettina di coccodrillo. Sbircio: niente falce, né martello, figuriamoci poi le stelle. Lo è già lei, una stella. Non ha bisogno d’avversarie per brillare di più. No. E poi sembra
che ci sia posto solo per quello. E difatti…
«Hai da accendere?».
Faccio scintillare il mio lussuoso Bic con sopra stampata la sorridente trista Marilyna d’Hollywood, e la
fiammella tremula illumina quel bel visino poco truccato, incorniciato dal nero di lucidi capelli tagliati a caschetto. Edith. Superba Mia Wallace sudestasiatica. Quando fa scudo con la mano per proteggere il fuoco da
un inesistente vento, sul polso che le esce dall’abitino di raso rosso come un tramonto estivo vedo un piccolo
tatuaggio.
«Sei marchiata anche tu, a quanto pare…», e con un sorriso le faccio segno col capo.
«Oh… Questo… Questo è il simbolo della mia città… Un ricordo di quando ero giovane e stupida, orgogliosa…», spiega con malcelato imbarazzo, mentre passa un dito sul cerchietto che racchiude due serpenti annodati su d’una spada. Niente colori, solo inchiostro bluastro. Poi mi guarda dolce, sbuffando via il fumo azzurro nella luce fioca.
«Il simbolo della tua città… Bello… Vuoi sapere invece com’è quello della mia?», e mi accendo una statal
emmesse bionda morbida con sopra il leone. Simboli. L’umanità se n’è da sempre circondata. Non può farne
a meno, si vede. Ma che simbolo ha la vita?
Semplice: ¥, €, $. Yes! Sì. Almeno da questa parte del mondo. Anche a Fanculo City Town è così.
Lei annuisce. Sembra curiosa. Visto che ho poco da dire, faccio salire la suspense con una sorsatina, seguita da una boccata lunga lunga d’insidioso tabacco italiano. La gola brucia come la Roma di Nerone, il fumo
risale a perpendicolo, m’esce dalla bocca in una spettacolare successione d’anelli che va a disperdersi verso il
bigio soffitto. Il mio vecchio show da viveur che se la giostra di classe, che cerca d’instaurare una certa magia
in certi gesti piuttosto banali. Loyd mi guarda senz’occhi, né cuore, né anima, e con il suo morto straccio in
mano. Non è cambiato nulla, e nulla cambierà mai. Gli strizzo l’occhio. Si volta a rimirare il vuoto del suo
quasi vuoto bar.
«Beh, Edith, c’è poco da dire. La mia città non ha nulla a che vedere con serpenti e spade, anche se ci sono
molte serpi, e molta gente è morta per colpa delle maledette spade. Spade moderne, intendo. Roba che proveniva dalle tue parti, se non sbaglio. Comunque, ha uno stemma che pare uno scudo, uno di quegli scudi che
finiscono a punta, ed è diviso in due parti. Su quella di sinistra ci sono strisce bianche e rosse, che sono i colori della bandiera che aveva in passato. Su quell’altra c’è un braccio…».
«Un braccio?», e si mette a ridere.
«Sì, un braccio… E nella mano tiene una palla…», e mi metto a ridere.
«Una palla? Che palla?».
«Beh, non da calcio, s’intende… E nemmeno da tennis…».
Edith mi guarda con fare malizioso.
«Non sarà mica una palla d’uomo…».
«Un testicolo? Ahah! No! Ahahah!».
«E allora che palla è?».
«Sembra una boccia, sai, una di quelle palle con cui giocano i vecchi parigini…».
«Ah, ho capito…».
«Già… Il motto che c’è scritto sotto è “Fortitudo mea in brachio”…».
«E che cosa significa?».
«Vuol dire, baby, “La mia forza sta nel braccio”…», e le mostro il bicipite gonfio.
«Mica male…», fa lei, tastandomi.
«Una roccia, baby, una roccia…», faccio il Bogart dei poveracci io.
«Che razza di simbolo che avete, però…».
«Sì… Più che di una città sembra quello di una bocciofila…».
«Bocciofila? E cos’è?».
«Una società di giocatori di bocce… In effetti, la mentalità della mia città è un po’ così… Da bocciofila».
«E come sarebbe una mentalità da bocciofila?».
«Conservatrice… Chiusa… Vecchia, ecco…».
«Che bella mentalità…».
«Già, baby, già…», e finisco il mio drink. Lei tituba sul suo.
«Non ti va più?», le chiedo sfacciato.
Mi fa segno di no e allora prendo, ambra che c’è, tracanno, ambra che non c’è più. Fine dei giochi.
«Ti va di passeggiare un po’?», mi chiede. Un po’ di vita. Non mi sembra vero. Usciamo senza salutare
Loyd, che intanto passa lo straccio dove abbiamo bevuto, dove abbiamo parlato, dove al contrario di lui ab-
biamo vissuto qualcosa. Fuori tira vento, leggero come un fazzoletto nel taschino d’un marchese, fresco, piacevole, che ci spettina mentre percorriamo Viale della Stazione. Camminiamo tranquilli, senza meta, gustando una delle prime serate di questo novello autunno che gli esperti del clima non hanno tardato a prevedere
ingrato. Il più piovoso degli ultimi trent’anni, sarà. Di una cosa son certo: se pioverà, la prenderemo. Questa
era la filosofia di mio nonno, quella di mio padre, e ora anche la mia. Si chiama «ereditarietà di pensiero», e
devo dire che è molto diffusa, purtroppo. Purtroppo se erediti in blocco un pensiero altrui trascurando completamente il tuo, intendiamoci. Non tutti i pensieri ereditati dagli avi sono buoni. Per carità, quelli sul clima
vanno benissimo, funzionano ancora alla perfezione. O quasi: con questo maledetto surriscaldamento del
pianeta dovremo prima o poi rimaneggiare qualche proverbio secolare per coniarne di più attuali. «Fungo
atomico di sera, bella morte si spera». Sono quelli sulle persone che invece ho sempre fatto fatica a fare miei
completamente. C’è persona e persona. Non si può fare di tutta l’erba un fascio. E che brutta parola! Ecco, il
fascio non facciamolo nemmeno va’, neanche d’erba… Se avessi ascoltato fino in fondo mio nonno e mio padre, a quest’ora non sarei in giro, non saprei cosa siano i bar e, soprattutto, non sarei in compagnia di Edith.
Che, con tutto il rispetto, è di sicuro una puttana. Non mi spiego altrimenti il suo invito, il suo interesse per
uno come me. Che, con tutto il rispetto, sono quasi un perfetto clochard. Va beh, sia come sia.
«Sali a bere qualcosa?», mi chiede maliziosa fermandosi davanti a una porticina nera. Parlando di come si
faccia un buon tè alla menta e di quanto questa Europa ci vada stretta, siamo giunti chissà dove in centro, in
un vicolo poco illuminato, stretto come un budello.
«Edith… Mi farebbe piacere ma… Non ho un centesimo…», e mentre lo dico sfuggo i suoi occhi, costernato.
«Guarda che non sono un bar…», e sorride.
«Dai… Hai capito…», e fisso il lampione in lontananza, senza speranza. Mi sento afferrare il mento, mi fa
voltare verso di lei, mi fa guardare dritto in quei due smeraldi grezzi che ha, da paura.
«Don’t worry, man… Vieni…».
Saliamo. Terzo piano. Scale strette. Fiato corto. Un’odissea. Arriviamo nel suo salotto che un boscimano
ha scagliato la sua lancia nel mio cervello. Pulsa. Dannata pressione. Devo smetterla col bere. Col fumo.
«Cosa vuoi bere?», fa gli onori lei, che intanto si è tolta le scarpe e gira a piedi scalzi s’una moquette verde
alta un palmo. In giro poco mobilio, ma di classe. E un bel divanone nero che sembra arrivato direttamente
da una Parigi all’inizio del secolo scorso. Ci appoggio il culo stanco, si sente come uno sgnèc di antica pelle e
il culo affonda, affonda come un Titanic in un mare di comodità. Sto come a casa mia penso, anche se una casa mia non l’ho.
«Basta che non sia tè alla mentuccia…», faccio smargiasso appicciando una cancerosa, il boscimano sempre lì, la lancia pure. Me ne sbatto. Questa sera è nostra. È mia. Voglio goderne ogni secondo. Domani posso
anche morire. Lei arriva dal minibar con due bei bicchieroni di qualcosa che assomiglia a uno scotch ma più
chiaro, facciamo cin e scopro che scotch non è, ha un sapore strano, acidulo dolciastro, indefinito, indefinibile.
«Ti piace?», mi chiede.
«Che rob’è?», e le papille passano al vaglio il mix per scoprire quanti e quali ingredienti sto glutando.
«È una mia invenzione… Si chiama Bora Bora…», squittisce contenta.
«Come l’isola?», e ancora non capisco cosa cazzo sto bevendo. Gin, quello sì, ma poi? Rhum? Tequila?
Mah…
«No, come il vento di questa città! Doppia Bora perché è forte… Non è forte?».
«Baby, non ho mai assaggiato niente del genere da quando sono in vita…», e butto giù una golata da far
spavento a mister Walker, Johnnie Walker, Giovanni il Camminatore che mi ha fatto fare molta strada, e il
più delle volte a gattoni come un bambino.
«Ti va di vedere casa mia?», e gioca a stuzzicarsi il labbro inferiore con l’unghia del pollice, rossa come le
altre diciannove.
«Mi sembra un’ottima idea, baby…», e presomi per mano mi trascina sorridendo verso la porta di quella
che è la sua camera da letto. Il ghiaccio tintinna nei bicchieri mentre affondiamo i passi svelti nella moquette.
Entriamo, e fa freddo, più freddo che in salotto, come se da qualche parte ci fosse uno spiffero, e dietro allo
spiffero tutto il fottuto Polo Nord. Il lettone è ricoperto da una coperta di raso rosa confetto, e dei pupazzetti
di peluche fanno la guardia ai cuscini con vuoti occhi neri e vacui sorrisi bianchi. Armadio a muro. Due comodini. Due abatjour. Un paravento con pappagalli e liane e palme e cielo azzurro e sole e mare blu. Tropicale, ecco. Tropicale. Bello. Riscalda per un attimo lo sguardo. L’ambiente no.
«Aspettami… Tu mettiti comodo, intanto…», e m’indica il lettone.
«Dove vai?».
«Mi metto qualcosa di più seducente…».
«Baby, non hai bisogno di vestiti per esserlo…». Lei ride, il Bogart dei poveracci ha colpito nel segno. Ancora una volta.
«Sei galante… Ma volevo provare un completino che ho comprato giusto oggi…», e poi sparisce dietro al
Tropico.
«Quando si dice la combinazione…», e mi siedo sul letto a finirmi il Bora Bora, facendo accasciare un orso
e un panda su d’un fianco. Forse li ho uccisi, eheheh. Mi gira un po’ la cabeza. Sarà la stanchezza. Giornata
del cazzo oggi, se non fosse per questa svolta serale. La fica salva sempre, almeno quando è foriera di buone
notizie. Se è foriera di menate assurde, allora meglio la solitudine. Magari in compagnia di un buon drink.
Quello sì che tiene compagnia. Altro che balle! E una sega. Una bella sega che spazza via i desideri e ti lascia
libero. Solo.
«Parlami di te…», mi arriva dal Tropico.
«Che vuoi che ti dica… Sono qui, e tanto mi basta…», e la cabeza pulsa e gira.
«Che lavoro fai?», e l’abitino rosso s’accavalla al paravento, coprendo il muso simpatico del pappagallo.
«Il disoccupato… Almeno da oggi…», e gira, gira, gira.
«E che cosa facevi di bello?», e una sottoveste di pizzo nero leggera va a coprire il sole come una nube di
temporale.
«Di bello niente… Ma adesso è finita…», e scivolando sul liscio raso rosa mi ritrovo col culo per terra, il
bicchiere in frantumi, i cubetti di ghiaccio si spargono ovunque brillando come diamanti persi da un ladro in
fuga. Non riesco più a muovermi. Le gambe non rispondono. Le braccia non rispondono. Sono paralizzato.
Puttana. Gli occhi sono aperti, ma non riesco nemmeno a sbattere le palpebre. Puttana. Posso solo guardare
fisso avanti a me, la guancia destra premuta sulle piastrelle gelide. Vedo un solo angolo della camera, l’angolo
caldo del Tropico.
«Hai ragione… È finita…», e la voce è quella greve di un uomo, come lo sono le scarpe che escono da dietro il paravento. Bianche. No, non sono scarpe. Sembrano zoccoli da medico. Non riesco a vedergli la faccia, il
campo visivo è limitato, gli vedo fin appena sopra le ginocchia. Pantaloni verdi di cotone. Poi altre due gambe
escono dal Tropico. Gambe nude di donna. Puttana.
«Testa o croce?», fa l’uomo.
«Testa!», fa lei.
Sento soldi spicci fatti tintinnare in una tasca, poi una moneta cade sul pavimento, rimbalza due o tre volte compiendo circonvoluzioni vorticose e poi, per magia, trova come un equilibrio e comincia a rotolare, e rotolando viene verso la mia faccia immobile, e fa un brutto rumore che nemmeno so spiegare ma è brutto
brutto, e poi a un certo punto della corsa becca un dislivello tra due mattonelle e vira un poco verso sinistra, e
ora riesco nettamente a vedere che si tratta di una moneta da un euro, e l’uomo vitruviano di Leonardo da
Vinci che fa la ruota con le sue quattro braccia e quattro gambe mentre io non riesco a muoverne nemmeno
la metà. Non riesco. Puttana. Poi, rallentando sempre di più, esce dal mio campo visivo fino a quando non
sento più nulla. S’è fermata.
«Ma tu guarda…», fa l’uomo.
«Questo bastardo ha più culo che anima!», fa lei, muovendosi poi verso la moneta. Si sente un rumorino
secco.
«Testa! È mio!», fa lei.
«Così non vale…», fa l’uomo.
«Ho detto che è mio!», ringhia lei.
«Come vuoi… Ma sei sicura d’essere in grado?».
«Cosa credi, che non sia capace?».
«Non ho detto questo… Solo che l’ultima volta non è andata molto bene…».
«Pensi di continuare a rinfacciarmelo? È stata una svista…», fa lei irritata.
«Una svista, sì… E anche uno spreco…».
«Non succederà più, te l’ho già detto… Aiutami, piuttosto…», e mi sento afferrare per i piedi.
«Cristo! Questo stronzo pesa come un bue…», fa lui, e gli scivolo dalle mani, batto la testa a peso morto
sul gelido gres. Mi lamento, e siccome non riesco a muovere nemmeno la lingua, mi esce come un lungo e
soffocato suono gutturale.
«Facciamo presto… Il Midarine non dura a lungo…», fa lei. Puttana.
«E statti un po’ zitto, stronzo…», e vedo un lampo di pugno arrivarmi sul grugno. Buio. Prati azzurri e nuvole viola. Fiori di fuoco verde. Occhi, piante di occhi che piangono, e le lacrime formano un laghetto
d’argento che a volte fa onde nere come mercurio. Buio come mercurio. Buio.
Quando riprendo conoscenza non sono più in camera da letto: niente lettone rosa, né comodini, né paravento tropicale, e ho freddo. Ho un freddo cane. Mi fa male la faccia, uno zigomo mi pulsa come un cuore.
Cerco di sollevare un braccio ma non ci riesco. Cioè, si muove, ok, ma qualcosa lo tiene fermo. Anche l’altro.
Sono legato, e disteso non so su cosa, forse un lettino, ah sì, un lettino, un dannato lettino della fava. Riesco a
muovere le dita, gli occhi, la testa, e sono accecato da una luce fortissima, stringo le palpebre a fessura, riesco
a vedere come un cerchio di sette lampade sopra me, sembra quasi una di quelle lampade da dottore, non ci
vedo bene, flash bianchi nel nero, frustate sulla pelle della notte, e quando gli occhi si abituano alzo la testa
per guardarmi in giro, e sono nudo come un bruco, le mie palle e il mio uccello là, fermi, polsi e caviglie bloccate da cinghie di cuoio scuro. Dio, le palle mi girano, eccome se girano, ma è un fatto puramente interiore, lo
sento, e loro sono là, immobili e tristi come pettirossi sotto un acquazzone primaverile.
«Oh!», cerco di urlare, ma c’è qualcosa che mi passa sulla bocca tenendola aperta, un bavaglio, e in più la
mia voce mi ritorna metallica indietro, come se le pareti fossero di ferro. Mi divincolo, mi tendo, sbarello, e
non succede nulla. Sono fottuto. Poi sento un tramestio di passi arrivare, ascolto: sì, arrivano. Tacchi di donna. Puttana.
«Ti sei svegliato, eh? Giusto in tempo per lo spettacolo… Bene. Ti voglio bello sveglio… Mi servi fresco». È
Edith, è vestita come una dottoressa, camice bianco come la neve, tette che spingono e che si fanno desiderare, e mi tira una rasoiata s’una coscia. Urlo, m’inarco, e sento il caldo del sangue propagarsi sulla pelle. Sento
anche ridere, una risata sottile, fredda, acuminata.
«Sentiamo di che pasta sei fatto…», sussurra, e chinandosi sulla ferita m’assaggia con la sua lingua bollente. Puttana. Mi guarda con meravigliosi occhi felini di morte, la lingua appuntita scarlatta come un petalo di
garofano, e poi via, giù tutto, nemmeno una goccia sprecata. Si pulisce le labbra con un dito, se lo succhia attraverso un sensuale accenno di sorriso. Schiocca di piacere.
«Mmm, quanto sei dolce…», miagola, accarezzandomi la gamba ferita, chinandosi a leccare ancora.
Quando stavolta rialza la testa sembra uscita da un film erotico di vampiri, il sangue le stria i denti, le labbra,
le guance pallide avorio prezioso macchiato in battaglia, carneficina sulla neve, emorragia in Paradiso. Fa
impressione, e lei se ne accorge da come la guardo.
«Sì, sei proprio buono… Ma ora basta giocare, ti va?», e senza pulirsi muove due passi, il rasoio che scivola gelido come un pattino da ghiaccio sul ghiaccio fremente del mio corpo.
«Prima il dovere, e poi il piacere… Non si dice così?», e mette mano a qualcosa dietro di me, rumori di
plastica, volto la testa e la vedo armeggiare con un tubicino che esce da un macchinario d’un bel grigio allegro, tutto valvole e manometri, e in alto un gancio, e sul gancio impiccato un sacchetto graduato, vuoto, che
sta là come una bandiera senza vento, e intravedo un ago, e io odio gli aghi perdio, e lui brilla alla fine del tubicino come un artiglio alieno.
«Quand il me prend dans ses bras, il me parle tout bas…», canticchia Edith guardandomi, e in mezzo a noi
l’artiglio sfavilla come Rue Pigalle nella prostituta notte, «… Je vois la vie en rose…», e l’artiglio s’avvicina
piano, e l’artiglio mi graffia la guancia, è freddo, e va giù, va giù, scivola sul collo, lo sterno, circumnaviga il
capezzolo sinistro una, due, tre volte, resto immobile, inquieto, «… Alor je sens en moi, mon coeur qui bat…»,
e poi risale, saltella, punzecchia la spalla, va a ritmo con la Piaf dei bei tempi andati. Puttana.
«Quand il me prend dans se bras…», e l’artiglio affonda, e a prenderlo nel braccio sono io, e gratta nella
mia carne, e io odio gli aghi! Edith strappa un pezzo di nastro adesivo, assicura il tubicino alla mia pelle e poi
mi manda un bacio per via aerea, par avion, e le sue labbra che schioccano sono davvero un peccato mortale,
un carnoso, rosso, stramaledetto peccato mortale. Chiudo gli occhi, la luce è troppo intensa, ho le cornee in
fiamme, e mentre bianche zanzare di bagliore danzano nel buio del mio cervello sento il secco rumoretto come di un interruttore fatto scattare.
Zzzzz.
La macchina si mette in moto, il ronzio del motore elettrico sembra quello di cento calabroni incazzati
chiusi in un barattolo di latta, zzzzz, e sento che succhia, sento la linfa uscirmi dal corpo. Dall’anima. Zzzzz.
Fortitudo mea m’esce dal brachio. Il tubicino si tinge di scuro, il caro sangue se la corre, se la corre, sale,
scorre via verso il sacchetto impiccato lassù, e poi smetto di guardare perché la luce è forte, brucia. Falò di
pupille a lume di candela. Anche il taglio brucia, ma non è il dolore che m’infastidisce, quanto il modo in cui
sono stato preso nella rete. Un fottuto pesce d’acqua dolce. Altro che lupo di mare. Pivello. Dannato dilettante della vita.
Edith mi guarda, e poi guarda il sangue, e poi mi guarda ancora, la lama del rasoio appoggiata su quel suo
sorriso maledetto. Puttana. Poi succede qualcosa là in basso, qualcosa che avrebbe dovuto accadere in circostanze ben diverse ma che accade lo stesso, che non riesco a trattenere. Mi si rizza. Mi si rizza di brutto! Uno
shuttle pronto al lancio, alla scoperta del Gran Fottuto Mistero Dello Spazio. E allo scoppio. Per la puttana…
Osservo tutto come un telespettatore in mondovisione, in attesa del decollo. Punta bordeaux. Venature in
rilievo. È là, fremente sulla rampa, motori al massimo, sala macchine: avanti tutta! Il mio vecchio, pazzo cazzo. Pulsante. Inerme. Senza senso, adesso.
«Ma tu guarda!», fa lei, giocando ad affettare l’aria con la lama che manda guizzi d’argento tutt’intorno.
Puttana. Io non posso farlo, ma tu metti via quell’arnese. Non lo fare. Non lo fare. Puttana. Ti prego. La macchina succhia, succhia il mio nettare divino, lo stiva, lo stocca, lo immagazzina via. Zzzzz. Puttana.
«Mai vista una roba del genere…», continua, ammirando quello spettacolo di carne ferrea eretta. Si avvicina, gli occhi fissi sul totem, rapiti, folli, e quando è lì lo afferra come se fosse una leva, come se fosse
l’ultimo appiglio a questo crazy mondo prima dell’abisso, prima della morte, del niente. Puttana. La mano
non allenta la presa, anzi, stringe come se dovesse lasciarci le impronte. E poi comincia. Su e giù, su e giù, su
e giù, come i pendolari ogni giorno, come un ascensore a Las Vegas, come uno yo-yo legato al dito d’un mentecatto, su e giù, su e giù, su e giù, montagne russe, maree, pompe di trivellazione nei sobborghi sabbiosi di
Dallas. Mugolo. Puttana.
«Ah, ti piace, eh, bastardo?», fa lei con voce troia, menandomi l’uccello sempre più forte. Parte una nuova
rasoiata, la sento nell’altra coscia, fitta fredda veloce. Mi inarco, stringo i denti, succhio la saliva che impregna il bavaglio, sbarello. Piacere e dolore, su e giù, bello e brutto, magro e grasso, alto e basso, lo yin e lo
yang. Puttana. E poi accade.
Zzzzz. La macchina succhia, e anche Edith non è da meno. Succhia come se fosse l’ultimo cazzo dritto rimasto in circolazione sul pianeta, nella galassia, mordicchia, lappa, aspira, e intanto munge con quella sua
manina scura, e il rasoio è quasi amico di piatto sulla pancia, quasi innocuo, quasi, e prati azzurri innevati di
fiamme in cascata nell’oceano mare stellato. E Cristo!!! Vengo, vuoto il sacco, lei mi beve fino all’ultima molecola, vitamina, fino all’ultimo enzima, proteina, brandello di dna.
«PUTTANA!», urla una voce maschile, e poi uno sparo riempie il silenzio, ed Edith vola via da me, via per
sempre, via dal mio baldo uccello purpureo, che si sgonfia. Dietro alla nuvola di fumo azzurrognolo scorgo un
uomo, sembra vestito da dottore anche lui, un dottore con la pistola in pugno, il ferro chirurgico universale
per estirpare i mali della Società, la medicina.
«Sei solo una puttana!», e via ancor del piombo, gratis, una, due, tre, quattro volte, bangbangbangbang fa
il dottore, e la prognosi è riservata, e la diagnosi pure, e la morte anche.
«Una puttana…», e via lacrime, singhiozzi, lacrime. Zzzzz, la macchina succhia, succhia, succhia tutto quel
che c’è da succhiare mentre Edith ha finito. L’uomo le si avvicina con passi incerti, inciampa, s’inginocchia,
piange sul latte versato, anche se Edith, di latte, non ne ha sprecato nemmeno un goccio, ed è là in terra che
gocciola sangue dalla bocca, sangue e sperma, il cocktail della vita in bocca alla Fine, spasmi la attraversano,
gli occhi spalancati verso il soffitto. È andata, e lo sa solo lei dove, e zzzzz, la macchina succhia, succhia, succhia e non sa fare altro, e io non so fare altro, e voi non sapete fare altro, e nemmeno loro, gli altri, tutti, niente, altro, e un braccio tiene la palla, e la palla è lanciata, e i birilli siamo noi, e facciamo una faccia stupida, e
strike! Tutti via, a destra e a manca, là, a Fanculo City Town. Zzzzz.
Un fruscio, un guizzo improvviso, sottile argento che taglia l’aria sperdendo bagliori, e il dottore si alza di
scatto indietreggiando con occhi increduli, una mano premuta sulla gola, il camice si scurisce e lui gorgoglia
soffiando aria dal naso, l’ultima che gli rimane, proprio come la pallottola che riposa silenziosa nel tamburo
del suo bel revolver da spia sovietica del Keghebé, e che spara per l’ultima volta, su Edith, bang!, e lui se ne
accorge perché poi fa cliclicliclic, basta piombo dottore, fa male alla salute, è cancro sicuro, e zzzzz, la macchina succhia e succhia e succhia, e io sono stanco, e io mi faccio suggere, e gli occhi incendi dolosi del racket
delle estorsioni, e il dottore stramazza al suolo con una sciarpa di sangue al collo, e fa un brutto suono di zucca rotta contro un muro, e a me si chiudono gli occhi, sole elettrico, supernova sopra l’Equatore, e la fortitudo
mea, e l’ago dentro al braccio, un prato azzurro, e cenere sei, e cenere sette, otto, cento, e cenere ritornerai,
no non tornerò, voglio le palme, e Cristo, Betlemme, e il mare oceano, il Tropico, il Capricorno, Miller, dueMiller e zero, puttana, la Venere, Saturno, e la luna piena, e la gratia plena, elafor… titu… dome… ah…
Zzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzz
YP