un`analisi storica per l`Italia, la Svizzera e la Gran Br

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un`analisi storica per l`Italia, la Svizzera e la Gran Br
Università della Svizzera Italiana, Lugano
Facoltà di Scienze economiche
Relazioni macroeconomiche tra popolazione, produttività e salari: un’analisi
storica per l’Italia, la Svizzera e la Gran Bretagna
Memoria di bachelor
Autore: Costanza Naguib
Relatore: Prof. Mauro Baranzini
Anno accademico 2012-2013
Indice
Indice delle figure…………………………………………………………….........................p. 2
Indice delle tabelle………………………………………………………………………….p. 3
1. Introduzione……………………………………………………………………………..p. 4
1.1 I concetti di produttività totale, media e marginale...………………………………….…p. 6
1.2 Popolazione totale, popolazione attiva e forza lavoro …………………………...…........p. 9
1.3 Salari nominali e salari reali…………………………………………………….………p. 10
2. Le relazioni macroeconomiche tra le variabili in esame: trends generali...…………...……p. 15
2.1 Relazione tra popolazione e salari…………………………………………..……….…p. 15
2.2 Relazione tra produttività e popolazione……………………………...………………..p. 16
2.3 Relazione tra produttività e salari….………………………………………………........p. 18
3. I periodi storici e i paesi considerati………………..…………………………………....p. 19
3.1 Il caso dell’Italia……………………………………….…………………………….…p. 19
3.1.1 Il trend dei salari nei secoli XIII-XIX…………………………………..………..……p. 19
3.1.2 L’evoluzione demografica………………………………………………….………..p. 24
3.1.3 L’andamento della produttività e i metodi per la sua stima…………………………...p. 27
3.2 Il caso della Svizzera: cenni………………...………………………………….…….…p. 33
3.2.1 Evoluzione della popolazione………………………………….…………………….p. 33
3.2.2 Le dinamiche di prezzi e salari……………………………………………………….p. 36
3.2.3 L’evoluzione della produttività del lavoro nel settore agricolo nei secoli XVI-XIX…..p. 41
3.3 Il caso della Gran Bretagna...……………………………………………...………...….p. 45
3.3.1 L’andamento della produttività del lavoro………………………………………...….p. 45
3.3.2 Prezzi, salari, ore lavorate……………………………………………………………p. 47
3.3.2.1 Le interpretazioni di Phelps-Brown, Allen e Clark…………………………………p. 47
3.3.2.2 L’interpretazione di Munro………………………………………………..……….p. 52
4. Conclusioni.………………………………………………………………………….…p. 57
Riferimenti bibliografici..…………………………………………………………………..p. 60
1 Indice delle figure
Figura 1: Popolazione e salari reali nel periodo 1300-1913, salari espressi in lire del 186070….…………………………………………………………………………...p. 31
Figura 2: Evoluzione dei salari in termini nominali e reali in Svizzera per il periodo 19422011……...........................................................................................................................p. 40
Figura 3: Evoluzione dell’indice dei prezzi al consumo in Svizzera per il periodo 19432011…….……………………………………………………………………..p. 40
Figura 4: Relazione tra popolazione e salari reali in Gran Bretagna per il periodo 1280-1869
secondo le serie storiche di Phelps-Brown e Hopkins……………….….………p. 50
Figura 5: Relazione tra popolazione e salari reali in Gran Bretagna per il periodo 1280-1860
secondo le serie storiche di Clark…………………………….…………………p. 50
2 Indice delle tabelle
Tabella 1: Stime dell’attuale elasticità dell’offerta di lavoro al salario in alcuni paesi................p. 29
Tabella 2: Evoluzione delle principali variabili in Italia nei secoli XIII-XIX……….……….p. 32
Tabella 3: Evoluzione delle principali variabili in Svizzera nei secoli XIV-XX…….……….p. 44
Tabella 4: Stime della distribuzione della popolazione e della produttività agricola in Inghilterra,
1500-2012………………………………………………………………………p. 45
Tabella 5: Evoluzione delle principali variabili in Gran Bretagna nei secoli XIII-XIX……...p. 56
Tabella 6: Quadro d’insieme dell’evoluzione delle principali variabili nei paesi considerati…p.59
3 1. Introduzione
Scopo di questo elaborato è esaminare le relazioni economiche che legano la popolazione, il
saggio di salario e la produttività del lavoro. In particolare, nel presente lavoro si analizzerà la
relazione di tipo demografico che collega l’andamento dei salari reali alla dinamica della
popolazione.
Malanima (2004) ipotizza una relazione inversa tra la crescita della popolazione e l’andamento
del saggio di salario, almeno fino alla Rivoluzione Industriale, periodo in cui l’incremento della
produttività permise una crescita in termini reali dei salari, benché la popolazione fosse in
aumento. L’evidenza empirica sembra confermare tale ipotesi nel caso della Gran Bretagna e,
parzialmente, nel caso dell’Italia. In Svizzera, ad ogni modo, l’aumento della produttività non
sembra essere stato in grado di controbilanciare la pressione al ribasso esercitata sui salari
dall’abbondanza di manodopera.
La metodologia adottata in questa memoria consiste nell’analisi e nel confronto delle principali
ricerche economiche svolte in questo ambito per i paesi considerati; per il caso della Gran
Bretagna, in particolare, si prenderà in esame dapprima l’analisi di Phelps-Brown e Hopkins,
risalente agli anni Cinquanta del XX secolo, per poi analizzare le critiche avanzate da Clark e
Allen ai risultati raggiunti all’epoca e le loro proposte per la costruzione di nuovi indici dei
prezzi sulla base di ulteriori dati ora disponibili.
Il periodo considerato si estende dalla fine del XIII secolo all’inizio del XX secolo nel caso
dell’Italia e della Gran Bretagna; per quanto riguarda la Svizzera, tuttavia, i dati relativi
all’andamento dei prezzi e dei salari nei secoli precedenti la Rivoluzione industriale sono
frammentari e non permettono un’analisi approfondita delle relazioni tra le variabili
economiche considerate. In quest’ultimo caso, dunque, l’analisi si concentrerà sul XIX secolo.
Nel primo capitolo del presente lavoro sono introdotti i concetti fondamentali presi in esame,
vale a dire si fornisce una definizione di produttività (marginale, media e totale), popolazione
(attiva e totale), forza lavoro e salari (nominali e reali), si tratterà inoltre il problema della
costruzione dell’indice del costo della vita, necessario per deflazionare i salari nominali percepiti
nei vari periodi storici e ricondurli ad un’unità di misura comune: il potere d’acquisto riferito ad
un paniere standard di beni.
4 Nel secondo capitolo si affronterà il tema delle relazioni macroeconomiche che legano le
variabili descritte; in particolare si definirà la relazione di tipo demografico tra la popolazione e i
salari, quella di tipo tecnico tra produttività e salari e infine quella di tipo economico tra
produttività e popolazione. Si prenderà inoltre in esame il problema della determinazione dei
salari in base al criterio tecnico della produttività marginale oppure sulla base di altri parametri,
in modo tale da permettere, ad esempio, al sistema economico di crescere ad un certo tasso.
Nel terzo capitolo si verificherà la validità empirica di tali relazioni nel caso di tre paesi: l’Italia,
la Svizzera e la Gran Bretagna. Per l’Italia si farà riferimento principalmente agli studi condotti
da Malanima. Per la Gran Bretagna le principali fonti sono lo studio di Phelps-Brown e
Hopkins e le critiche mosse a quest’analisi da parte di Clark e Allen. Sarà inoltre analizzata la
diversa interpretazione data da Clark e da Munro della condizione dei lavoratori britannici nella
seconda metà del XIV secolo, inteso rispettivamente come periodo di alti salari reale oppure
come secolo in cui il potere d’acquisto era eroso da squilibri monetari.
Infine, per quanto riguarda la Svizzera, per i secoli XIII-XIX si farà soprattutto riferimento ai
dati forniti da Bergier; per il XIX e XX secolo, invece, è stato possibile consultare i dati raccolti
dall’Ufficio federale di statistica (UST) e le pubblicazioni periodiche del BAK (Basel
Economics).
5 1.1 I concetti di produttività totale, media e marginale
La produttività riveste un ruolo notevole nei sistemi economici odierni; il PIL di una nazione,
infatti, dovrebbe aumentare ogni anno in misura almeno pari all’incremento della produttività
(stimato attualmente per la Svizzera all’1,5-2% annuo) al fine di evitare che siano eliminati posti
di lavoro. Quando l’economia si trova su un sentiero di crescita bilanciata, infatti, “il capitale e il
prodotto crescono a un tasso pari alla somma del tasso di incremento demografico [inteso
come aumento della forza lavoro] e del tasso di progresso tecnologico” (Blanchard, 2011, p.
338).
Al giorno d’oggi, la produttività del lavoro gioca inoltre un ruolo non trascurabile nella
determinazione dei differenziali di crescita tra paesi; a questo proposito, Blanchard (2011, p.
658) rileva come, ad esempio, l’indice della produttività del lavoro sia attualmente pari a 0,4 in
Italia, mentre raggiunga valori più elevati, ad esempio, in Germania (1,5) e in Francia (2,1).
In generale, con produttività del lavoro si intende il rapporto tra la quantità prodotta (vale a dire
il numero di beni o servizi) e il numero dei lavoratori o, più precisamente, il numero di ore
lavorate; questo corrisponde al concetto di produttività media, che può essere approssimata dal
prodotto per addetto. Per produttività marginale, invece, si intende la quantità aggiuntiva di
prodotto ottenuta con l’impiego dell’ultima unità (oppure di un’unità ulteriore) del fattore
lavoro.
Malanima definisce la produttività totale dei fattori della produzione (Total Factor Productivity,
TFP) come: “l’efficienza […] con cui i fattori (che sono convertitori di energia) utilizzano l’input
di energia”, “il residuo, […] l’efficienza, cioè, nello sfruttamento dei fattori produttivi”
(Malanima, 2006, p. 8 e p. 13), tale residuo è calcolabile come differenza tra i tassi di crescita
della produzione e quelli dei fattori.
Stando alle stime di Edmund H. Phelps-Brown e Sheila Hopkins (1962) per i lavoratori edili
nell’Inghilterra del sud nel periodo 1264-1954, la produttività totale dei fattori (Total Factor
productivity, TFP) sarebbe rimasta costante per un periodo di circa 500 anni (1260-1760) e l’inizio
della Rivoluzione Industriale nel 1760 avrebbe segnato una svolta improvvisa in un’economia
stagnante. Al contrario, Clark sostiene che il periodo caratterizzato da una crescita nulla o quasi
della produttività totale dei fattori sia stato più breve (circa 350 anni) e che questa abbia
ricominciato a crescere a partire dall’inizio del Seicento.
6 Un modo approssimativo per misurare la crescita della produttività totale dei fattori della
produzione consiste nel considerare che, con una produttività costante, ci sarà una relazione
inversa tra i salari e la popolazione, mantenendo uguali tutti gli altri parametri; dunque, dato un
certo livello della popolazione, una maggiore produttività dell’economia causerà un incremento
dei salari reali (Clark, 2006). Si considera, infatti, che i profitti siano direttamente correlati alla
produttività marginale della terra; quest’ultima è ritenuta costante, in quanto l’ammontare di
superficie coltivabile è esogenamente dato (almeno nel breve periodo). Si assumono dunque
profitti costanti. Su questa base, l’evidenza empirica sembra mostrare che la produttività
dell’economia britannica negli anni 1550-1699 fosse inferiore a quella degli anni 1260-1399;
infatti, i salari reali nel periodo 1600-49 erano pari al 75% del loro livello nel periodo 12601349, benché la popolazione prima del 1348, anno di una delle epidemie di peste, fosse
sostanzialmente superiore alla popolazione nella prima metà del Seicento.
Se si considera una funzione della produzione che presenta rendimenti di scala costanti e si
assume che i singoli fattori, vale a dire terra e lavoro, presentino rendimenti decrescenti, si può
concludere che la drastica diminuzione della popolazione causata dalla Black Death, alterando il
rapporto tra terra e lavoro, abbia permesso alla produttività marginale del lavoro agricolo di
crescere notevolmente.
Secondo lo storico Jacques Le Goff, infatti: “Probabilmente in nessuna [regione la mortalità
dell’epidemia] fu inferiore a un terzo della popolazione e le valutazioni più verosimili per tutta
la cristianità vanno dalla metà ai due terzi. Il crollo demografico fu in Inghilterra del 70%: si
passò da circa 7 milioni di abitanti ai circa due milioni del 1400” (Le Goff, 2007, p. 202). In una
tale situazione di scarsa manodopera, molti terreni marginali, coltivabili solo sopportando alti
costi, furono abbandonati e continuarono ad essere coltivati solo i terreni più fertili.
Una misura indiretta dell’andamento della produttività nel settore agricolo e in quello
manifatturiero può essere ottenuta attraverso il confronto dell’evoluzione degli indici dei prezzi
dei prodotti agricoli e di quelli industriali; infatti Malanima (1998, p. 50), con riferimento
all’Italia, rileva che: “Mentre l’indice dei prezzi passa fra [il] 1430-50 e [il] 1775-85 da 100 a 528,
quello del grano da 100 a 544, quello dei prodotti tessili aumenta da 100 a 144”.
Questo significa che incrementi della domanda dovuti ad una popolazione in aumento
provocarono un notevole innalzamento dei prezzi dei prodotti agricoli a causa dei rendimenti
decrescenti del lavoro che a quell’epoca l’economia stava sperimentando in agricoltura; al
7 contrario, i rendimenti di scala crescenti nel settore manifatturiero permisero di contenere i
costi all’aumentare della domanda di prodotti industriali e dunque l’aumento dei prezzi in
questo settore fu sensibilmente minore.
Altra misura, sebbene imperfetta, della produttività, è data dal tasso di urbanizzazione; infatti,
quanto maggiore è la percentuale di abitanti che vivono nelle città, tanto più elevata deve essere
l’efficienza del settore agricolo, che deve alimentare non solo la popolazione rurale, bensì anche
quella urbana; la produttività del lavoro agricolo corrisponde quindi al rapporto tra popolazione
totale e popolazione rurale. Un indice (indiretto) della produttività in agricoltura elaborato da
Malanima (1998, p. 55) su questa base mostra valori pressoché costanti nel corso dei secoli
XIII-XVI per l’Italia settentrionale (127 nel 1300, 127 nel 1500, 123 nel 1600) e in moderata
crescita per l’Inghilterra (105 nel 1500 e 109 nel 1600).
8 1.2 Popolazione totale, popolazione attiva e forza lavoro
Al giorno d’oggi, è frequente che i sistemi economici si trovano in un equilibrio di sottooccupazione, vale a dire che il tasso di disoccupazione sia diverso da zero o da quella frizionale
e talora consistente. Nel periodo considerato nel presente lavoro (XIII-XIX secolo), tuttavia, si
considera un tasso di partecipazione (definito come il rapporto tra la forza lavoro e la
popolazione attiva) unitario (Malanima, 2007, p. 140), supponendo dunque che tutti coloro che
erano in grado di lavorare fossero effettivamente impiegati nel processo produttivo.
Di certo, gli appartenenti a famiglie ricche non lavoravano, ma occorre anche tener conto del
fatto che probabilmente anche persone di età inferiore ai 15 anni oppure superiore ai 65 anni (le
soglie d’età oggi abitualmente considerate per delimitare la popolazione attiva) erano impiegate
nel processo produttivo: “We would have to add, however, the workers who were under 15 and
over 65” (Malanima, 2007, p. 140). La disoccupazione è un fenomeno relativamente moderno e
in passato si reagiva ad una diminuzione della domanda con una riduzione dell’orario di lavoro
piuttosto che con l’esclusione di alcuni lavoratori dal processo produttivo, perciò si può
concludere che il numero di lavoratori effettivamente occupati nell’attività produttiva (forza
lavoro) quasi coincidesse con la popolazione attiva.
Per quanto riguarda il rapporto tra quest’ultima e la popolazione totale, sappiamo ad esempio
che, nei decenni immediatamente successivi all’unificazione italiana (1861), essa era pari a circa
il 59% della popolazione totale, per poi seguire un trend in leggero calo nei decenni successivi; in
assenza di dati precisi, è comunque possibile stimare sulla base dei rilevamenti demografici che
la popolazione attiva, anche nei secoli precedenti l’unificazione, fosse pari a circa il 60% della
popolazione totale. A questo proposito Malanima (2006b, pp. 99-100) scrive: “the working
population – i.e., between 15 and 65 – amounted in all likelihood to about 60 percent of the
total. This is precisely the percentage documented for the 1861-81 period in Italy, when the
demographic structure must have still been the same as in the previous centuries”.
Occorre comunque considerare che, in Italia, la speranza di vita alla nascita era pari nel 1875 a
soli 35 anni per gli uomini e 36 anni per le donne e non avrebbe superato la soglia dei 65 anni
fino al 1950-5 (Baranzini, 2008, p. 89). Nel Medioevo la speranza di vita in Europa si situava tra
i 20 e i 30 anni; è dunque probabile che la forza lavoro fosse composta principalmente da
individui (relativamente) giovani.
9 1.3 Salari nominali e salari reali
Le serie storiche dei salari forniscono informazioni sull’andamento del saggio di salario (riferito
ad un’unità di tempo) e del salario (ottenuto moltiplicando il saggio di salario orario per il
numero di ore lavorate) in termini nominali. Ad ogni modo, al fine di poter confrontare
adeguatamente dati relativi ad epoche diverse, nonché a diverse regioni geografiche, si rende
necessaria la costruzione di un indice del costo della vita, che possa essere utilizzato per
deflazionare i salari nominali e ottenere l’informazione sui salari reali, vale a dire sull’effettivo
potere d’acquisto di cui i lavoratori potevano beneficiare nei vari periodi.
Risulta difficile costruire l’equivalente di un attuale indice del costo della vita per i secoli passati,
in primo luogo perché sono noti solo i salari giornalieri e non quelli annuali (si rendono dunque
necessarie ipotesi sul numero di giorni di lavoro in un anno) e in secondo luogo perché
l’espressione: “The cost of maintaining a constant standard of living” (Phelps-Brown e
Hopkins, 1956, p. 296) ha poco significato se applicato ad un periodo storico di lunga durata
(1300-1900), durante il quale l’introduzione di nuovi prodotti e la scoperta di nuove tecnologie
hanno indotto notevoli cambiamenti nei consumi.
La soluzione scelta da Phelps-Brown e Hopkins consiste nella costruzione di un bene
composito e nello studio dell’evoluzione del suo prezzo; tale bene composito è costruito in
modo tale da mantenere in linea di principio costanti le quote di spesa dedicate ai vari beni;
sono considerati, ad ogni modo, i cambiamenti della struttura dei consumi indotti
dall’introduzione ad esempio di nuove colture quali la patata. Per questo motivo, ad esempio, a
partire dal XVIII secolo il peso del grano è maggiore rispetto a orzo e segale, la cui importanza
relativa diminuisce.
Quello che si ottiene è: “a common composite physical unit, in which to express the purchasing
powers of sums of money at different dates throughout our long period” (Phelps-Brown e
Hopkins, 1956, pag. 297); come unità di riferimento per il bene composito si considera ciò che
sarebbe stato possibile acquistare con 100 pence negli anni 1451-75, scelti come il periodo di
base poiché si trovano all’interno di un lungo periodo di stabilità dei prezzi.
Le principali categorie di beni considerati sono sei: farinacei, carne e pesce, burro e formaggio,
bevande (tè e birra, per quest’ultima si prendono in esame i prezzi di luppolo e malto, necessari
per produrla), luce e riscaldamento, tessili (abbigliamento); uno dei maggiori limiti che questo
10 indice dei prezzi presenta risiede nel fatto che le quantità relative (le quote) delle principali
categorie di spesa sono mantenute costanti; dunque non si considera, ad esempio, il fatto che la
caduta del potere d’acquisto dei salari nel XVI secolo abbia quasi certamente causato una
diminuzione della quota di spesa destinata alla carne per rapporto a quella del pane.
Quest’ultima osservazione è coerente con la legge di Engel, secondo la quale la percentuale
della spesa totale consacrata ai beni di prima necessità diminuisce all’aumentare del reddito
disponibile. Inoltre, anche la qualità è mantenuta costante. Phelps-Brown e Hopkins
concludono la loro analisi dividendo i sette secoli in esame in sei periodi: ci furono, infatti, due
fasi di stabilità dei prezzi (1380-1510 e 1630-1760) e due fasi di aumento generale dei prezzi
(1270-1380 e 1815-1914). Tra il 1510 e il 1630 si verificò una fase di caduta dei prezzi, il cui
punto più basso fu raggiunto nel 1597; gli autori ritengono che tale evoluzione dei prezzi sia
stata causata da: “a Malthusian crisis, the effect of a rapid growth of population impinging on
an insufficiently expansive economiy” (Phelps-Brown e Hopkins, 1956, p. 306). Una crisi
malthusiana di questo tipo potrebbe anche essere all’origine del declino dei prezzi avvenuto tra
la seconda metà del XVIII e l’inizio del XIX secolo.
Anche Clark si è occupato della costruzione di un paniere rappresentativo dei beni, necessario
per stimare il costo della vita dei lavoratori inglesi; in particolare, per il pane e la farina, che
costituivano la quota di spesa più ampia nel budget dei lavoratori, Clark utilizza il prezzo del
frumento e degli altri input necessari per la loro produzione.
Considerati assieme, cereali quali il grano e il frumento (più tardi, considerati insieme alle
patate), costituiscono il 27% dell’indice del costo della vita, mentre si stima che i costi legati
all’alloggio ammontino a circa l’8% e i costi di abbigliamento e biancheria (clothing and bedding
costs) al 12% della spesa totale dei lavoratori.
I pesi delle varie voci di spesa in questo nuovo indice del costo della vita elaborato da Clark
differiscono, anche in misura non trascurabile, da quelli individuati da Phelps-Brown e
Hopkins.
Clark, infatti, utilizza i prezzi di circa quaranta differenti beni e stima che il frumento (utilizzato
in sostituzione del pane, dal momento che ne costituiva il 92% del costo di produzione),
rappresenti il 18,5% della spesa totale e ne sia quindi il componente principale, seguito
dall’alloggio (6,5%) e dalla birra (6%).
11 Phelps-Brown e Hopkins, invece, consideravano solo 20 beni e, di conseguenza, attribuivano in
alcuni periodi pesi molto consistenti a singoli beni; ad esempio, una quota pari al 22,5% della
spesa è assegnata al solo malto. Queste caratteristiche dell’indice lo rendono, secondo Clark, più
sensibile ad eventuali errori nelle serie storiche dei prezzi dei singoli beni.
Considerando il salario orario in termini reali ottenuto con questo nuovo indice del costo della
vita per lavoratori qualificati e non dal 1200 al 1999, Clark rileva che il livello più basso dei salari
reali si verificò nel 1310-1319, il decennio dell’ultima grande carestia inglese (1316-7);
utilizzando l’indice elaborato da Phelps-Brown e Hopkins, invece, i salari reali nei periodi 15909, 1660-9 e 1800-9 sembrano essere inferiori di quelli del decennio 1310-9, senza tuttavia che in
questi periodi si siano rilevati tassi di mortalità eccezionali, indice del verificarsi di carestie o
peste. Le serie storiche elaborate da Clark, dunque, sembrano rispecchiare maggiormente
l’evoluzione del potere d’acquisto dei lavoratori britannici. Secondo Feinstein (1998), i salari
reali aumentarono del 47% tra il 1770-9 e il 1860-9, mentre nello studio di Clark, questo
incremento è pari quasi al doppio (75%); tale differenza è dovuta al fatto che Clark considera
un minore aumento dell’indice del costo della vita.
Il salario reale, infatti, è funzione di due variabili: il salario nominale, misurato in unità di
moneta corrente dell’epoca, e il livello dei prezzi, misurato per mezzo di un indice dei prezzi
basato su un paniere rappresentativo di beni (basket of consumables); il salario reale misura dunque
la quantità di beni (inclusi nel paniere) che possono essere acquistati con il salario giornaliero,
mensile o annuale ricevuto dal lavoratore.
Il tradizionale metodo di esprimere il salario reale è tramite dei numeri indice, secondo la
formula (Munro, 2004, p. 3):
RWI = NWI / CPI
Vale a dire che il salario reale (RWI) è uguale al salario nominale (NWI) diviso per l’indice dei
prezzi al consumo (CPI); sia il livello dei prezzi sia il salario nominale sono dei numeri indice,
che utilizzano uno stesso periodo come base (es. 1451-75 = 100, sono anni, come detto, di
stabilità dei prezzi). Secondo Munro, l’utilizzo di numeri indice rende difficoltoso il confronto
tra il tenore di vita dei lavoratori in diverse regioni, in quanto si tratta di “disembodied index
number, unrelated to actual commodity prices” (Munro, 2004, p. 16).
12 A questo proposito, Allen critica il metodo tradizionale di calcolare i salari reali per mezzo di
numeri indice, osservando che: “the real wage shows [only] proportional changes and relative
levels”, “it has no absolute interpretation” (Allen, 2001, p. 424); egli propone quindi un metodo
di calcolo alternativo, per mezzo di un “paniere di dignità europeo”, che include carne, pane,
formaggio e birra, e di un “paniere di sussistenza”, in cui i cereali meno costosi giocano un
ruolo predominante.
Si considera, inoltre, che il costo di mantenimento di una famiglia composta da madre, padre e
qualche figlio, considerati equivalenti in termini di consumi a tre maschi adulti, fosse
approssimativamente uguale al costo di tre panieri (di sussistenza), il costo dell’affitto di
un’abitazione è qui stimato essere pari a solo il 5% circa del costo del paniere di beni; dunque,
la spesa totale annua sarebbe pari a 3,05 volte il costo del paniere rappresentativo.
Dividendo il reddito reale dei lavoratori per il costo del paniere di sussistenza si ottiene quello
che Allen (2011, pp. 48-52) definisce come l’indice di sussistenza, mentre dividendo il reddito
per il costo del paniere di dignità si ottiene l’indice di dignità; in entrambi i casi, “un valore
maggiore di 1 indica che il lavoratore aveva abbastanza denaro da permettersi quel tenore di
vita e da risparmiare qualcosa; un valore inferiore a 1 indica invece che quel tenore di vita era
fuori dalla sua portata in base alle ipotesi formulate” (Allen, 2011, p. 52). Le ipotesi cui Allen fa
riferimento comprendono, ad esempio, un numero di giorni di lavoro pari a 250 all’anno. Un
lavoratore il cui indice di sussistenza fosse stato maggiore dell’unità, comunque, probabilmente
non avrebbe dedicato il reddito rimanente dopo l’acquisto del paniere di sussistenza al
risparmio, ma si sarebbe avvicinato al paniere di dignità, incrementando la quantità e la qualità
dei beni acquistati. In alternativa, un lavoratore che si fosse trovato in questa situazione avrebbe
avuto la possibilità di consacrare parte del reddito all’acquisto di beni manufatti.
Il metodo proposto da Munro (2004) per il calcolo del tenore di vita dei lavoratori nei vari
periodi storici e nelle varie regioni europee consiste invece nel calcolo del numero di panieri
rappresentativi di beni che un master mason (maestro muratore, capomastro), oppure uno
journeyman (operaio qualificato che ha terminato il periodo di apprendistato), erano in grado di
acquistare con il loro salario annuo.
Infine, per la costruzione di un indice del costo della vita relativo all’Italia, Malanima (2004) si
serve di dati su prezzi e salari relativi al Gran Ducato di Toscana fino all’inizio del XVII secolo,
13 per poi passare ad analizzare dati relativi al Ducato di Milano e infine al neo-costituito Regno
d’Italia a partire dal 1861.
A questo proposito, Malanima sceglie di usare un indice dei prezzi decennale, in modo tale da
ottenere una maggiore affidabilità dei risultati, per mezzo dell’eliminazione della variabilità
annuale dei movimenti dei prezzi. In questo modo è anche possibile riunire i dati relativi a
diverse regioni italiane, dal momento che i prezzi in diverse città italiane mostrano andamenti
notevolmente differenti nel breve termine, ma sostanzialmente simili nel lungo periodo.
14 2. Le relazioni macroeconomiche tra le variabili in esame: trends generali
2.1 Relazione tra popolazione e salari
Malanima (1998, p. 66) afferma che si possono distinguere due tipi di crescita del sistema
economico: (a) una crescita estensiva, caratterizzata da una popolazione in aumento, ma con
redditi immutati (o in lieve diminuzione); (b) una crescita intensiva, in cui si assiste invece ad un
aumento del prodotto pro capite. I secoli XVIII e XIX, ad esempio, sono caratterizzati da una
crescita estensiva dell’economia italiana.
Progressi nel campo dell’energia che riguardino solamente o in modo prevalente il settore
agricolo (come l’introduzione di nuove colture) hanno solitamente come effetto un incremento
demografico con redditi immutati o quasi (crescita estensiva). Per ottenere una crescita di tipo
intensivo, vale a dire una situazione in cui non solo la popolazione, ma anche i redditi crescono,
è necessario che le innovazioni legate alla produzione di energia coinvolgano anche i settori
industriali, ma ciò non avvenne in Italia prima dell’avvento dell’elettricità e del petrolio, dunque
circa un secolo dopo il periodo in cui tradizionalmente si colloca la Rivoluzione Industriale.
Nei secoli XIII-XIX, sembra sussistere una relazione di tipo inverso tra la popolazione ed i
salari; se la prima aumenta, infatti, i secondi non possono che diminuire e viceversa, è la
cosiddetta “era malthusiana”, nel corso della quale si verificano notevoli incrementi nel saggio
di salario solo in seguito a epidemie che riducano drasticamente la popolazione, come avvenne
nella seconda metà del Trecento e del Seicento.
La legge economica enunciata da Malthus nel 1798 afferma infatti che, in assenza di progresso
tecnologico, la crescita della popolazione (di lungo periodo) conduce inevitabilmente a salari
reali decrescenti nel breve e nel lungo periodo.
Questa relazione viene a cadere con l’avvento della Rivoluzione Industriale, che rende possibili
aumenti dei salari anche in presenza di una popolazione in crescita; questa nuova relazione, di
tipo diretto, tra popolazione e salari è valida per la Gran Bretagna a partire dal 1820 circa e per
l’Italia dal 1880, mentre sembra essere solo parzialmente confermata nel caso della Svizzera.
15 2.2 Relazione tra produttività e popolazione
In presenza di un tasso di crescita positivo della popolazione, il rapporto tra risorse naturali e
popolazione è destinato a diminuire, facendo sperimentare al sistema economico rendimenti di
scala decrescenti e una produttività del lavoro in diminuzione. La terra coltivabile, ad esempio,
non è illimitata e corrisponde in Italia al 45% circa della superficie totale del paese. Questa
percentuale, tuttavia, comprende sia pianure sia terreni collinosi, entrambi coltivabili con le
tecniche agricole tradizionali; il terreno pianeggiante, che può essere coltivato in modo più
intensivo, costituisce invece solo il 20% della superficie italiana complessiva.
L’effetto della scarsità di risorse naturali potrebbe essere compensato da un aumento del
capitale; tuttavia, il tasso di crescita del capitale dovrebbe essere pari o maggiore al tasso di
crescita della forza lavoro al fine di mantenere costante o aumentare la produttività. Se la
dotazione di capitale per addetto decresce a causa di un incremento demografico, infatti, sotto
l’ipotesi di rendimenti decrescenti dei singoli fattori della produzione, la produttività del lavoro
diminuisce necessariamente.
Sembra che in Italia, comunque, la crescita demografica non sia stata accompagnata da
un’altrettanto rapida accumulazione di capitale; di conseguenza, la produttività marginale del
lavoro seguì un trend decrescente e con essa anche il prodotto pro capite (reddito medio), almeno
fino al 1820. A questo proposito Malanima scrive: “L’elevata pressione [demografica] accresce
le probabilità di infezioni epidemiche e di carestie; anche se non [ne] costituisce una ragione
determinante” (Malanima e Breschi, 2002, pp. 25-26). L’aumento della popolazione incrementa
le possibilità di contagio e può causare un deterioramento delle condizioni igieniche, in
particolar modo nelle città (Malanima e Breschi, 2002, p. 5). La pressione demografica, dunque,
fino alla scomparsa della peste alla fine del Seicento, è tenuta a freno dalla mortalità epidemica,
che provoca repentine diminuzioni del numero di abitanti. Allo stesso tempo, i beni capitali
rimangono invariati, come pure le risorse naturali; di conseguenza, il capitale per addetto
aumenta e con esso la produttività del lavoro, ponendo così le basi per la ripresa: “Si tratta, in
realtà, di un sistema alla ricerca di un equilibrio dinamico attraverso forme di retroazione e
autoregolazione” (Malanima e Breschi, 2002, p. 26). Alla crescita demografica del Settecento
corrisponde una diminuzione della produttività del lavoro agricolo sia nel Regno Unito sia
nell’Italia del Centro e del Sud. La produttività inglese inizia ad crescere decisamente solo a
16 partire dal 1800, mentre in Italia si ha piuttosto una sua stabilizzazione (dopo un secolo di
declino). Di conseguenza i salari dei lavoratori britannici nell’Ottocento crescono
parallelamente alla produttività del lavoro, mentre in Italia essi cessano di diminuire.
17 2.3 Relazione tra produttività e salari
Secondo la scuola di pensiero marginalista o neoclassica, i salari reali sono direttamente
determinati dalla produttività marginale del lavoro, vale a dire dalla variazione della produzione
causata dall’impiego dell’ultima unità del fattore lavoro. Di conseguenza le variazioni dei salari
reali sono indice di variazioni del medesimo segno della produttività dell’economia.
Secondo altre scuole di pensiero economico, questa relazione non è lineare ma più complessa.
Si riconosce comunque che l’aumento della produttività “con il passare del tempo si riflette
positivamente sui redditi reali” (Baranzini e Tondini, 2003, p. 248).
Munro (2004, p. 23) aggiunge un’importante precisazione alla teoria neoclassica della
determinazione dei salari; egli afferma, infatti, che il salario reale non è determinato dal
prodotto marginale del lavoro (Marginal Product of labour, MPl), vale a dire la quantità addizionale
di bene prodotto che è possibile ottenere impiegando un’unità aggiuntiva di un fattore della
produzione (in questo caso il lavoro), bensì dal Marginal Revenue Product of labour (MRPl), vale a
dire il valore di mercato dell’ultima unità del bene in esame, prodotta dall’ultima unità lavoro
impiegata.
18 3. I periodi storici e i paesi considerati
3.1 Il caso dell’Italia
3.1.1. Il trend dei salari nei secoli XIII-XIX
Malanima (2004) afferma che i salari nel territorio corrispondente all’Italia odierna iniziarono a
mostrare un trend decrescente nel tardo Medioevo e che tale tendenza non si invertì fino alla
fine del XIX secolo. Egli procede poi all’identificazione delle principali fasi dell’evoluzione dei
salari da un punto di vista macroeconomico per il periodo compreso tra il XIII e l’inizio del XX
secolo e con riferimento in particolare al Nord e al Centro d’Italia, in ragione della maggiore
disponibilità di dati statistici.
Dall’osservazione dei salari del settore edile (i quali sono documentati con maggiore
accuratezza) si evince che, dopo una fase di crescita, a partire dal 1320 inizia un periodo di
declino (“It seems that in 1320, after a period of growth, they [wage rates] were beginning to
decline”, Malanima, 2007, p. 129), interrotto dall’epidemia di peste del 1348, a cui fa seguito una
rapida crescita dei salari, in Toscana come nel resto d’Europa. I salari reali in media rimangono
su livelli elevati fino alla seconda metà del XV secolo, si assiste poi a una nuova fase di declino,
a una rapida ripresa e infine a un declino più marcato negli anni 1570-1600, periodo in cui il
saggio di salario risulta essere inferiore del 40% circa rispetto a quelli del secolo precedente.
In generale, l’andamento del saggio di salario reale è simile a quello europeo: un alto livello nel
secolo 1350-1450, seguito da una lunga fase di declino, una lenta ripresa nel Seicento, una
nuova caduta verso la fine del Settecento ed infine l’inizio di una prolungata fase di crescita; il
caso italiano, tuttavia, presenta alcune peculiarità. La caduta dopo il periodo 1350-1450 iniziò
prima rispetto al resto d’Europa, vale a dire già negli anni 1450-60, il declino nel Cinquecento fu
meno pronunciato che altrove, la ripresa seicentesca fu notevole e nel periodo 1820-80 ci fu
una stabilizzazione dei salari invece che una loro rapida crescita.
Secondo questa analisi, i saggi di salario mostrano una chiara tendenza ascendente all’inizio del
Seicento, in particolare dopo le epidemie degli anni 1629-30, che causarono più di 1,3 milioni di
vittime nel Centro-Nord d’Italia.
19 I salari rimangono su livelli elevati per tutto il XVII secolo e per i primi decenni del Settecento,
ma iniziano una nuova fase di declino dopo il 1733 e in modo ancora più marcato dopo il 1760.
Spesso si assume che i salari urbani e quelli rurali seguano lo stesso trend; tuttavia, Malanima a
questo proposito rileva come, ad esempio, il 1350-1450 sia stato un periodo di alti salari rurali (a
causa della scarsità di manodopera agricola in seguito alla peste), ma di bassi salari urbani: “It is
a consequence of the declining number of rich buyers for Italian luxury goods and commercial
services in the depopulated continent and along the coasts of the Mediterranean after the Black
Death and the many other epidemics that followed” (Malanima, 2007, p. 135).
Per studiare l’evoluzione del saggio di salario, dunque, Malanima sceglie una media dei salari
urbani e di quelli rurali, ponderata per la relativa importanza dei due settori. La scelta di
considerare i soli salari relativi al settore agricolo e a quello manifatturiero come rappresentativi
della totalità dei salari percepiti potrebbe generare delle distorsioni nell’analisi. A questa
obiezione, tuttavia, Malanima (2007, p. 137) argomenta che: “There is no doubt that wage rates
for many young workers and women were lower than those for the male labour in industry and
agriculture to which our information refers. In the cities, on the other hand, wage rates of state
officials, soldiers, professional men, teachers, artisans, petty traders and shopkeepers were
higher than those to which our evidence is limited”, i salari considerati, dunque, dovrebbero
costituire una buona approssimazione del loro livello generale.
Nei primi decenni del XIV secolo il reddito pro capite aveva raggiunto un livello quasi uguale a
quello che si sarebbe registrato nel secolo successivo con una popolazione di molto inferiore.
Inoltre, i prezzi prima del 1330 erano inferiori di circa 40% rispetto a quelli del secolo
successivo. Dopo il 1330, tuttavia, l’incremento demografico cominciò ad esercitare pressione
sulle risorse disponibili, provocando l’aumento dei prezzi e la conseguente diminuzione dei
salari in termini reali. La peste del 1347 e le successive epidemie eliminarono questa pressione e
fecero nuovamente aumentare i redditi medi a causa della carenza di mano d’opera: “I salari dei
muratori, pari a 140-145 lire - ai prezzi del 1430-50 - nei decenni 1290-1320 salgono a più di
200 subito dopo la peste e raggiungono il massimo di 244 nella prima metà del Quattrocento.
Ridiscendono, poi, con la ripresa demografica.” (Malanima, 1998, p. 61).
Il reddito pro capite non subisce rilevanti cambiamenti nel corso del XVI secolo; nel periodo che
va dalla fine del Cinquecento al 1660, al contrario, si assiste ad un rilevante declino dei redditi.
20 Una delle cause di questa crisi risiede nel modello di “sviluppo estensivo” del settore agricolo.
Fino a quel momento, infatti, l’aumento demografico e dunque l’accresciuta domanda di
prodotti agricoli aveva determinato un allargamento delle superfici messe a coltura, piuttosto
che un aumento dell’efficienza o un’intensificazione dell’attività produttiva: “Indeed, in Italy
product increased with population from the late Middle Ages thanks to peasants who were
obliged to become more and more industrious. It increased, however, less than population.
Productivity diminished, wage rates decreased, per capita income underwent a strong decline of
about 30% in 600 years” (Malanima e Capasso, 2007, p. 37).
Di conseguenza, un aumento della popolazione rilevante come quello che si verificò in Italia tra
il 1500 e il 1600 (pari al 50%) sarebbe stato necessariamente frenato dalla disponibilità di
risorse. Tale problema fu acuito dalla riduzione delle rese dei cereali in seguito al cambiamento
climatico (“piccola età glaciale”) e sfociò nelle gravi carestie degli anni 1590-1654. In questo
periodo i prezzi agricoli raggiunsero livelli elevati e divennero maggiormente instabili; inoltre
anche attività industriali quali la produzione di tessuti di lana attraversarono una fase di crisi.
Secondo Malanima, considerando assieme e ponderando con i rispettivi pesi il settore primario
e secondario, il reddito pro capite diminuì del 15% tra il 1570-80 ed il 1625-30, fino a che, come
era già accaduto nella seconda metà del Trecento, intervenne nuovamente la peste a modificare
repentinamente il rapporto tra le risorse disponibili e la popolazione, determinando dunque un
aumento di produttività del sistema economico.
A partire dagli anni Trenta del XVIII secolo, in Italia come nel resto d’Europa, la crescita
demografica fu accompagnata da un aumento dei prezzi, che quasi raddoppiarono tra 1730 e il
1790-1820. Dopo il 1820 il livello dei prezzi rimase approssimativamente stabile, per poi salire
di nuovo tra il 1850 ed il 1880. I salari nominali nel Nord Italia ristagnarono per tutto il XVIII
secolo, in seguito registrarono una lieve crescita, comunque insufficiente a compensare
l’aumento dei prezzi, dunque i salari reali diminuirono in misura consistente, in particolare dopo
il 1760. Nel 1820, infatti, i salari reali dei muratori a Milano erano pari a circa la metà di quelli
del secolo precedente; una simile caduta dei salari reali è anche documentato per le città di
Genova, Venezia e Firenze. Il declino degli anni 1760-1820 colpì non solo il settore industriale;
bensì anche l’agricoltura, sebbene non nella stessa misura.
21 I dati relativi al Sud Italia presentano un trend molto simile: dagli anni ’60 del Settecento alla fine
del secolo i salari reali diminuirono di circa il 50%, sia in città che nelle campagne; sembra,
inoltre, che i salari rurali siano diminuiti in misura maggiore nel Sud che nel Nord. In questo
periodo si verificano gravi carestie, come quelle del 1764-7 e del 1771-3. Malanima (1998, p. 74)
stima che, tra il 1760 ed il 1800, i salari nel settore edile abbiano subito una riduzione pari al 4050% e quelli nel settore agricolo una riduzione del 20% circa. Nel XVIII secolo, infatti, “mentre
la popolazione continua a crescere, il prodotto pro capite decresce” (Malanima, 1998, p. 74) è la
trappola malthusiana: il sistema economico non è in grado di sostenere un aumento sostenuto e
prolungato della popolazione.
Per crescita moderna si intende una situazione in cui, all’interno di un dato sistema economico,
la produzione cresce ad un ritmo più sostenuto della popolazione, permettendo dunque al
reddito pro capite di aumentare; al contrario, si parla di declino quando il reddito pro capite rimane
invariato o diminuisce ed è proprio quello che si verificò nel XVIII secolo in Italia. La nuova
fase ascendente segnò un lento recupero e non ebbe inizio prima della fine del XIX secolo.
Il 1816-7 fu un anno molto sfavorevole per il settore agricolo; infatti, il clima particolarmente
rigido (si parla di “anno senza estate”) fu all’origine di una grave carestia. Scrive a questo
proposito Baranzini (2008, p. 154): “Sappiamo adesso che questa carestia fu dovuta all’eruzione
del vulcano Tambora nel sud-est asiatico, che diffuse nell’atmosfera enormi quantità di cenere
causando un forte abbassamento delle temperature a livello planetario”.
A partire dal 1820 i prezzi iniziarono a scendere e i salari reali aumentarono di conseguenza del
20% tra il 1820 ed il 1835. Questa fase è però di breve durata e i salari reali riprendono a
diminuire a partire dal 1835; nello stesso periodo la produzione agricola subisce ripetute carestie
(nel 1836, 1846 e nel 1853). Di conseguenza, il livello dei salari reali nel 1861 non era
sensibilmente diverso da quello stimato per l’inizio del secolo: “Immediately before and after
the unification of Italy, per capita product was 40 percent lower than it had been in 1730-40”
(Malanima, 2006b, p. 103); questo trend decrescente sembra interrompersi a partire dal 1880,
grazie al crollo dei prezzi agricoli (la cosiddetta agrarian crisis) e alla crescita dell’industria. A
partire da allora, il trend del saggio di salario reale rimase sempre positivo. Nonostante ciò, alla
vigilia della Prima Guerra Mondiale, il saggio di salario (ma non il salario percepito, che dipende
anche dal numero di ore lavorate) era ancora inferiore a quello di due secoli prima.
22 Scrive Malanima (2006b, p. 98): “On the whole, the trend of Italian wages from 1700 and 1913
shows a long-term decline until 1817, relative stability from 1818 to 1874, and finally a late
recovery at the end of our series”; è l’inizio di una lunga fase di crescita. Occorre tuttavia
considerare che, per l’epoca pre-moderna, disponiamo solo di dati sull’andamento del saggio di
salario e non sull’evoluzione dei salari, che potrebbero invece presentare trends differenti. Si può
supporre, infatti, che altre forze si contrappongano al declino della produttività del lavoro. La
popolazione attiva lavorerà più ore al giorno per stabilizzare il proprio reddito giornaliero e
donne e bambini potrebbero entrare a far parte della forza lavoro. Si reagisce dunque ad una
diminuzione della produttività del sistema economico con un’intensificazione sia dell’uso della
terra sia dell’impiego lavoro; tuttavia: “In both cases, time and land are exploited not better,
with more efficient tools and technologies, but merely more” (Malanima, 2006b, p. 98).
Nel lungo periodo, risulta evidente una correlazione negativa tra popolazione e saggio di salario
per il periodo 1300-1820: aumenti del saggio di salario sono possibili solo in caso di declino
demografico, come avvenne nel 1350-1450 e nel 1630-1750. Questa relazione cambia
radicalmente a partire dal 1820; infatti, esiste ora una correlazione positiva tra popolazione e
salari ed entrambe queste variabili possono aumentare allo stesso tempo: “While before 1820 a
1000-man increase in population produced a 0.003 lire decrease in the reward of 100 hours
work, between 1820 and 1913 the same increase was accompanied by a 0.001 lire rise”
(Malanima, 2007, p. 138). Questo fu reso possibile dall’introduzione di nuove fonti di energia,
tra le quali svolse un ruolo primario l’elettricità, e dalla maggiore efficienza con cui tali input
energetici erano impiegati nel processo produttivo. L’inizio della fase di industrializzazione
rende dunque compatibili salari reali in aumento (o almeno stabili) e una popolazione in
crescita: è la fine della cosiddetta era malthusiana.
Occorre comunque considerare che, diversamente da quanto avviene nelle altre nazioni
europee, per le quali il 1820 segna l’inizio di una fase di rapida crescita dei salari, in Italia tale
processo non si verifica. Nel 1800-20, infatti, i salari italiani registrano il loro punto più basso e,
a partire da allora, si stabilizzano, rimanendo tuttavia ancora notevolmente esposti agli effetti di
periodiche carestie, che causano repentini aumenti dei prezzi e, di conseguenza, riduzioni dei
salari reali. Nel 1861, anno dell’Unità d’Italia, il prodotto pro capite in termini reali era ancora del
20% inferiore al suo livello del tardo Medioevo (XIV e XV secolo), livello che sarà nuovamente
raggiunto solo tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo.
23 3.1.2 L’evoluzione demografica
Considerando il trend della popolazione italiana in una prospettiva storica, si rileva tra il 1000 e il
1340 un incremento demografico pari al 140%, inferiore a quello di altre regioni europee, ma
comunque consistente; ci fu poi, come nel resto dell’Europa, un drastico calo della popolazione
in seguito all’epidemia di peste del 1347-8. (il minimo si raggiunse nel 1400 con 8 milioni di
abitanti). All’inizio del XVII secolo, comunque, la popolazione italiana aveva superato il livello
precedente l’epidemia, raggiugendo i 13,3 milioni (Malanima, 1998, pp. 53-4).
In un’economia pre-industriale come era quella italiana dell’epoca, l’incremento demografico
stimola un’intensificazione della produzione agricola, vale a dire “una maggiore efficienza nello
sfruttamento del suolo” (Malanima, 1998, p. 54); come spiegato in precedenza, con riferimento
all’evoluzione dei salari reali, questo aumento della produttività non è dovuto al progresso
tecnico (introduzione di nuove tecniche), bensì ad un uso più intensivo delle terre e del fattore
lavoro (aumento del numero di ore lavorate).
Le pestilenze della seconda metà del XIV secolo avevano causato una brusca diminuzione della
popolazione, “accrescendo così la dotazione di terre e beni capitali a disposizione dei
sopravvissuti” (Malanima, 1998, p. 59). Ne derivò nel periodo 1430-50 un aumento della
produttività del lavoro e dei salari, nonché una corrispondente diminuzione delle rendite. In
questo periodo, in Toscana, la spesa giornaliera minima per vitto, alloggio e indumenti si situava
attorno ai due soldi, cifra che corrisponde ad una spesa annua individuale pari a circa 30 lire
fiorentine. Un manovale guadagnava 130-140 lire all’anno e un maestro muratore riceveva un
salario più elevato in misura pari a circa il 70%; si trattava, quindi, di anni di alti salari, ben al di
sopra del livello minimo di sussistenza.
Un sistema economico agricolo pre-moderno è caratterizzato dalla relativa stabilità (e non,
come avviene nelle economie moderne, dalla crescita) del prodotto interno lordo (PIL),
sebbene nel breve periodo esso possa presentare fluttuazioni notevoli a causa di periodiche
carestie o epidemie. Tale stabilità di lungo periodo deriva da una diminuzione del prodotto pro
capite quando la popolazione è in crescita e da un aumento del prodotto pro capite quando il trend
demografico è decrescente, di qui la relazione inversa tra popolazione e reddito medio, che
caratterizzò per circa sei secoli l’economia italiana.
24 Il trend demografico italiano a partire dal Medioevo si può dunque dividere in due grandi fasi
della durata di circa tre secoli ciascuna: come già accennato, si ebbe una fase di relativa stabilità
nel periodo compreso tra la peste del Trecento e le epidemie del Seicento (interrotta tuttavia da
una fase di crescita sostenuta della popolazione dal 1450 al 1575) ed una fase di rapida crescita
dal 1650 al 2000. Nelle economie pre-moderne, l’aumento della popolazione implica un
aumento della domanda di beni, in primo luogo alimentari, che si confronta con un’offerta di
prodotti agricoli in grado di aumentare solo lentamente (rigida); di conseguenza, i prezzi non
possono che aumentare.
L’evoluzione del livello dei prezzi, dunque, è strettamente collegata a fattori demografici; infatti,
i prezzi aumentarono nel tardo medioevo, quando la popolazione era in crescita, diminuirono e
restarono stabili per circa un secolo dopo la peste nera, per salire di nuovo in risposta
all’aumento di popolazione del XVI secolo. In seguito, i prezzi diminuirono in conseguenza
delle epidemie del 1575 e soprattutto del 1629-30, riprendendo a crescere solo verso la fine del
secolo. A partire dal 1820, tuttavia, la relazione tra la popolazione e i prezzi si modifica: grazie
alle innovazioni tecnologiche ed allo sviluppo industriale questi ultimi possono ora rimanere
stabili, benché la popolazione sia in crescita (“prices became relatively stable while the
population increased”, Malanima, 2003, p. 271).
L’Italia del Settecento fu colpita da due grandi epidemie, una nel Centro-Nord (1629-30) ed una
nel Mezzogiorno (1656-7), ciascuna delle quali ridusse la popolazione del 20% circa; il numero
degli abitanti, infatti, passò da più di 13 milioni nel 1600 a 10,7 milioni nel 1660. Come afferma
Malanima (1998, p. 65): “La caduta delle produzioni di base ebbe ripercussioni sui caratteri
dell’urbanizzazione”; la percentuale degli abitanti di città con più di 10.000 abitanti registrò
infatti un calo di undici punti percentuali (dal 38% circa al 27% circa) tra il 1500 ed il 1800.
A partire dalla fine del Seicento, tuttavia, si verificarono importanti mutamenti della struttura
del sistema economico italiano; in primo luogo, l’introduzione della patata e del mais
nell’alimentazione e quella del foraggio nelle rotazioni agricole generarono un aumento della
produttività agricola, che rese dunque possibile il sostentamento di una maggiore popolazione:
“In Italy, from the late Middle Ages until the introduction of modern fertilizers at the end of
the 19th century, yield ratios of wheat reveal a long stability of around 4-5 quintals per hectare.
However, in terms of calories per hectare, the spread of maize implied the doubling of yields to
10 quintals and even more” (Malanima e Capasso, 2007, p. 26).
25 In secondo luogo, la scomparsa della peste, che in precedenza aveva agito come fattore di
controllo della crescita demografica diede luogo a: “un’onda di crescita demografica
sperimentata solo di rado in passato” (Malanima, 1998, p. 67), dal momento che il tasso di
natalità rimase pressoché invariato, mentre il tasso di mortalità diminuì drasticamente. Senza
dubbio, anche la fine della guerra dei trent’anni con la pace di Westfalia (1648) contribuì
all’incremento della popolazione a livello europeo.
A partire dal 1660 circa, il prodotto pro capite riprese ad aumentare, dopo il declino della prima
metà del secolo, analogamente a quanto si era verificato dopo la peste nera del Trecento; “i
salari aumentarono rapidamente, in conseguenza dell’offerta più ridotta di mano d’opera e dei
prezzi agricoli più bassi di un tempo” (Malanima, 1998, p. 73). Ad esempio, per quanto riguarda
il salario dei muratori a Genova, si registra un aumento del 23% tra il 1615-25 ed il 1670-80.
Questo periodo favorevole continuò fino alla metà del XVIII secolo; nel 1750 la popolazione
italiana raggiunse i 15-16 milioni di abitanti, un picco mai registrato in precedenza e reso ora
possibile dall’aumento della produttività agricola dovuto all’introduzione di nuove colture quali
riso, mais e gelso, nonché dall’aumento dei terreni messi a coltura. A partire dagli anni ’60 del
Settecento, tuttavia, iniziò un nuovo periodo di declino, durante il quale la popolazione
continuò a crescere, ma il prodotto pro capite diminuì.
Nei primi decenni dell’Ottocento i prezzi sono elevati e si assiste ad un generale deterioramento
delle condizioni di vita (rispetto alla prima metà del XV secolo il prodotto pro capite risulta
essere del 35-40% inferiore). A partire dagli anni Venti XIX secolo, invece, inizia una fase di
recupero, in cui la popolazione cresce, ma in misura minore del prodotto, grazie alle
innovazioni agricole che permettono di far fronte alla domanda in espansione. I salari iniziano
ad aumentare, sebbene molto lentamente.
Nel 1861 la popolazione italiana era raddoppiata rispetto al massimo raggiunto all’inizio del
Seicento, raggiungendo i 26 milioni di abitanti, “la pressione demografica sospinge in questi casi
a un’intensificazione nell’uso del suolo: una quantità minore di terreno deve diventare
sufficiente a far fronte al fabbisogno pro capite” (Malanima, 1998, pp. 68-9). Si affermò dunque il
mais, poiché i suoi rendimenti sono maggiori di quelli del riso e del grano e la sua coltivazione
non esauriva i terreni, rendendo dunque possibile l’abolizione del maggese e il conseguente
aumento della superficie coltivabile.
26 3.1.3 L’andamento della produttività e i metodi per la sua stima
Al fine di poter stimare la produttività media del lavoro (APl), è necessario conoscere il
prodotto interno lordo (Y, la produzione), la percentuale (e) di lavoratori effettivamente
impiegati nel processo produttivo sul totale della forza lavoro (L) e il numero medio di ore
lavorate annualmente (h) da ciascun lavoratore; questo si può riassumere nel rapporto
(Malanima, 2007, p. 139):
APl = Y / h*L*e
Da qui si ricava il prodotto per ora lavorata, che costituisce un’approssimazione della
produttività media del lavoro (basata sull’assunzione che il numero di ore lavorate non subisca
mutamenti da un anno all’altro). Come accennato nella parte iniziale del presente lavoro,
Malanima assume e=1, considerando che la disoccupazione è un fenomeno di tipo moderno (in
passato, riduzioni dell’output si ottenevano mediante riduzioni dell’orario di lavoro e non del
numero di occupati, benché nelle città ci fosse talora disoccupazione nel senso attuale del
termine).
In tutto il periodo considerato, si assiste ad un declino della produttività media del lavoro,
interrotto nel Trecento e nel Seicento dai crolli demografici causati dalle epidemie, che
permisero al rapporto capitale/lavoro (K/L) di aumentare e dunque alla produttività del lavoro
di aumentare o almeno di interrompere il suo trend decrescente. Il periodo in cui la produttività
raggiunse il suo minimo corrisponde agli anni 1810-20, periodo in cui, di conseguenza, anche i
salari si situarono su livelli piuttosto bassi. La produttività marginale segue l’andamento della
produttività media, con il punto di minimo raggiunto nel 1810-20, e presenta dunque anch’essa
un trend decrescente, benché meno marcato.
L’economia italiana è caratterizzata da rendimenti decrescenti del fattore lavoro per tutto il
periodo 1300-1820: “In the long run, the rate of increase in capital – cultivated lands included grows less than the population. Capital per worker diminishes, as does marginal productivity.
Since technical progress cannot counterbalance the diminishing capital-worker ratio, a
downward trend of productivity and production dominates” (Malanima, 2007, p. 142).
27 Nel 1700 l’Italia presentava un tasso di urbanizzazione maggiore della media europea, pari a
quello della Gran Bretagna e inferiore solo a quello dei Paesi Bassi e all’inizio del XIX secolo il
15-20% della popolazione italiana (che in totale era pari a circa 13 milioni di abitanti) viveva in
città. Come spiegato nel primo capitolo di questa memoria, esiste una relazione di tipo diretto
tra produttività agricola e grado di urbanizzazione, poiché il settore agricolo deve essere in
grado di produrre beni alimentari non solo per i lavoratori agricoli, ma anche per gli abitanti
delle città. Ogni lavoratore agricolo, dunque, deve essere in grado di produrre una quantità di
beni alimentari sufficienti non solo a sfamarlo, ma anche a soddisfare le necessità dei lavoratori
urbani: “L’urbanizzazione elevata contribuisce a rendere ancora più forte la pressione sulle
risorse caratteristica dell’Italia centro-settentrionale in età tardo-medievale e moderna. È
evidente che là dove esiste una quota elevata della popolazione che non partecipa direttamente
all’attività agricola, la produttività sia del lavoro che della terra dovrà essere maggiore”
(Malanima e Breschi, 2002, p. 5).
Su questa base, si può argomentare che nell’Italia del Centro e del Nord si sia verificato un
declino della produttività, dal momento che tra il 1300 e il 1861 il tasso di urbanizzazione,
inteso come percentuale della popolazione residente in città con più di 5000 abitanti, subì un
calo del 5%.
Secondo Allen (2011, p. 77): “la produttività del lavoro continuò a scendere in Italia anche
durante la prima età moderna. In Italia non vi fu alcuna rivoluzione agricola”, egli si riferisce al
fatto che, in Italia, non ebbe luogo un processo di modernizzazione delle tecniche agricole
(introduzione di macchinari) tale da rendere possibile un innalzamento duraturo del tenore di
vita dei lavoratori agricoli.
Come la maggior parte dei paesi dell'Europa continentale, l'Italia sperimentò rendimenti di scala
decrescenti del fattore lavoro in agricoltura in tutto il periodo 1400-1800, a causa
dell'incremento della popolazione; a questo proposito Malanima scrive: “Per secoli, a quanto
suggerisce il declino dei salari urbani e rurali in Italia, con poche interruzioni a partire dal
Quattrocento, il capitale per addetto era diminuito e con esso era diminuita la produttività del
lavoro” (Malanima, 2006a, p. 10).
Bisognerà attendere, infatti, i decenni successivi all’unificazione italiana (1861) perché una
crescita sostenuta della popolazione (Malanima e Zamagni (2010) stimano un tasso di crescita
pari allo 0,56% annuo per il periodo 1861-2011) non conduca ad un peggioramento delle
28 condizioni di vita; ciò è reso possibile dall’evoluzione della produttività del lavoro, che aumenta
di diciannove volte tra il 1861 ed il 2001 e in particolare nel settore agricolo registra un
incremento ad un tasso medio annuo del 2,5% circa nel periodo compreso tra il 1861-70 ed il
1990-2000 (Federico e Malanima, 2004 in Malanima e Zamagni, 2010, p. 6).
Per quanto riguarda gli orari di lavoro e la durata della giornata lavorativa, Malanima stima che
tra il 1700 ed il 1750 il tempo di lavoro annuo fosse approssimativamente pari a 2300-2500 ore;
verso la fine del secolo questa cifra aumentò a 3000 ore annue di lavoro, per poi tornare verso
le 2300-2400 ore nel 1830-50 e aumentare nuovamente a 2600 ore a partire dal 1860 (Malanima
2006b): “fourteenth and fifteenth centuries workers had to work 500-1000 hours per year
simply to survive, whereas in the nineteenth century about 1500 hours were necessary”
(Malanima, 2007, p. 143). Il trend delle ore lavorate, nel lungo periodo, mostra una tendenza
all’intensificazione del lavoro, al fine di compensare il declino del saggio di salario. È comunque
necessario operare una distinzione tra il settore agricolo e quello industriale; nel primo, infatti,
la durata della giornata lavorativa variava a seconda della stagione (oscillando comunque tra le
2500 e le 3000 ore annue di lavoro), mentre nell’industria, facendo riferimento agli ultimi
decenni del XIX secolo, una media di circa 3000 ore di lavoro annue si ripartiva regolarmente
su 49 settimane, ciascuna costituita da 6 giorni di lavoro di 10 ore.
Al giorno d’oggi si assume che la curva dell’offerta di lavoro sia positivamente inclinata, vale a
dire che a saggi di salario crescenti siano collegati incrementi nel numero di ore lavorate; al
contrario, si suppone che al diminuire del saggio di salario si accompagni una riduzione del
numero di ore che l’individuo decide di dedicare al lavoro. L’elasticità dell’offerta di lavoro al
salario, dunque, è nella maggior parte dei casi positiva (almeno per gli uomini), come illustrato
nella seguente tabella.
Tabella 1: Stime dell’attuale elasticità dell’offerta di lavoro al salario in alcuni paesi
Country
France
Germany
Italy
Netherlands
Sweden
United Kingdom
Men
0.09
-0.51
0.1
0.06
0.15
Women
-0.29
-0.64
2.12
-0.26
0.1
0.24
Fonte: Evers, De Mooij, Van Vuuren, 2008, p. 36
29 In passato, invece, l’offerta di lavoro era negativamente inclinata, vale a dire che la relazione tra
numero di ore lavorate e saggio di salario era di tipo inverso: i lavoratori, vedendo erodersi il
proprio potere d’acquisto a causa della produttività marginale decrescente del lavoro erano
obbligati a lavorare più a lungo in modo tale da contrastare il declino del loro tenore di vita. A
questo proposito Malanima (2006b, p. 101) scrive: “People worked less at the beginning of the
eighteenth century than later. To counterbalance diminishing wage rates, people began to work
harder and harder every year”.
Il declino del capitale per addetto, comunque, rende sempre meno efficiente l’aggiunta di
ulteriori quantità di lavoro e frena in parte il processo di intensificazione. Il risultato effettivo
deriva dall’interazione tra questi due effetti che tendono a controbilanciarsi ed è per questo che
l’intensità del lavoro era maggiore nel XVI secolo piuttosto che nel XVIII. Nel Settecento,
infatti, la crescita della popolazione era molto superiore a quella del Cinquecento e di
conseguenza la dotazione di capitale per lavoratore era molto minore. Quando il prodotto
marginale del lavoro tende a zero, l’intensificazione dell’utilizzo del fattore lavoro perde dunque
significato.
Nel XVIII e nel XIX secolo il notevole incremento demografico reso possibile dalla scomparsa
della peste causò una riduzione della quantità di capitale per addetto (K/L) ed una conseguente
diminuzione della produttività marginale del lavoro, del saggio di salario e del reddito pro capite.
Secondo Malanima e Capasso (2007), ci furono tuttavia delle forze che contrastarono la caduta
del rapporto tecnico tra capitale e lavoro (K/L), tra cui la diffusione del mais, il cui rendimento
agricolo era il doppio di quello dei cereali tradizionali e il cui prezzo era sensibilmente inferiore
(era ora possibile sfamare un maggior numero di persone con la stessa estensione di terra messa
a coltura) e l’intensificazione del lavoro (si lavora più ore al giorno per incrementare il prodotto
per ettaro oppure per esercitare attività legate alla protoindustria, utilizzate come forma di
sostegno dei redditi agricoli).
Malanima conclude che, nell’ultima parte del XVIII secolo, l’intensificazione dell’impiego del
lavoro, la diffusione delle attività protoindustriali e la formazione di capitale (prevalentemente
nella forma di alberi di gelso per la produzione della seta) non furono in grado di
controbilanciare gli effetti negativi di una popolazione in forte crescita. A partire dal 1820,
invece, queste innovazioni acquisirono sufficiente importanza per compensare la pressione sui
30 salari esercitata dall’espansione demografica, nonché la tendenza alla diminuzione della quantità
di capitale per addetto e il conseguente declino della produttività del lavoro; nel periodo 183550, comunque, questo non fu più possibile, a causa dell’aumentato tasso di crescita demografica
e di varie annate di cattivi raccolti. Il progresso tecnologico iniziò ad avere un ruolo rilevante
solo nell’ultima parte del XIX secolo.
Figura 1: Popolazione e salari reali in Italia nel periodo 1300-1913, salari espressi in lire del 1860-70. La linea
continua rappresenta la tendenza di lungo periodo dei salari reali.
Fonte: Malanima, 2007, p. 165
31 Tabella 2: Evoluzione delle principali variabili in Italia nei secoli XIII-XIX
Periodo Popolazione
Produttività del lavoro
Saggio di salario reale
13001350
In crescita
In declino
13501450
Drastico crollo nel
1347-8, poi lenta
ripresa. Nel 1400 si
raggiunge il minimo
con 8 milioni di
abitanti (Malanima,
1998)
Declino interrotto
dalla peste nera
(1347-8),
produttività
prevalentemente in
aumento.
14501600
Aumento del 50% tra
il 1500 e il 1600,
crescita sostenuta.
All’inizio del Seicento
è stato superato il
livello precedente
l’epidemia del 1347-8
con 13,3 milioni di
abitanti (Malanima,
1998)
In declino a causa
Diminuzione nel
della popolazione in periodo 1450-60, seguita
aumento.
da una rapida ripresa e
da un declino più
marcato nel 1570-1600,
in quest’ultimo periodo
il saggio di salario è
inferiore del 40%
rispetto al secolo
precedente (Malanima,
2007).
In aumento dal 1500 in
risposta all’aumento
demografico; declino dopo
l’epidemia del 1575.
16001750
Crollo della
popolazione negli anni
successivi alle
epidemie del 1629-30
e 1656-7, poi
aumento. nel 1660 la
popolazione ammonta
a 10,7 milioni di
abitanti (Malanima,
1998)
Forte crescita
demografica, nel 1750
si raggiungono i 15-16
milioni di abitanti.
Declino interrotto
dalle epidemie del
Seicento, forte
aumento della
produttività dovuto
alla maggiore
disponibilità di
capitale per addetto.
Il reddito pro capite
diminuisce del 15% tra il
1570-80 e il 1625-30. In
seguito si ha una lenta
ripresa, trend ascendente
marcato dopo il 1630 e
fino al 1680.
Prezzi agricoli elevati a causa
delle carestie nel periodo 15901654 (piccola età glaciale), bassi
soltanto dopo il 1660.
In declino,
raggiunge il minimo
nel 1810-20.
I prezzi quasi raddoppiano nel
periodo 1730-1790 a causa
delle carestie del 1764-67 e
1771-3 (trappola malthusiana).
Forte crescita
demografica, nel 1861
la popolazione è pari a
26 milioni (Malanima,
1998)
Forte crescita
demografica, con un
tasso pari allo 0,56%
annuo per il periodo
1861-2010 (Malanima
e Zamagni, 2010).
In aumento
Trend discendente, in
particolare negli anni
1760-1820. Gli anni
1800-20 corrispondono
al minimo dei salari
italiani.
Leggera crescita nel
1820-35 (grazie al
declino dei prezzi) e
stabilizzazione.
17501820
18201880
18802010
Crescita solo fino al
1320, poi declino fino al
1348.
Rapida crescita e stabilità
a livelli elevati. Si passa
da 140-5 lire nel 12901320 a più di 200 dopo
la peste e 244 all’inizio
del XV secolo
(Malanima, 1998).
Prezzi
In forte aumento ad Inizio di una continuata
un tasso pari al 2% fase di crescita, trend dei
annuo circa tra il
salari sempre positivo.
1861 ed il 2001
(Malanima e
Zamagni, 2010).
In aumento dal 1330.
Stabili dopo una brusca
diminuzione a causa
dell’epidemia. I prezzi prima
del 1330 erano del 40%
inferiori rispetto a quelli del
secolo successivo (Malanima,
1998).
Prezzi stabili o in diminuzione
fino al 1850, poi di nuovo in
crescita.
Crollo dei prezzi agricoli dopo
il 1880 (in corrispondenza della
crisi di portata europea tra il
1873 ed il 1896).
Fonte: elaborazione dell’autore sulla base dei dati in Malanima (1998, 2006b e 2007), Malanima e Zamagni (2010).
32 3.2 Il caso della Svizzera
3.2.1 Evoluzione della popolazione
La Svizzera ha sempre presentato quello che Bergier (1984) definisce un paradosso
demografico: il numero dei suoi abitanti, infatti, è sempre stato esiguo se confrontato con
quello dei paesi confinanti; allo stesso tempo, tuttavia, la Svizzera è sempre stata
sovrappopolata, nel senso che le sue risorse naturali non sono mai bastate per soddisfare i
bisogni dei suoi abitanti, almeno fino alla Rivoluzione Industriale.
Nel corso degli ultimi decenni del XVIII secolo, il tasso medio di crescita della popolazione
svizzera è pari al 5 per mille circa (Bergier, 1984, p. 177); dal 1798 al 1850, vale a dire
approssimativamente negli anni della Rivoluzione Industriale, questo tasso sale all’8,16 per mille
e nel XIX secolo (1798-1910) la popolazione elvetica aumenta del 123%. Questo implica che,
per l’industria svizzera, il problema della scarsità di manodopera non esista: “la forza lavoro è
sempre disponibile, alla sola condizione di cercarla là dove ce n’è sovrabbondanza, nelle Prealpi
e sulle Alpi. Essendo abbondante, non è cara” (Bergier, 1984, p. 178); in Svizzera l’abbondanza
di manodopera esercita sui salari una pressione al ribasso che il progresso tecnologico e il
conseguente incremento della produttività del lavoro non è in grado di controbilanciare.
Una delle cause risiede nella peculiarità del territorio elvetico, in quanto il “suolo ingrato delle
Alpi” permette solo l’utilizzo di tecniche agricole primitive con bassi rendimenti, rendendo
difficile dunque l’incremento della produttività agricola. Bisogna considerare, infatti, che la
percentuale di territorio impossibile da lavorare è pari in Svizzera al 25% del totale, un valore di
molto superiore a quello di altre nazioni dell’Europa continentale; tale quota è infatti pari al 6%
in Germania e all’8% in Austria (Bergier, 1984, p. 70).
La fase di crescita che si registra tra l’XI e il XVI secolo risulta dunque dovuta all’aumento della
superficie messa a coltura da un numero maggiore di contadini, piuttosto che da un
miglioramento della resa del suolo; questa fase di sviluppo economico (estensivo) consente alla
popolazione di crescere e verso il 1300 si contano 7-800.000 abitanti nelle regioni
corrispondenti all’odierna Svizzera. Il XIV secolo segna la fine dell’espansione economica in
tutta Europa; non sono disponibili dati quantitativi sugli effetti della grande carestia del 1315-
33 17, ma a partire da quegli anni le condizioni economiche iniziano a deteriorarsi e il tasso di
mortalità aumenta, fino agli anni della peste nera, che raggiunge la Svizzera nel novembre 1349.
La grande pestilenza favorisce i superstiti: “diversi coltivatori possono ingrandire i loro
appezzamenti facendosi carico di quelli dei loro vicini morti senza eredi”, mentre “la penuria di
braccianti fa crescere le loro paghe” (Bergier, 1984, p. 81).
L’epidemia provoca un drastico crollo della popolazione, pari a circa un terzo degli abitanti, un
tasso di mortalità pari o di poco inferiore alla media europea; in molte regioni la popolazione
non tornerà al livello precedente l’epidemia prima del 1500, anno in cui la popolazione Svizzera
è di nuovo pari a circa 800.000 abitanti. Il punto più basso si tocca nel 1400, mentre a partire
dal XVI secolo il trend demografico torna ad essere ascendente, almeno sull’Altopiano; la
popolazione raggiunge i 900.000 abitanti nel 1600 e oltrepassa in seguito rapidamente la soglia
del milione.
Il sistema di produzione rurale dell’epoca stenta a garantire la sussistenza della popolazione,
benché essa rimanga su livelli modesti, e non è in grado di offrire abbastanza lavoro per
incoraggiare una crescita demografica più sostenuta. La popolazione svizzera cresce al tasso
permesso dalle sue risorse naturali e non è immune dalle epidemie di portata europea del
Seicento, che colpiscono in particolar modo la regione alpina (nel 1669 la peste devasta
l’Oberland bernese); stando alle fonti dell’epoca, alcune zone alpine perdono dal 50 al 65%
degli abitanti (Bergier, 1984, p.31). Le carestie del 1689-94 e del 1709, i cui effetti dureranno
fino al 1712, contribuiscono notevolmente al rallentamento demografico.
Nonostante questi freni, verso il 1700 risulta che la popolazione ha raggiunto e superato la
soglia critica di un milione di abitanti, toccando quota 1.200.000 abitanti. La Svizzera orientale,
dove sono più diffuse le attività protoindustriali, sembra sperimentare una maggiore crescita
demografica.
Considerando il territorio della Svizzera attuale, Biucchi (1982) rileva come l’andamento
demografico dal Quattrocento al Settecento sia stato caratterizzato da un tasso di crescita
modesto, ma piuttosto regolare o costante; a partire dal 1700, invece, il tasso di crescita
demografico inizia ad accelerare, in connessione con lo sviluppo economico in generale e
industriale in particolare.
Dal 1700 inizia una fase di crescita, tra i cui fattori determinanti si possono annoverare la
scomparsa della peste, la diversificazione del settore agricolo (fattore che migliora, sebbene di
34 poco, i rendimenti agricoli) e lo sviluppo della protoindustria, che vivacizza il mercato del
lavoro; di conseguenza, il reddito medio per abitante cresce. Sembra inoltre che ci sia una
correlazione positiva tra diffusione dell’industria a domicilio ed incremento demografico.
In questo periodo l’eccedenza delle nascite sulle morti raggiunge il 5,6-6,3 per mille l’anno, un
valore notevole se confrontato con il tasso medio di 4,9 per mille del periodo 1400-1700. La
popolazione impiega tre secoli, dal 1500 al 1800, per raddoppiare, poi raddoppia una seconda
volta nel XIX secolo e ancora una volta nel XX; il tasso globale medio di crescita per il periodo
1798-1988 è pari al 7,24 per mille (Bergier, 1984, p. 32).
Di certo, anche i movimenti migratori hanno avuto un influsso non trascurabile sull’evoluzione
demografica elvetica; la Svizzera, infatti, è stata caratterizzata tra il XVI ed il XIX secolo da forti
flussi migratori in uscita (dovuti all’impossibilità per il sistema economico di sostenere una
popolazione in crescita) e il saldo migratorio è rimasto negativo fino alla seconda metà del XIX
secolo, per poi registrare un’inversione di tendenza.
Ritzmann-Blickenstorfer (1998, p. 16) afferma che: "La Suisse comptait 2,2 millions d'habitants
en 1837, 2,4 millions en 1850, 2,83 millions en 1880, 3,75 millions en 1910, 4,07 millions en
1930, 5,43 millions en 1960 et 6,87 millions en 1990. La barre des 7 millions d'habitants a été
franchie en 1994. La Suisse comptait 7.081.300 habitants à la fin de 1996"; la popolazione
residente è dunque cresciuta di tre volte nell’arco di un secolo e mezzo, registrando un tasso di
crescita paragonabile a quello di altri paesi dell’Europa occidentale quali la Svezia o la
Danimarca. Nell’agosto del 2012 supera gli 8 milioni.
Tra il 1946 e il 1970 la popolazione residente in Svizzera ha registrato un aumento dell’1,4% e la
popolazione attiva un aumento dell’1,5%; nel periodo 1970-1985, invece, questi incrementi
sono stati più modesti e pari rispettivamente allo 0,3 e allo 0,1%.
Negli ultimi decenni, inoltre, si è assisto ad un declino del tasso annuo di crescita demografica,
che è passato dall’1,5% negli anni Sessanta allo 0,3% tra il 1970 e il 1985. Secondo i dati del
censimento federale, infine, il numero degli occupati ha registrato un incremento pari al 42,3%
tra il 1950 e il 1980, con un picco tra il 1960 e il 1970; nel decennio successivo, invece, il livello
dei lavoratori ha subito una flessione, anche a causa della recessione mondiale del 1975-6,
seguita da una fase di stabilizzazione. (Unione di Banche Svizzere, 1987, p. 38 e p. 46).
35 3.2.2 Le dinamiche di prezzi e salari
Bergier (1984, p. 139) segnala come spesso, nella storia, la Svizzera si sia trovata “in posizione
eccentrica rispetto alle tendenze generali europee”; infatti, il Cinquecento, che per il resto
d’Europa rappresenta un periodo di forte crescita, per la Svizzera è una fase di decadenza o
ristagno. Dopo una prolungata stabilità dei prezzi, verso il 1550 essi crescono rapidamente,
esprimendo tensioni inflazionistiche negli ultimi decenni del secolo; in Svizzera, tuttavia,
l’inflazione si presenta in forma attenuata, con un tasso stimato dell’1% annuo, contro una
media europea dell’1,59% tra il 1560 ed il 1610.
Verso il 1620 i prezzi iniziano a mostrare, al contrario, una tendenza deflazionistica ed inizia il
periodo definito della depressione seicentesca, durante il quale le risorse del sistema economico
si rivelano insufficienti al sostentamento di una popolazione in crescita (il XVII secolo
appartiene ancora all’età malthusiana); in questa fase la Svizzera segue la tendenza generale
europea: si verificano crisi di sussistenza, prezzi e salari si abbassano e scende il potere
d’acquisto della popolazione. Nel 1643, a causa di carestie ed epidemie, i prezzi degli alimenti e
della manodopera raggiungono di nuovo livelli molto elevati: queste notevoli oscillazioni non
fanno che danneggiare il sistema economico.
Alcuni imprenditori trovano una parziale soluzione nell’adozione di un sistema di industria a
domicilio (Verlagsystem); quest’ultimo risulta particolarmente conveniente, dato che il costo del
lavoro in campagna è basso. In generale, comunque, il Seicento è per la Svizzera, come per la
maggior parte delle nazioni europee, un secolo di stagnazione, disoccupazione e bassi salari, con
lunghi periodi di rincaro e perdita di potere d’acquisto per la maggior parte dei redditi.
L’andamento dei prezzi agricoli svizzeri si allinea per lo più su quello del resto d’Europa, con
un forte aumento del prezzo dei cereali nel periodo 1560-1610 a causa di guerre, intemperie e
cattivi raccolti (in questo periodo si assiste ad un generale raffreddamento del clima, definito
piccola età glaciale); i prezzi continuano ad aumentare anche nei decenni successivi,
raggiungendo il massimo negli anni 1620-30, in corrispondenza della guerra dei trent’anni
(1618-48). Dal 1630 in poi, al contrario, si assiste ad una rapida caduta dei prezzi agricoli, che
rimangono quasi immutati dal 1650 al 1700, ad eccezione delle gravi crisi agricole degli anni
1693-4 (mentre era in corso nell’Europa continentale la guerra della Lega di Augusta), che
36 ridussero notevolmente il raccolto di molti prodotti e causarono dunque un aumento, anche
rilevante, dei loro prezzi.
Nella sintesi proposta di Biucchi (1982), il Settecento è un secolo di forte crescita e benessere
per la Svizzera, la cui popolazione beneficia di un basso costo della vita e di salari elevati. Verso
la metà del Settecento, a Ginevra, la carne di buona qualità costava 6-7 sols (soldi) mentre il
pane nero costava 2-3 sols la libbra, dunque il rapporto tra il prezzo del pane e quello della carne
si era fissato ad un livello di uno a due; i lavoratori addetti alle costruzioni pubbliche
guadagnavano 24 sols al giorno se manovali e 36 sols al giorno se erano muratori o carpentieri. Il
loro tenore di vita, dunque, doveva essere relativamente elevato: “Con tale salario quotidiano il
manovale, come gli altri addetti ai lavori pubblici, poteva acquistare una sufficiente quantità di
cibo per sostentare la famiglia” (De Lucia 1997, p. 240). Un cronista di Glarona nel 1760 scrive
inoltre che un’abile filatrice può guadagnare da due a tre fiorini alla settimana.
Il prezzo del grano scende da circa 31 franchi nel Seicento ad una media di circa 23 franchi nel
Settecento (prezzi calcolati in moneta aurea per quintale, Biucchi 1982, p. 69), mentre a Zurigo
diminuiscono pure i prezzi di abitazioni, legna, sale e carne. Nel XIX secolo, invece, ci fu
inizialmente una fase di ascesa dei prezzi (1816-19), seguita da una sensibile caduta dei prezzi di
frumento, fave, avena e patate (1819-27).
I dati disponibili sull’andamento dei salari industriali in Svizzera nell’Ottocento risultano essere
lacunosi e lasciano intuire un andamento molto variabile, a seconda delle regioni e dei settori; si
osserva come i salari nominali salgano da un valore indice di 46 a un valore di 100 nel periodo
1830-1875. La loro crescita risulta dunque superiore a quella dei prezzi, che passano da 72 a 100
(valori indice). Soprattutto dopo il 1860, dunque, è presente una tendenza fortemente crescente
dei salari reali: in questo periodo le retribuzioni salgono più velocemente che in Francia o
perfino in Gran Bretagna.
Lo slancio del settore industriale svizzero agli esordi può comunque avvantaggiarsi della
notevole produttività di una forza lavoro relativamente abbondante, non costosa e qualificata
sul piano tecnico. In seguito alla crisi di portata europea degli anni 1816-17 (dovuta al clima
particolarmente rigido), l’artigianato tradizionale quasi scompare e le fabbriche: “ereditano una
37 forza lavoro abbondante e qualificata, ma che la malasorte obbliga ad accettare salari anche
minimi” (Bergier, 1984, p. 193).
Per quanto riguarda il settore dell’industria tessile, De Lucia (1997, p. 64 e p. 68) scrive: “Nelle
operazioni produttive più semplici, anche se assai qualificate, era disponibile una mano d’opera,
nel complesso a buon mercato” e, grazie anche all’introduzione di nuovi macchinari, “dopo la
breve fase di crisi dovuta all’occupazione francese […] il paese riprese rapidamente quota e
poté avviarsi seriamente verso la sua rivoluzione industriale”.
Nel settore tessile le condizioni di lavoro erano più difficili rispetto al florido settore orologiero
e anche i livelli salariali erano inferiori. Per quanto riguarda gli orari di lavoro e la durata della
giornata lavorativa, a Neuchâtel nelle manifatture che producevano le pregiate stoffe indiane gli
operai lavoravano tutta la giornata, fin quando si poteva sfruttare la luce naturale, vale a dire
dalle 6 del mattino alle 7 di sera in estate e per un minor numero di ore in inverno.
“Naturalmente gli apprendisti tessitori guadagnavano meno degli operai specializzati e non
specializzati”, “Migliori erano le condizioni dei tintori in generale ed in particolare degli incisori
delle tavole di stampaggio dei colori, le cui abilità erano preziose” (De Lucia 1997, p. 241).
Fino al 1850, in effetti, il reddito degli operai svizzeri era in media inferiore a quello dei loro
colleghi inglesi o francesi; solo nei decenni successivi si verificò un notevole incremento del
loro reddito, fino a superare quello degli altri paesi europei più ricchi. A partire dal 1860, De
Lucia (1997) stima che il salario reale medio in Svizzera sia aumentato del 35% e che questo
abbia più che compensato l’innalzamento dei prezzi dei beni di consumo verificatosi nel
periodo 1830-75.
Nonostante l’aumento delle retribuzioni, la durata della giornata lavorativa era ancora elevata
rispetto alla media europea: l’operaio svizzero lavorava infatti dalle 12 alle 15 ore al giorno,
talvolta perfino 18 ore al giorno (nell’industria tessile) e questa situazione si protrasse fino al
1877, anno in cui fu stabilito per legge un limite di 11 ore giornaliere di lavoro.
Per poter meglio definire il tenore di vita degli operai svizzeri e la sua evoluzione nella seconda
metà dell’Ottocento, De Lucia (1997, p. 261) considera che nel 1800 era necessaria un’ora e 42
minuti di lavoro per poter acquistare una libbra di pane, 5 ore e 42 minuti di lavoro
corrispondevano invece all’acquisto di una libbra di carne di bue e 6 ore e 42 minuti di lavoro
rendevano infine possibile l’acquisto di una libbra di burro. Nel 1880 la situazione era molto
migliorata: per poter acquistare una libbra di pane occorreva solo un’ora e 5 minuti di lavoro,
38 per una libbra di carne bastavano 3 ore di lavoro e per una libbra di burro, infine, erano ora
sufficienti 5 ore e 36 minuti di lavoro. Con l’avvento della Rivoluzione Industriale, dunque,
anche i salari reali svizzeri iniziano infine a mostrare un andamento decisamente crescente.
Dal 1946 al 1985, il trend dei salari in termini nominali svizzeri è sempre stato crescente e
prevalentemente compreso tra l’1 e il 10% annuo, con valori particolarmente elevati (tra il
10,98% e il 12,55%) negli anni 1971-4; anche la crescita dei salari reali è stata in questo periodo
costantemente positiva, salvo lievi diminuzioni nel 1951 e all’inizio degli anni ’80, e compresa
(ad eccezione dell’incremento eccezionale dell’11% nel 1946) tra uno e quattro punti
percentuali circa (Unione di Banche Svizzere, 1987, p. 25). Nel medesimo periodo, infatti, i
salari reali hanno registrato un aumento complessivo pari al 137,3%, con una media annua del
2,3%.
Nel periodo 1960-1984 il reddito dei lavoratori è cresciuto in media del 2,4% all’anno, mentre la
produttività ha registrato un incremento annuo pari al 2%. L’aumento dei salari è stato più
marcato nel periodo 1960-75, con incrementi annui compresi tra il 3,2 e il 3,7%; nel medesimo
periodo, anche la produttività del lavoro ha fatto registrare aumenti considerevoli, pari a più del
3% tra il 1960 e il 1970 e all’1% annuo in seguito (Unione di Banche Svizzere, 1987, p. 50-51).
39 Grafico 2: Evoluzione dei salari in termini nominali e reali in Svizzera (1939= 100) per il periodo 1942-2011
2500
2000
1500
Salari nominali
1000
Salari reali
500
1942
1945
1948
1951
1954
1957
1960
1963
1966
1969
1972
1975
1978
1981
1984
1987
1990
1993
1996
1999
2002
2005
2008
2011
0
Fonte: elaborazione dell’autore sulla base di dati UST
Grafico 3: Evoluzione dell’indice dei prezzi al consumo (variazione rispetto all’anno precedente) in Svizzera per
il periodo 1943-2011
12
10
8
6
4
2
2009
2006
2003
2000
1997
1994
1991
1988
1985
1982
1979
1976
1973
1970
1967
1964
1961
1958
1955
1952
1949
1946
‐2
1943
0
Fonte: elaborazione dell’autore sulla base di dati UST
40 3.2.3 L’evoluzione della produttività del lavoro nel settore agricolo nei secoli XVI-XIX
In Svizzera, la produzione agricola riprende a crescere in misura sensibile soprattutto nel
Cinquecento; tale crescita non può essere spiegata da miglioramenti tecnici, che furono quasi
inesistenti prima del XVIII secolo, ma piuttosto da un aumento del terreno messo a coltura.
Dal momento che i terreni coltivabili non sono illimitati, è probabile che verso al fine del XVI
secolo si raggiunga il tetto massimo di produttività, date le tecnologie agricole dell’epoca, di qui
le difficoltà del secolo successivo.
Come spiegato in precedenza, a proposito delle dinamiche di prezzi e salari in Svizzera, il
Seicento è un secolo di crisi (Bergier, 1984, p. 147), durante il quale la crescita della produttività
agricola non tiene il passo con l’incremento demografico, causando dunque un deterioramento
delle condizioni di vita della popolazione; nella seconda metà del Cinquecento i prezzi salgono
notevolmente, soprattutto quello della terra, che è sottoposta ad una forte domanda. La
redditività dei fondi dunque, si abbassa e in certi casi addirittura si annulla. Dopo il 1620 i
prezzi smettono di aumentare (per poi crollare nel 1648-50) e anche i salari subiscono un calo.
La rendita fondiaria nella campagna di Berna aumenta del 50% circa tra il 1740 ed il 1780, ma
questo miglioramento è dovuto in primo luogo all’espansione dell’allevamento e non ad
incrementi di produttività; inoltre, si pone più attenzione alla diversificazione dell’attività
produttiva (ad esempio con lo sviluppo dell’industria casearia e l’introduzione del lavoro a
domicilio per conto della protoindustria) che al miglioramento tecnologico delle modalità di
produzione.
Tuttavia, si assiste in questo periodo a notevoli guadagni di produttività, ad esempio nella
manifattura tessile basilese, nella quale dal 1667 è introdotto un telaio che permette ad una sola
operaia di tessere 14-16 nastri con un unico movimento; si stima dunque che dal 1667 alla fine
del Settecento la produttività del lavoro si sia moltiplicata per un fattore pari a 14, con un tasso
annuale di crescita prossimo al 2,2% (Berger, 1984, p. 166); la differenza nelle condizioni di vita
dei lavoratori tra diversi cantoni e, all’interno dello stesso cantone, tra zone urbane e rurali,
rimane comunque notevole e le innovazioni tecniche si diffondono solo lentamente.
Per quanto concerne il settore agricolo, nell’Ottocento esso si sviluppa lentamente e la crescita
della produttività agricola giunge appena a compensare la crescita demografica. In particolare, in
Ticino nel XVIII e XIX secolo: “L’adozione progressiva di nuovi prodotti e nuove coltivazioni
41 elevò in parte la produttività delle terre dei baliaggi ma non poté risolvere i problemi
fondamentali del sistema agrario. La rigidità e l’intensità dei modi di sfruttamento del suolo –
senza il supporto di adeguate concimazioni e sostanziali innovazioni tecniche o organizzative –
non permettevano di aumentare in modo significativo la resa dei terreni” (Guzzi – Heeb 1999,
pp. 322-4). A differenza di altre zone della Svizzera, infatti, in questi secoli in Ticino non ci
furono rilevanti mutamenti nei metodi di produzione, quali ad esempio innovazioni nelle
rotazioni agrarie o nell’attrezzatura agricola.
A partire dal 1820, l’agricoltura subì un processo di modernizzazione e di “progressiva
specializzazione colturale” (De Lucia 1997, p. 46 ) e questo processo permise alla produttività di
aumentare, grazie all’introduzione di nuove tecniche quali la selezione delle piante o le opere
idrauliche e di bonifica; bisogna tuttavia considerare che la Svizzera disponeva di poca
superficie adatta alla coltivazione intensiva dei cereali, poiché gran parte del suolo era occupato
da boschi e terre montagnose.
L’innovazione principale che permise di incrementare notevolmente la superficie coltivabile del
paese fu l’abolizione del maggese nel ciclo di rotazione agricola: introducendo nuovi tipi di
piante e tecniche di coltivazione, infatti, non si rese più necessario lasciare a riposo un terzo o
poco meno del terreno ogni anno. Questo permise non solo l’estensione delle colture
tradizionali (cereali, legumi, ortaggi), ma anche l’introduzione di nuove colture più produttive,
quali il mais, la barbabietola e la patata, con un conseguente incremento delle rese agricole, vale
a dire della produttività della terra.
Ad ogni modo, “Né il Settecento, né la prima metà dell’Ottocento mostrano i sintomi di
un’autentica
‘rivoluzione’
nelle
strutture
e
nella
produzione
agraria”,
il
decollo
dell’industrializzazione elvetica richiede, secondo Bergier (1984, p. 98), un aumento della
produzione agricola in grado di sostenerla. Dal momento che la superficie a disposizione non
può aumentare e il numero dei contadini rimane costante per tutto il XIX secolo, l’unica
soluzione praticabile consiste nell’aumentare la resa dei terreni. I nuovi attrezzi e concimi e le
lunghe rotazioni riescono infine nell’intento di far decollare le rese dei terreni, ma la loro
progressione è lenta e inizia tardi; comunque, il rendimento del frumento quasi raddoppia in un
secolo: da un valore di circa 11,3 quintali per ettaro nel 1800 si passa a 13 nel 1850 e 22 nel
1911-13.
42 Nel XIX secolo, dunque, l’agricoltura elvetica presentava un elevato grado di produttività,
grazie alla differenziazione delle colture e alla coltivazione più estesa di quelle adatte al clima,
nonché grazie all’introduzione di nuovi macchinari. L’agricoltura svizzera, pur non potendo
determinare da sola lo sviluppo economico del paese, svolse comunque un ruolo rilevante,
contribuendo in misura non trascurabile al miglioramento del tenore di vita della popolazione
(De Lucia, 1997).
Tra il 1870 ed il 1930, si verificarono dei momenti difficili per il sistema economico elvetico, tra
i quali la depressione di rilevanza europea degli anni 1870-5 (crisi di sovrapproduzione), che
causò una brusca caduta dei prezzi agricoli e di conseguenza un esodo dei lavoratori
dall’agricoltura verso gli altri settori produttivi. L’evoluzione complessiva del settore agricolo fu
comunque positiva (almeno fino ai primi anni del XX secolo); scrive infatti Bergier (1984, p.
107): “l’agricoltura ha saputo compensare l’emorragia di braccia con un aumento più che
proporzionale della produttività”.
43 Tabella 3: Evoluzione delle principali variabili in Svizzera nei secoli XIV-XIX
Periodo Popolazione
XIV e
XV
sec.
XVI
sec.
XVII
sec.
Crescita interrotta dalla
carestia del 1415-17 e
dalla peste del 1349. Nel
1400, infatti, la
popolazione raggiunge il
suo minimo.
Trend demografico
ascendente.
Crescita interrotta dalle
epidemie; alcune zone
alpine perdono il 50-65%
degli abitanti. La
popolazione elvetica
rimane comunque
sovrabbondante rispetto
alle risorse del territorio
(Bergier, 1984)
Produttività del lavoro
agricolo
Incremento in
seguito all’epidemia.
Aumenta la
produzione agricola
e verso la fine del
secolo si raggiunge
il tetto massimo di
produttività.
Tra il 1667 e la fine
del ‘700 la
produttività del
lavoro aumenta di
14 volte, ad un tasso
annuo del 2,2%
(Bergier, 1984).
XVIII Le carestie del 1689-94 e
sec.
1709-12 rallentano la
crescita demografica.
Negli ultimi decenni il
tasso di crescita è pari al
5‰, in accelerazione.
Dal
XIX
sec.
Dal 1798 al 1850 il tasso
di crescita è dell’8,16‰;
tra il 1798 e il 1910 la
popolazione aumenta del
123%, è in forte crescita.
La Svizzera diventa terra
d’immigrazione (Bergier,
1984 e RitzmannBlickenstorfer, 1998)
L’aumento della
produttività agricola
compensa appena la
crescita
demografica; dal
1820 si registra un
aumento più
consistente: il
rendimento del
frumento raddoppia
nel periodo 18001913 (Bergier,
1984).
Saggio di salario reale
Prezzi
La penuria di braccianti Dopo una lunga fase
fa crescere le loro
di stabilità, a partire
paghe (Bergier, 1984)
dal 1550 i prezzi
salgono
rapidamente. Si
verifica un forte
aumento del prezzo
dei cereali nel
periodo 1560-1610 a
causa delle carestie
(Bergier, 1984).
I salari nominali si
riducono e diminuisce
anche il potere
d’acquisto dei
lavoratori. È un secolo
di bassi salari a causa di
crisi di sussistenza di
tipo malthusiano e
guerre nell’Europa
continentale.
Cresce il reddito medio
per abitante grazie allo
sviluppo dell’economia
industriale, è un
periodo di alti salari
(Biucchi, 1982).
Si raggiunge il
massimo nel 162030, poi i prezzi
crollano nel 1648-50;
è un periodo di
grandi oscillazioni,
con lunghi periodi di
rincaro (ad esempio
nel 1693-4).
Il costo della vita è
basso, in
diminuzione, grazie
all’avvio della
Rivoluzione
Industriale (Biucchi,
1982).
La forza lavoro,
Negli anni 1816-19 i
essendo abbondante,
prezzi salgono a
non è cara;
causa dei cattivi
l’incremento di
raccolti, per poi
produttività non basta diminuire nel
a compensare questo
periodo 1819-27. C’è
effetto. Comunque, nel un nuovo aumento
periodo 1830-75 i salari dal 1830 al 1870 in
nominali aumentano
risposta
più del livello dei
all’incremento
prezzi; si ha un trend
demografico e infine
decisamente crescente i prezzi agricoli
salari reali (+35%, De
crollano nel 1870-75
Lucia, 1997).
(Grande
depressione).
Fonte: elaborazione dell’autore sulla base dei dati in Berger (1984), Biucchi (1982), De Lucia (1997), RitzmannBlickenstorfer (1998), Unione di Banche Svizzere (1987) e UST.
44 3.3 Il caso della Gran Bretagna
3.3.1 L’andamento della produttività del lavoro
Per quanto riguarda la cosiddetta era malthusiana, vale a dire il periodo precedente la
Rivoluzione industriale, la produttività totale dei fattori della produzione può essere stimata
solo in modo approssimativo, paragonando i salari reali al livello della popolazione; in presenza
di un livello costante della produttività totale, quale era la condizione del sistema economico
nell’Inghilterra pre-industriale, si assisterà ad una relazione inversa tra salari e popolazione,
mentre, dato un certo livello della popolazione, una maggiore produttività dell’economia
condurrà ad un livello più elevato dei salari reali. Scrive infatti Clark (2004, p. 3): “If there was a
constant level of total factor productivity in pre-industrial England, then there will be an
inverse relationship between wages and population, other things being equal (including trade
possibilities and taxation). At a given level of population, the higher the productivity of the
economy the higher will be the level of real wages”.
Allen (2011, p. 29) afferma che, mentre nel 1500 ogni inglese impiegato nella produzione
agricola era in grado di fornire nutrimento a poco più di una persona, nel 1800 era invece in
grado di sfamarne quasi tre e questo è senza dubbio un segnale di un’accresciuta produttività
agricola. Questo risultato emerge dal calcolo del rapporto tra la popolazione totale (pari al
100%) e la quota della popolazione occupata nel settore agricolo; dal momento che nel 1500 in
Inghilterra la percentuale degli occupati in agricoltura era pari al 35,49% circa, si ottiene:
1/0.3549 = 2.82, vale a dire, appunto, quasi tre persone.
Tabella 4: Stime della distribuzione della popolazione e della produttività agricola in Inghilterra, 1500-2012
Anno di riferimento
1500
1600
1700
1750
1800
1900
2012
Popolazione totale (in
milioni)
2,5
4,4
5,2
6,0
9,1
30,5
53
Popolazione agricola (in
milioni)
1,85
3,03
2,86
2,70
3,23
1,22
0,265
Percentuale della
popolazione agricola (I)
74%
68,86%
55%
45%
35,49%
4%
0,5%
Persone sostentate da un
lavoratore agricolo: 1/(I)
1,35
1,45
1,82
2,22
2,82
25
200
Fonte: elaborazione dell’autore sulla base dei dati in Allen (2000, p. 8 e 2011, pp. 28-9) e in
http://www.ons.gov.uk.
45 A partire dal 1640 il sistema economico inglese sembra aver raggiunto per la prima volta
un’efficienza superiore al periodo medievale, con salari reali del 20% superiori rispetto a quanto
avrebbe implicato il rispetto della relazione inversa con la popolazione sopra enunciata. Sembra
dunque che la produttività sia cresciuta in modo significativo negli anni 1630-1730; i salari nel
1730 risultano infatti essere del 73% superiori rispetto a quanto si sarebbe potuto ricavare dalla
relazione inversa tra popolazione e salari valida prima del 1600. I salari reali aumentarono del
40% nel periodo 1630-1730, nonostante un modesto incremento della popolazione; questa fase
di crescita è seguita da un intervallo di 50 anni in cui la produttività è costante, per poi tornare
ad aumentare dal 1770.
Confrontando i salari con la popolazione, Clark (2004 e 2006) afferma che il primo segno di
uscita dalla trappola malthusiana, durata dal 1200 al 1630 circa, è visibile nel 1650-9; in tutto il
periodo 1200-1600 non c’è evidenza empirica di un aumento della produttività totale dei fattori
nell’economia e gli alti e bassi nei salari erano determinati da movimenti di segno opposto della
popolazione; al contrario, negli anni 1630-1690 si assiste ad un incremento del 50% circa nei
salari nominali, nonostante modesti aumenti della popolazione.
Nel periodo immediatamente successivo (1690-1760) la produttività totale dei fattori rimase
pressoché costante e anche i salari reali non subirono mutamenti significativi; i salari reali nel
XV secolo erano circa del 60% maggiori dei quelli del XVII secolo, a causa della ridotta entità
della popolazione nel primo dei due periodi considerati.
Benché iniziassero già a comparire le innovazioni tecnologiche che avrebbero caratterizzato la
Rivoluzione Industriale (la spoletta volante o Spinning Jenny risale al 1769), la rapida crescita della
popolazione in Gran Bretagna a partire dal 1760 esercitò una notevole pressione verso il basso
sui salari reali e solo a partire dagli anni ’20 del XIX secolo questi iniziarono a crescere in modo
sostenuto; tra il 1820 e il 1860, infatti, i salari reali crebbero in media dell’1% all’anno.
46 3.3.2 Prezzi, salari, ore lavorate
3.3.2.1 Le interpretazioni di Phelps-Brown, Allen e Clark
Phelps-Brown e Hopkins (1956) affermano che tra il 1200 e il 1800 non si verificò una crescita
dei salari reali, benché nel 1800 i lavoratori britannici ricevessero probabilmente i salari più
elevati al mondo. Prima del 1800, dunque, ci sarebbe un lungo “intervallo malthusiano”,
durante il quale, in media, i salari nominali non mostrano quasi alcun trend secolare di crescita,
ma subiscono numerosi alti e bassi.
Da queste serie storiche si rileva, inoltre, che i salari reali nei decenni successivi alla peste nera
del 1349 raggiunsero livelli particolarmente elevati, che non sarebbero stati uguagliati fino agli
anni ’80 del XIX secolo. Perfino negli anni precedenti all’epidemia di peste del 1349, quando il
livello della popolazione era elevato, i salari reali erano di poco inferiori a quelli degli anni ’40
del XIX secolo. Il salario reale medio nel periodo 1200-1249 risulta essere maggiore dell’8%
circa rispetto a quello del periodo 1750-1799, alle soglie della Rivoluzione Industriale.
Comunque, argomenta Clark, la Rivoluzione Industriale iniziata nel 1760-9 fu preceduta da un
periodo di modesta crescita economica, iniziata nel 1600-9 e non fu un improvviso mutamento
verificatosi attorno al 1800 in un’economia in precedenza stagnante, bensì l’accelerazione di un
processo di crescita moderna, vale a dire caratterizzata da una crescita della produzione di
molto superiore alla crescita della popolazione, che aveva avuto inizio circa un secolo e mezzo
prima (Clark, 2004 e 2006). Dal 1200-49 al 1600-49 sembra non esserci stato alcun significativo
incremento nella produttività totale dei fattori della produzione, ma a partire dalla seconda
metà del XVII secolo, la produttività registra una crescita sostenuta; infatti, i salari reali verso la
fine del XVII secolo sono del 30-40% superiori a quelli del periodo precedente la peste nera
del XIV secolo, benché la popolazione in questi due periodi fosse simile. Nel 1700-49 i salari
reali erano del 50-75% superiori a quanto sarebbero stati con una produttività costante al livello
medievale.
Gli anni dal 1600-49 al 1700-49 videro dunque una sostanziale crescita economica, che
continuò nei decenni successivi e, in modo ancora più marcato, nel periodo 1800-49. Allen
(2011, p. 97) stima per il periodo 1630-1730 un incremento delle rese agricole inglesi pari al
47 50%; questo notevole aumento di produttività rese possibile al reddito dei piccoli agricoltori di
tenere il passo con quello dei lavoratori manifatturieri di Londra.
Le spiegazioni tradizionali di questa fase di crescita considerano elementi quali il progresso
tecnologico nel settore primario e secondario, la modernizzazione delle istituzioni (migliore
protezione dei diritti di proprietà) e la rapida espansione delle esportazioni. Non bisogna inoltre
trascurare un’altra importante causa, vale a dire l’urbanizzazione; infatti, “the urbanization rate
increased from 13-16% to 22-24% in England during 1700 and 1800” (Behrens, 2004, p. 2). La
rapida urbanizzazione potrebbe infatti aver stimolato la crescita della produttività agricola.
Una popolazione in forte crescita esercita una notevole pressione sui prezzi agricoli, dunque la
sostenuta crescita della popolazione in Inghilterra nel corso del XVIII secolo potrebbe essere
all’origine del picco nel movimento delle enclosures; infatti, l’aumento dei prezzi agricoli fece
aumentare il costo opportunità degli open fields, creando un forte incentivo in favore dei diritti di
proprietà.
I salari reali nel settore manifatturiero rimasero approssimativamente costanti fino agli anni ’90
del XVIII secolo (Behrens, 2004), a partire da quel decennio si osserva una ripida caduta, fino
agli anni 1820-1830, quando i salari reali ripresero ad aumentare. Le principali cause di questi
trend possono essere così riassunte: il tasso di crescita della popolazione nel XVIII secolo in
Inghilterra, se confrontato con standard successivi, fu moderato, dunque anche la pressione su
prezzi e salari non deve essere stata eccessiva; inoltre, gli effetti negativi di una popolazione in
crescita avrebbero potuto essere controbilanciati
da una spatial redistribution of population
(Behrens, 2004, p. 24), vale a dire dall’aumento del tasso di urbanizzazione, nonché
dall’espansione dei mercati locali e delle esportazioni.
La popolazione, infatti, crebbe a tassi più sostenuti a partire dal 1750-60, mentre la
redistribuzione della popolazione era ostacolata dalla rigidità dell’offerta di abitazioni nel breve
periodo (“urbanization lags behind what was needed”, Behrens, 2004, p. 25); la combinazione
di questi due fenomeni potrebbe spiegare il trend decrescente dei salari reali in questo periodo.
Dopo il 1820-1830, invece, è probabile che la diminuzione dei costi di trasporto e la forte
crescita delle esportazioni abbiano permesso una consistente riduzione dei costi di produzione
(e dunque anche dei prezzi) e un conseguente aumento di salari e profitti (Behrens, 2004).
48 Clark (2004) stima il salario giornaliero in termini reali dei lavoratori nel settore dell’edilizia,
considerando una media tra laborers (lavoratori non qualificati, manovali) e craftsmen (lavoratori
qualificati, artigiani). Egli considera una giornata lavorativa media di 10 ore (benché prima del
1810 la giornata lavorativa potesse essere più lunga, consistendo di circa 12 ore di lavoro) e la
presenza di differenze regionali nei salari; a Londra, ad esempio, il salario era maggiore rispetto
alle altre regioni.
Clark analizza in particolare due aspetti delle serie storiche di Phelps-Brown e Hopkins; in
primo luogo il livello eccezionalmente alto dei salari reali nel basso medioevo: i salari reali
successivi alla peste nera (che colpiva in particolar modo gli adulti che lavoravano) del 1349 non
furono raggiunti nuovamente fino al 1880 e perfino nei decenni precedenti alla pestilenza,
quando la popolazione era elevata, i salari reali erano di poco inferiori a quelli del periodo 180049 e molto superiori di quelli della prima metà del XVII secolo.
La scarsità della mano d’opera, acuita dal fatto che i lavoratori potevano trasferirsi nelle città,
dove i salari erano maggiori, provocò un aumento dei salari nominali; i salari reali crebbero
probabilmente in misura ancora maggiore, dato che il costo della vita era diminuito in quel
periodo in seguito alla diminuzione del prezzo relativo del grano, resa possibile dalla maggiore
produttività di terra e lavoro. Ad ogni modo, Clark argomenta che il livello di benessere di cui
godevano i lavoratori nella seconda metà del XIV secolo fu raggiunto nuovamente in Gran
Bretagna già verso la metà del Seicento, vale a dire circa 150 anni prima della data
convenzionale d’inizio della Rivoluzione industriale.
In secondo luogo, il confronto tra i salari reali e la popolazione mostra che tra il 1260-99 e il
1700-49 non ci furono significativi incrementi di produttività nell’economia; secondo le serie
storiche di Clark, invece, il XVII secolo non è il punto più basso nell’evoluzione dei salari reali e
segni di una produttività in crescita appaiono con chiarezza già nel XVII secolo. Per quanto
concerne il settore agricolo, Clark stima infatti che i salari reali negli anni precedenti alla peste
del Trecento fossero in media pari solo al 63% del loro livello nel 1770-9, e il punto più basso
delle serie storiche corrisponde qui al decennio 1310-9, in cui i salari sono pari al 50% del loro
livello nel 1770-9. In effetti, la carestia del 1315-7 fu la più significativa della storia inglese e
causò una diminuzione del 10-15% della popolazione.
49 Grafico 4: Relazione tra popolazione e salari reali in Gran Bretagna per il periodo 1280-1869 secondo le serie
storiche di Phelps-Brown e Hopkins
Fonte: Clark, 2004, p. 40
Grafico 5: Relazione tra popolazione e salari reali in Gran Bretagna per il periodo 1280-1860 secondo le serie
storiche di Clark
Fonte: Clark, 2004, p. 42
50 Negli anni 1350-1549, dopo la peste, i salari reali medi erano circa del 35% superiori al loro
livello nel periodo 1770-9; nel periodo successivo (1600-49) si assiste ad una ripida diminuzione
dei salari, pari al 77% del loro livello nel periodo di riferimento (1770-9), ma ancora maggiori di
circa un quarto rispetto al livello precedente la peste del 1349 (il livello più basso in questa fase
si raggiunge nel 1610-9, ma è comunque del 40% superiore a quello del decennio 1310-9).
Infine, nel 1650-9 i salari reali raggiungono quasi il livello del periodo di riferimento e sono
sostanzialmente superiori rispetto al periodo precedente la peste nera (Clark 2004 e 2006).
In Europa il salario di un muratore era circa del 60% superiore a quello di un lavoratore non
qualificato, definito genericamente manovale (Allen, 2011, p. 58); Munro (2004, p. 38) stima
che, nell’Inghilterra del sud, il salario reale per uno journeyman (operaio qualificato) sia passato
dal 50% del salario di un maestro muratore (prima della peste nera) al 60% verso la fine del
XIV secolo ed al 67% in seguito.
Secondo Allen, la diminuzione dei salari reali a partire dal 1550, periodo in cui la popolazione
ricominciò a crescere, non fu uguale dappertutto in Inghilterra; infatti, egli afferma che ad
esempio la caduta dei salari fu minore a Londra, benché la popolazione di questa città fosse
quadruplicata nel corso di un secolo (1500-1600), poiché: “la rapida crescita dell’economia della
città causò carenze nel mercato del lavoro e salari in aumento, che attrassero una gran massa di
emigranti dalle contee limitrofe” (Allen, 2011, p. 56); per contro, all’inizio del Seicento i salari
dell’Inghilterra rurale avevano subito una notevole diminuzione e gli alti salari sembrano essere
stati presenti solo a Londra, almeno fino alla fine del Seicento.
La spiegazione più diffusa del crollo dei salari nel XVI e nel XVII secolo si rifà all’aumento
demografico nel quadro di un’immutata disponibilità di terra coltivabile; il fattore lavoro
avrebbe dunque presentato dei rendimenti di scala decrescenti e un aumento della popolazione
impiegata in agricoltura sarebbe stato possibile solo in presenza di una diminuzione dei salari.
Nel caso dell’Inghilterra e delle altre “economie di successo” Allen rileva tuttavia un
incremento della domanda di lavoro di entità tale da compensare l’effetto della crescita della
popolazione.
Le determinanti del successo sarebbero quindi l’aumento dell’efficienza agricola e l’espansione
delle città; quest’ultimo fattore, in particolare, consente lo sfruttamento delle economie di scala,
generando un incremento dell’efficienza e, di conseguenza, anche della domanda di mano
d’opera.
51 Nel caso inglese, dunque, i salari subirono un calo nel Cinquecento, per poi aumentare
nuovamente nel corso dei due secoli successivi, uscendo così dalla “trappola malthusiana”,
proprio nel periodo in cui i salari reali nel resto d’Europa erano per lo più in calo.
Allen (2011, p. 157) inverte il nesso di causalità delle spiegazioni tradizionali ed afferma che non
fu un’elevata produttività agricola a rendere possibili gli alti salari e lo sviluppo industriale,
bensì: “Il successo dell’agricoltura inglese fu […] una risposta alla crescita del settore urbano e
di quello protoindustriale e al mantenimento di un’economia degli alti salari. Gli agricoltori
risposero a quelle sfide aumentando la produzione e […] accrescendo le dimensioni delle
tenute”.
Egli sintetizza così il problema, con riferimento all’Inghilterra: “Gli alti salari erano sostenibili
anche in presenza di tassi di natalità premoderni, purché l’economia crescesse abbastanza
rapidamente. […] Se la domanda di lavoro fosse cresciuta più in fretta del 2% annuo1, allora i
salari avrebbero potuto aumentare anche senza il calo delle nascite” (Allen, 2011, p. 159).
Questa situazione favorevole corrisponde a quanto si verificò durante la prima età moderna in
paesi quali Gran Bretagna e Paesi Bassi, dove i salari aumentarono nonostante una rilevante
crescita della popolazione; nel resto d’Europa, al contrario, benché la popolazione crescesse a
ritmi inferiori, i salari diminuirono e l’economia conobbe una fase di stagnazione.
3.3.2.2 L’interpretazione di Munro
Una diversa interpretazione è quella fornita da Munro (2004), il quale sostiene che la peste nera
e il conseguente declino della popolazione non abbia segnato l’inizio di una “Golden Age of
rising and then high living standards” (Munro, 2004, p. 1), bensì un periodo di salari reali in
diminuzione, a causa delle forti pressioni inflazionistiche.
Nei panieri di beni rappresentativi utilizzati nei vari studi, il ruolo più importante è quello
rivestito dal grano, sia per la sua elevata quota percentuale sia per l’ampiezza delle fluttuazioni
del suo prezzo; periodi prolungati di crescita della popolazione e, conseguentemente,
rendimenti di scala decrescenti nell’agricoltura (in assenza di significativi miglioramenti nella
1
Questa percentuale corrisponde alla differenza tra il tasso di natalità ed il tasso di mortalità, che erano pari
rispettivamente al 5% e al 3% nella prima età moderna. 52 tecnologia o di espansione delle superfici coltivabili) causano un aumento del prezzo del grano
maggiore rispetto agli altri prodotti, vale a dire, si assiste ad un aumento del prezzo relativo del
grano. Al contrario, durante lunghi periodi di diminuzione della popolazione, i prezzi agricoli
tendono a diminuire, anche in misura più consistente rispetto agli altri beni; tuttavia, Munro
osserva che: “disruption from warfare, climatic and other “supply shocks”, and debasementinduced inflations were rather frequent in late-medieval western Europe” (Munro, 2004, p. 8).
Anche in presenza di una popolazione in diminuzione, dunque, le pressioni inflazionistiche
avrebbero fatto aumentare il prezzo del grano in misura maggiore dei prezzi, ad esempio, dei
beni prodotti dal settore manifatturiero.
Con salari nominali invariati, in presenza di un aumento inflazionistico dei prezzi, un tipico
building craftsman sarebbe stato obbligato a spendere una quota maggiore del proprio reddito in
grano e cereali e dunque a ridurre la quota dedicata all’acquisto di altri beni; non sarebbe
dunque corretto utilizzare quote fisse per i vari beni nel paniere rappresentativo, dal momento
che, in periodi di prezzi agricoli in aumento, i cereali costituivano una quota maggiore della
spesa totale, mentre, in periodi di prezzi agricoli in diminuzione, solo una piccola quota del
reddito era destinata all’acquisto di grano (legge di Engel). Occorre dunque ipotizzare che la
domanda fosse anelastica rispetto al prezzo per beni di prima di necessità, quali il pane e la
farina.
Altro problema rilevante nel calcolo dei salari reali, sia nello studio di Munro (2004) sia in
quello di Allen (2011), risiede nella stima del salario annuo in termini nominali; infatti, i dati
disponibili riguardano solo i salari giornalieri o settimanali, non quelli mensili o annuali; Munro
utilizza il dato di 210 giorni annui, mentre Allen stima una media di 250 giorni di lavoro
all’anno per il XV secolo per i lavoratori europei.
Occorre inoltre considerare il fatto che il numero di ore di lavoro giornaliere non era costante
nel corso dell’anno, ma era soggetto a variazioni stagionali (Munro parla di 12-13 ore di lavoro
nella stagione estiva, contro 8-9 ore giornaliere in inverno), di conseguenza, il salario percepito
nel periodo invernale, approssimativamente dalla fine di novembre all’inizio di marzo, era
solitamente pari al 75% di quello del periodo estivo. Un tale regime di salari differenziati in base
alla stagione era comune in Inghilterra prima del 1348, ma negli anni successivi alla peste nera la
distinzione tra salario estivo ed invernale venne a cadere.
53 La diminuzione della popolazione nel Basso Medioevo condusse necessariamente ad una
riduzione del prezzo relativo del grano e dei prezzi agricoli in generale; i salari reali dei
lavoratori agricoli, dunque, sarebbero stati influenzati da due fattori di segno opposto:
l’aumento della produttività li avrebbe spinti al rialzo, mentre la diminuzione dei prezzi,
attraverso una corrispondente diminuzione del prodotto marginale del lavoro, li avrebbe spinti
al ribasso. Secondo Munro i due effetti, in definitiva, avrebbero potuto compensarsi.
Alla luce di queste considerazioni, risulta possibile avanzare una possibile spiegazione
dell’apparente paradosso dei salari urbani nel settore dell’edilizia; infatti, nell’Europa tardomedievale non sembrano essersi verificati rilevanti miglioramenti tecnologici (che si sarebbero
tradotti in incrementi della produttività), tuttavia si assiste ad un aumento dei salari nominali
nelle città. La diminuzione dei prezzi dei prodotti agricoli, infatti, lasciava agli individui una
quota maggiore del loro reddito disponibile da dedicare all’acquisto di altri prodotti,
provocando così un aumento del prezzo di questi ultimi; di conseguenza, il prodotto marginale
del lavoro impiegato nel settore manifatturiero aumentò, rendendo possibile l’aumento del
salario in termini reali dei lavoratori urbani.
I salari, tuttavia, presentano caratteristiche di collosità, vale a dire che il loro aggiustamento su
nuovi livelli di produttività del lavoro non è istantaneo; in effetti, in particolare in Inghilterra, i
salari nominali rimasero immutati per lunghi periodi (nel sud della Gran Bretagna il salario
predominante per maestri muratori e carpentieri specializzati rimase invariato in tutto il periodo
1736-73). A partire dal 1370, ad esempio, i salari per lo più non diminuirono in seguito al crollo
dei prezzi e in seguito, quando i prezzi salirono nuovamente, l’incremento dei salari nominali fu
di gran lunga minore; Munro conclude dunque che, in presenza di collosità dei salari nominali,
le fluttuazioni dei salari reali sono dovute prevalentemente ad oscillazioni del livello dei prezzi.
Egli afferma dunque che la caduta dei salari reali non ha conosciuto un’inversione di tendenza a
partire dal 1348 e che i salari hanno toccato il loro punto di minimo solo nel 1351-55,
raggiungendo, per i maestri muratori (master masons) un livello pari a circa il 46% di quello del
periodo 1451-75; i salari del periodo immediatamente successivo all’epidemia di peste, dunque,
non sarebbero stati significativamente più alti di quelli del periodo della grande carestia (131520) e solo nel 1376-80 i salari reali degli artigiani (craftsmen) avrebbero raggiunto nuovamente il
loro livello del 1336-40.
54 Le cause di questo trend risiederebbero nelle forti tensioni inflazionistiche del periodo
successivo all’epidemia, tali da compensare ogni incremento nei salari reali dovuto ad aumenti
di produttività. A partire dal 1376-80, i salari iniziarono ad aumentare, fino a raggiungere il
culmine nel 1441-45, rimasero poi quasi immutati fino al 1476-80 e iniziarono a decrescere in
modo marcato dopo il 1515, raggiungendo di nuovo un punto di minimo nel 1621-25, a causa
di nuove pressioni inflazionistiche sui prezzi.
Munro (2004) assegna quindi ai fenomeni monetari un ruolo predominante nell’evoluzione dei
salari reali, assieme alla collosità dei salari nominali; solo in secondo luogo egli prende in
considerazione la relazione tra produttività e salari, considerando come misura della
produttività non la produttività marginale del lavoro, bensì il Marginal Revenue Product, che tiene
anche conto dell’evoluzione dei prezzi.
55 Tabella 5: Evoluzione delle principali variabili in Gran Bretagna nei secoli XIII-XIX
Periodo Popolazione
1200- La carestia del 1315-7
1350
causa una
diminuzione del 1015% della
popolazione;
l’epidemia di peste
del 1348 causa un
crollo ancora
maggiore del numero
degli abitanti. In
1350- seguito la
popolazione rimane
1450
costante o registra
una lieve ripresa.
14501600
16001730
17301820
18202003
Produttività del lavoro
Clark: non ci sono
mutamenti di rilevo nella
produttività dell’economia (la
produttività totale dei fattori),
tra il 1200-49 e il 1600-49.
Phelps-Brown e Hopkins:
non ci sono incrementi nella
produttività dell’economia tra
la prima metà del Duecento e
la prima metà del Settecento.
In aumento in seguito alla
maggiore disponibilità di
capitale per addetto dopo
l’epidemia.
Saggio di salario reale
Phelps-Brown e Hopkins: assenza di un
trend crescente dei salari reali in tutto il
periodo 1200-1800.
Clark: assenza di tale trend solo per il
periodo 1200-1630; il minimo dei salari si
raggiunge nel 1310-9.
Munro: la caduta dei salari reali non si
interrompe nel 1348, il punto di minimo
è raggiunto nel 1351-5; i salari reali
aumentano nel periodo 1376-80 e fino al
1441-5.
Clark: salari reali in aumento a causa della
scarsità di manodopera.
Dal 1550 la
In diminuzione
Munro: salari reali quasi immutati fino al
popolazione riprende
1476-80, marcata decrescita dopo il 1515.
a crescere in modo
Allen: diminuzione dei salari reali a
sostenuto.
partire dal 1550, in particolare di quelli
rurali.
Modesto incremento Aumento rilevante tra il 1630 Clark: il minimo dei salari si raggiunge
tra il 1630 e il 1730.
e il 1730, in crescita sostenuta negli anni 1610-9, poi si registra un
a partire dalla metà del
aumento del 40% tra il 1630 e il 1730,
Seicento (Clark); è una fase di nonostante il declino del periodo 1600crescita economica.
49.
Le rese agricole aumentano
Munro: nuovo minimo dei salari nel
del 50% tra il 1630 e il 1730
1621-5 a causa di pressioni
(Allen), principalmente grazie inflazionistiche.
al progresso tecnologico e
Phelps-Brown e Hopkins: il Seicento
alle enclosures.
rappresenta il punto più basso dei salari
reali.
Rapida crescita della
Produttività costante tra il
Costante dall’inizio del secolo fino al
popolazione dal 1760. 1730 e il 1770, poi in
1760 (Clark), poi pressione al ribasso.
aumento
Behrens: salari del settore manifatturiero
costanti fino al 1790, poi in rapido
declino fino al 1820-30 (a causa
dell’incremento demografico); in seguito
riprendono a crescere.
Forte crescita
Fase di crescita economica
Crescita sostenuta (Clark), pari all’1%
più marcata nel periodo
annuo tra il 1820 e il 1860.
1800-49
Crescita rilevante solo a partire dal 1880
(Phelps-Brown e Hopkins).
Fonte: elaborazione dell’autore sulla base dei dati in Allen (2011), Behrens (2004), Clark (2004 e 2006), Munro
(2004), Phelps-Brown e Hopkins (1956).
56 4. Conclusioni
Nel caso dell’Italia, risultano valide le ipotesi di una relazione inversa tra popolazione e salari
reali nel periodo precedente lo sviluppo industriale e di una relazione invece di tipo diretto tra
queste due variabili nel periodo successivo; a differenza degli altri paesi europei, questo
mutamento non si verifica attorno al 1820, bensì circa 60 anni più tardi.
Per quanto riguarda la Svizzera, la scarsità di dati rende difficile un’analisi accurata per i secoli
precedenti l’età industriale; comunque, anche in questo caso risulta che a periodi di declino
demografico quali la metà del Trecento e la fine del Seicento siano seguite fasi di salari reali in
ascesa a causa della scarsità dei lavoratori. Tuttavia, la relativa abbondanza della manodopera
svizzera ha costituito a lungo un freno all’ascesa dei salari reali; solo a partire dal 1830 circa,
infatti, l’incremento della produttività è stato sufficiente a permettere un incremento dei salari
reali.
A proposito dell’andamento della popolazione e della produttività del lavoro nei prossimi anni
in Svizzera e in particolare in Ticino, le previsioni del BAK Basel Economics forniscono alcuni
interessanti spunti: il BAK afferma infatti che nel periodo 2012-2020 la crescita demografica
dovrebbe rallentare e dunque ci si attende che le aziende ricorrano maggiormente al capitale,
piuttosto che al lavoro, come fattore della produzione; il livello di capitale per addetto tenderà
quindi ad aumentare e con esso la produttività del lavoro. Mentre in passato il tasso annuo di
aumento della produttività era pari a circa l’1,1-1,2%, è probabile che esso raggiunga l’1,5% nel
2010-5 e l’1,8% dal 2015 al 2020; questi incrementi di produttività saranno dovuti
prevalentemente al settore secondario e terziario, mentre l’agricoltura registrerà solo modesti
incrementi.
Gli studi relativi alla Gran Bretagna mostrano, allo stesso modo, la presenza di una fase della
durata di circa sei secoli (1200-1800) caratterizzata da una relazione di tipo malthusiano tra la
popolazione e i redditi, seguita da una fase di crescita simultanea della popolazione e dei salari
reali. Non c’è piena concordanza sul momento di passaggio da una relazione all’altra; PhelpsBrown e Hopkins identificano questa data con l’inizio del XIX secolo, tradizionalmente
considerato come l’inizio della Rivoluzione Industriale; Clark, invece, anticipa tale data di circa
un secolo e mezzo, affermando che rilevanti incrementi nella produttività agricola si ebbero già
a partire dalla seconda metà del Seicento.
57 Munro, infine, sceglie una diversa chiave di lettura, monetaria, e giunge dunque ad una diversa
interpretazione del livello di benessere dei lavoratori nel periodo successivo l’epidemia del
Trecento. Tuttavia, risulta difficile ricostruire il tenore di vita della popolazione basandosi
principalmente su variabili monetarie (vale a dire ponendo in secondo piano variabili
macreoeconomiche altrettanto rilevanti, quali appunto la crescita demografica e la produttività
del lavoro) almeno per i secoli del Basso Medioevo, per i quali le informazioni disponibili
riguardo il valore delle diverse unità monetarie sono talvolta lacunose.
La metodologia utilizzata ha permesso di tracciare una sintesi dei principali risultati raggiunti
nell’ambito dello studio delle interrelazioni tra popolazione, produttività del lavoro e saggio di
salario reale per i tre paesi considerati. Sarebbe stato possibile includere nell’analisi anche
l’influsso di altre variabili, quali ad esempio il tasso di urbanizzazione o l’accumulazione di
capitale, entrambi correlati positivamente con la produttività del lavoro e di conseguenza con i
salari reali; risulta tuttavia difficile raccogliere i dati relativi all’evoluzione di queste variabili ed al
loro influsso sul saggio di salario reale.
Un possibile sviluppo potrebbe consistere nella costruzione di un paniere rappresentativo di
beni e di serie storiche dell’indice dei prezzi al consumo e dei salari nominali per il caso elvetico
nei secoli precedenti la rivoluzione industriale, in modo tale da poter affrontare il tema delle
relazioni tra popolazione, prezzi e salari in modo rigoroso anche con riferimento ai secoli XIIIXVIII.
Sarebbe inoltre auspicabile uno studio dell’evoluzione della produttività del lavoro,
eventualmente esaminata in relazione con il livello di formazione acquisito dai lavoratori, nel
corso del XX e del XXI secolo, un periodo in cui, almeno per quanto riguarda la maggior parte
delle nazioni europee, la crescita demografica si mostra contenuta o in regresso. L’analisi
dovrebbe dunque concentrarsi sul legame tra produttività del lavoro ed evoluzione del saggio di
salario reale. Inoltre, si potrebbe analizzare se la crisi finanziaria mondiale iniziata nel 2007
abbia frenato l’investimento in capitale (impianti produttivi) e possa dunque costituire, negli
anni a venire, un ostacolo all’incremento della produttività del lavoro.
58 Tabella 6: Quadro d’insieme dell’evoluzione delle principali variabili nei paesi considerati
Periodo Italia
Svizzera
Gran Bretagna
1200- Crescita dei salari fino al 1320, Nel 1349 la peste arriva in
Il salario reale medio del periodo
Svizzera; la conseguente
1200-49 è dell’8% maggiore di quello
1347
poi declino a causa della
crescita demografica fino al
scarsità di braccianti ne fa
del periodo 1750-99. Dal 1200 al
aumentare il salario (Bergier,
1649 non si registrano aumenti della
1348, anno della peste nera
(Malanima, 2007).
1984).
produttività totale dei fattori della
produzione (Clark, 2004 e 2006).
1348- Rapida crescita della
Nel 1350-1549, dopo la peste, i salari
1450
produttività del lavoro e
medi sono del 35% maggiori del loro
dunque dei salari dopo
livello nel periodo 1770-9.
l’epidemia, poiché il rapporto
capitale-lavoro è aumentato.
1450- I salari rimangono elevati fino
Dal 1500 la produzione agricola A partire dal 1550, inizio della nuova
1550
al 1450, poi nuova fase di
riprende a crescere, ma per
fase di crescita della popolazione, si
declino a causa della ripresa
l’incremento del terreno messo verifica una rapida diminuzione dei
demografica negli anni 1450a coltura e non della
salari reali (Allen, 2011).
1575 (Malanima, 1998 e 2004). produttività del lavoro agricolo. In Gran Bretagna i salari
diminuiscono nel XVI secolo per poi
1550- Nel Cinquecento il reddito pro
Il Cinquecento è un secolo di
aumentare nei due secoli successivi, è
1630
capite rimane pressoché
ristagno. Nel 1620 si verifica
invariato, poi subisce un
una crisi di sussistenza, prezzi e l’uscita dalla trappola malthusiana.
declino del 15% tra il 1570 e il
salari si abbassano. Il Seicento è
1630; la popolazione nel XVI
un secolo di bassi salari a causa
cresce infatti del 50%,
dei cattivi raccolti dovuti
causando una pressione al
all’abbassamento delle
ribasso sui salari.
temperature.
1630- Notevole ripresa dei salari
La popolazione cresce al tasso
Nel 1630-1730 le rese agricole
1760
dopo le epidemie del 1629-30,
permesso dalle sue risorse
aumentano del 50% grazie al
poi nuovo trend discendente
naturali. Dal 1700 la
progresso tecnologico e alle enclosures
negli anni 1733-1760
popolazione cresce ad un ritmo (Allen, 2011). Tale incremento
(Malanima, 2004).
più sostenuto, anche grazie alla permette una crescita del 40% dei
protoindustria, che permette al salari, benché la popolazione sia in
reddito medio per abitante di
aumento. Nei successivi 50 anni la
aumentare (Biucchi, 1982).
produttività rimane costante, per poi
riprendere ad aumentare dal 1770.
1760- Alla crescita demografica del
Il Settecento è un secolo di
I salari reali del settore manifatturiero
1820
Settecento corrisponde una
crisi, la crescita della
rimangono costanti fino al 1790; ciò è
minore produttività del lavoro
produzione non tiene il passo
reso possibile da una moderata
e dunque salari reali in
con l’incremento demografico. crescita della popolazione (Behrens,
diminuzione. Tra il 1760 e il
Nel periodo 1798-1850
2004), poi si ha una ripida caduta fino
1800 i salari del settore edile
l’abbondanza di manodopera
al 1820-30. Dal 1750-60, infatti, la
diminuiscono del 45%
esercita una pressione al ribasso popolazione cresce a ritmi più
(Malanima, 1998).
sui salari (Bergier, 1984).
sostenuti.
1820- La produttività si stabilizza e i
In agricoltura: notevoli
Inizia una fase di decisa crescita della
2001
salari cessano di diminuire. Dal guadagni di produttività tra il
produttività, i salari aumentano. Dal
1820 al 1860 i salari reali aumentano
1861 al 2001 si ha un forte
1800 e il 1911-3 grazie a nuovi
circa dell’1% all’anno.
aumento della produttività e
attrezzi e concimi.
una crescita sostenuta della
Nell’industria: dopo il 1860 si
popolazione, senza che le
assiste ad una crescita marcata
condizioni di vita si deteriorino dei salari reali (+35%, De
(Malanima e Zamagni, 2010).
Lucia, 1997).
Fonte: elaborazione dell’autore sulla base dei dati in Allen (2011), Bergier (1984), Behrens (2004), Clark (2004 e
2006), Malanima (1998, 2004 e 2007), Malanima e Zamagni (2010).
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