Mercoledì 11 aprile 1945 le truppe americane

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Mercoledì 11 aprile 1945 le truppe americane
Mercoledì 11 aprile 1945 le truppe americane entrarono nel campo di concentramento tedesco di
Buchenwald, nei pressi di Weimar, in Turingia. Scoprirono gli orrori dei sopravvissuti e le cataste
dei morti non smaltiti.
Il giorno dopo nel campo arrivò anche Edward R. Murrow, il corrispondente della CBS dall’Europa
in Guerra. Murrow è il padre nobile del giornalismo radio-televisivo americano. Grazie al film
“Good night and good luck” di George Clooney, ora anche il resto del mondo lo conosce.
Lunedì 16 aprile 1945, Murrow racconta sulle onde corte al popolo americano quello che ha visto
oltre il cancello ove faceva bella mostra di sé la scritta “A ciascuno il suo”. E’ un reportage passato
alla storia della radiofonia. Non c’era la possibilità di registrare le voci, ma Murrow porta il suo
ascoltatore al centro delle baracche di Buchenwald con uno stile asciutto e fattuale.
Lo riproponiamo a 60 anni di distanza in occasione della Giornata della memoria. Sentirete la sua
voce, rotta dai rumori della trasmissione, mentre il testo della traduzione italiana vi scorre davanti.
Non abbiamo voluto aggiungere immagini, perché questa è pura radio. Le immagini si formano con
le parole.
Ecco il testo delle parole di Murrow.
Voglio dirvi che cosa avreste potuto vedere e udire se foste stati con me giovedì: non sarà gradevole
da ascoltare. Se state mangiando, o se non avete voglia di sentire ciò che hanno fatto i tedeschi, ora
è il momento buono per spegnere la radio – perché ho intenzione di raccontarvi di Buchenwald.
(…) E’ su una collinetta, circa quattro chilometri fuori Weimar, era uno dei più grandi campi di
concentramento in Germania. Ed era costruito per durare.
Avvicinandoci, abbiamo visto un centinaio di uomini, in abiti civili, con fucili, che avanzavano in
ordine sparso attraverso i campi. Ci sono stati alcuni spari. Ci siamo fermati per chiedere. Ci viene
detto che alcuni prigionieri erano riusciti a intrappolare da quelle parti un paio di SS. Abbiamo
proseguito e siamo arrivati all’entrata principale. I prigionieri si affollavano dietro al filo spinato.
Siamo entrati.
Ed ora lasciate che continui il racconto in prima persona. Perché io ero la persona meno importante
in quel luogo, come sentirete.
Intorno a me si materializza un’orda puzzolente, uomini e ragazzi cercano di toccarmi. Coperti di
stracci o dei resti di uniforme. La morte aveva già marcato molti di loro, ma sorridevano con gli
occhi. Alzo lo sguardo sui campi verdi oltre la massa umana, dove tedeschi ben nutriti zappavano la
terra.
Un tedesco, Kurt …heimer, si presenta e mi dice: “Posso farvi fare un giro del campo? Sono stato
qui otto anni”. Un inglese scatta sugli attenti: “Posso presentarmi? Molto lieto di vedervi e posso
chiederle se qualcuno dei nostri sta per arrivare?” Gli dico: presto, e gli chiedo di vedere una delle
baracche. Era occupata da cecoslovacchi.
Quando entro gli uomini mi si affollano intorno, cercando di issarmi sulle spalle. Sono troppo
deboli. Molti non riescono ad uscire dai letti. Mi si dice che l’edificio ospitava un tempo 80 cavalli.
Dentro si sono 1.200 uomini, cinque per cuccetta. La puzza è indescrivibile.
Arrivato al centro della baracca, un uomo si avvicina e dice: “Si ricorda di me? Sono Peter (…), ex
sindaco di Praga”. Lo ricordavo, ma non lo riconoscevo. Mi chiede di (…)..sh e di Jan Masarick. Io
gli chiedo quanti uomini fossero morti in quel fabbricato nell’ultimo mese.
Chiamano un medico. Guardiamo il suo archivio. Solo dei nomi in un libricino nero – niente di più
– nulla riguardo a chi fosse, da dove venisse ciascuno, che cosa avesse fatto o sperato. Accanto ai
nomi dei morti una croce. Le ho contate: un totale di 242 – 242 su 1.200, in un mese.
Mentre cammino verso il fondo della baracca, c’è un applauso degli uomini troppo deboli per uscire
dai letti. Sembraav un battimano di bambini. Erano così deboli.
Il medico si chiamava Paul Heller (?). Era lì dal 1938. Mentre usciamo nel cortile un uomo cade a
terra morto. Altri due, avranno oltre 60 anni, si trascinano verso la latrina. L’ho vista, ma non la
descriverò.
In un’altra parte del campo mi mostrano i bambini, centinaia di bambini. Alcuni avevano solo sei
anni. Uno arrotola la manica per mostrarmi il suo numero. Era tatuato sul braccio. B-6030, si
leggeva. Anche gli altri mostrano i loro numeri. Li porteranno fino alla morte. Un vecchio vicino a
me dice: “I bambini – nemici dello Stato!”. Potevo vedere le loro costole attraverso la camicia. Il
vecchio mi dice: “Sono il professor Charles (?) Liziard (?) della Sorbona”. I bambini erano
aggrappati alla mia mano e guardavano con occhi sgranati.
Attraversiamo il cortile. Uomini continuano ad avvicinarsi per parlarmi e per toccarmi. Professori
polacchi, medici di Vienna, uomini d’ogni parte d’Europa. Uomini dei Paesi che hanno fatto
l’America.
Andiamo all’ospedale. E’ pieno. Il medico mi dice che il giorno prima erano morti in 200. Chiedo
di cosa fossero morti. Scuote le spalle: “tubercolosi, fame, esaurimento fisico e ci sono molti che
non hanno più desiderio di vivere. E’ molto difficile”. Il dottor Heller tira una coperta che copre un
uomo per mostrarmi quanto siano gonfi i suoi piedi. L’uomo è morto. La maggior parte dei pazienti
non è in grado di muoversi.
Lasciando l’ospedale tiro fuori un piccolo portafogli, nella speranza di avere qualche soldo per
aituare quella gente a tornare a casa. Il professor Lisiard (?) della Sorbona dice: “Fossi in lei, starei
attento con quel portafogli. Sa, nel campo ci sono anche dei criminali”.
Un piccolo uomo si stacca e mi dice: “Posso palpare il cuoio, per favore? Veda… un tempo a
Vienna facevo belle cose, col cuoio”.
Un altro uomo mi dice: “Mi chiamo Walter Roeder (?), ho vissuto molti anni a Juliette (?), ero
tornato in Germania in visita e Hitler mi ha acchiappato”.
Chiedo di vedere le cucine. Sono pulite. Il tedesco responsabile è stato un comunista e si trova a
Buchenwald da nove anni. Ha la foto di una figlia ad Amburgo. Non la vede da almeno 12 anni. E
se andassi ad Amburgo, potrei cercarla? Mi mostra la razione giornaliera. Un pezzo di pane nero,
alto più meno come il vostro pollice, con un pezzo di margarina grande come tre strisce di chewing
gum. Questo e un po’ di minestrone era tutto quello che ricevano ogni 24 ore.
Aveva un grafico sul muro. E molto complicato. C’erano tante targhette rosse sparse ovunque. Mi
dice che ognuna indicava dieci persone morte. Doveva render conto delle razioni e aggiunge:
“Siamo molto efficienti da queste parti”.
Torniamo nel cortile e camminando parliamo. I due medici, il francese e il ceco sono d’accordo: a
marzo sono morte circa seimila persone. Christian (?), il tedesco, aggiunge che nell’inverno del 39,
quando cominciarono ad arrivare i polacchi, senza vestiti invernali, morivano al ritmo di circa 900
al giorno. Cinque diversi uomini sostengono che Buchenwald sia stato il miglior campo di
concentramento della Germania. Avevano fatto qualche esperienza degli altri.
Il dottor Heller, il ceco, mi chiede se voglio vedere il crematorio. Mi dice che non sarebbe stato
molto interessante perché i tedeschi avevano finito il carbone pochi giorni prima e avevano
cominciato a gettare i corpi in una fossa accanto.
Il professor Lisiard (?) mi chiede se voglio vedere un cortiletto lì vicino. Dico: sì. Ci giriamo e
diciamo ai ragazzi di restare indietro. Mentre attraversiamo il piazzale noto che il professore ha un
buco nella scarpa sinistra e l’alluce che esce da quella destra. Segue il mio sguardo e dice: “Mi
dispiace di essere così poco presentabile, ma che ci si può fare?” In quel momento un altro francese
arriva per dirci che tre compatrioti lì fuori hanno ucciso tre SS e fatto un prigioniero.
Arriviamo al cortiletto. Il muro, alto circa otto piedi, è attaccato a quello che un tempo doveva
essere un garage o una stalla. Entriamo. L’impiantito è di cemento. Ci sono due file di corpi
ammucchiati come cataste di legna. Sono magri e molto bianchi. Alcuni corpi sono terribilmente
scorticati, anche se sembrava ci fosse poca carne da scorticare. Alcuni sono stati uccisi con un colpo
in testa, ma hanno sanguinato solo un poco. Eccetto due, tutti nudi. Provo a contarli, per quanto
posso, e arrivo alla conclusione che lì, allineati in due precise cataste, giacciono i resti mortali di
oltre 500 uomini e ragazzi.
C’è un rimorchio tedesco, che deve contenerne altri 50, ma è impossibile contarli. I vestiti sono
accumulati in mucchio contro il muro. La maggioranza degli uomini e dei ragazzi sembra morta di
fame. Non sono stati messi a morte.
Ma il modo con cui si muore non sembra tanto importante. A Buchenwald è stato commesso
omicidio. Solo Dio sa quanti uomini e quanti ragazzi vi siano morti negli ultimi 12 anni. Giovedì mi
è stato detto che nel campo c’erano oltre 20.000 persone. Un tempo ce n’erano 60.000: dove sono
ora?
Lasciando il campo, un francese che un tempo lavorava a Parigi per la (agenzia di notizie) Havas
viene e mi dice: “Scriverà qualcosa di tutto questo, forse…” Poi aggiunge: “Per scrivere di questo
bisogna essere stati qui almeno due anni. Ma dopo due anni non hai più voglia di scrivere, mai
più.”.
Vi prego di credere a quello che ho detto di Buchenwald. Vi ho riferito ciò che ho visto e udito, ma
solo in parte. Per la maggior parte, mi mancano le parole.
Di uomini morti ce ne sono tanti in guerra… ma i morti viventi… oltre 20.000 in un solo campo…
e la campagna intorno gradevole allo sguardo. E i tedeschi ben nutriti e ben vestiti. I camion
americani che andavano verso le retrovie pieni di prigionieri. Presto avrebbero mangiato le razioni
americane, quanto qualunque uomo a Buchenwald riceva per quattro giorni.
Se con questo racconto piuttosto leggero di Buchewald ho urtato la vostra sensibilità, non mi
dispiace affatto…