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L’eterna questione del Sud
Una nazione a due velocità: ragioni storiche e questioni di attualità ripropongono
una frattura economica e sociale che sembra andare progressivamente allargandosi
/ 02.01.2017
di Alfio Caruso
La questione meridionale esplose prima ancora che fosse proclamato il Regno d’Italia (17 marzo
1861). Quel giorno si arrese uno dei due bastioni borbonici resistenti da mesi alle divisioni
piemontesi, la Cittadella di Messina; tre giorni più tardi alzò bandiera bianca anche la fortezza di
Civitella del Tronto. Una frase della deposta regina di Napoli, Maria Sofia («Piuttosto che stare qui,
amerei morire negli Abruzzi in mezzo a quei bravi combattenti») aveva commosso e sommosso i
cuori degli innumerevoli spasimanti di questa Lady Diana dell’Ottocento. La stampa internazionale
aveva trasformato l’assedio nell’ennesima sfida fra Davide e Golia. Le cancellerie ostili al nascente
Stato avevano molto sfruculiato sull’impotenza di tanti contro pochi.
Tuttavia il peggio per il governo del conte di Cavour si palesò il 7 aprile nel bosco di Lagopesole, in
Basilicata: avvenne il raduno di duemila fuorilegge, fu acclamato comandante in capo Carmine
Crocco, un ex artigliere dei Borboni, che nelle sue diverse avventure aveva militato anche al fianco
di Garibaldi durante l’impresa dei Mille. La mancata cancellazione della condanna per omicidio
l’aveva indotto a tornare all’antico mestiere. Sotto la sua guida il Meridione venne infestato per anni
da una guerriglia, che non fu solo banditismo, come dipinto dalle cronache ufficiali, fu anche
reazione alla cecità del governo centrale, alla mancanza di sviluppo economico.
Non sono bastati centocinquantacinque anni per colmare l’arretratezza delle regioni sudiste, acuitasi
anzi con il nuovo secolo. Dal 2000 la crescita di Campania, Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia è
stata appena del 13% contro il 24% della Grecia e il 53,6% delle regioni europee, che rientrano nei
piani di Convergenza della Ue. Nel 2014, per il sesto anno consecutivo, l’economia di queste regioni
è diminuita dell’1,3% e ciò ha riportato ai livelli del 2000 il divario con il Nord. Purtroppo, neppure
l’ampia crescita dell’export nel 2015 (10,2% rispetto alla media nazionale del 3,8%) serve al
riequilibro. Anzi, dopo gl’interventi della magistratura e il blocco delle attività estrattive, esiste il
pericolo che la regione più dinamica, la Basilicata con un aumento del 145,7%, rallenti parecchio.
Perfino le esportazioni legate alla produzione di auto nello stabilimento Fca di Melfi sono finite in
stallo. Di conseguenza il pil pro-capite è quasi la meta della media del Centro-Nord. In dati assoluti,
quello italiano è di 26’585 euro, quello meridionale di 16’976: in Trentino Alto Adige è di 37 mila
euro, in Calabria di 16 mila. Il rischio povertà è più che triplicato rispetto al resto del Paese: dal 10%
al 33%. La regione maggiormente a rischio risulta la Sicilia con il 41,8%, seguita dalla Campania,
37,7%. Una famiglia meridionale consuma il 67% di quanto consuma una famiglia del Centro-Nord.
Negli ultimi otto anni l’occupazione è crollata del 9%, mentre nel Centro-Nord vi è stato un –1,4%.
Nel 2014 i lavoratori sono cresciuti in Italia di 88’400 unità, il Meridione, invece, ne ha persi 45’000
scendendo a 5,8 milioni di unità, il livello più basso dal 1977, anno d’inizio delle rilevazioni. E anche
la ripresa registrata nei primi sei mesi del 2015 non ha toccato le sacche della disoccupazione,
soprattutto giovanile.
Di conseguenza forte incentivazione all’esodo. Dall’inizio del nuovo millennio sono emigrati verso
altre zone della Penisola 789 mila persone (più degli abitanti di Palermo), di cui 210 mila laureati e
526 mila (l’equivalente dell’intera provincia di Reggio Emilia) di età inferiore ai 34 anni. A costoro
bisogna aggiungere quanti si sono diretti verso la Germania, l’Inghilterra, la Scandinavia e in questo
caso la scelta non è stata effettuata dalla bassa manodopera, come capitava nel dopoguerra, bensì
da ragazzi in possesso di lauree e specializzazioni. Sono i famosi «cervelli», dei quali si continua a
lamentare la partenza, tuttavia senza sforzarsi d’individuare rimedi. Perciò la perdita di giovani, di
competenze e la denatalità rischiano di relegare il Meridione a un sottosviluppo permanente e alla
desertificazione industriale.
Nel 2014 si è toccato il punto più basso delle nascite dal 1861: 174’000. Il tasso di fertilità è sceso a
1,31 figli, meno degli 1,43 del Nord e dei 2,1 necessari per non ritrovarsi nel 2065 con 4,2 milioni di
abitanti in meno.
Purtroppo una simile mole di problemi ha suscitato il ridestarsi degli istinti più viscerali: dal
rimpianto per i centoventi anni di dominio dei Borboni – il peggio del peggio – alle accuse di ruberie
e sfruttamento prima all’Italia dei Savoia, poi alla Repubblica, accusata di miopia e insensibilità. È
indubbio che dopo l’Unità i notabili del Nord preferirono allearsi con i «galantuomini», i veri
persecutori delle plebi meridionali, piuttosto che garantire la crescita sociale promessa da Garibaldi
appena sbarcato in Sicilia nel maggio 1860. E pure l’Italia nata con il referendum del ’46 ha trovato
più redditizio accordarsi con le diverse mafie che dare loro la caccia, varare improbabili piani
siderurgici piuttosto che rafforzare l’agricoltura e il turismo. Ma chi ha depredato per mezzo secolo
la fin troppo munifica Cassa del Mezzogiorno? Aveva i mezzi e i progetti per garantire la liberazione
del Sud dalle sue endemiche miserie, viceversa le classi dirigenti di Napoli, di Palermo, di Bari, di
Reggio Calabria preferirono spolparla per accrescere i propri privilegi.
E che si trattasse di un andazzo univoco, prescindente dalle ideologie, l’ha dimostrato la staffetta tra
gli antichi presidenti di regione democristiani e gli attuali governatori tutti del Pd. Ma ciascuno di
essi – Crocetta in Sicilia, Emiliano in Puglia, De Luca in Campania, Pittella in Basilicata, Oliverio in
Calabria – si sente e si comporta da ras locale, anziché da membro di una collettività nazionale.
Ciascuno fin qui ha cercato di raccattare il meglio per la propria parte, non per la propria terra.
L’arrivo dei nuovi dati, le previsioni catastrofiche sul futuro di un’associazione molto rispettata come
la Svimez (Associazione per lo sviluppo industriale del Mezzogiorno) hanno però suonato la
campanella dell’ultimo giro. Saviano, l’autore del celeberrimo Gomorra, ha sentenziato che dal Sud
ormai fuggono anche le mafie. Pure Renzi è stato costretto a rivedere il proprio disegno. Fin qui il
suo neocentralismo tendeva a escludere sia la questione meridionale, sia quella settentrionale. Alle
reciproche e opposte rivendicazioni, spesso ammantate di consunta retorica, contrapponeva la
questione delle riforme nazionali. Paradossalmente l’hanno aiutato la becera intolleranza della Lega
e l’affermarsi di quei caporioni approdati nel Pd perché gli altri partiti erano spariti. Adesso questo
schema non funziona più ed egli non è parso averne sottomano un altro. Ha lasciato a Gentiloni la
patata bollente.
«Scateniamo l’inferno del cambiamento» sostiene Emiliano, che si è già rivolto a De Luca per un
coordinamento delle cinque regioni meridionali. Ma il governatore campano, oltre a non voler troppo
apparire, non voleva dispiacere a Renzi. L’ex capo del governo gli aveva, infatti, promesso 700
milioni per smaltire 4,5 milioni di ecoballe, ingombrante eredità dell’emergenza rifiuti. Se queste
sono le premesse, la nascita di un partito del Sud sembra assai improbabile. Gli mancherebbe, per
altro, il presupposto, che ha scandito i settant’anni precedenti: una spesa pubblica allegra, senza
controlli, spesso fuorilegge. Più facile, invece, che dilaghi una sorta di rivolta fiscale copiando alcuni
slogan della Lega, tuttavia con ben altra base. Nel Meridione del nero, del sommerso, dell’evasione
fiscale mai se n’era avvertito il bisogno, tuttavia la tentazione può diventare molto forte in un
periodo di caccia agli evasori per rimettere in ordine i conti dello Stato.
Un accenno, per quanto indiretto, lo si trova nel rapporto Svimez, che toglie il sonno a tanti
governanti romani. Vi si sostiene che negli anni gli investimenti e i trasferimenti al Sud sono calati,
mentre è rimasta sostanzialmente invariata la partecipazione del medesimo Sud al pagamento delle
pensioni lavorative. Le quali, ed ecco la sottolineatura polemica, «sono riscosse in gran parte al
Nord». Pensioni, che ovviamente nessuno si sogna di toccare, al contrario di quanto avviene con
quelle d’invalidità assai diffuse in Meridione e al 90% false. Se a questo si aggiungono il sempre più
probabile accorpamento nell’arma dei carabinieri del corpo forestale – riserva di caccia dei politici
locali per distribuire stipendi a pioggia – e la prossima ripartizione del fondo sanitario nazionale, con
una stretta per Sicilia, Campania, Calabria, Puglia e Basilicata, ecco spiegato il rincrudelire della
questione meridionale. Stavolta trasformata nell’ultima barricata per la sopravvivenza.
Sul carro fiscale è già saltato lo screditato sindaco partenopeo, Luigi de Magistris, alle prese con
ambizioni eccessive perfino per la sua straripante megalomania. Ha addirittura parlato di «nuova
resistenza» per ottenere che le «tasse pagate da Napoli restino a Napoli». La sua rielezione a
sindaco di Napoli rappresenta l’ennesimo cerino acceso gettato sulla benzina del malcontento.