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Guido Savio
FIGLIO E PADRE
In due per strada
ARMANDO
EDITORE
Sommario
Introduzione
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1. Figlio e soddisfazione
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2. Lavoro e amore
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3. Passione reciproca
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4. Aiuto reciproco (amare e essere amati)
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5. Pensiero positivo
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6. La volontà del padre
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7. Il nome del padre
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8. Padre maestro
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9. Pensiero di figlio è pensiero di lavoro
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10. Onora il padre
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11. Il narcisismo del padre e il narcisismo del figlio
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12. Il figlio e la noia
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13. Padre e sesso
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14. Economia tra figlio e padre
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15. Parola
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16. Sovranità: pensare con la propria testa
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17. La questione del sangue e della responsabilità
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18. La virtù
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19. Eredità (conclusione)
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Introduzione
Quanti anni può durare la relazione tra padre e figlio? Certo
molti, moltissimi. E anche quando il figlio è cresciuto e il padre
invecchiato, quando, negli anni, tra i due si pone la distanza fisica e
quella del tempo, dei pensieri, delle ideologie e delle idee, dei prodotti maturativi di ognuno, certo la relazione rimane una relazione
forte. Si tratta di una strada sempre percorribile.
A volte, come i casi della vita contemplano, questa relazione
può essere negata, rifiutata, dimenticata, rimossa. Altre volte voluta, ricercata, fruttuosa e ricca di soddisfazioni reciproche. Quella
del padre con il figlio, dunque, e quella del figlio con il padre, “rimane” la relazione più importante. Anche nell’eventuale silenzio,
“continua” a segnare i due uomini, continua a cambiarli.
E poi come sarebbe spiegabile che la cosiddetta “ricerca della
figura paterna” duri in noi tutti, umanamente, per tutta la vita?
Non è mio intento qui disquisire se sia più importante la relazione tra madre e figlio o quella tra padre e figlio. Ognuno ha la
propria esperienza in merito e può rispondere da solo alla domanda. La domanda se sia più importante una relazione o l’altra mi fa
sempre pensare a quel quesito irrisolvibile che una volta (spero ora
sempre meno), l’estraneo di turno, fermando il passeggio di padremadre-figlio poneva al pargolo: “Ma vuoi più bene alla mamma
o al papà?” ed è ovvio che qui dobbiamo stendere il più pietoso
dei veli sulla stupidità umana nel momento in cui si rivolge una
domanda così “irrispondibile” ad un bambino al quale non basterà
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tutta la vita per rispondere. E con questo non vorrei dire altro sul
tema se è più importante il papà o la mamma.
Padre e madre lasciano “segni”, a volte indelebili, a volte digeribili, a volte correggibili, a volte risolutori… “segni” in ogni caso
vitali. Senza paura, perché la relazione con il figlio, se deve avere
un codice e una regola, è quella di bandire, per quanto possibile,
la paura, la paura di sbagliare, la paura di fare “danni”, la paura di
offendere, la paura di non essere perdonati, la paura del senso di
colpa, la paura appunto che i “segni” diventino ferite.
Potrei qui rimandare al “classico” di Caroline Thompson,
Genitori che amano troppo (e figli che non riescono a crescere) il
cui leitmotiv è per l’appunto la vera sostanza dell’amore genitoriale
(ricordo che il titolo francese è La violence de l’amour), di come
questo amore possa essere confuso con la dipendenza, di come
questo “troppo” non nasconda che paura di dire di “no”, paura di
separazione, paura dei genitori di essere abbandonati dal giudizio
dei figli e dunque l’eccesso, il “troppo”. Ma torneremo più avanti
su questo testo e sui suoi temi portanti.
Si diceva dei segni. A mio modo di vedere è importante capire
come questi segni evidenti non siano solo opera di padre e madre
sul figlio, ma anche viceversa. I figli vengono “segnati” ma anche
“segnano”, e come segnano!
Cambia il figlio nella relazione, ma cambiano padre e madre vivendo, o anche separandosi, dalle loro “creature”, incidono i figli, a
volte determinano la vita dei loro genitori, anche se non è intento di
questo lavoro parlare del rapporto “genitori/figli”, bensì del rapporto umano diretto e indiretto che il padre (lo ha anche la madre) conserva nei confronti del figlio, e il figlio nei confronti del padre. Del
rapporto tra soggetti di diritto, di soggetti che strutturano la loro
persona nella “vicinanza” (di corpo e pensiero) l’uno con l’altro.
Tanto per capirci l’intento di questo lavoro è quello di provare
a vedere, in svariate sfaccettature, il rapporto tra uomini, che nella
fattispecie si chiamano “padre e figlio”. Per questo il mio desiderio
è quello di vedere all’interno della “relazione” figlio/padre il cam8
po del cambiamento, il campo della influenza reciproca, dell’imparare reciproco, del passaggio continuo, della chiusura dolorosa,
della noia stagnante, del percorso di crescita. Quando si dice che i
figli sono un dono si intende che permettono a padre e madre di “rivedere” la loro vita in quella dei figli e, se dotati di buona volontà,
correggersi.
I nostri figli ci danno l’occasione di vivere noi stessi una seconda volta: questo è il dono che portano, un dono non da poco. Poi,
in che cosa consista il dono che padre e madre fanno ai loro figli, è
materia dell’intero percorso di questo libro.
La relazione del figlio con il padre pone sostanzialmente due
questioni.
La prima è quella del passaggio di un capitale (se ne vedranno
in seguito le caratteristiche) dal padre al figlio.
La seconda è quella della strutturazione da parte del figlio di
un buon pensiero di sé, di un pensiero di diritto, la cui meta è la
soddisfazione.
Ecco, per dire in due parole il contenuto di questo libro: qui si
parlerà della relazione tra due soggetti (non tanto della relazione
“genitore/figlio”) nella logica della trasmissione di un sapere e di
un valore (da parte del padre) e della maturazione (da parte del
figlio) di un pensiero fiduciario su se stesso, un pensiero produttivo, che egli ha avuto come “insegnamento” dal padre, il quale
insegnamento gli permetterà di farsi una propria strada verso la
soddisfazione, la cui assenza, come ben si sa, comporta il disagio
psichico.
Una breve parentesi: mi sono accorto scrivendo le riflessioni
contenute in questo libro, di come questi parametri relazionali tra
padre e figlio io li abbia presi come l’optimum del funzionamento, il
massimo di quanto si potrebbe tirare fuori da un rapporto. Tuttavia
sappiamo che un conto sono le parole (scritte in questo caso) e un
altro conto è la realtà, dove l’optimum è inesistente, dove l’errore è
sempre dietro l’angolo che aspetta, dove la tensione di fare bene a
volte procura danni.
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In questo senso allora questo non è un libro in cui si danno consigli o vademecum: si dice solamente come potrebbe essere il “dover essere” della questione, come le cose dovrebbero funzionare,
come sarebbe bello se funzionassero così. Nulla di più.
E questo, lo riconosco fin d’ora, è il limite di questo lavoro.
Perché ognuno di noi sa ovviamente che la realtà quotidiana è altra
cosa rispetto alle parole: ognuno si regola sulla propria debolezza
(e forza), sulla propria mancanza (e presenza) e anche sulla scarsezza (e abbondanza) della propria volontà, ognuno si regola sui
propri atti (di figlio e di padre).
Detto questo, il padre, in primis, è quel soggetto che presta attenzione all’evoluzione del pensiero del proprio figlio.
Salute dunque, nella relazione, significa rispetto reciproco prima
di tutto del pensiero dell’altro, valutazione della diversità dell’altro,
accettazione della diversità del bene dell’altro, reciprocità, disponibilità alla rinuncia, messa in atto del desiderio di “fare” il bene
dell’altro, etc.
Ovvero la salute della relazione figlio/a e padre è quella sperimentata nelle “regole” del rapporto, in quelle che sarebbero le
regole di qualsiasi rapporto. Il rapporto con il padre, per il figlio, è
la cifra del suo rapporto con il mondo.
Questo libro intende soffermarsi sul pensiero di figlio, ossia
figlio/a che pensa a se stesso in quanto soggetto di diritto, diritto ad
avere una propria soddisfazione in base a come è stato pensato dal
padre e a come si è “sentito” pensato dal padre. Realtà oggettiva e
soggettiva.
Allora salute della relazione e diritto alla soddisfazione diverranno le due corsie di una unica strada attraverso le quali il discorso cercherà di svilupparsi.
Una brevissima nota di carattere storico-sociale.
Se il padre è stato per tempo imputato di scarsa presenza, negli
anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, lo è stato più per quello
che non ha fatto piuttosto che per quello che ha fatto. Per quello che
ha taciuto piuttosto che per quello che ha detto. Se il padre è stato
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assente non è perché come Ulisse è andato a combattere una guerra,
o in cerca della conoscenza, ma perché non ha voluto misurarsi nei
rapporti, a partire da quello con la donna, a seguire quello con il
figlio. Senza volere per forza generalizzare.
Di questa duplice “assenza” di rapporto, la soddisfazione è la
prima a soffrirne: se il padre non si “butta” a vivere con il corpo
le relazioni con le persone che gli sono più vicine (donna e figlio),
deroga o proroga il suo principale compito, che è quello di indicare
al figlio dove sta la soddisfazione del rapporto.
Essere figlio ed essere padre alla fine significa essere se stessi.
Realtà della pratica non facile ma neppure impossibile.
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1. Figlio e soddisfazione
E dunque partendo dalla soddisfazione, la domanda prima è: da
dove può imparare un figlio a stare al mondo? Da dove può imparare un figlio a trarre dal mondo la soddisfazione che in questo
mondo gli è consentita? Gli è dovuta?
Perché senza la soddisfazione è assai difficile “procedere” nel
percorso, nella strada. È assai difficile conservarsi in salute in
questo mondo. Noia e angoscia sono sempre dietro l’angolo se la
bussola della soddisfazione si appanna. E allora la domanda del
figlio al padre si fa più che lecita: “Insegnami a stare al mondo, e
nel mondo a provare la soddisfazione a cui ho diritto”. Se voglio
salvarmi.
Ma che cosa è poi la soddisfazione?
Io penso che la soddisfazione sia tante esperienze e tanti pensieri messi assieme, ma che fondamentalmente si riduca ad un atto:
quello di dare senso alla propria esistenza.
Da parte del figlio è l’atto di pensare che quello che sta facendo… piace, piace a qualcuno. Magari a qualcuno più grande di lui
(leggasi “padre”) ma soprattutto che piace a se stesso, in piena (o limitata) autonomia di giudizio. È dire a lui stesso che le cose fatte…
vanno bene, che certo ce ne sono di sbagliate, ma certo correggibili.
Se ne potrebbero anche fare di migliori, ma intanto queste…vanno
bene.
E dalla parte del padre lo stesso: il pensiero che il suo essere al
mondo stia dando soddisfazione a qualcun altro, al proprio figlio
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nonché a tanti altri figli che sono i figli del mondo. Che l’essere al
mondo del padre abbia senso non perché ha un figlio, ma perché
egli è un padre, soggetto primo del discorso della soddisfazione.
Non dimentichiamo che il figlio prova soddisfazione se si pensa
un soggetto capace di darne agli altri e meritevole che gli altri a lui
la diano.
La soddisfazione è trovare un senso nelle proprie azioni a favore
dell’altro e nelle azioni (nel nostro caso quelle del padre) che l’altro
destina a noi.
Senso significa che si sta andando da qualche parte, per l’appunto che si “procede” un giorno dopo l’altro, verso “un” qualche cosa
di diverso dall’oggi, a volte auspicabilmente migliore, ma anche
non auspicabilmente peggiore. Alla realtà ci si adatta, non ci si oppone.
Tra padre e figlio c’è sempre rapporto, un rapporto particolare,
ma non diverso da quello che intercorre tra “soggetto” e “altro”,
ovvero tra due persone qualsiasi prese nel mondo reale, siano esse
amici, parenti, soci, coinquilini o correligionari.
Rapporto è rispetto, accettazione della diversità dell’altro,
giusta rinuncia, capacità di compromesso, insomma tutte le “regole” che fanno funzionare il mondo: queste regole relazionali
trovano la loro “culla”, se così si può dire, nel rapporto tra figlio
e padre.
Vita è accettazione della soddisfazione (e soprattutto il lavoro
per cercarla), ma è anche accettazione della frustrazione e della
mancanza. Ascoltando molti figli e padri mi sono fatto il pensiero
che la grande “lezione” che il padre può dare al figlio è quella della
ricerca della soddisfazione e della sopportazione del dolore. Dolore
come atto non del castigo ma della inevitabilità, della maturazione,
della crescita. Poi il dolore è dolore, e non ci sono tanti discorsi da
fare. Anche questo il padre insegna.
E il figlio allora da dove impara questo “atto”? Da dove impara
a prendere e dare soddisfazione? Da dove impara a sopportare il
dolore?
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Io penso che lo impari dal padre: il figlio “prende” e “apprende”
dal padre, proprio come si dice… “ha preso da suo padre”, se è alto,
ha i capelli neri o la fossetta sul mento. A vedere il padre soddisfatto è molto probabile che il figlio poi ci assomigli, come a vederne
uno malinconico o ansioso è altrettanto facile, per lui figlio, seguirne le orme. Certo, lo stesso può avvenire nel rapporto con la madre.
Si intenda allora che molti padri fanno da “mamma” ai loro figli e
molte madri fanno da “padre”.
Non è qui la distinzione di sesso tra i genitori che interessa, ma è
il rapporto preciso che il figlio ha con uno dei genitori: il padre. La
madre è sempre presente (se è presente) in questo percorso. Come
se il padre è assente, diremo della sua assenza e magari della sua
sostituzione da parte della madre.
Se il figlio vede che il padre riesce a dare un senso, e anche un
ordine, alla propria vita, capisce che lo può fare anche lui per la sua.
Il padre è quello che “ apre” una strada. Lui padre ha aperto la sua,
sta a me figlio, aprire la mia non certo per imitazione o scimmiottamento, ma per attivazione di libero pensiero. E su questo libero
pensiero ovviamente torneremo più avanti.
Teniamo presente noi genitori, per il momento, che questo libero pensiero non è una acquisizione tanto tarda nei nostri figli, anzi;
se noi, padri e madri, osserviamo bene, ne troviamo traccia fin dalla
prima infanzia.
Riassumendo quanto finora visto: il padre soddisfatto è un padre
che lascia continuamente (da vivo) una buona eredità al figlio, lo
indirizza verso un mondo che chiede di essere riempito di senso.
Sta alla intelligenza del figlio “aguzzare la vista” sul proprio padre,
metterne in risalto le forme produttive di soddisfazione e di “abbassare lo sguardo” sugli inevitabili errori, sulle mancanze, sulle ovvie
innumerevoli cadute. Le mancanze del padre certo possono essere
dolore per il figlio, ma anche a questo egli si deve adattare.
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2. Lavoro e amore
Due sono i punti di appoggio attraverso i quali una persona può
mantenersi sana. Questi due appoggi erano già stati individuati da
Freud nel suo Inibizione, sintomo e angoscia, ma credo che nei secoli precedenti nessun soggetto, pensante in proprio, avesse avuto
dubbi in merito: lavoro e amore.
Lavoro e amore sono le “condizioni” (condicio sine qua non) la
salute è possibile. E da qui il proposito di questo studio: vedere, se
possibile, come il lavoro e l’amore possano essere garanzia della
salute psichica, e dunque della salute tout court, come prodotti dal
rapporto tra figlio e padre.
Allora vediamo che il padre è prima di tutto il soggetto che non
deve fare soffrire il proprio figlio, e lo farebbe se non gli indicasse,
quanto prima possibile, i termini del discorso della soddisfazione e
della salute: ovvero avere un lavoro e avere una donna.
Questi pilastri della salute (il giusto amore e la giusta legge del
lavoro) è il padre che li presenta al figlio, li offre poi come indicazione. Ma come avviene il passaggio? Come il padre “trasmette”?
Come “insegna”? Come “tramanda” il padre la regola per la salute?
In un unico modo: vivendola. Il padre dovrebbe essere tale in
quanto uomo soddisfatto da lavoro e amore, che il figlio può vedere
davanti a sé. Sottolineo il concetto di “vedere” in quanto il padre
non può nascondersi in questioni così basilari davanti agli occhi del
figlio. Proprio nel senso che “l’occhio vuole la sua parte”.
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Il padre si lascerà vedere gaudente della sua realtà soddisfacente,
o dolorante della sua situazione penosa dagli occhi del figlio: non
nasconderà in ogni caso se stesso e solo in questo modo “trasmetterà, insegnerà, tramanderà” il senso della vita, il tentativo della sua
vita (più o meno riuscito) verso la soddisfazione. Il padre che è se
stesso è il padre che non (si) nasconde.
Poi se il figlio, da questa visione, da tutto il “buono” che il padre
gli fa vedere e sentire, non saprà trarre beneficio o salute… sono,
come si dice, problemi suoi. E questo pensiero (ovvero: “sono problemi suoi”) non è una tentazione di noi genitori quando avvertiamo che qualcosa non funziona nei nostri figli, non è lo scaricare,
ma è un dato di realtà che recita semplicemente che “ognuno fa la
sua parte” (e sulla responsabilità del figlio sul proprio agire si dirà
diffusamente più avanti).
Il padre è un indicatore della salute, non un costrittore. I figli costretti infatti sono i maggiori ritardatari nel ritagliarsi il loro campo
di soddisfazione. I padri che costringono sono i peggiori frustrati e
sgusciano via dalla vita per non farsi vedere deboli o mancanti. Ma
vedremo più avanti che il padre “forte” sarà soprattutto quello che
ha il coraggio di farsi vedere “debole” dal figlio.
Il padre non deve “fare vedere” niente, si lascia semplicemente
vedere dal figlio.
Se il padre dice “ti faccio vedere” non vuol dire “te la faccio
vedere io” (cioè la mia realtà, il mio modo di risolvere i problemi, il mio stile di vita che tu figlio dovresti imitare) ma vuol dire
invece “io mi metto davanti agli occhi tuoi in modo che tu pensi”. Ovviamente in modo che tu pensi alla soddisfazione. Ti faccio
vedere come si fa non per insegnarti come si fa a scuola, ma nel
senso… come avviene nella vita, come si fa a pensare alla propria
soddisfazione.
Il padre, in sostanza, offre la possibilità al figlio, non lo lega alla
sedia perché impari per forza.
In breve: dall’amore e dal lavoro il padre trae gli strumenti del
proprio insegnamento. Fa vedere questi strumenti al figlio. Il figlio
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non li può usare “subito”, e dunque sta al padre tenere viva l’attesa.
L’attesa, per il figlio, può anche essere una “passione” che dura
molto tempo.
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