Leggi un estratto
Transcript
Leggi un estratto
Guido Savio FIGLIO E PADRE In due per strada ARMANDO EDITORE Sommario Introduzione 7 1. Figlio e soddisfazione 13 2. Lavoro e amore 16 3. Passione reciproca 19 4. Aiuto reciproco (amare e essere amati) 24 5. Pensiero positivo 29 6. La volontà del padre 39 7. Il nome del padre 45 8. Padre maestro 54 9. Pensiero di figlio è pensiero di lavoro 59 10. Onora il padre 66 11. Il narcisismo del padre e il narcisismo del figlio 73 12. Il figlio e la noia 80 13. Padre e sesso 101 14. Economia tra figlio e padre 109 15. Parola 123 16. Sovranità: pensare con la propria testa 129 17. La questione del sangue e della responsabilità 134 18. La virtù 142 19. Eredità (conclusione) 151 Introduzione Quanti anni può durare la relazione tra padre e figlio? Certo molti, moltissimi. E anche quando il figlio è cresciuto e il padre invecchiato, quando, negli anni, tra i due si pone la distanza fisica e quella del tempo, dei pensieri, delle ideologie e delle idee, dei prodotti maturativi di ognuno, certo la relazione rimane una relazione forte. Si tratta di una strada sempre percorribile. A volte, come i casi della vita contemplano, questa relazione può essere negata, rifiutata, dimenticata, rimossa. Altre volte voluta, ricercata, fruttuosa e ricca di soddisfazioni reciproche. Quella del padre con il figlio, dunque, e quella del figlio con il padre, “rimane” la relazione più importante. Anche nell’eventuale silenzio, “continua” a segnare i due uomini, continua a cambiarli. E poi come sarebbe spiegabile che la cosiddetta “ricerca della figura paterna” duri in noi tutti, umanamente, per tutta la vita? Non è mio intento qui disquisire se sia più importante la relazione tra madre e figlio o quella tra padre e figlio. Ognuno ha la propria esperienza in merito e può rispondere da solo alla domanda. La domanda se sia più importante una relazione o l’altra mi fa sempre pensare a quel quesito irrisolvibile che una volta (spero ora sempre meno), l’estraneo di turno, fermando il passeggio di padremadre-figlio poneva al pargolo: “Ma vuoi più bene alla mamma o al papà?” ed è ovvio che qui dobbiamo stendere il più pietoso dei veli sulla stupidità umana nel momento in cui si rivolge una domanda così “irrispondibile” ad un bambino al quale non basterà 7 tutta la vita per rispondere. E con questo non vorrei dire altro sul tema se è più importante il papà o la mamma. Padre e madre lasciano “segni”, a volte indelebili, a volte digeribili, a volte correggibili, a volte risolutori… “segni” in ogni caso vitali. Senza paura, perché la relazione con il figlio, se deve avere un codice e una regola, è quella di bandire, per quanto possibile, la paura, la paura di sbagliare, la paura di fare “danni”, la paura di offendere, la paura di non essere perdonati, la paura del senso di colpa, la paura appunto che i “segni” diventino ferite. Potrei qui rimandare al “classico” di Caroline Thompson, Genitori che amano troppo (e figli che non riescono a crescere) il cui leitmotiv è per l’appunto la vera sostanza dell’amore genitoriale (ricordo che il titolo francese è La violence de l’amour), di come questo amore possa essere confuso con la dipendenza, di come questo “troppo” non nasconda che paura di dire di “no”, paura di separazione, paura dei genitori di essere abbandonati dal giudizio dei figli e dunque l’eccesso, il “troppo”. Ma torneremo più avanti su questo testo e sui suoi temi portanti. Si diceva dei segni. A mio modo di vedere è importante capire come questi segni evidenti non siano solo opera di padre e madre sul figlio, ma anche viceversa. I figli vengono “segnati” ma anche “segnano”, e come segnano! Cambia il figlio nella relazione, ma cambiano padre e madre vivendo, o anche separandosi, dalle loro “creature”, incidono i figli, a volte determinano la vita dei loro genitori, anche se non è intento di questo lavoro parlare del rapporto “genitori/figli”, bensì del rapporto umano diretto e indiretto che il padre (lo ha anche la madre) conserva nei confronti del figlio, e il figlio nei confronti del padre. Del rapporto tra soggetti di diritto, di soggetti che strutturano la loro persona nella “vicinanza” (di corpo e pensiero) l’uno con l’altro. Tanto per capirci l’intento di questo lavoro è quello di provare a vedere, in svariate sfaccettature, il rapporto tra uomini, che nella fattispecie si chiamano “padre e figlio”. Per questo il mio desiderio è quello di vedere all’interno della “relazione” figlio/padre il cam8 po del cambiamento, il campo della influenza reciproca, dell’imparare reciproco, del passaggio continuo, della chiusura dolorosa, della noia stagnante, del percorso di crescita. Quando si dice che i figli sono un dono si intende che permettono a padre e madre di “rivedere” la loro vita in quella dei figli e, se dotati di buona volontà, correggersi. I nostri figli ci danno l’occasione di vivere noi stessi una seconda volta: questo è il dono che portano, un dono non da poco. Poi, in che cosa consista il dono che padre e madre fanno ai loro figli, è materia dell’intero percorso di questo libro. La relazione del figlio con il padre pone sostanzialmente due questioni. La prima è quella del passaggio di un capitale (se ne vedranno in seguito le caratteristiche) dal padre al figlio. La seconda è quella della strutturazione da parte del figlio di un buon pensiero di sé, di un pensiero di diritto, la cui meta è la soddisfazione. Ecco, per dire in due parole il contenuto di questo libro: qui si parlerà della relazione tra due soggetti (non tanto della relazione “genitore/figlio”) nella logica della trasmissione di un sapere e di un valore (da parte del padre) e della maturazione (da parte del figlio) di un pensiero fiduciario su se stesso, un pensiero produttivo, che egli ha avuto come “insegnamento” dal padre, il quale insegnamento gli permetterà di farsi una propria strada verso la soddisfazione, la cui assenza, come ben si sa, comporta il disagio psichico. Una breve parentesi: mi sono accorto scrivendo le riflessioni contenute in questo libro, di come questi parametri relazionali tra padre e figlio io li abbia presi come l’optimum del funzionamento, il massimo di quanto si potrebbe tirare fuori da un rapporto. Tuttavia sappiamo che un conto sono le parole (scritte in questo caso) e un altro conto è la realtà, dove l’optimum è inesistente, dove l’errore è sempre dietro l’angolo che aspetta, dove la tensione di fare bene a volte procura danni. 9 In questo senso allora questo non è un libro in cui si danno consigli o vademecum: si dice solamente come potrebbe essere il “dover essere” della questione, come le cose dovrebbero funzionare, come sarebbe bello se funzionassero così. Nulla di più. E questo, lo riconosco fin d’ora, è il limite di questo lavoro. Perché ognuno di noi sa ovviamente che la realtà quotidiana è altra cosa rispetto alle parole: ognuno si regola sulla propria debolezza (e forza), sulla propria mancanza (e presenza) e anche sulla scarsezza (e abbondanza) della propria volontà, ognuno si regola sui propri atti (di figlio e di padre). Detto questo, il padre, in primis, è quel soggetto che presta attenzione all’evoluzione del pensiero del proprio figlio. Salute dunque, nella relazione, significa rispetto reciproco prima di tutto del pensiero dell’altro, valutazione della diversità dell’altro, accettazione della diversità del bene dell’altro, reciprocità, disponibilità alla rinuncia, messa in atto del desiderio di “fare” il bene dell’altro, etc. Ovvero la salute della relazione figlio/a e padre è quella sperimentata nelle “regole” del rapporto, in quelle che sarebbero le regole di qualsiasi rapporto. Il rapporto con il padre, per il figlio, è la cifra del suo rapporto con il mondo. Questo libro intende soffermarsi sul pensiero di figlio, ossia figlio/a che pensa a se stesso in quanto soggetto di diritto, diritto ad avere una propria soddisfazione in base a come è stato pensato dal padre e a come si è “sentito” pensato dal padre. Realtà oggettiva e soggettiva. Allora salute della relazione e diritto alla soddisfazione diverranno le due corsie di una unica strada attraverso le quali il discorso cercherà di svilupparsi. Una brevissima nota di carattere storico-sociale. Se il padre è stato per tempo imputato di scarsa presenza, negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, lo è stato più per quello che non ha fatto piuttosto che per quello che ha fatto. Per quello che ha taciuto piuttosto che per quello che ha detto. Se il padre è stato 10 assente non è perché come Ulisse è andato a combattere una guerra, o in cerca della conoscenza, ma perché non ha voluto misurarsi nei rapporti, a partire da quello con la donna, a seguire quello con il figlio. Senza volere per forza generalizzare. Di questa duplice “assenza” di rapporto, la soddisfazione è la prima a soffrirne: se il padre non si “butta” a vivere con il corpo le relazioni con le persone che gli sono più vicine (donna e figlio), deroga o proroga il suo principale compito, che è quello di indicare al figlio dove sta la soddisfazione del rapporto. Essere figlio ed essere padre alla fine significa essere se stessi. Realtà della pratica non facile ma neppure impossibile. 11 1. Figlio e soddisfazione E dunque partendo dalla soddisfazione, la domanda prima è: da dove può imparare un figlio a stare al mondo? Da dove può imparare un figlio a trarre dal mondo la soddisfazione che in questo mondo gli è consentita? Gli è dovuta? Perché senza la soddisfazione è assai difficile “procedere” nel percorso, nella strada. È assai difficile conservarsi in salute in questo mondo. Noia e angoscia sono sempre dietro l’angolo se la bussola della soddisfazione si appanna. E allora la domanda del figlio al padre si fa più che lecita: “Insegnami a stare al mondo, e nel mondo a provare la soddisfazione a cui ho diritto”. Se voglio salvarmi. Ma che cosa è poi la soddisfazione? Io penso che la soddisfazione sia tante esperienze e tanti pensieri messi assieme, ma che fondamentalmente si riduca ad un atto: quello di dare senso alla propria esistenza. Da parte del figlio è l’atto di pensare che quello che sta facendo… piace, piace a qualcuno. Magari a qualcuno più grande di lui (leggasi “padre”) ma soprattutto che piace a se stesso, in piena (o limitata) autonomia di giudizio. È dire a lui stesso che le cose fatte… vanno bene, che certo ce ne sono di sbagliate, ma certo correggibili. Se ne potrebbero anche fare di migliori, ma intanto queste…vanno bene. E dalla parte del padre lo stesso: il pensiero che il suo essere al mondo stia dando soddisfazione a qualcun altro, al proprio figlio 13 nonché a tanti altri figli che sono i figli del mondo. Che l’essere al mondo del padre abbia senso non perché ha un figlio, ma perché egli è un padre, soggetto primo del discorso della soddisfazione. Non dimentichiamo che il figlio prova soddisfazione se si pensa un soggetto capace di darne agli altri e meritevole che gli altri a lui la diano. La soddisfazione è trovare un senso nelle proprie azioni a favore dell’altro e nelle azioni (nel nostro caso quelle del padre) che l’altro destina a noi. Senso significa che si sta andando da qualche parte, per l’appunto che si “procede” un giorno dopo l’altro, verso “un” qualche cosa di diverso dall’oggi, a volte auspicabilmente migliore, ma anche non auspicabilmente peggiore. Alla realtà ci si adatta, non ci si oppone. Tra padre e figlio c’è sempre rapporto, un rapporto particolare, ma non diverso da quello che intercorre tra “soggetto” e “altro”, ovvero tra due persone qualsiasi prese nel mondo reale, siano esse amici, parenti, soci, coinquilini o correligionari. Rapporto è rispetto, accettazione della diversità dell’altro, giusta rinuncia, capacità di compromesso, insomma tutte le “regole” che fanno funzionare il mondo: queste regole relazionali trovano la loro “culla”, se così si può dire, nel rapporto tra figlio e padre. Vita è accettazione della soddisfazione (e soprattutto il lavoro per cercarla), ma è anche accettazione della frustrazione e della mancanza. Ascoltando molti figli e padri mi sono fatto il pensiero che la grande “lezione” che il padre può dare al figlio è quella della ricerca della soddisfazione e della sopportazione del dolore. Dolore come atto non del castigo ma della inevitabilità, della maturazione, della crescita. Poi il dolore è dolore, e non ci sono tanti discorsi da fare. Anche questo il padre insegna. E il figlio allora da dove impara questo “atto”? Da dove impara a prendere e dare soddisfazione? Da dove impara a sopportare il dolore? 14 Io penso che lo impari dal padre: il figlio “prende” e “apprende” dal padre, proprio come si dice… “ha preso da suo padre”, se è alto, ha i capelli neri o la fossetta sul mento. A vedere il padre soddisfatto è molto probabile che il figlio poi ci assomigli, come a vederne uno malinconico o ansioso è altrettanto facile, per lui figlio, seguirne le orme. Certo, lo stesso può avvenire nel rapporto con la madre. Si intenda allora che molti padri fanno da “mamma” ai loro figli e molte madri fanno da “padre”. Non è qui la distinzione di sesso tra i genitori che interessa, ma è il rapporto preciso che il figlio ha con uno dei genitori: il padre. La madre è sempre presente (se è presente) in questo percorso. Come se il padre è assente, diremo della sua assenza e magari della sua sostituzione da parte della madre. Se il figlio vede che il padre riesce a dare un senso, e anche un ordine, alla propria vita, capisce che lo può fare anche lui per la sua. Il padre è quello che “ apre” una strada. Lui padre ha aperto la sua, sta a me figlio, aprire la mia non certo per imitazione o scimmiottamento, ma per attivazione di libero pensiero. E su questo libero pensiero ovviamente torneremo più avanti. Teniamo presente noi genitori, per il momento, che questo libero pensiero non è una acquisizione tanto tarda nei nostri figli, anzi; se noi, padri e madri, osserviamo bene, ne troviamo traccia fin dalla prima infanzia. Riassumendo quanto finora visto: il padre soddisfatto è un padre che lascia continuamente (da vivo) una buona eredità al figlio, lo indirizza verso un mondo che chiede di essere riempito di senso. Sta alla intelligenza del figlio “aguzzare la vista” sul proprio padre, metterne in risalto le forme produttive di soddisfazione e di “abbassare lo sguardo” sugli inevitabili errori, sulle mancanze, sulle ovvie innumerevoli cadute. Le mancanze del padre certo possono essere dolore per il figlio, ma anche a questo egli si deve adattare. 15 2. Lavoro e amore Due sono i punti di appoggio attraverso i quali una persona può mantenersi sana. Questi due appoggi erano già stati individuati da Freud nel suo Inibizione, sintomo e angoscia, ma credo che nei secoli precedenti nessun soggetto, pensante in proprio, avesse avuto dubbi in merito: lavoro e amore. Lavoro e amore sono le “condizioni” (condicio sine qua non) la salute è possibile. E da qui il proposito di questo studio: vedere, se possibile, come il lavoro e l’amore possano essere garanzia della salute psichica, e dunque della salute tout court, come prodotti dal rapporto tra figlio e padre. Allora vediamo che il padre è prima di tutto il soggetto che non deve fare soffrire il proprio figlio, e lo farebbe se non gli indicasse, quanto prima possibile, i termini del discorso della soddisfazione e della salute: ovvero avere un lavoro e avere una donna. Questi pilastri della salute (il giusto amore e la giusta legge del lavoro) è il padre che li presenta al figlio, li offre poi come indicazione. Ma come avviene il passaggio? Come il padre “trasmette”? Come “insegna”? Come “tramanda” il padre la regola per la salute? In un unico modo: vivendola. Il padre dovrebbe essere tale in quanto uomo soddisfatto da lavoro e amore, che il figlio può vedere davanti a sé. Sottolineo il concetto di “vedere” in quanto il padre non può nascondersi in questioni così basilari davanti agli occhi del figlio. Proprio nel senso che “l’occhio vuole la sua parte”. 16 Il padre si lascerà vedere gaudente della sua realtà soddisfacente, o dolorante della sua situazione penosa dagli occhi del figlio: non nasconderà in ogni caso se stesso e solo in questo modo “trasmetterà, insegnerà, tramanderà” il senso della vita, il tentativo della sua vita (più o meno riuscito) verso la soddisfazione. Il padre che è se stesso è il padre che non (si) nasconde. Poi se il figlio, da questa visione, da tutto il “buono” che il padre gli fa vedere e sentire, non saprà trarre beneficio o salute… sono, come si dice, problemi suoi. E questo pensiero (ovvero: “sono problemi suoi”) non è una tentazione di noi genitori quando avvertiamo che qualcosa non funziona nei nostri figli, non è lo scaricare, ma è un dato di realtà che recita semplicemente che “ognuno fa la sua parte” (e sulla responsabilità del figlio sul proprio agire si dirà diffusamente più avanti). Il padre è un indicatore della salute, non un costrittore. I figli costretti infatti sono i maggiori ritardatari nel ritagliarsi il loro campo di soddisfazione. I padri che costringono sono i peggiori frustrati e sgusciano via dalla vita per non farsi vedere deboli o mancanti. Ma vedremo più avanti che il padre “forte” sarà soprattutto quello che ha il coraggio di farsi vedere “debole” dal figlio. Il padre non deve “fare vedere” niente, si lascia semplicemente vedere dal figlio. Se il padre dice “ti faccio vedere” non vuol dire “te la faccio vedere io” (cioè la mia realtà, il mio modo di risolvere i problemi, il mio stile di vita che tu figlio dovresti imitare) ma vuol dire invece “io mi metto davanti agli occhi tuoi in modo che tu pensi”. Ovviamente in modo che tu pensi alla soddisfazione. Ti faccio vedere come si fa non per insegnarti come si fa a scuola, ma nel senso… come avviene nella vita, come si fa a pensare alla propria soddisfazione. Il padre, in sostanza, offre la possibilità al figlio, non lo lega alla sedia perché impari per forza. In breve: dall’amore e dal lavoro il padre trae gli strumenti del proprio insegnamento. Fa vedere questi strumenti al figlio. Il figlio 17 non li può usare “subito”, e dunque sta al padre tenere viva l’attesa. L’attesa, per il figlio, può anche essere una “passione” che dura molto tempo. 18