Sentenza del Tribunale di Trento del 25 maggio 2010

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Sentenza del Tribunale di Trento del 25 maggio 2010
REPUBBLICA ITALIANA
TRIBUNALE DI TRENTO
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
il dott. Giorgio Flaim, quale giudice del lavoro, ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa per controversia in materia di lavoro promossa con ricorso depositato in
data 26.8.2009
d a
F. N.
rappresentata e difesa dall’avv. N. C. ed elettivamente domiciliata presso lo studio
dell’avv. A. d. B in …
ricorrente
c o n t r o
G. s.p.a.
rappresentata e difesa dagli avv.ti P. F., S. Z. e G. M. ed elettivamente domiciliata
presso lo studio di quest’ultimo, in …
convenuto
CONCLUSIONI DI PARTE RICORRENTE
“In via principale di merito:
accertare come nel periodo di assenza dello store manager G. - durato
indicativamente da settembre 2007 all'aprile 2008 - la signora F., vice responsabile
del negozio III livello del CCNL, abbia in realtà svolto l'attività di responsabile del
punto vendita G. sito in Trento e, di conseguenza, condannare la società G.s.p.a., in
persona del legale rappresentante pro tempore, a versare alla stessa le differenze
retributive, contributive e previdenziali, oltre interessi e rivalutazione dal dovuto al
saldo, di cui alla qualifica contrattuale II livello del CCNL applicabile;
accertare come dall'aprile 2008 la signora F. sia stata oggetto di demansionamento
e condannare la società G. s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore,
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al risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non, subiti dalla stessa, nella misura
che emergerà in corso di causa, oltre interessi e rivalutazione dal dovuto al saldo,
oltre alla reintegra della stessa nelle funzioni contrattualmente previste come
esercitate prima del demansionamento;
accertare come sin dal momento di assunzione la signora F. sia stata vittima di
numerose, ripetute e continue condotte vessatorie volte ad emarginarla nel contesto
lavorativo nonché a lederne la dignità e, per l'effetto, condannare la società G.
s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, al risarcimento di tutti i
danni, patrimoniali e non, subiti dalla ricorrente, nella misura che emergerà in
corso di causa, oltre interessi e rivalutazione dal dovuto al saldo;
annullare/revocare la sanzione disciplinare di cui alla lettera del 1° dicembre 2008
in quanto illegittima e pretestuosa.
In ogni caso:
condannare la società G. s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore,
alla rifusione delle spese del presente giudizio ed oneri di legge.”
CONCLUSIONI DI PARTE CONVENUTA:
“Nel merito:
accertato e dichiarato il corretto inquadramento della ricorrente durante il periodo
da settembre 2007 ad ottobre 2008, rigettare le domande attoree tutte in quanto in
fatto e in diritto infondate;
con vittoria di spese, diritti ed onorari di lite”.
PREMESSA
Il ricorso risulta depositato in data 26.8.2009.
Trova quindi applicazione la novella dell’art. 429 co.1 cod.proc.civ. introdotta
dall’art. 53 co.2 D.L. 25.6.2008, n. 112, conv. con L. 6.8.2008, secondo cui
“nell'udienza il giudice, esaurita la discussione orale e udite le conclusioni delle
parti, pronuncia sentenza con cui definisce il giudizio dando lettura del dispositivo e
della esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione”, mentre solo “in
caso di particolare complessità della controversia” (certamente non ricorrente nella
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fattispecie in esame) “il giudice fissa nel dispositivo un termine, non superiore a
sessanta giorni, per il deposito della sentenza”;
infatti l’art. 56 D.L. 112/2008 prescrive che il novellato 429 cod. proc. Civ. “si
applica ai giudizi instaurati dalla data della sua entrata in vigore” ossia, alla luce del
disposto ex art. 86 D.L. cit., a decorrere dal 25 giugno 2008.
Secondi i primi commenti dottrinali il modello di sentenza delineato dal nuovo art.
429 co.1 cod.proc.civ. è riconducibile a quello descritto dall’art. 281-sexies
cod.proc.civ., il quale dispone che “il giudice, fatte precisare le conclusioni, può
ordinare la discussione orale della causa nella stessa udienza o, su istanza di parte,
in un’udienza successiva e pronunciare sentenza al termine della discussione, dando
lettura del dispositivo e della concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto
della decisione.
In tal caso, la sentenza si intende pubblicata con la sottoscrizione da parte del
giudice del verbale che la contiene ed è immediatamente depositata in cancelleria”.
Sotto il profilo del contenuto la sentenza ex art. 281-sexies cod.proc.civ. si differenzia
dal paradigma ordinario ex art. 132 c.p.c. per il fatto che il giudice, in luogo della
“concisa esposizione dello svolgimento del processo e dei motivi in fatto e in diritto
della decisione”, deve procedere alla “concisa esposizione delle ragioni di fatto e di
diritto della decisione”;
ne consegue che la presente sentenza non conterrà alcuna descrizione dello
svolgimento del processo.
Ma vi è di più:
l’obbligo di immediata lettura comporta necessariamente che la motivazione possa (e
debba) contenere unicamente gli elementi indispensabili al fine di non cadere nel
vizio di omessa o insufficiente motivazione, ricorrente, secondo gli insegnamenti
della Suprema Corte (Cass. 3.11.2005, n. 21302; Cass.31.3.2000, n. 3928;), quando le
argomentazioni del giudice non consentano di ripercorrere l'iter logico, che lo ha
indotto, sulla base degli elementi acquisiti, al suo convincimento, o esibiscano al loro
interno un insanabile contrasto ovvero quando nel ragionamento sviluppato nella
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sentenza sia mancato l'esame di punti decisivi della controversia e/o di elementi che
potrebbero condurre ad una diversa decisione.
Il perseguimento dell’obiettivo, imposto al giudice del lavoro dalla novella dell’art.
429 co.1 c.p.c. di redigere una sentenza priva di elementi non essenziali ai fini della
decisione, appare agevolato dal principio, consolidato nella giurisprudenza della
Suprema Corte (Cass. 21302/2005 cit.; Cass. 28.10.2003, n. 16162; Cass. 4.6.2003, n.
8898; Cass. 4.1.2002, n. 46; Cass. 29.11.1999, n. 13342;), secondo cui, per poter
considerare la motivazione adottata dal giudice di merito adeguata e sufficiente, non è
necessario che nella stessa vengano prese in esame (al fine di confutarle o
condividerle) tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice
indichi le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in questo caso ritenere
implicitamente rigettate tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse.
MOTIVAZIONE
in ordine allo svolgimento delle mansioni superiori di II livello nel periodo
settembre 2007-aprile 2008
La ricorrente allega che nel periodo di assenza dello store manager G. T. (5.9.200714.4.2008) ha svolto “di fatto l’attività di responsabile del negozio curandone
l'attività in maniera del tutto autonoma, fatta eccezione per alcuni sporadici
interventi della consulente visual, e svolgendo funzioni di controllo e coordinamento
sulle altre dipendenti” ed in particolare le “attività in genere riservate al G. come, ad
esempio, preparare il foglio presenze delle dipendenti da inviare allo studio B., che
predisponeva le buste paga, … (ed) inviare alla consulente visual i dati settimanali
del negozio”;
ciò nonostante aveva continuato a percepire anche in detto periodo la retribuzione
prevista per il III livello (solo da novembre 2007 le era stata corrisposta, peraltro al
pari della collega L., l’indennità di cassa), anziché quella attribuita per il II livello,
cui, a suo dire, erano riconducibili le mansioni di responsabile del negozio.
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Secondo il consolidato orientamento della Suprema Corte (ex multis, anche di
recente, Cass. 9.3.2004, n.4791; Cass. 20.2.2004, n.3446; Cass. 19.2.2004, n.3443;
Cass. 19.2.2004, n.3271; Cass. 12.2.2004, n.2731; Cass. 5.2.2004, n.2164; Cass.
21.10.2003, n.15751; Cass. 26.3.2003, n.4508; Cass. 22.11.2001, n.14806;
Cass.20.11.2000, n.14981; Cass.20.11.2000, n.14973; Cass.26.7.2000, n.9822;
Cass.21.7.2000, n.9614;) la determinazione, da parte del giudice di merito,
dell’inquadramento dovuto al lavoratore postula:
A)
l’individuazione dei criteri generali ed astratti caratteristici delle singole
categorie o qualifiche alla stregua della disciplina del rapporto,
B)
l’accertamento delle mansioni effettivamente svolte,
C)
la comparazione di dette mansioni con le previsioni della disciplina del
rapporto.
ad A)
L’art. 97 CCNL 2.7.2004 per i dipendenti da aziende del Terziario, della
Distribuzione e dei Servizi (che pacificamente disciplinava il rapporto di lavoro della
ricorrente) dispone:
“Secondo livello: appartengono a questo livello i lavoratori di concetto che svolgono
compiti operativamente autonomi e/o con funzioni di coordinamento e controllo
nonché il personale che esplica le proprie attività con carattere di creatività
nell'ambito di una specifica professionalità tecnica e/o scientifica e cioè:… capo di
reparto o settore anche se non addetto ad operazioni di vendita…
Terzo livello: a questo livello appartengono i lavoratori che svolgono mansioni di
concetto o prevalentemente tali che comportino particolari conoscenze tecniche ed
adeguata esperienza, e i lavoratori specializzati provetti che, in condizioni di
autonomia operativa nell'ambito delle proprie mansioni, svolgono lavori che
comportano una specifica ed adeguata capacità professionale acquisita mediante
approfondita preparazione teorica e tecnico- pratica conseguita, e cioè… 16.
commesso specializzato provetto…”.
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In riferimento all’attività di impresa esercitata dalla società convenuta presso il punto
vendita di Trento gli elementi distintivi del II livello rispetto al III livello possono
essere individuati nella condizione di maggiore autonomia e correlativamente di
maggiore
responsabilità,
comportante
eventualmente
anche
funzioni
di
coordinamento e di controllo;
lo si evince anche dal raffronto tra le due figure più agevolmente riconducibili
all’attività di vendita al pubblico, quello del “capo di reparto o settore” e quella del
“commesso specializzato provetto”, dove la prima si caratterizza rispetto alla seconda
per l’assunzione della responsabilità di una distinta struttura organizzativa;
d’altronde la società convenuta non contesta che nella propria azienda i responsabili
dei punti vendita sono di regola inquadrati nel II livello (come è avvenuto per lo store
manager di Trento Gualtiero Tommaso).
a B)
Appare incontestato (ed ammesso dal procuratore speciale della società convenuta in
sede di interrogatorio libero) che nel periodo, in cui rimase assente dal lavoro, il
responsabile del punto vendita di Trento G. non venne sostituito.
Inoltre la stessa convenuta ammette (pag. 9 punto 3) che la ricorrente, la quale in via
ordinaria ricopriva il ruolo di vice store manager, svolse durante l’assenza di G.
alcune mansioni solitamente a lui riservate quali “rilevare le presenze presso il
negozio e di trasmetterne i dati allo studio paghe e contabilità dell'azienda” e
“comunicare periodicamente i dati dell'andamento delle vendite al retail supporter
(B.) che seguiva il negozio”.
a C)
La società convenuta sostiene che la ricorrente “si rapportava… con la retail
supporter di G. proprio non avendo tutte le prerogative dello store manager”;
inoltre afferma il carattere non prevalente delle mansioni esercitate dalla ricorrente in
supplenza dello store manager G. in quanto “svolte occasionalmente solo se richieste
o in coincidenza con le eventuali scadenze (fine mese)”.
Tali assunti non possono essere condivisi
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Come si è già visto, nessuno sostituì lo store manager G. nel periodo della sua
assenza; è, quindi, agevole desumere che la responsabilità della gestione del punto
vendita ricadde sulla ricorrente quale vice store manager.
La circostanza – addotta dalla società convenuta al fine di escludere che la ricorrente
abbia svolto il ruolo di store manager con le stesse modalità di G., ossia che in quel
periodo la retail supporter si occupò maggiormente rispetto al passato del punto
vendita di Trento – non ha trovato conferma nell’istruttoria svolta:
il teste L. C. ha dichiarato: “Nel periodo precedente l'assenza di G. il retail supporter,
all’epoca B., veniva in negozio una o due volte al mese. Durante il periodo di assenza
di G., a parte un primo periodo di circa un mese, un mese e mezzo, le visite del retail
supporter hanno avuto la stessa periodicità”;
il teste V. L., la cui assunzione risale al 10.2.2008, ha dichiarato addirittura che “fino
al rientro di G. (14.4.2008) escludo che il retail supporter sia venuto in negozio”;
infine i testi escussi su richiesta della società convenuta non sono stati in grado di
riferire alcunché in proposito.
Quanto poi al carattere occasionale, con cui la ricorrente avrebbe svolto le mansioni
proprie dello store manager (rilevare le presenze presso il negozio e trasmettere i dati
allo studio paghe e contabilità dell'azienda nonché comunicare periodicamente i dati
dell'andamento delle vendite al retail supporter) – appare sufficiente evidenziare che
tali mansioni vennero espletate dalla ricorrente, stante l’assenza dello store manager,
tutte le volte in cui se ne presentò la necessità.
Nelle note finali autorizzate la società convenuta invoca l’orientamento
giurisprudenziale, secondo cui la sostituzione di un dipendente di grado superiore ad
opera di un dipendente di grado inferiore non implica esercizio di mansioni superiori
da parte del sostituto, agli effetti previsti dall’art. 2103 cod.civ. quando tale
sostituzione rientra nelle mansioni vicarie proprie del dipendente inferiore;
tuttavia il richiamo non appare conferente al caso in esame dato che la declaratoria
contrattuale non ricomprende tra le mansioni di III livello l’esercizio vicario delle
mansioni di livello superiore.
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In definitiva deve essere dichiarato che la ricorrente ha svolto nel periodo di assenza
dello store manager G. T. (5.9.2007-14.4.2008) mansioni riconducibili al II livello;
ne consegue il diritto della ricorrente alla corresponsione della differenza, maturata a
far data dal 5.9.2007 al 14.4.2008, tra il trattamento retributivo previsto dal citato
CCNL per il II livello e quello previsto dal medesimo CCNL per il III livello, con le
maggiorazioni ex art.429 co.3 cod.proc.civ. (con gli interessi legali dovuti sul capitale
via via rivalutato ogni fine anno secondo quanto stabilito in Cass. S.U. 29.1.2001,
n.38), norma “risuscitata” dalla dichiarazione di illegittimità costituzione dell’art. 22
co.36 L.23.12.1994, n.724 (Corte Cost.2.11.2000, n.459;).
Trattandosi di credito agevolmente determinabile, non appare necessario procedere a
c.t.u. ai fini della sua quantificazione.
in ordine al mobbing di cui la ricorrente sarebbe rimasta vittima “sin dal momento
dell’assunzione” ed al demansionamento che avrebbe subito a far data dal rientro
al lavoro dello store manager G. (14aprile 2008)
La ricorrente allega di essere stata oggetto di condotte vessatorie poste in essere dallo
store manager G. già durante il periodo di prova (12.6.-12.8.2007), quando in sua
assenza era stata criticata per essersi allontanata per un’indisposizione ed in un’altra
occasione le era stato negato un aiuto per collocare in magazzino un notevole
quantitativo di merce, ed anche dopo il rientro al lavoro di G. dalla malattia
(14.4.2008) quando lo store manager:
1) aveva consigliato la dipendente V. a “non seguire la condotta lavorativa tenuta
dalla F. e dall’altra collega L.”;
2) aveva accusato la ricorrente di “furto” davanti ad altre colleghe;
3) aveva ordinato alla ricorrente, “dinanzi a colleghe e clienti”, di non servire una
cliente di sua conoscenza e di recarsi in magazzino;
4) aveva tacciato la ricorrente con l’epiteto di “vigliacca” in occasione dell’assenza
per malattia nell’ottobre 2008;
5) aveva dato impulso al procedimento disciplinare a seguito della discussione
intervenuta con la ricorrente il giorno 31 ottobre 2008;
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6) l’aveva “spogliata delle proprie competenze e mansioni”.
A quest’ultimo proposito afferma che per lei “con il ritorno del G. iniziava…un vero
e proprio periodo di demansionamento in quanto… veniva spogliata delle proprie
competenze e mansioni…in particolare:
a) non aveva più la possibilità di aprire e chiudere il negozio;
b) non aveva più accesso al pc – anch’esso dotato di password che non le veniva
comunicata – vedendosi così preclusa la possibilità di monitorare le attività do
vendita delle altre dipendenti;
c) non curava più le attività di vendita i clienti;
d) non si occupava più dell’incasso delle somme ed il solo aprire la cassa le veniva
praticamente precluso;
e) non predisponeva più gli orari di lavoro delle altre dipendenti;
f) non svolgeva più attività direttiva nei confronti delle altre dipendenti, ma anzi
subiva direttive da dipendenti certamente subordinate, coma dalla Turrina;
g) non curava più l'allestimento delle vetrine;
h) non intratteneva più direttamente i rapporti con la sede amministrativa di G.
s.p.a.;
i) non si recava più presso gli istituti di credito ove era abilitata a firmare in nome
e per conto della società;
j) non si recava più alla camera di commercio;”
afferma che “la maggior parte di tali attività (le) venivano infatti precluse ed affidate
alla dipendente Tania T. nonostante quest'ultima avesse una qualifica inferiore;
(le) veniva invece prevalentemente affidata l'attività di magazzino…e l’attività di
pulizia delle vetrine e del negozio”.
Sostiene che, sebbene le condotte vessatorie siano state poste in essere principalmente
da G., ne porta responsabilità, ai sensi degli artt. 2087 e 2049 cod.civ., anche la
società datrice, la quale sarebbe stata “informata in più occasioni di come lo store
manager stesse gestendo il personale”.
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Al fine di comprendere in modo compiuto la vicenda in esame occorre evidenziare
che fin dall’epoca della sua assunzione la ricorrente ebbe rapporti difficili con il
proprio superiore G.;
in proposito nel ricorso vengono allegati (cap.3-10) alcuni episodi assertamente
accaduti durante il periodo di prova (12.6-12.8.2007), nei quali lo store manager
avrebbe manifestato la propria ostilità nei confronti della ricorrente.
Ciò nonostante, la ricorrente superò il periodo di prova.
Di lì a poco (5.9.2007) G. si assentò dal lavoro fino al 14.4.2007;
in tale periodo la ricorrente svolse le proprie prestazioni con genuino entusiasmo
(come si evince dalle comunicazioni prodotte sub doc. 5) e con ampia soddisfazione
da parte della società convenuta (come risulta dalla comunicazione della retail
manager B. prodotta dalla ricorrente sub 5 e dal riconoscimento di un premio di €
350,00 nel mese di gennaio, di cui al doc..6).
In prossimità del rientro dello store manager riemersero i problemi relazionali tra
questi e (soprattutto) la ricorrente.
In data 4.4.2008 le cinque addette al negozio chiesero alla società convenuta “un
incontro urgente per chiarire… alcuni aspetti salienti riguardanti la gestione …
evitare nuove tensioni e malumori all'interno del negozio”;
in data 8.4.2008 (quindi prima del rientro di G. avvenuto il successivo15.4.) vi fu un
incontro presso il punto vendita di Trento con l’allora retail supporter S., la quale ha
dichiarato in proposito: “Al primo incontro non partecipò lo store manager, ma
solamente le altre addette. Nell’occasione, per bocca soprattutto della ricorrente e di
C. L, mi vennero riferite le difficoltà di relazione che, a loro dire, vi erano tra G. e
F. nonché L.. Io mi limitai ad ascoltare”;
pochi giorni dopo il rientro di G. vi fu, in data 23.4.2008 un nuovo incontro presso il
punto vendita di Trento con la retail supporter S., la quale ha dichiarato in proposito:
“Nel corso dell'incontro del 23 aprile, al quale partecipò anche G., la ricorrente
espresse l'opinione che G. non svolgeva in modo adeguato le mansioni di store
manager e non dimostrava di essere responsabile circa l'andamento del negozio.
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Secondo la ricorrente G. non era all'altezza del suo ruolo. G. replicò di aver fatto
tutto quanto era nelle sue possibilità, pur mostrandosi seccato delle opinioni
espresse… In via eccezionale, dato che solitamente il retail supporter si relaziona
esclusivamente con il responsabile del negozio, io diedi la mia disponibilità alla
ricorrente di ricevere eventuali sue comunicazioni telefoniche in ordine a quanto
sarebbe accaduto presso il punto vendita. Espressi tale disponibilità alla ricorrente
in presenza di G.… Venni chiamata nell'intervallo tra il secondo il terzo incontro
dalla ricorrente mi pare un paio di volte. In tali due comunicazioni la ricorrente mi
riferiva di mancanze, di cui, a suo dire, si era reso responsabile G., quale ad
esempio l'assenza prolungata dal negozio. La ricorrente si lamentò anche del fatto
che alcuni compiti che aveva svolto durante il periodo di assenza del G. ora venivano
espletati dal G.…”;
successivamente in data 12.5.2008 S. ed il nuovo retail supporter P. incontrarono
nuovamente la ricorrente e G.; in proposito Svetlic ha dichiarato: “…in realtà non si
trattò di un incontro aperto a tutti gli addetti al negozio, ma io e P. C., il quale era
subentrato a me nelle mansioni di retail supporter per la zona in cui era ubicato il
punto vendita di Trento, parlammo in separata sede al di fuori del negozio prima con
G., poi con F.. La ricorrente chiedeva che il G. venisse trasferito o licenziato,
ribadendo che non lo considerava all'altezza del compito; diceva anche che non
sarebbe riuscito a lavorare assieme a G.. G. ci espresse la preoccupazione di non
riuscire a garantire dei buoni risultati del punto vendita dato che la F. gli era ostile,
avendo anche un ascendente nei confronti delle altre addette. Invitammo entrambi a
collaborare; facendo presente alla ricorrente che, essendo rientrato il direttore,
doveva tener conto della nuova situazione…”;
sempre in riferimento ai contatti del 12..5.2008 P. C. ha dichiarato: “Ero al corrente
delle difficoltà relazionali tra G. e la ricorrente. Ricordo che la ricorrente ci
dichiarò di non riconoscere a G. la professionalità necessaria ai fini della gestione
quale responsabile del punto vendita. Ci chiese che G. venisse trasferito o
comunque non fosse più lo store manager del punto vendita. Disse anche che
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avrebbe avuto difficoltà a collaborare con G.. G. era un po’ sulla difensiva;
richiedeva che venisse ristabilita la struttura gerarchica del punto vendita dato che
riteneva fosse disconosciuto il proprio ruolo di responsabile. Noi chiarimmo ad
entrambi quali fossero i ruoli dell'uno e dell'altro… Nel prosieguo io mi recai presso
il punto vendita periodicamente, circa ogni 15 giorni. G. e F. erano fermi sulle loro
posizioni: G. mi diceva che F. non riconosceva il suo ruolo di responsabile, mentre
F. sosteneva di essere vessata dal G. In particolare si lamentava del fatto che G.
gestiva in esclusiva gli orari e non lo faceva in modo adeguato. Io chiarivo alla
ricorrente che la gestione degli orari rientrava nella responsabilità dello store
manager; a G. raccomandavo che le sue decisioni fossero condivise dalla ricorrente.
Si trattava solo di un consiglio dato che la responsabilità era comunque sua”.
--Secondo una nozione elaborata dalla psicologia del lavoro il mobbing è definito come
una
situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente ed in costante
progresso, in cui una o più persone vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto
persecutorio, da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di
parità, con lo scopo di causare alla vittima danni di vario tipo e gravità;
più schematicamente si è ritenuto che sette siano i criteri fondamentali per
l’individuazione del fenomeno:
1) l’ambiente lavorativo
2) la frequenza
3) la durata
4) il tipo di azioni
5) il dislivello tra gli antagonisti
6) l’andamento a fasi successive
7) l’intento persecutorio.
I requisiti della ripetitività o sistematicità dei singoli atti e la loro funzionalità alla
persecuzione in danno alla persona di un lavoratore si rinvengono, pur in costanza del
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persistente silenzio del legislatore statale italiano, anche in testi più propriamente di
contenuto giuridico.
La Corte Costituzionale, nella pronuncia n. 359 del 19.12.2003 – dichiarativa
dell’illegittimità costituzionale della legge della Regione Lazio
11.7.2002, n.16
(Disposizioni per prevenire e contrastare il fenomeno del mobbing nei luoghi di
lavoro) – ha ricordato che:
“… la sociologia ha mutuato il termine mobbing da una branca dell’etologia per
designare un complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti
vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte
dei componenti del gruppo di lavoro in cui inserito o dal suo capo, caratterizzati da
un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di
escludere la vittima dal gruppo. Ciò implica l'esistenza di uno o più soggetti attivi cui
i suindicati comportamenti siano ascrivibili e di un soggetto passivo che di tali
comportamenti sia destinatario e vittima.
Per quanto concerne i soggetti attivi vengono in evidenza le condotte commissive o,
in ipotesi, omissive che possono estrinsecarsi sia in atti giuridici veri e propri sia in
semplici comportamenti materiali aventi in ogni caso, gli uni agli altri, la duplice
peculiarità di poter essere, se esaminati singolarmente, anche leciti, legittimi o
irrilevanti dal punto di vista giuridico, e tuttavia di acquisire comunque rilievo quali
elementi della complessiva condotta caratterizzata nel suo insieme dall'effetto e
talvolta, secondo alcuni, dallo scopo di persecuzione ed emarginazione.
Per quanto riguarda il soggetto passivo si pongono principalmente problemi di
individuazione e valutazione delle conseguenze dei comportamenti medesimi. Tali
conseguenze, secondo le attuali acquisizioni, possono essere di ordine diverso.
Infatti, una serie di condotte, in cui dal lato attivo si concretizza il mobbing, può
determinare: l'insorgenza del destinatario di disturbi di vario tipo ed, a volte, di
patologie psicologiche, complessivamente indicati come sindrome da stress
postraumatico; il compimento, da parte del soggetto passivo medesimo o nei suoi
confronti, di atti che portano alla cessazione del rapporto di lavoro (rispettivamente:
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dimissioni o licenziamento), anche indipendentemente dall'esistenza dei disturbi di
tipo psicologico medico, di cui si è detto sopra; l'adozione, da parte della vittima, di
altre condotte giuridicamente rilevanti, ed eventualmente illecite, come reazione alla
persecuzione ed emarginazione.”.
Nello stesso senso si è pronunciata di recente la Suprema Corte (Cass. S.U. 4.5.2004,
n. 8438; Cass. 17.9.2009, n. 20046; Cass. 17.2.2009, n. 3785; Cass. 9.9.2008, n.
22893; Cass. 9.9.2008, n. 22858; Cass. 29.5.2005, n. 19053;), secondo cui per
“mobbing” si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore
gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore
nell'ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili
che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da
cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con
effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità;
ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto,
rilevanti:
a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se
considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente
sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio;
b) l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;
c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il
pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore;
d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio.
In ordine ai criteri che il giudice deve seguire nell’accertamento dei fatti è stata
evidenziata (Cass. 22893/2008 cit.) la necessità sia di attribuire rilievo ad ogni
elemento in cui si sarebbe manifestata la condotta di mobbing, sia di formulare una
valutazione non già limitata al piano atomistico, bensì elevata al fatto nella sua
articolata complessità e nella sua strutturale unitarietà.
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La situazione conflittuale venutasi a creare presso il punto vendita G. di Trento
appare non già il frutto di una costante condotta persecutoria perpetrata dal
responsabile del negozio G., con la connivenza della società datrice, ai danni della
ricorrente al fine di una sua progressiva emarginazione, bensì la conseguenza di
un’insanabile contrasto personale tra lo stesso G. e la ricorrente.
Basti pensare che gli episodi assertamente accaduti durante il periodo di prova (12.612.8.2007), quando la ricorrente sarebbe stata criticata per essersi allontanata per
un’indisposizione ed in un’altra occasione le sarebbe stato negato un aiuto per
collocare in magazzino un notevole quantitativo di merce, non impedirono alla
società datrice di valutare positivamente il periodo di prova con conseguente
consolidamento del rapporto;
infatti è evidente che, se G. s.p.a. avesse avuto in animo di emarginare la ricorrente, le
sarebbe stato sufficiente, avvalendosi in apparenza della larga discrezionalità
riconosciuta in proposito al datore di lavoro, comunicarle il mancato superamento del
periodo di prova.
Inoltre fu sufficiente che G. si assentasse dal lavoro(a far data dal 5.9.2007) per
dissolvere ogni malessere della ricorrente, la quale già nell’ e-mail del 6.9.2007,
inviata alla retail supporter B., si esprimeva in termini entusiastici sulla sua attività
all’interno del punto vendita.
Anche le considerazioni espresse dalla ricorrente sul conto di G. ai retail supporters
S.e P. (“…la ricorrente espresse l'opinione che G. non svolgeva in modo adeguato le
mansioni di store manager e non dimostrava di essere responsabile circa
l'andamento del negozio. Secondo la ricorrente G. non era all'altezza del suo ruolo…
la ricorrente mi riferiva di mancanze, di cui, a suo dire, si era reso responsabile G.,
quale ad esempio l'assenza prolungata dal negozio…. La ricorrente chiedeva che il
G. venisse trasferito o licenziato, ribadendo che non lo considerava all'altezza del
compito; diceva anche che non sarebbe riuscito a lavorare assieme a G.…. Ricordo
che la ricorrente ci dichiarò di non riconoscere a G. la professionalità necessaria ai
fini della gestione quale responsabile del punto vendita. Ci chiese che G.venisse
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trasferito o comunque non fosse più lo store manager del punto vendita. Disse anche
che avrebbe avuto difficoltà a collaborare con G.”) – oltre che essere sintomatiche
della volontà (illegittima) di disconoscere la superiorità gerarchica dello store
manager e, quindi, dell’indisponibilità a tornare a rivestire il ruolo di vice store
manager dopo aver avuto per oltre sei mesi la responsabilità del negozio – appaiono
provenire non già da una persona che teme di essere emarginata, ma da chi intende a
tutti i costi appropriarsi del ruolo di store manager.
--Occorre ora esaminare partitamente le condotte vessatorie lamentate dalla ricorrente,
prescindendo da quelle assertamente risalenti al periodo di prova stante, come già
rilevato in sede di ammissione delle prove all’udienza del 26.11.2009, “l’evidente
soluzione di continuità”. determinata dall’attestazione del superamento del periodo di
prova e dall’espressione di encomi accompagnata anche dalla corresponsione di
premi di natura economica.
ad 1)
G. avrebbe “consigliato” alla V. di “non seguire la condotta lavorativa tenuta dalla
F. e dall’altra collega L.”;
in proposito V. ha dichiarato: “Verso fine settembre 2008 G. mi disse che avrei
dovuto seguire le sue disposizioni, mentre non avrei dovuto ascoltare quanto
dicevano F. e L. in ordine all’organizzazione del negozio. G. mi disse che eventuali
miei errori sarebbero ricaduti su F. e L.”;
anche prescindendo dal fatto che l’episodio si colloca nel periodo finale della
funzionalità del rapporto di lavoro della ricorrente (la quale a far data dal 22
settembre 2008 lavorò solamente dal 29 settembre all’8 ottobre ed il 31 ottobre, senza
poi più riprendere il lavoro) – la precisazione di G. a V. di seguire le sue disposizioni
e non quelle della ricorrente e L., costituì verosimilmente
l’espressione della
legittima rivendicazione del proprio ruolo di store manager, che, come si è visto, la
ricorrente tendeva a disconoscere.
a 2)
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La circostanza – così allegata nel ricorso introduttivo: “In occasione di un controllo
dell’addetto alla sicurezza, signor R., venivano stranamente rinvenute in cassa delle
etichette di prodotti che erano stati prelevati dalla signora F. e dalla signora L.. Ciò
veniva riferito al signor G. che, pur essendo a conoscenza della prassi aziendale,
accusava di furto – dinanzi ad altre colleghe – entrambe le dipendenti…” – è stata
smentita da L. C., la quale nella sua deposizione ha dichiarato in proposito: “Il
responsabile della sicurezza R. si presentò un giorno in negozio e nel controllare la
cassa rinvenne le etichette relative ai capi che i dipendenti avevano acquistato e non
ancora pagato…R. mi chiese spiegazioni del mancato pagamento; la ricorrente non
era presente. Io gli precisai che vie era la prassi…G. era presente in negozio. R. lo
allontanò dato che intendeva parlare privatamente. Durante il colloquio con R. ad un
certo punto sono scoppiata a piangere. Ho quindi telefonato la ricorrente, la quale
ha anticipato l'arrivo in negozio. Io me ne sono andata a casa; ho finito il turno e
non so dire cosa sia poi successo”;
la teste V. ha dichiarato: “Ero presente quando il responsabile della sicurezza venne
in negozio. Notai che parlò con F. e L. ; prima con L. e dopo con F. la quale è arrivata
dopo”;
infine nessuno degli altri testi escussi ha riferito che G. abbia accusato la ricorrente di
furto “dinanzi ad altre colleghe”.
a 3)
Anche questa circostanza – così allegata nel ricorso introduttivo: “… in un’occasione,
entrate in negozio una cliente conosciuta dalla signora F. e che questa intendeva
servire, il G. riprendeva la F. dicendole dinanzi a colleghe e clienti come la vendita
della merce non fosse compito suo ed ordinandole di andare in magazzino…” – non
ha trovato riscontri nell’istruttoria;
in particolare la teste G. ha dichiarato: “E’ vero che nella primavera 2008 mi recai
presso punto vendita G. di Trento. Preciso che la ricorrente è amica di mia nuora…
per tale motivo mi ero già recata un paio di volte presso il negozio G. prima
dell'occasione della primavera 2008. Fu per questo motivo che nell'occasione
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medesima mi venne spontaneo rivolgermi alla ricorrente una volta entrata in
negozio. La ricorrente, alla quale io chiesi informazioni circa un eventuale acquisto,
mi disse che non poteva servirmi dato che stava lavorando in magazzino. Mi disse di
essere tutta sporca ed impolverata. Nella stessa occasione notai la presenza di una
persona di sesso maschile che nelle volte precedenti non ricordo fosse in negozio.
L'uomo si trovava alla cassa; non ricordo che l'uomo abbia interloquito con noi e si
sia rivolto alla ricorrente…”;
quindi non corrisponde a verità che G. “dinanzi a colleghe e clienti” disse alla
ricorrente che l’attività di vendita ai clienti non rientrava tra i suoi compiti e le ordinò
di andare in magazzino.
a 4)
Nessuno dei testimoni escussi è stato in grado di riferir che alcunché in proposito e
quindi anche queste doglianze sono rimaste prive di riscontri.
a 5)
L’episodio del 31.10.2008 costituisce l’ennesima conferma del deterioramento dei
rapporti personali tra G.e la ricorrente.
In proposito la teste V. (l’unica che ha saputo riferire qualcosa in merito) ha
dichiarato: “Ero presente in negozio in occasione dell’ultimo giorno di lavoro della
ricorrente. Vi fu una discussione tra F. e G.. Ricordo che la signora F. disse che non
si sentiva bene e che quindi sarebbe andata a casa. G. disse che non l’avrebbe
(giustificata)”.
A prescindere dalla sua infondatezza nel merito (su cui infra ), non assume carattere
vessatorio la scelta della società convenuta di privilegiare la versione del superiore
gerarchico.
--Costituendo sia un elemento del presunto mobbing, sia il fondamento di un’autonoma
domanda di risarcimento, occorre ora accertare se “con il ritorno del G.” dalla
malattia (14.4.2008) la ricorrente sia stata vittima di “un vero e proprio periodo di
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demansionamento in quanto… veniva spogliata delle proprie competenze e
mansioni:”;
in particolare la ricorrente lamenta che:
a) non aveva più la possibilità di aprire e chiudere il negozio;
b) non aveva più accesso al pc – anch’esso dotato di password che non le veniva
comunicata – vedendosi così preclusa la possibilità di monitorare le attività di
vendita delle altre dipendenti;
c) non curava più le attività di vendita i clienti;
d) non si occupava più dell’incasso delle somme ed il solo aprire la cassa le veniva
praticamente precluso;
e) non predisponeva più gli orari di lavoro delle altre dipendenti;
f) non svolgeva più attività direttiva nei confronti delle altre dipendenti, ma anzi
subiva direttive da dipendenti certamente subordinate, coma dalla T.;
g) non curava più l'allestimento delle vetrine;
h) non intratteneva più direttamente i rapporti con la sede amministrativa di G.
s.p.a.;
i) non si recava più presso gli istituti di credito ove era abilitata a firmare in nome e
per conto della società;
j) non si recava più alla camera di commercio;
di contro le “veniva… prevalentemente affidata l'attività di magazzino…e l’attività di
pulizia delle vetrine e del negozio”.
ad a)
Già in sede di interrogatorio libero la ricorrente ha precisato che prima del periodo di
malattia 22-28 settembre 2008 disponeva sia delle chiavi del negozio sia di “un
precedente codice che non era segreto e personale”, che utilizzava “per aprire e
chiudere il negozio”;
perciò solo a far data dal 29 settembre e fino al 4 ottobre 2008 (dato che
successivamente ricadde di nuovo in malattia, rientrando per un solo giorno, il 31
ottobre, per non tornare più al lavoro), e, quindi, per una sola settimana, non poté
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disporre del codice personale segreto necessario per disattivare il nuovo sistema di
allarme installato durante la sua assenza, come ha confermato il teste L., che in
proposito ha dichiarato: “E’ vero che nel periodo di intervallo tra le due assenze per
malattia della ricorrente a quest'ultima non venne fornito il codice necessario per
aprire il negozio: mi riferisco alle assenze di settembre-ottobre. Tale codice era a
disposizione di G. e T.”;
parimenti V. ha dichiarato: “E’ vero che verso fine settembre G. fornì il nuovo codice
di allarme per aprire il negozio solamente alla collega T.”;
anche il retail supporter P. ha confermato: “E’ vero che alla ricorrente non venne
comunicato il codice necessario all'apertura del negozio a far data da settembre
2008; ciò in quanto detta comunicazione doveva venire personalmente alla
ricorrente, il che per ragioni organizzative non poté accadere, stanti anche i periodi
di assenza per malattia della stessa”.
A parte la brevità del periodo in cui la mansione venne sottratta, si tratta di un’attività
che non risulta provato fosse riservata al vice store manager.
a b), e) ed h)
Non è vero che alla ricorrente venne precluso l’accesso al pc del punto vendita;
infatti in proposito la teste L. (che non può di certo essere sospettata di parzialità in
favore della convenuta, avendo anch’ella promosso un contenzioso) ha dichiarato: “Io
potevo attraverso il pc conoscere i dati delle vendite effettuate dal negozio ed i
nominativi degli addetti che avevano effettuato ciascuna vendita. Non era necessario
a tal fine inserire una password. Anche gli altri addetti al negozio avevano la facoltà
di accedere al pc”.
E’ vero, invece, che era necessaria una password per consultare la posta elettronica e
per accedere al sistema necessario per redigere i turni di lavoro degli addetti.
La teste L. ha riferito che “verso agosto 2008” e fino ai primi di ottobre la password
era conosciuta solamente da G. e T. contrariamente a quanto era accaduto in
precedenza quando la password era nota a tutti gli addetti al negozio.
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Analogamente V. ha dichiarato: “Per accedere alla posta elettronica era necessaria
una password la quale a partire da agosto venne comunicata da G. a T.. In
precedenza F. conosceva la password”.
In proposito il retail supporter ha dichiarato: “Non sono stato messo al corrente del
fatto che alla ricorrente G. non avrebbe più comunicato la password per accedere
alla posta elettronica. Tale accesso rientra nella disponibilità dello store manager
anche se solitamente la comunica anche agli altri addetti, in particolare al vice store
manager”.
In effetti la ricorrente non ha neppure allegato (e tanto meno provato) di aver
denunciato alla società datrice la condotta di G., di talché non appare configurabile
una volontà dolosa imputabile alla convenuta.
Appare evidente che la mancanza di disponibilità della password comportava anche
l’impossibilità per la ricorrente di predisporre gli orari di lavoro degli addetti al
negozio e di intrattenere rapporti epistolari con la sede amministrativa di G. s.p.a..
Si tratta di mansioni che, a detta della stessa società convenuta (pag. 20 della
memoria di costituzione), di cui la ricorrente “si occupava come vice store manager”;
per questo limitato aspetto appare configurabile in pregiudizio della ricorrente una
sottrazione di mansioni a lei in precedenza riservate.
a c) e d)
A fronte dell’allegazione della ricorrente, secondo cui a far data dal rientro di G. dalla
malattia (14.4.2008) le sarebbe stata preclusa l’attività di vendita e l’accesso alla
cassa, la società convenuta ha prodotto sub 4) i tabulati afferenti l’andamento delle
vendite effettuate presso il negozio di Trento.
In proposito la retail supporter S. ha dichiarato: “E’ vero che il sistema organizzativo
dell'azienda esige che l'addetto alla vendita, quando effettua la relativa operazione di
cassa, inserisca il codice personale che lo contraddistingue; infatti all'azienda
interessa conoscere quante vendite vengono effettuate da ciascun addetto. Preciso
che non sempre chi effettua la vendita compie l'operazione di cassa; in questo caso
quest'ultimo deve inserire il codice di colui che ha effettuato la vendita e non il
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proprio. I documenti prodotti sub 4) dalla convenuta sono le risultanze
dell'applicazione delle procedure che ho appena descritto; infatti i dati di vendita
relativi a ciascun addetto sono determinati dall'inserimento dei codici personali degli
addetti medesimi. Tali dati vengono analizzati dall'azienda sia per verificare la
produttività di ciascun addetto, sia per controllare le modalità di distribuzione dei
compiti all'interno di ciascun punto vendita nel senso che un minor fatturato di
vendita poteva significare che l'addetto fosse stata adibito al magazzino, mansione
questa che doveva essere svolta a rotazione tra tutti gli addetti al punto vendita.
Preciso che la quantità si riferisce al numero di pezzi venduti. I prospetti indicano
per ciascun mese la percentuale che ogni dipendente ha realizzato in termini di pezzi
venduti rispetto al numero complessivo dei pezzi venduti dal negozio”.
Analogamente la teste L. ha riferito: “Solitamente chi effettua la vendita compie
anche la relativa operazione di cassa… Qualora il cassiere sia persona diversa da
chi effettuato la vendita deve inserire il codice di quest'ultima. E’ vero che dal
numero di vendite effettuate dal singolo addetto dipende la corresponsione di premi e
incentivi; ricorda un'iniziativa dell'azienda a proposito dei prodotti nuovi”.
Dall’esame dei tabulati prodotti dalla società convenuta sub 4) emerge che le
percentuali delle vendite effettuate dalla ricorrente rispetto al complesso delle vendite
realizzate presso il punto vendita non hanno subito considerevoli variazioni nel
periodo di assenza di G. (ottobre 2007-aprile 2008: 20,54%, 10,83%, 8,59%, 1,93%,
8,52%, 13,16%, 14,05%) e successivamente (maggio-ottobre 2008: 11,21%, 13,62%,
2,82% al netto dei saldi, 6,90 al netto dei saldi, 11,01%, 6,67%).
Nelle note finali autorizzate la ricorrente sostiene che il raffronto deve esser fatto tra i
mesi di luglio (23,17%) e agosto 2007 (32,32%) da un lato, ed i mesi di maggio
(10,23% rectius 11,21%), giugno (12,56% rectius 13,62%), luglio (3,61% rectius
2,82%) agosto (8,01% rectius 6,9%) e settembre 2008 (10,20% rectius 11,01%)
poiché “i dati relativi al periodo di assenza dello store manager – da settembre 2007
ad aprile 2008 – non possono ritenersi utili ed attendibili” in quanto “durante tale
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Progetto di ricerca svolto nellʼambito del bando post doc PAT 2011
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periodo la F. doveva gestire l’intero punto vendita svolgendo l’attività di
responsabile del negozio…”;
l’assunto non è condivisibile poiché nel periodo del 2007 in cui G. fu presente al
lavoro le sue percentuali furono nettamente superiori a quelle conseguite
successivamente dalla ricorrente quando sostituì G. nel ruolo di store manager, il che
significa che le (relativamente) basse percentuali della ricorrente afferivano alle sue
capacità personali e non già al fatto di essere investito della responsabilità del
negozio;.
anzi è il raffronto tra i mesi di giugno e luglio 2007 e quelli di giugno e luglio 2008
ad essere scorretto e comunque non significativo dato che nel 2007 la merce venduta
in saldo era attribuita ai singoli addetti, mentre nel 2008 confluiva in una percentuale
distinta da quella attribuita ai singoli addetti, tant’è vero che non solo le percentuali
della ricorrente, ma anche quelle degli altri addetti subirono nel giugno e luglio 2008
una drastica riduzione.
Quindi appare smentita dalle risultanze contabili (rimaste incontestate ) la doglianza
della ricorrente secondo cui G. le avrebbe precluso di svolgere l’attività di vendita,
adibendola “prevalentemente” al magazzino ed alle pulizie del negozio.
Inoltre il retail supporter P. ha riferito che in quel periodo le lamentele della
ricorrente riguardavano il “fatto che G. gestiva in esclusiva gli orari e non lo faceva
in modo adeguato”.
Quindi non meritano attendibilità, in quanto prive di riscontri oggettivi (che anzi
depongono per il contrario), le dichiarazioni rese dalla teste V., secondo cui: “Dopo il
rientro di G. al magazzino venivano addette la ricorrente, L. ed io. E’ successo che
ognuna di noi tre abbia lavorato in magazzino anche tre settimane di continuo senza
svolgere altre mansioni… Era il periodo di fine agosto in occasione dell'arrivo della
nuova collezione. In quel periodo arrivavano anche 30/35 colli. E’ durato fino a fine
settembre”;
infatti dai tabulati aziendali emerge che nel settembre 2008 la ricorrente rimase
assente per ferie dall’8 al 16 e per malattia dal 22 al 28 (con una percentuale di
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Progetto di ricerca svolto nellʼambito del bando post doc PAT 2011
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venduto dell’11,01%, a fronte di una percentuale di G. del 22,02%, il quale però fu
presente per l’intero mese, mentre T. ebbe una percentuale del 37,18% svolgendo
però numerose ore di lavoro straordinario, oltre a lavorare per l’intero mese);
inoltre la teste L. si è limitata ad affermare genericamente: “Per quanto ricordo la
ricorrente era addetta al magazzino più spesso che in precedenza”; ciò esclude che
via sia stato un impiego abnorme della ricorrente nelle mansioni del magazzino;
infine il retail supporter P. ha dichiarato: “Per quanto posso avere notato io in
occasione delle mie visite presso il punto vendita, non ho constatato che la ricorrente
venisse adibita in modo costante al magazzino. Nei periodi ordinari è sufficiente che
una persona lavori all’incirca un'ora al giorno. Nei cambi stagione occorre un
maggior lavoro nell'ordine di alcune ore al giorno per alcuni giorni”.
a f)
L’istruttoria svolta non ha fornito prova che la ricorrente subisse “direttive” dalla
collega Turrina.
a g)
In proposito l’istruttoria ha fornito risultati contraddittori.
La teste L. ha dichiarato: “L’allestimento delle vetrine era un compito di tutti gli
addetti al negozio che veniva svolto una volta in settimana, a turno, e richiedeva
circa una mattinata. Normalmente veniva effettuato da una sola addetta per volta.
Nel periodo successivo il rientro di G. tale mansione veniva svolta da Turrina”;
al contrario la teste V. ha dichiarato: “L’allestimento delle vetrine era un compito di
tutti gli addetti al negozio. Nei mesi di settembre-ottobre in realtà F. era l'unica
addetta all’allestimento delle vetrine ed alla pulizia delle stesse”.
ad i)
In proposito la società convenuta ha prodotto sub doc. 6) la delega ad effettuare
versamenti in banca rilasciata alla ricorrente (ed a G.) e comunicata a B. I. in data
15.9.2008.
La teste L. ha dichiarato: “I versamenti in banca venivano effettuati o dalla ricorrente
o da G. nel periodo precedente la malattia di quest'ultimo. Durante l'assenza di G.
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tale compito era svolto dalla ricorrente. Dopo il rientro di G. il compito è stato svolto
da lui. Per quanto ricordo la F. non svolse più questo compito”.
Si trattava, quindi, di uno dei compiti che, come ha riferito il teste P., rientravano
nella competenza dello store manager, ma che da questi potevano essere delegati al
proprio vice.
ad j)
Si tratta di una mansione di carattere secondario dato che, come ha riferito la teste L.,
doveva essere svolta solamente due volte all’anno, in occasione della stagione dei
saldi.
quindi non assume particolare rilievo la circostanza, sempre riferita dalla teste L.,
secondo cui: “Mi pare che al rientro di G. la comunicazione relativa ai saldi di luglio
2008 sia stata effettuata da G.”;
inoltre non si trattava di una mansione riservata al vice store manager, come ha
riferito la teste L. (“Prima della malattia di G. era una mansione che G. e F.
gestivano tra loro”), di talché valgono le stesse considerazioni svolte su i).
--In definitiva le domande risarcitorie proposte dalla ricorrente, adducendo di essere
stata vittima di mobbing e demansionamento, meritano accoglimento limitatamente
alla sottrazione, certamente a far data dall’agosto 2008 quando alla ricorrente non
venne più messa a disposizione la password del pc del punto vendita, delle mansioni,
proprie del vice store manager (secondo quanto affermato dalla stessa società
convenuta), di predisporre gli orari di lavoro degli addetti al punto vendita e di tenere
i contatti con l’Ufficio amministrazione di G. s.p.a..
Tale sottrazione, essendo imputabile alla sola volontà dolosa dello store manager G.
e non anche a quella della società convenuta (che rimase ignara anche perché non
risulta provato che la ricorrente l’abbia messa al corrente), rileva solo ai fini del
risarcimento del danno da dequalificazione professionale.
Peraltro il disconoscimento, da parte di G. del ruolo di vice store manager rivestito
dalla ricorrente trova spiegazione (anche se ovviamente non si tratta di un esimente,
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Progetto di ricerca svolto nellʼambito del bando post doc PAT 2011
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ma è soltanto motivo di attenuazione della responsabilità di G.e, quindi, ex art. 2049
cod.civ. anche della società convenuta) nell’opera di sostanziale delegittimazione
che la ricorrente intraprese nei confronti del ruolo di store manager ricoperto da G. al
rientro di questi dalla malattia (si vedano in proposito le già richiamate deposizioni
dei retail supporters S. e P., ai quali la ricorrente suggerì il trasferimento o addirittura
il licenziamento di G.).
--In via generale può dirsi pacifico che il demansionamento (inteso come mancata
adibizione del lavoratore a mansioni non corrispondenti al suo inquadramento
contrattuale ed alla professionalità da lui maturata) può costituire la fonte di danni
suscettibili di risarcimento, i quali possono consistere:
1)
nel danno esistenziale quale:
A)
lesione del diritto alla libera esplicazione della personalità nel luogo di lavoro (danno
non patrimoniale alla professionalità in senso soggettivo) – cfr. Cass. 26.5.2004, n.
10157;
B)
lesione alla capacità professionale del lavoratore derivante o dall’impoverimento
della capacità acquisita o dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità (danno
non patrimoniale alla professionalità in senso oggettivo) – cfr. Cass. 7.9.2005, n.
17812; Cass. 27.6.2005, n. 13719;
C)
pregiudizio all’immagine ed alla dignità personali – cfr. Cass. 17812/2005 cit.; Cass.
10.6.2004, n. 11045; Cass. 10157/2004 cit.
D)
nel pregiudizio alle
chances professionali
– cfr. Cass. 17812/2005 cit.; Cass.
13719/2005 cit.; Cass. 10157/2004 cit.;
2)
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Progetto di ricerca svolto nellʼambito del bando post doc PAT 2011
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nel danno biologico quale
lesione all’integrità psichica e fisica
suscettibile di
accertamento medico-legale – cfr. specialmente, di recente, Cass. 17812/2005; Cass.
11045/2004;
3)
nel danno morale soggettivo quale transeunte turbamento dello stato d’animo della
vittima (secondo gli insegnamenti di Corte Cost. 233/2003 cit.; Cass. 8827/2003;
Cass. 8828/2003, essendo indubbio il rilievo costituzionale, quanto meno in relazione
al precetto ex art. 2 Cost., dell’interesse del prestatore violato dal demansionamento –
cfr. sul punto Cass. 10157/2004 cit.;);
4)
nel pregiudizio economico per la perdita di ulteriori possibilità di guadagno (danno
patrimoniale da lucro cessante) – cfr. Cass. 11045/2004 cit. – mentre quello da danno
emergente è escluso in radice dal principio, espressamente richiamato dall’art. 2103,
del principio dell’irriducibilità della retribuzione – secondo quanto precisato da Cass.
8.11.2003, n. 16792.
Nel caso di specie la ricorrente sembra limitare la propria pretesa risarcitoria ai soli
danni di natura non patrimoniale (fatta eccezione per il risarcimento del danno
emergente costituito dalle spese mediche sui cui infra).
a) quanto al danno biologico
Come si è già visto, il danno biologico consiste nella lesione all’integrità psichica e
fisica suscettibile di accertamento medico-legale.
In proposito la ricorrente allega (doc. 16) un certificato medico rilasciato in data
14.10.2008 dal medico di base specialista in urologia dotto R. C. in cui si attesta che
ella soffre di “iniziale stato ansioso reattivo a problematiche lavorative, tutt’ora
perdurante con marcate somatizzazioni: insonnia, disturbi intestinali”; analoghe
certificazioni sono state rilasciate sempre dal dott. Cestari in data 18.10.2008,
10.11.2008;
allega inoltre (doc. 17) un certificato medico rilasciato in data 1.12.2008 dal dott. P.
P. specialisti in psichiatria, in cui si attesta che la ricorrente è “affetta da disturbo
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dell’adattamento con ansia ed umore depresso”; analogo certificato è stato rilasciato
sempre dal dott. P. in data 3.2.2009;
vi è, inoltre, agli atti (doc. 19) una breve relazione psichiatrica redatta dal dott. P. in
data 7.2.2009, nella quale viene riportata la versione data dalla ricorrente della
propria vicenda lavorativa e viene confermata la diagnosi dei precedenti certificati;
infine la ricorrente nell’atto introduttivo del presente giudizio allega che nel giugno
2009 si sottopose ad “un intervento ginecologico imputabile a disfunzioni ormonali e
cisti ovariche… riconducibili all’ansia ed allo stress dovuti alle vessazioni subite nel
corso del rapporto”.
Orbene, la domanda di risarcimento del danno biologico deve essere valutata
unicamente in riferimento alla sola condotta demansionante accertata a carico della
società datrice e consistente nella sottrazione, a far data dall’agosto 2008 (quando alla
ricorrente non venne più messa a disposizione la password del pc del punto vendita),
delle mansioni, proprie del vice store manager, di predisporre gli orari di lavoro
degli addetti al punto vendita e di tenere i contatti con l’Ufficio amministrazione di G.
s.p.a..
Se è verosimile che il disconoscimento del suo ruolo di vice store manager abbia
cagionato alla ricorrente il disturbo psichico temporaneo attestato dalle certificazioni
del dott. P. fino al febbraio 2009, di contro difetta qualsiasi elemento idoneo ad
ipotizzare un nesso casuale tra le vicenda lavorativa e le patologie insorte a distanza
di oltre sette mesi dall’abbandono del lavoro (tant’è vero che difetta qualsiasi
certificazione in proposito).
Quindi appare equo liquidare – considerando le cause del demansionamento (tra cui,
come si è visto, rientra anche la condotta delegittimante posta in essere dalla
ricorrente verso il suo superiore gerarchico) e la durata del disturbo, e prendendo a
riferimento i valori suggeriti dalle tabelle 2009 del tribunale di Milano – il danno
biologico temporaneo nella somma omnicomprensiva di € 5.000,00.
Può essere aggiunta una quota (sempre in ragione della concorrente responsabilità
della lavoratrice) delle spese mediche assunte per contrastare il disturbo psichico e
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quindi relative alle visite del dott. P. (mentre quelle afferenti le visite del dott. Diana,
riguardando una terapia contro “intolleranze alimentari”, appaiono estranee ai fatti in
esame), per una somma di € 300,00.
b) quanto al danno esistenziale
Prima della composizione dei contrasti da parte di Cass.S.U. 24.3.2006, n. 6572, la
giurisprudenza era divisa circa la portata dell’onere probatorio incombente sul
lavoratore
in
ordine
all’esistenza
del
danno
esistenziale
derivante
da
demansionamento, riproducendosi anche in proposito la contrapposizione tra coloro
che individuano il danno risarcibile nella lesione del bene giuridico tutelato (cd.
danno-evento) e quelli che lo identificano negli effetti che detta lesione ha prodotto
nel patrimonio del danneggiato (cd. danno-conseguenza):
A)
da un lato si riteneva (per tutte Cass. 10157/2004 cit.;) che il danno da
demansionamento attiene alla lesione di un interesse costituzionalmente protetto
dall’art. 2 Cost., avente per oggetto il diritto fondamentale del lavoratore alla libera
esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro secondo le mansioni e con la
qualifica spettantegli per legge o per contratto, “con la conseguenza che i
provvedimenti del datore di lavoro che illegittimamente ledono tale diritto vengono
immancabilmente a ledere l’immagine professionale, la dignità professionale e la
vita di relazione del lavoratore, sia in tema di autostima e di eterostima
nell’ambiente di lavoro ed in quello socio-familiare, sia in termini di chances per
futuri lavori di pari livello”,
B)
dall’altro si riteneva (per tutte Cass. 28.5.2004 n. 10361) che il lavoratore, il quale
agisce per il risarcimento del danno da dequalificazione professionale deve fornire la
prova dell’esistenza del danno subito a causa del suo diritto di eseguire la prestazione
lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita nonché del nesso di causalità
tra l’inadempimento datoriale e tale danno, il quale non si pone come conseguenza
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automatica di ogni demansionamento, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera
potenzialità lesiva della condotta datoriale;
C)
vi era, infine, un orientamento intermedio (Cass. 17812/2005 cit.; Cass. 29.4.2004, n.
8271; Cass. 16.4.2004, n. 5955; Cass. 8.11.2003, n.16792; Cass. 2.11.2001,
n.13580;), secondo cui non ogni modificazione delle mansioni in senso riduttivo
comporta un’automatica dequalificazione professionale, la quale trova la sua essenza
nell’abbassamento del globale livello delle prestazioni del lavoratore con una
sottoutilizzazione
delle
sue
capacità
ed
una
consequenziale
apprezzabile
menomazione non transeunte della sua professionalità, nonché con perdita di
immagine e di chances professionali;
l’esistenza di tali pregiudizi può essere provata anche attraverso presunzioni
valorizzando le circostanze del caso concreto quali:
a) la distanza tra le mansioni espletate in precedenza e quelle di nuova assegnazione
ritenute inferiori (Cass. 16.8.2004, n. 15955; Cass. 13.5.2004, n. 9129;)
b) la durata del demansionamento (Cass. 15955/2004 cit.; Cass. 16797/2003 cit.;
Cass. 9129/2004 cit.;)
c) la posizione gerarchica perduta dal lavoratore (Cass. 15955/2004 cit.; Cass.
16797/2003 cit.;)
d) la sua anzianità di servizio (Cass. 15955/2004; Cass. 16797/2003 cit.;)
e) l’elemento psicologico della condotta del datore di lavoro (Cass. 16797/2003
cit.;).
Quest’ultimo orientamento è stato sostanzialmente condiviso dalle Sezioni Unite
della Suprema Corte:
in primo luogo hanno precisato che “per danno esistenziale si intende ogni
pregiudizio che l’illecito datoriale provoca sul fare aredittuale del soggetto,
alterando le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali con gli erano propri,
sconvolgendo la sua quotidianità e privandolo di occasioni per la espressione e la
realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Peraltro il danno esistenziale
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si fonda sulla natura non meramente emotiva ed interiore (propria del cd. danno
morale), ma oggettivamente accertabile del pregiudizio, attraverso la prova di scelte
di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l’evento”;
ne hanno tratto la conclusione che “anche in relazione a questo tipo di danno il
giudice è astretto alla allegazione che ne fa l’interessato sull’oggetto e sul modo di
operare dell’asserito pregiudizio, non potendo sopperire alla mancanza di
indicazione in tal senso nell’atto di parte, facendo ricorso a formule standardizzate e
sostanzialmente elusive della fattispecie concreta… Il danno esistenziale infatti,
essendo legato indissolubilmente alla persona, e quindi non essendo passibile di
determinazione secondo il sistema tabellare – al quale si fa ricorso per determinare
il danno biologico, stante la uniformità dei criteri medico-legali applicabili in
relazione alla lesione dell’indennità psicofisica – necessità imprescindibilmente di
precise indicazioni che solo il soggetto danneggiato può fornire, indicando le
circostanze comprovanti l’alterazione delle sue abitudini di vita…”;
conseguentemente “non è sufficiente la prova della dequalificazione, dell'isolamento,
della forzata inoperosità, dell'assegnazione a mansioni diverse ed inferiori a quelle
proprie, perché questi elementi integrano l'inadempimento del datore, ma, dimostrata
questa premessa, è poi necessario dare la prova che tutto ciò, concretamente, ha
inciso in senso negativo nella sfera del lavoratore, alterandone l'equilibrio e le
abitudini di vita. Non può infatti escludersi… che la lesione degli interessi
relazionali, connessi al rapporto di lavoro, resti sostanzialmente priva di effetti, non
provochi cioè conseguenze pregiudizievoli nella sfera soggettiva del lavoratore,
essendo garantito l'interesse prettamente patrimoniale alla prestazione retributiva;
se è così sussiste l'inadempimento, ma non c'è pregiudizio e quindi non c'è nulla da
risarcire, secondo i principi ribaditi dalia Corte Costituzionale con la sentenza n.
378 del 1994 per cui "È sempre necessaria la prova ulteriore dell'entità del danno,
ossia la dimostrazione che la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quello
indicato dall'art. 1223 cod. civ., costituita dalla diminuzione o privazione di un
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valore personale (non patrimoniale) alla quale il risarcimento deve essere
(equitativamente) commisurato".”;
in ordine all’onere della prova del danno incombente al lavoratore quale soggetto
danneggiato, hanno così statuito: “ … Il pregiudizio in concreto subito dal lavoratore
potrà ottenere pieno ristoro, in tutti i suoi profili, anche senza considerarlo scontato
aprioristicamente. Mentre il danno biologico non può prescindere dall'accertamento
medico legale, quello esistenziale può invece essere verificato mediante la prova
testimoniale, documentale o presuntiva, che dimostri nel processo "i concreti"
cambiamenti che l'illecito ha apportato, in senso peggiorativo, nella qualità di vita
del danneggiato. Ed infatti - se è vero che la stessa categoria del "danno esistenziale"
si fonda sulla natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente
accettabile, del pregiudizio esistenziale: non meri dolori e sofferenze, ma scelte di
vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l'evento
dannoso - all'onere probatorio può assolversi attraverso tutti i mezzi che
l'ordinamento processuale pone a disposizione: dal deposito di documentazione alla
prova testimoniale su tali circostanze di congiunti e colleghi di lavoro. Considerato
che il pregiudizio attiene ad un bene immateriale, precipuo rilievo assume rispetto a
questo tipo di danno la prova per presunzioni, mezzo peraltro non relegato
dall'ordinamento in grado subordinato nella gerarchia delle prove, cui il giudice può
far ricorso anche in via esclusiva (tra le tante Cass. n. 9834 del 6 luglio 2002) per la
formazione del suo convincimento, purché, secondo le regole di cui all'art. 2727 cod.
civ. venga offerta una serie concatenata di fatti noti, ossia di tutti gli elementi che
puntualmente e nella fattispecie concreta (e non in astratto) descrivano: durata,
gravita, conoscibilità all'interno ed all'esterno del luogo di lavoro della operata
dequalificazione, frustrazione di (precisate e ragionevoli) aspettative di progressione
professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti
la avvenuta lesione dell'interesse relazionale, gli effetti negativi dispiegati nella
abitudini di vita del soggetto; da tutte queste circostanze, il cui artificioso isolamento
si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico (tra le tante Cass. n. 13819 del
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18 settembre 2003), complessivamente considerate attraverso un prudente
apprezzamento, si può coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all'esistenza del
danno, facendo ricorso, ex art. 115 cod. proc. civ. a quelle nozioni generali derivanti
dall'esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella
valutazione delle prove. D'altra parte, in mancanza di allegazioni sulla natura e le
caratteristiche del danno esistenziale, non è possibile al giudice neppure la
liquidazione in forma equitativa, perché questa, per non trasmodare nell'arbitrio,
necessita di parametri a cui ancorarsi…”.
A tali insegnamenti si sono successivamente attenute Cass. 22.2.2010, n. 4063; Cass.
14.4.2010, n.8893¸ Cass. 26.2.2009, n. 4652; Cass. 19.12.2008, n. 29832; Cass.
14.6.2007, n. 13877; Cass. 2.10.2006, n. 21282; Cass. 15.9.2006, n. 19965; Cass.
26.6.2006, n. 14729;.
Venendo al caso di specie, l’entità delle mansioni sottratte alla ricorrente non appare
considerevole (redazione degli orari di lavoro degli addetti al negozio e contatti con
l’ufficio amministrativo della società) ed ha riguardato solamente il periodo agostoottobre 2008 (nel quale peraltro la ricorrente è rimasta assente cinque settimane per
ferie e malattia);
è vero che il demansionamento de quo costituisce la manifestazione del
disconoscimento, da parte dello store manager, del ruolo di vice store manager
svolto fino ad allora dalla ricorrente; tuttavia anche qui occorre considerare che, come
si è già più volte evidenziato, la delegittimazione dei rispettivi ruoli fu reciproca.
Quindi appare equo maggiorare, secondo gli insegnamenti di Cass. S.U. 26.11.2008,
n. 26972, il danno biologico temporaneo più sopra liquidato, di una somma pari ad €
3.000,00 in considerazione del turbamento dell’animo e dei pregiudizi esistenziali
verosimilmente conseguiti al demansionamento.
In definitiva la società G. s.p.a. va condannata a corrispondere alla ricorrente, a titolo
di risarcimento del danno non patrimoniale derivato dal demansionamento subito, la
somma omnicomprensiva di € 8.000,00.
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in ordine all’impugnazione della sanzione disciplinare irrogata con lettera
dell’1.12.2008
La ricorrente impugna la sanzione del richiamo scritto irrogata in data 1.12.2008 per
il fatto contestato con lettera del 10.11.2008 (“Lo scorso 31 ottobre, e più
precisamente verso le ore 12,15, al termine di una discussione con il sig. G. T.,
attuale store manager, del negozio di Trento presso il quale Lei presta attività
lavorativa, Lei abbandonava il posto di lavoro senza avere chiesto, né in alcun modo
ottenuto, autorizzazione da parte dello store manager”).
La società convenuta non ha formulato alcuna istanza istruttoria in proposito sebbene
fosse gravata dell’onere di provare i fatti posti a fondamento della sanzione irrogata
(in tal senso Cass. 29.7.2009, n.17644; Cass. 16.8.2004, n. 15950;);
inoltre emerge dai fogli presenza, prodotti dalla stessa società convenuta sub 5), che
le ore non lavorate dalla ricorrente il giorno 31 ottobre 2008 sono state imputate dalla
società datrice a malattia,.il che giustifica l’assenza;.
quindi la sanzione deve essere annullata.
in ordine alle spese
Stante la parziale soccombenza reciproca si dispone la compensazione delle spese
nella misura di metà.
La società convenuta va condanna alla rifusione, in favore della ricorrente, della
residua metà.
P.Q.M.
Il tribunale ordinario di Trento - sezione per le controversie di lavoro, in persona del
giudice istruttore, in funzione di giudice unico, dott. Giorgio Flaim, definitivamente
pronunciando, ogni altra domanda ed eccezione rigettata, così decide:
1. Accertato che F. N. ha svolto nel periodo di assenza dello store manager G. T.
(5.9.2007-14.4.2008) mansioni riconducibili al II livello,
condanna G. s.p.a. a corrispondere alla ricorrente una somma pari alla differenza,
maturata a far data dal 5.9.2007 fino al 14.4.2008, tra il trattamento retributivo
previsto dal citato CCNL per il II livello e quello previsto dal medesimo CCNL
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per il III livello, con il maggior danno da svalutazione liquidato sulla base della
variazione percentuale degli indici ISTAT, intervenuta dalle date di maturazione
dei singoli crediti fino ad oggi, e con gli interessi legali computati sulla somma
così rivalutata e decorrenti dagli stessi termini a quibus fino al saldo.
2. Accertato che a far data dall’agosto 2008 sono state sottratte alla ricorrente le
mansioni proprie di vice store manager (predisporre gli orari di lavoro degli
addetti al punto vendita e tenere i contatti con l’Ufficio amministrazione di G.
s.p.a.),
condanna la società G. s.p.a. a corrispondere alla ricorrente, a titolo di
risarcimento del danno non patrimoniale derivato dal demansionamento subito, la
somma omnicomprensiva di € 8.000,00.
3. Condanna la società G. s.p.a. a corrispondere alla ricorrente, a titolo di
risarcimento del danno emergente, la somma di € 300,00, con il maggior danno da
svalutazione liquidato sulla base della variazione percentuale degli indici ISTAT,
intervenuta dal 19.1.2009 fino ad oggi, e con gli interessi legali computati sulla
somma così rivalutata e decorrenti dallo stesso termine a quo fino al saldo.
4. Rigetta la domanda, proposta dalla ricorrente, di risarcimento del danno da
mobbing
5. Annulla la sanzione disciplinare del richiamo scritto irrogata dalla società
convenuta alla ricorrente con lettera del 10.11.2008.
6. Dispone la compensazione delle spese nella misura di metà.
7. Condanna la società convenuta alla rifusione, in favore del ricorrente, della
residua meta, liquidata nella somma di € 1.785,00, oltre al 12,50% su diritti ed
onorari per spese generali, ad I.V.A. e C.N.P.A., di cui € 182,00 per spese, €
672,00 per diritti ed € 931,00 per onorari.
Trento, 25 maggio 2010
IL CANCELLIERE
IL GIUDICE
Tiziana Oss Cazzador
dott. Giorgio Flaim
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