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4/2012 on-line UNIVERSITÀ DELLA CALABRIA DIPARTIMENTO DI SOCIOLOGIA E DI SCIENZA POLITICA Daedalus 2012 presentazione del numero DAEDALUS Quaderni di Storia e Scienze Sociali Direzione scientifica Vittorio Cappelli, Ercole Giap Parini, Osvaldo Pieroni, Alberto Ventura Redattori e collaboratori Luca Addante, Olimpia Affuso, Luigi Ambrosi, Rosa Maria Cappelli, Renata Ciaccio, Bernardino Cozza (†), Barbara Curli, Francesco Di Vasto, Loredana Donnici, Valentina Fedele, Aurelio Garofalo (†), Sabrina Garofalo, Teresa Grande, Salvatore Inglese, Donatella Loprieno, Francesco Mainieri, Matteo Marini, Adele Valeria Messina, Patrizia Nardi, Saverio Napolitano, Tiziana Noce, Giuseppina Pellegrino, Maria Perri, Luigi Piccioni, Antonella Salomoni, Manuela Stranges, Pia Tucci Direzione e redazione e amministrazione Dipartimento di Sociologia e di Scienza Politica dell'Università della Calabria 87036 Arcavacata di Rende (Cosenza). Tel. 0984 492568-67-65-32 E-mail: [email protected]; [email protected]; [email protected]; [email protected] Direttore Responsabile Pia Tucci Numero 4/2012 on-line Numero 23/2012 seguendo la numerazione della precedente edizione cartacea Pubblicato on line nel settembre 2012 Daedalus 2012 presentazione del numero Presentazione Con questo numero, Daedalus vuole riproporre e rilanciare una riflessione, ormai pluriennale, sul Mediterraneo. Iniziammo, aprendo il numero 2 della nuova serie on line della rivista, con due conversazioni dedicate al Mediterraneo in idea, nella storia e nella realtà presente, regalateci da due importanti studiosi: lo storico Edmund Burke III e il sociologo Franco Cassano, intervistati da Marta Petrusewicz, il primo, e da Ercole Giap Parini e Donatella Loprieno, il secondo. Ha fatto seguito, l’anno scorso, un numero monografico, che era il risultato, ricco e variegato, del call for papers lanciato a partire da quelle conversazioni. Oggi proviamo a replicare lo stesso metodo, che ha già dato risultati assai interessanti, mettendo a fuoco un tema specifico e cruciale della storia passata e presente del Mediterraneo: le migrazioni, gli attraversamenti, dalla sponda meridionale alla sponda settentrionale (e viceversa) e dal Mediterraneo verso il resto del mondo. Se è noto che le migrazioni sono, con particolare enfasi negli ultimi due secoli, un elemento costitutivo della storia europea e – più che in ogni altro luogo del continente – della storia italiana, non è altrettanto scontato che il Mediterraneo sia stato luogo di attraversamenti in età contemporanea, ben prima dell’attuale vettore migratorio sud-nord, che ha posto drammaticamente al centro della scena le sponde della penisola italiana, come primo approdo per i migranti provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente. Scarsa attenzione si è posta, in genere, alla storia dell’emigrazione europea verso le sponde africane e mediorientali del Mediterraneo. Trascuratissima, se non ignorata, è l’emigrazione italiana in queste regioni (con l’eccezione, per ovvie ragioni, della Libia). Eppure la presenza di comunità italiane sulle sponde meridionali del Mediterraneo, tra Otto e Novecento, è di straordinario interesse, dal Marocco a Istanbul, passando per l’Algeria, la Tunisia e l’Egitto. Vale la pena rammentare che le statistiche contano, tra il 1876 e il 1925, circa 300.000 partenze verso l’Africa non italiana: oltre 10.000 le presenze medie registrate in Marocco, 28.000 in Algeria, quasi 50.000 in Egitto e addirittura quasi 100.000 in Tunisia, dove la popolazione italiana è tra Otto e Novecento più numerosa di quella francese. La fiorente comunità italiana di Istanbul, infine, conta circa 10.000 persone nella seconda metà dell’Ottocento, fino alla drammatica rottura della guerra italo-turca per la Libia, nel 1911. 1 Daedalus 2012 presentazione del numero Peraltro, l’esplosione dell’emigrazione di massa, che tra Otto e Novecento si diresse principalmente verso le Americhe, non ha riguardato soltanto l’Europa latina e balcanica, ma anche le sponde meridionali del Mediterraneo. Un flusso migratorio, ancor oggi scarsamente conosciuto, si formò in alcune regioni dell’allora declinante impero turco: furono numerosissimi i libanesi, i siriani e i palestinesi che partirono per le Americhe, seguendo le piste (e talora inventandole) dei commerci itineranti e dei mestieri urbani. Essi si diressero principalmente negli Stati Uniti, in Brasile e in Argentina, ma raggiunsero numerosi anche la Colombia, il Venezuela, il Messico, il Centroamerica, Cuba, il Cile e il Canada. Di questa migrazione araba è particolarmente interessante quella diretta in Brasile, di cui s’è occupato ampiamente lo storico paulista Oswaldo Truzzi, a cominciare dall’impulso iniziale dovuto alla visita effettuata in Palestina, in Libano e in Siria, nel 1876, dall’imperatore don Pedro II, accompagnato dalla sua sposa napoletana Teresa Cristina di Borbone. I libanesi, in specie, si recarono nel nuovo secolo in ogni regione del Brasile, introducendo col commercio ambulante la moderna tecnica della vendita rateale e affiancandosi non di rado agli immigrati italiani (con i quali condividevano talvolta anche la partecipazione alla massoneria; come accadde anche nel caso, puntualmente documentato, di Costa Rica). Giunsero persino in Amazzonia, i libanesi, profittando dell’auge del caucciù e animando i commerci fluviali. Di conseguenza, non sorprende che proprio a Manaus sia nato da una famiglia libanese Milton Hatoum, uno degli scrittori brasiliani più importanti del nostro tempo, nella cui narrativa è fortemente presente la vicenda migratoria dei libanesi, che ha dato vita ad una delle tante anime culturali del Brasile contemporaneo, nel quale sopravvivono, dunque, anche gli echi della tradizione orale dei narratori orientali. È proprio sul terreno letterario che Daedalus vuole aprire questa nuova riflessione sugli attraversamenti del Mediterraneo, privilegiando il tema attualissimo della letteratura della migrazione. Su questo piano, abbiamo alle spalle il mare magnum della letteratura degli italiani negli Stati Uniti, da John Fante a Helen Barolini. Una letteratura efficacemente antologizzata nello scorso decennio da Francesco Durante, in due ponderosi volumi, che si arrestano però al 1943; e di cui si occupa da tempo, nell’Università della Calabria, Margherita Ganeri. Naturalmente, non vanno dimenticati neppure i tanti scrittori latinoamericani di origine italiana, dall’argentino Ernesto Sábato, figlio 2 Daedalus 2012 presentazione del numero di calabresi, al venezuelano Vicente Gerbasi, figlio di cilentani, a Zélia Gattai, moglie italiana di Jorge Amado, in Brasile, tanto per ricordare solo alcuni tra gli autori più noti, che hanno introdotto in vario modo nella letteratura iberoamericana temi e questioni migratorie. Ma la nostra attenzione è attirata ora, piuttosto che da questo esteso patrimonio storico-letterario italoamericano, che pure non cessa di meritare studi ulteriori, dalla più recente esperienza letteraria di non pochi immigrati in Italia. Da alcuni anni la letteratura scritta dagli immigrati è argomento di riflessione e di studio nel nostro Paese, come si segnala in questo numero di Daedalus nella rassegna curata da Luigi Ambrosi, che connette il fenomeno, ovviamente, alla recente immigrazione, soprattutto africana, in Italia. Noi ce ne occupiamo qui a partire dall’intervista di Valentina Fedele a Tahar Lamri. Questo scrittore italiano, algerino di nascita, preferisce in verità parlare di “letteratura di frontiera”, piuttosto che di “letteratura della migrazione”, poiché egli estende la nozione di attraversamento e superamento di un confine dallo spostamento fisico, proprio delle biografie individuali, all’attraversamento dei canoni. Sicché, secondo Lamri, anche autori italiani come Claudio Magris e Andrea Camilleri potrebbero rientrare nella “letteratura di frontiera”. Nell’intervista a Lamri ricorre più volte il nome di Amara Lakhous, altro autore algerino che scrive in italiano, al quale Daedalus dedica anche una recensione, e che riconosce invece, a differenza di Lamri, la congruità della definizione di “letteratura della migrazione”. Il tema, dunque, viene fuori in termini problematici, con continui rimandi alla complessità delle relazioni tra cultura araba e cultura europea e alla pluralità di ciascuna di queste. La seconda intervista è quella che Adele Valeria Messina ha rivolto a Jean-Léonard Touadi, congolese di Brazzaville, che in Italia è diventato, oltre che giornalista e scrittore, docente universitario e infine deputato al Parlamento (prima in Italia dei Valori e poi nel Partito Democratico). Anche a Touadi sta stretta la definizione di “letteratura migrante”. Preferirebbe parlare di “nuova letteratura italiana”, nella quale compaiono “orizzonti narrativi non classicamente italiani”. Ma, come si è già detto, la discussione sulla “letteratura di migrazione” (traduzione dell’inglese “migration literature”), è relativamente recente in Italia; tuttavia essa non è certo una novità in altri Paesi. Quel che di nuovo c’è nel nostro caso è la freschezza del fenomeno nella letteratura italiana e nel contesto mediterraneo degli ultimi decenni. E su questo varrebbe la pena di riflettere, anche alla 3 Daedalus 2012 presentazione del numero luce delle nuove asimmetrie storico-politiche e culturali: la crisi, il “declino” europeo da un lato e le “rivoluzioni” del mondo arabo dall’altro, con nel mezzo il mare che unisce e divide… La terza intervista di questo numero di Daedalus affronta gli aspetti più dolorosi di questa relazione tra le sponde del Mediterraneo oggi, che intervengono quando gli attraversamenti hanno esiti drammatici o addirittura tragici, concludendosi infine con i respingimenti e/o con la morte. Donatella Loprieno ha intervistato Fulvio Vassallo Paleologo, giurista e avvocato, studioso di diritto internazionale, costituzionale e comunitario, ma soprattutto attivista militante in difesa dei diritti umani. Dal colloquio emerge la drammaticità attualissima della questione, con ricchezza di esempi e profondità di analisi. Le tre interviste spaziano, dunque, tra le contaminazioni culturali e le fratture e i conflitti politici, obbligandoci ad una riflessione che dev’esser capace di misurarsi con le connessioni tra passato e presente, intessendo ragionamenti multidisciplinari, che possano nutrire e suggerire nuove ricerche. Vittorio Cappelli 4 Daedalus 2012 Intervista a Tahar Lamri TAHAR LAMRI1 INTERVISTATO DA VALENTINA FEDELE Ravenna, giugno 2011 Fedele: La prima domanda è una curiosità: ho letto che hai una formazione giuridica, che hai lavorato come traduttore, ma come sei diventato uno scrittore? Lamri: Non è strano: Čechov era medico, Dostoevskij era ingegnere, però, in effetti, la scrittura è anteriore agli studi, ma era una scrittura per me. Poi, dopo che sono immigrato in Italia, non so perché, improvvisamente, la scrittura vera è propria è venuta, dopo aver imparato l’italiano. Io ho imparato l’italiano quando sono venuto in Italia, prima non lo conoscevo e non dovevo nemmeno venire in Italia. Sono venuto in Italia per caso, o forse per destino, se il destino è, come dicevano i greci, il carattere di un uomo. Ero a Parigi, aspettavo il visto per andare in Oman e poi ho conosciuto una ragazza di Ravenna, è nato un amore e, pochi mesi dopo, appena ho ricevuto il visto per andare in Oman ho deciso di venire in Italia: giusto per fare qualcosa contrario al destino, quello scritto! Quell’amore è finito dopo un anno e mezzo di vita qui, però, devo dire che appena sono arrivato in Italia ho cominciato a scrivere prima in Francese, traducendo delle cose, non pubblicabili certamente, che sono scomparse, e, poi, all’inizio degli anni ’90 – io sono arrivato nell’’87 – ho iniziato a scrivere seriamente. Avevo questi racconti da parte e ho cominciato a partecipare ad alcuni concorsi, spinto da persone che conoscevo, perché io non immaginavo mai di poter pubblicare, essere pubblicato, letto, intervistato da te che ti chiami Valentina…queste cose che sono successe dopo, non le avrei mai immaginate. È stato, quindi, un po’ per caso, però il caso non esiste, perché, come nel racconto di Borges, ogni incontro casuale è in realtà un appuntamento, da questo punto di vista, il caso non esiste, nel senso che una persona si sente spinta a fare qualcosa, nel mio caso la scrittura: non siamo obbligati a scrivere, la scrittura è una cosa molto artificiale. Per caso, quindi, sì, nell’economia generale, però se ci rifletto, con te, in Tahar Lamri è uno scrittore algerino che vive a Ravenna dal 1986. Preceduto da numerosi racconti, il suo primo romanzo, I sessanta nomi dell’amore, è stato pubblicato nel 2006 da Fara Editore. 1 1 Daedalus 2012 Intervista a Tahar Lamri questo momento, direi che c’era una spinta ben precisa che comprende l’essere accettati, l’essere accolti, l’integrazione, tutto il progetto migratorio, se vuoi. Fedele: E come mai sei rimasto a Ravenna? Lamri: Non lo so! Ravenna è davvero una palude quando poi ci si sta, è difficile uscirne. Quando sono arrivato, non c’erano le leggi per l’immigrazione, c’era la legge Martelli, che è stata fatta mentre io ero già qui, non c’erano nemmeno tutti gli immigrati che ci sono adesso: mi ricordo che andavo in questura per il rinnovo del permesso di soggiorno, c’era questa persona che compilava i documenti con la macchina da scrivere e c’ero solo io, non c’erano le file, non era come oggi e non potevo stare qui se non sposato. Appena arrivato, quindi, mi sono sposato, poi dopo un anno e mezzo ho divorziato e dopo ho cercato di andare via, ma sono rimasto. Sul rimanere o meno in un luogo, io credo che non abbiamo molta scelta, come esseri umani intendo, nel senso che siamo sempre nel posto sbagliato, un po’ tutti. L’immigrato ancora di più perché è una persona che non ha nessun luogo, lo dicevano i greci a-topos. Forse per questo si parla molto di abitare le lingue, cosa sulla quale ho un po’ di dubbi. Alcuni anni fa lo scrivevo anch’io, ma ora ho dei dubbi, perché la lingua non è un luogo fisico, è la lingua che ci abita in realtà. Se penso a come ho imparato l’italiano, è chiaro che non ho mai abitato la lingua italiana, è sempre stata la lingua italiana ad abitare me. In primo luogo perché la lingua italiana l’ho imparata per strada: il mio percorso è molto diverso da quello di uno della cosiddetta seconda generazione, che impara l’italiano sui banchi di scuola, legge i classici sui banchi di scuola e poi scrive. Uno come me, di prima generazione, si sposta, è immigrato, mentre uno di seconda generazione non è immigrato, non ha mai immigrato, non si è mai spostato, eredita la condizione se vogliamo, perché gliela fanno ereditare: anche la frase “di seconda generazione” si riferisce ad immigrato…se tu dicessi al figlio di un cieco “cieco di seconda generazione” non avrebbe senso, sarebbe sbagliato, anche perché il figlio di un cieco non è necessariamente cieco! Quindi dire al figlio di un immigrato “immigrato di seconda generazione” è assolutamente falso. Io ho imparato l’italiano per strada e poi ho letto i classici, è un percorso molto diverso, importante da sottolineare in un paese come l’Italia dove il canone è molto rigido, dove dopo che De Sanctis ha scritto la storia della letteratura italiana l’ha fossilizzata in 2 Daedalus 2012 Intervista a Tahar Lamri quel canone lì, tagliando tutte le espressioni regionali, perché era necessario dare al paese, al territorio, una lingua che finisse insieme all’Italia. Infatti, uno scrittore ticinese che scrive in italiano, non è uno scrittore italiano…è molto strano ed è simbolico della rigidità del canone. In realtà è la lingua italiana che mi ha abitato, sempre, a volte anche con violenza: la lingua italiana si è insinuata nei miei sogni, perché io, per esempio, è da tantissimo tempo che sogno in italiano. Un po’ anche perché a Ravenna non c’erano algerini, all’inizio ero molto scollegato dalla realtà degli altri immigrati, soprattutto miei connazionali, non volevo vederli, mescolarmi con loro, volevo essere integrato, anzi assimilato: è stata un’auto-assimilazione! Poi, quando sono venuti più algerini ho cominciato a frequentarli e ho dovuto davvero fare degli sforzi per recuperare i miei sogni. Adesso sogno un po’ in algerino e sono molto contento di questa conquista, anche se poi i sogni non sono volontari, ma forse lo sono un po’. Fedele: Beh, però si dice che è quando cominci a sognare in una lingua, che la padroneggi completamente… Lamri: È vero! La lingua entra dentro di te, si insinua dappertutto, nel tuo inconscio e, quindi, nei sogni. Però, mentre prima ne ero convinto adesso non lo so, perché ho fatto un altro percorso e ho cercato di recuperare i sogni e tutta la dimensione algerina che avevo cercato di dimenticare, ma che invece è molto importante. C’è stata in questo senso una specie di auto-mutilazione, necessaria se vuoi per poter scrivere tranquillamente con la mente sgombra dalla nostalgia, intesa come i greci come nostos e algos, dolore del ritorno. Si scrive meglio almeno le prime opere, i primi racconti – perché è una ricerca, perché è una sperimentazione – si scrive meglio se si ha la mente sgombra dalla nostalgia, così non si magnifica il passato: a volte si magnifica il presente, però è sempre meglio che magnificare un passato che in realtà non esiste e diventa un po’ biblico, una terra promessa, che non ha niente a che fare con la realtà. Fedele: Nella definizione di letteratura della migrazione non tutti gli scrittori si riconoscono: Abdelmalek Smari la considera diminutiva della qualità letteraria dei lavori degli scrittori migranti; Amara Lakhous la considera un appellativo congruo per definire un uso della scrittura che comporta inevitabilmente il richiamo ad un bagaglio culturale “migrante”. In un’intervista tu hai dichiarato che, invece, si può 3 Daedalus 2012 Intervista a Tahar Lamri rivendicare la dicitura letteratura migrante se questa fa riferimento però ad un percorso personale, legato non tanto allo spostamento fisico, quanto al superamento di un confine, arrivando ad includere, se ho ben inteso, anche la letteratura dialettale che supera i confini del canone… Lamri:…anche letteratura non dialettale, come Claudio Magris che si richiama, per esempio, alla tradizione mitteleuropea. La questione della letteratura della migrazione passa da diverse fasi. Molti di quelli che dicevano di non voler essere riconosciuti come scrittori migranti hanno visto che non conveniva essere scrittori italiani tout court e sono tornati a riconoscersi nella letteratura della migrazione. É un’etichetta e il problema delle etichette è sempre quello: servono per indicare qualcosa, per poterla studiare, ma se la fossilizzano, rappresentano un problema. Il problema delle etichette è che si appongono su cose mutevoli. Ci sono poi delle scuole, tra virgolette: quelli che sono vicini ad Armando Gnisci rivendicano fortemente l’appellativo di scrittura della migrazione, perché è lui che la ha teorizzata, che ne parla, che parla di creolizzazione. Forse la domanda da porsi è: esiste o no una letteratura nazionale? Questo va al di là della migrazione. È chiaro che la migrazione, in quanto movimento, mette in dubbio lo stato nazionale, inteso come invenzione di sé ed esclusione degli altri: l’abbiamo visto nel fascismo e nel nazismo. Le letterature nazionali esistono o no? Se guardiamo alla letteratura, se guardiamo gli stili letterari attraverso la storia troviamo che non esiste una letteratura nazionale. Si pensi all’impatto della scrittura di Dante sulla letteratura europea, non solo sulla letteratura italiana, e Dante è quello che dà finalmente ad un territorio una lingua, esce dal latino, esce da altre lingue canoniche e scrive in volgare ed è stato il primo, poi seguito dagli altri, e poi ogni paese ha cominciato a scrivere nella propria lingua. Prima di questo in Europa era impensabile: le uniche due lingue esistenti erano l’Arabo e l’Ebraico, nelle quali si scriveva prima di Dante, nessuno scriveva in Italiano o in Francese. C’erano i trovatori che cantavano in una lingua mista di latino, una specie di lingua franca. Infatti, se pensiamo alle lingue d’oc e d’oil, per chiamarle si utilizzava il termine che corrispondeva al sì: sono definite così perché in una zona per dire sì, si utilizzava oc, nell’altra oil. E in latino non c’era il sì, c’era sic che vuol dire è così, ma non c’era il sì come adesso, come yes, oui, etc. Quindi già chiamare queste lingue all’inizio era problematico. La questione della letteratura della migrazione pone problemi che vanno al di là della 4 Daedalus 2012 Intervista a Tahar Lamri migrazione. Io non credo nella creolizzazione, non so nemmeno che cosa significa: è un’idea che è stata mutuata dai caraibici, come Glissant, che parlano molto di creolizzazione, ma l’idea di creolizzare l’Europa non mi convince molto, perché il creolo era la lingua degli schiavi bianchi, i poveri delle regioni francesi, per esempio, che poi è passata agli schiavi neri che non potendo comunicare fra loro, non avendo la lingua comune, adottarono questa lingua. Sposandosi tra di loro hanno creato una classe, quella dei meticci che non erano liberi e, quindi, la creolizzazione, come idea, la trovo un po’ tirata per i capelli. Tant’è vero che io scrivo in Italiano o in Francese o in Arabo, non posso prendere queste tre lingue, mischiarle, creare una lingua nuova e poi imporla all’Italia. È impossibile… Fedele: É possibile una contaminazione però, l’utilizzo di alcune parole per esempio in arabo… Lamri: Questo è possibile. Ma io non sono nemmeno d’accordo con Amara Lakhous che dice di italianizzare l’Arabo e arabizzare l’Italiano, per me non ha senso. Perché non si può né italianizzare l’Arabo, né arabizzare l’Italiano: è un processo lento e lungo. L’Italiano contiene tantissime parole arabe, che sono però arrivate nei secoli. L’Arabo contiene alcune parole italiane: in Egitto, nel dialetto egiziano, si usa robivecchi per indicare le cose vecchie, perché gli immigrati italiani facevano appunto compravendita di cose vecchie e dicevano, passando con i loro carretti, “robivecchi! robivecchi!”. Nel dialetto algerino, ci sono parole turche, francesi, berbere, latine, che indicano il passaggio di tante popolazioni sull’Algeria. Ma poi italianizzare l’Arabo e arabizzare l’Italiano… non vedo nemmeno il perché…cioè non capisco nemmeno la finalità. La letteratura della migrazione pone tantissime problematiche che vanno al di là delle contaminazioni che si possono fare, ma devono essere prima di tutto limitate: io non posso contaminare nemmeno il 40% di un testo, perché per essere comprensibile la contaminazione non può superare l’1%, a meno che uno non sia un genio che inventa una lingua nuova facilmente e immediatamente comprensibile a tutti! L’etichetta letteratura della migrazione rinvia all’immigrazione, allo spostamento, al viaggio e, quindi, nella nostra mente di uomini di oggi, a persone che fuggono dalla guerra, dalla povertà e che vanno verso paesi che sono più ricchi. Non è esattamente così, perché ci sono scrittori di origine italiana, che scrivevano in francese, ma vivevano in 5 Daedalus 2012 Intervista a Tahar Lamri Marocco, completamente sconosciuti in Italia; ci sono scrittori poeti della comunità italiana di Tunisi; c’è Kavafis, che era della comunità greca di Alessandria, però scriveva in greco. Nel corso della storia ci sono stati molti scrittori che scrivevano non esattamente nel proprio territorio, ma nel loro territorio di elezione, o, comunque, in un altro territorio, ma anche in una lingua che non era la loro. Conrad era polacco e ha scritto dei capolavori in inglese, magari non avrebbe mai pensato di scrivere in inglese quando si è imbarcato sulle navi in inglesi. Questa non è solo storia di oggi, Conrad come lo vogliamo chiamare: letteratura della migrazione, letteratura inglese, letteratura polacca, letteratura del mare, letteratura coloniale, letteratura post coloniale? Fedele: E allora come definiamo la letteratura della migrazione? Lamri: È quello il punto! È molto difficile. È stata definita negli ultimi vent’anni per comodità, non certamente per fossilizzarla, per erigere barricate. L’Europa ha problemi con l’altro, in Europa nasce il nazionalismo, ha problemi con l’altro in questo senso qui. In Francia tutti quelli che non sono francesi rientrano nella definizione letteratura francofona, perché è letteratura francofona un libanese che scrive in francese? Per quale motivo? Perché è più comodo fare così, fare la differenza tra la letteratura de souche, franco-francofona e la letteratura scritta da un africano, cosa che gli inglesi non hanno, perché ci sono motivazioni storiche. Gli americani non sono così: i russi che negli ultimi anni hanno avuto tanto successo in America non sono stati chiamati letteratura della migrazione, ma letteratura e basta, tra l’altro letteratura di consumo, nemmeno letteratura di nicchia. Molti paesi, l’Olanda, la Norvegia, i paesi nordici hanno scrittori che scrivono da un po’ nelle loro lingue nazionali, ma non li chiamano letteratura della migrazione, non li chiamano in nessun modo, li chiamano con i loro nomi e basta. Kader Abdolah è uno scrittore che scrive in olandese, per loro è uno scrittore olandese tanto che, quando hanno fatto il referendum nel 2007 su quali fossero gli autori olandesi più importanti è venuto fuori come primo Multatuli, che è come dire Dante qui, e per secondo Kader Abdolah, che scrive da nemmeno 20 anni in olandese. E poi scrive solo storie che riguardano l’Iran, nemmeno storie che riguardano l’Olanda: “Il messaggero”, “La casa della moschea”, tutte storie che riguardano l’Iran, perché storicamente l’Olanda non si pone problemi di questo tipo. Devo dire che i paesi protestanti si pongono meno problemi dei paesi cattolici, che si pongono più problemi con 6 Daedalus 2012 Intervista a Tahar Lamri l’altro, con la definizione dell’altro, forse, perché sono stati paesi in cui ci sono state eresie e l’altro è stato sempre problematico. Tanto è vero che uno come Carmine Abate, che è uno scrittore italiano secondo me, poiché viene dalla comunità arbëreshë, anche se non scrive in arbëreshë, è inserito nella letteratura della migrazione…sono i suoi antenati che sono immigrati dalla Albania per venire in Calabria nell’epoca ottomana! E viene messo non so per quale motivo nella letteratura della migrazione. Un arbëreshë che viene dalla Piana degli Albanesi, che ha anche un nome italiano, come fa a essere inserito nella letteratura della migrazione? C’è un problema con l’altro più che un problema di letteratura… Fedele: Però per te è ancora valida come definizione… Lamri: Rimane valida come definizione di letteratura di frontiera, di una specie di frontiera nella quale c’è Salman Rushdie, Amin Maalouf, ci potrei essere io, c’è Amara Lakhous, c’è Claudio Magris, Luigi Meneghello, per certi versi Vincenzo Consolo, persone che sono nelle frontiere, dove c’è Stefano D’Arrigo, che non rientra nel canone italiano ed è accusato di essere troppo siciliano. Questi non sono problemi di letteratura ma di critica letteraria, di accademia, e non è la stessa cosa. Fedele: Qual è il contributo di questa letteratura alla letteratura italiana, soprattutto in relazione ad un canone che se all’inizio riconosceva la letteratura dialettale ha finito per accantonarla? Lamri: Mah, forse si è chiamato qualcosa troppo frettolosamente letteratura della migrazione in Italia. Ci sono libri scritta da immigrati, ma non credo che ci sia ancora una letteratura, intesa come corpus ben preciso. Ancora è presto per dirlo. Il contributo futuro si spera sarà di partecipare a formare un nuovo immaginario – questa è la funzione della letteratura – e aiutarci a vivere insieme. La società italiana si è aperta tantissimo, non è vero che si è chiusa; si apre, ma non lo sa, ci sono aperture, fessure, interstizi…ed è normale che sia così, perché non può essere diversamente, che sia la società italiana o un’altra. Per dare solo un esempio, non letterario perché la letteratura ha tempi molto lunghi, solo dieci anni fa gli studi sociologici parlavano dell’invenzione del fast food, di contro è nato il movimento dello slow food, ma nessuno aveva previsto l’arrivo del kebab che si è installato nelle pizzerie ed è entrato nelle abitudini degli italiani. Qualche sindaco ha voluto vietarlo 7 Daedalus 2012 Intervista a Tahar Lamri nel centro storico, ma poi i ragazzi italiani hanno deciso diversamente. Questa è la seconda cosa a cui partecipa la letteratura, seppur marginalmente visto che la letteratura nei nostri tempi non ha più quell’impatto che aveva una volta, perché la narrazione quotidiana del sé avviene altrove, nei giornali, nelle televisioni oppure in grandi affreschi, se vogliamo, reportage letterari, come nel caso di Gomorra. Questo esempio è molto significativo: tratta di una zona di cui si parlava poco, o comunque in un certo modo, solo sui giornali, l’autore ha messo insieme una narrazione e l’Italia vi si è riconosciuta. Invece, la letteratura tout court ha dei tempi lunghissimi: se la mettiamo in relazione con i figli degli immigrati che non sono altro che italiani con cognomi rumeni, algerini, albanesi, allora si capisce l’impatto che ci può essere sui giovani. Sui grandi, sulla prima generazione, io vedo che, anche se marginalmente, sapere che c’è qualcuno che parla a nome tuo, anche se non dice esattamente le cose che ti raccontano, saperlo è una specie di occasione di successo. Tante volte in tanti incontri letterari a cui ho partecipato personalmente c’erano marocchini e tunisini – gli algerini in Italia non sono molti – e si sentivano veramente rappresentati: ecco finalmente un immigrato che non corrisponde all’immigrato inventato nella cronaca nera dei giornali, ma un immigrato che è quasi un italiano, che però è come me e, quindi, dice le cose che io non so dire, perché non è il mio lavoro, perché sono, non so, un manovale, un operaio. Tantissimi mi presentano i loro figli, sono felici di presentarmeli, come a dire: “Speriamo che anche questi figli possano essere come te”. Fedele: La costruzione di un nuovo immaginario attraverso la letteratura della migrazione è molto interessante considerando la storia linguistica italiana, dove appunto la lingua ha preceduto il popolo… Lamri: Gli italiani partecipano anche loro a questa costruzione. Per ritornare alla questione del kebab, a Roma dicono il kebbabaro che è una parola che tre anni fa non c’era e adesso lo dicono tutti, è una parola contaminata. Sono queste le grandi contaminazioni che si impongono a tutto il popolo: le parole della letteratura sono parole riservate ad un numero relativo di persone, mentre nella lingua italiana entrano alcune parole piano piano, un po’ anche perché i giornali e le televisioni le riprendono e, quindi, si diffondono. 8 Daedalus 2012 Intervista a Tahar Lamri Fedele: Rispetto ancora alla letteratura migrante, gli studiosi del settore mettono in evidenza da un lato tre fasi nel suo sviluppo - una prima in cui prevale la testimonianza scritta a quattro mani, una seconda in cui lo scrittore migrante si autonomizza e vengono anche prodotti generi diversi e una terza fase in cui vi è l’ingresso nel panorama della letteratura migrante delle cosiddette seconde generazioni- dall’altro che proprio la convergenza dei temi tra prima e seconda generazione è una caratteristica propria della letteratura migrante italiana. Cosa ne pensi? C’è secondo te davvero questa convergenza e come si articola? E cosa pensi dei romanzi della seconda generazione che hanno come tema l’islām, come quelli di Randha Ghazi o Sumaya Abdel Qader? Lamri: La situazione è come la descrivi, ma non dovrebbe essere così. Non dovrebbe essere così perché tutto quello che hai detto è il segno della dismissione totale degli scrittori italiani. Normalmente la tematica dell’immigrazione non è monopolio degli immigrati. C’è una società e si scrive della società che si ha intorno, ma nella letteratura italiana troviamo pochissima immigrazione e spesso scritta con degli stereotipi, che non hanno niente a che fare con la realtà, col progetto migratorio, con gli immigrati stessi. Quindi è un po’ la letteratura italiana che non è nella realtà quotidiana dell’Italia e non so per quale motivo. Gli immigrati non devono parlare necessariamente degli immigrati, un immigrato può parlare di qualsiasi cosa e, se è uno scrittore, se pretende di essere uno scrittore a tutto campo, non della migrazione, dovrebbe scrivere di qualsiasi cosa. Le fasi che hai descritto sono più o meno reali, nel senso che all’inizio ci sono stati tre scrittori Pap Khuma, Mohamed Bouchan e Salah Metani, che, credo sollecitati da scrittori italiani, hanno raccolto le loro testimonianze che sono state pubblicate e le case editrici italiane hanno messo prima il nome dell’italiano e poi il nome dell’immigrato, giusto per! Però allo stesso tempo non è esattamente così: Jarmila Ockayova, per esempio, che era cecoslovacca - c’era la Cecoslovacchia quando è venuta qui - scrive da sempre in italiano, da sola, a livello altissimo e non ha mai avuto bisogno né di testimoniare, né di scrivere la sua autobiografia, ma scrive la sua letteratura nella pura tradizione boema se vogliamo, cui appartiene Milan Kundera. Non sono, perciò, fasi così rigide: ci sono altri che scrivevano e che solo poi sono diventati scrittori della migrazione, mentre prima non lo erano, ma erano solo scrittori cecoslovacchi che scrivevano in italiano, che sono diventati scrittori della migrazione, 9 Daedalus 2012 Intervista a Tahar Lamri perché ci vuole una scansione, una etichettatura etc. Per quanto riguarda la cosiddetta seconda generazione, anche lì il problema è complesso, perché ci sono quelli che sono nati qui, quelli che sono arrivati successivamente e conoscono quindi anche la realtà del paese da cui vengono i genitori, sono immigrati piccoli, non hanno scelto la migrazione e poi ci sono i figli dei matrimoni misti: Gabriella Kuruvilla, per esempio, ascritta alla seconda generazione, non è di seconda generazione, ha il padre indiano e la madre italiana e lei è milanese, solo che ha il padre indiano. Naturalmente scrive in italiano, perché è sempre stata qui, è cresciuta qui, indipendentemente dal fatto che il padre sia indiano o meno, perché lei è milanese, successivamente ha recuperato delle questioni indiane, scrive dell’India, ma lo può fare anche chi non ha il padre indiano. Anche Layla Wadia, un’altra indiana viene erroneamente messa con le seconde generazioni, visto che a volte le seconde generazioni sono intese in senso anagrafico, uno emigra, ma se è giovane è di seconda generazione! Layla Wadia è immigrata, si è spostata dall’India in Italia, solo che aveva trent’anni, credo, e, quindi, l’hanno messa con la seconda generazione: è una seconda generazione embedded, come i giornalisti con l’esercito americano. E quindi c’è anche una specie di confusione, una semplificazione. È il rapporto degli scrittori italiani con questi temi che fa sembrare che ci sia una convergenza di temi che, in realtà, non c’è. Non devi essere tibetana per scrivere del Tibet, potresti tranquillamente scrivere del Tibet, ambientando nel Tibet qualcosa…o sei campana di origine e niente ti impedisce di ambientare un tuo romanzo in Emilia Romagna e non sarebbe letteratura di viaggio, ma letteratura e basta. Il fatto che gli scrittori italiani non si occupino di questo tema, che è un tema attuale, non è un tema che riguarda gli immigrati, è un tema mondiale che riguarda, appunto, la mondializzazione e i popoli che si spostano, le merci, la finanza, è incomprensibile! Al massimo scrivono dei gialli o dei noir, nei quali normalmente c’è un albanese o un rumeno, perché i giornali sono pieni di questo, e questo fa sembrare che gli scrittori di prima, seconda e terza generazione abbiano temi convergenti, ma non è vero, è solo una prospettiva deformata. Anche in Italia prima e seconda generazione sono diverse! L’età cambia, l’esperienza cambia: se uno è bambino in Italia ha un’esperienza totalmente diversa da uno che è bambino ad Algeri. Per la questione dell’islām ho difficoltà a rispondere a questa domanda perché io li trovo artificiali, trovo brutti anche i titoli Metto il velo e 1 0 Daedalus 2012 Intervista a Tahar Lamri ascolto i Queen e che c’entra? Qual è il nesso fra i Queen e il velo, non riesco a vederlo, anche perché nessuna donna in Algeria o in Egitto nessuna donna che mette il velo, si porrebbe questa domanda. Si sono sempre ascoltati i Queen o i Rolling Stone o i Beatles nei nostri paesi! Io ho tantissime amiche che all’epoca mettevano il velo e ascoltavano i Beatles, con le mamme che non sapevano leggere e scrivere con il velo, che ascoltavano, magari amavano anche queste musiche…non riesco a vedere il nesso! Fedele: Credo che sia nel tentativo di decostruire l’immagine della donna musulmana che se rivendica la propria identità religiosa, non può avere una vita normale e ascoltare, per esempio la musica… Lamri: Infatti…e non vedo il nesso! Essere musulmani non impedisce assolutamente nulla di quello che si fa normalmente! Guarda ti racconto la storia di un mio amico senegalese per farti capire cosa voglio dire. I senegalesi spesso anche qui mettono il bubu… soprattutto dopo il lavoro, per sentirsi a loro agio e anche perché, se è caldo, stanno più freschi. Allora, un giorno il mio amico senegalese mi racconta che messo il suo bubu, esce ed incontra un suo collega di lavoro che gli dice: “Ah!guarda! Sei vestito all’islamica oggi!”. E il mio amico senegalese lo guarda e gli dice: “Io non ho mai pensato che tu fossi vestito alla cattolica!”. Perché un cattolico non si pone la questione di ascoltare o meno i Queen e un musulmano si? Lo trovo assolutamente fuori luogo! Perché bisogna rispondere alle domande false? Se dei preti dicono che ascoltando i dischi rock al contrario si sente la parola satana, un’assurdità, io non capisco nemmeno perché si dovrebbe ascoltare all’incontrario un disco, non saprei neanche come fare, io non lo trovo molto diverso da quello che dice Bin Laden e non capisco perché un musulmano normale, una donna musulmana, che magari, per scelta, si mette un velo, debba rispondere a queste cose e dire che a lei piacciono i Queen! A parte il fatto che non è interessante, non vedo che cosa porti anche nella decostruzione anzi, potrebbe essere dannoso, potrebbe indurre a dire “Lei ascolta i Queen, invece quell’altra non li ascolta” quindi trasformare in un valore ascoltare i Queen! Per me non è un valore, potrebbe piacermi più Fadil al-Atrash che i Queen o Umm Kalthum, che secondo me è superiore ai Queen. 1 1 Daedalus 2012 Intervista a Tahar Lamri Fedele: Passando ai temi dei tuoi racconti, ne I sessanta nomi dell’amore, insisti molto sul rapporto tra scrittura e oralità, quest’ultima un topos della letteratura araba in generale, come l’analfabetismo, che essendo nella tradizione la condizione del Profeta al momento della rivelazione del Corano, riferimento primo nella costruzione della lingua araba, diventa sinonimo dell’essere letterati puri. In cosa la tradizione della letteratura araba, sia nello stile che nelle immagini, influenza i tuoi scritti? Lamri: Più che di letteratura araba parlerei di letteratura magrebina. Nella nostra regione c’è stata una rielaborazione della letteratura araba, l’abbiamo ricevuta un po’ per echi, ma non siamo a pieno dentro la letteratura araba. La letteratura araba poi è essenzialmente poesia, non siamo così imbevuti di poesia araba, come lo può essere un palestinese, un giordano, un siriano. Loro sono veramente imbevuti di letteratura araba, anche perché ce l’hanno lì: se tu vai in Siria vai a Maarat alNuman e lì c’era al-Maari, Abu Faraj al Hamadani girava ad Aleppo, è come dire Dante tra Firenze e Ravenna! Nel Maghreb è diverso: prima di tutto siamo in Africa e questa è una cosa che esiste, è una cosa che storicamente è esistita ed è stata molto forte, ma è stata dimenticata: se guardi la letteratura magrebina, l’Africa non la trovi, perché gli occhi sono tutti rivolti al Mediterraneo o all’Europa, soprattutto quelli di coloro che scrivono in francese, ma anche di chi scrive in arabo. Si parla di Mediterraneo e di Europa, mentre la dimensione africana è totalmente assente. Fedele: Perché? Lamri: Per il colonialismo, per una certa taba’iya …non so come dire in italiano: diceva ibn Khaldun che il colonizzato segue sempre il suo antico padrone, e un po’ per essere mediterranei, anche se, in fondo, mediterranei non è nemmeno giusto, visto che i marocchini sono sull’Atlantico! Io ne Il pellegrinaggio della voce ho cercato di recuperare l’oralità – un po’ i proverbi di mia madre, un po’ la figura del griot – e ho voluto proprio finire il racconto in Africa, per dire che forse è ora che la dimensione dell’Africa sia recuperata nella nostra letteratura. Lo scrivo in italiano ed è un po’ comico, perché l’italiano non lo legge nessun magrebino: e nemmeno questo è del tutto vero! Sono andato ad Algeri a tenere una conferenza all’Università e ho visto che gli studenti di Italiano con cui ero andato a parlare erano molto 1 2 Daedalus 2012 Intervista a Tahar Lamri sensibili a questo tema, lo sentono molto, anche perché storicamente i libri viaggiavano tra Timbuctu, Cinghetti, Fez, il sud dell’Algeria, le vie del pellegrinaggio, ma anche questo è stato dimenticato. Quando ero piccolo ad Algeri andavo sempre al suq a sentire il meddah, il nostro griot, che racconta le storie, ma non è come il griot senegalese che ha una funzione ben precisa, piuttosto è un cantastorie. Quando sono arrivato in Italia e ho incontrato la cosiddetta civiltà, la civiltà tecnologica, mi sono reso conto che anche qui era uguale, dalla tradizione dei pupi siciliani, alla tradizione di tutti i cantastorie che venivano nelle stalle a raccontare e, vedi, tutto ciò è legato in un certo senso. Il fascino della civiltà avanzata, della tecnologia, etc. fa si che tutte queste cose sembrano legate alla povertà, al mondo contadino, che bisogna rinnegare! Più che immagini arabe, quindi, sono immagini un po’ legate alla mia infanzia, un po’ al fatto di essere africani, comunque di essere in Africa, anche se ce lo dimentichiamo spesso. Il pellegrinaggio della voce ad esempio, è un testo che ho scritto per leggerlo ad alta voce, infatti, quando lo leggi a bassa voce, è un po’ astruso. Non è da tanto tempo che gli esseri umani leggono a voce bassa: se Sant’Agostino, che tra l’altro veniva dall’Algeria, scrive che entrando nella stanza di Sant’Ambrogio, lo vede immerso nella lettura, senza muovere le labbra, ed è così stupito che lo scrive nelle Confessioni, il che vuol dire che Sant’Ambrogio faceva una cosa molto strana e all’epoca tutti leggevano a voce alta. E lì nel racconto, dove parlo dei denti, uno con un dente, due denti, tre denti, quattro denti, fino ad arrivare a sette senti, quando lo leggevo le persone mi facevano sempre domande su questa questione dei denti, e io cercavo sempre di trovare delle risposte un po’…intellettuali. Noi amiamo ammirarci, invece spesso se uno scrive, non sa perché scrive una cosa o un’altra, delle volte succede che uno non sia padrone della propria scrittura, almeno non sempre. Un giorno nella provincia di Milano ho fatto questa lettura e mi hanno fatto una domanda sui denti e io ho cercato di dare una risposta e una signora anziana che era lì mi ha detto: “Guardi non è vero, non è così! La risposta non è così! La risposta vera è che io mi ricordo quando venivano delle persone a raccontare storie e avevano pochi denti nella bocca!” E io ho detto: “Signora guardi mi ha dato veramente la risposta, mi ha dato proprio la risposta che io cercavo da anni!”. La cosa strana è che io ero ad Algeri e lei a Milano e ha risposto a una domanda che veniva dal fondo dei miei ricordi d’infanzia. Questo lo 1 3 Daedalus 2012 Intervista a Tahar Lamri trovo straordinario e lo può fare l’oralità non la scrittura. Come diceva Platone, il libro è antipatico perché se gli fai una domanda non ti risponde, non è come il poeta che se gli fai una domanda ti risponde perché è lì davanti a te. Fedele: Tahar ben Jalloun dice che se scrivesse in arabo scriverebbe dei pessimi racconti e tu stesso metti in evidenza che l’arabo in quanto lingua del Corano inibisce il suo uso in un ambito profano: tu scriveresti in un’altra lingua? Lamri: Io in arabo scriverò, non so quando, perché io non produco molto. In arabo letterario, perché è l’unico che si legge, tutti sanno leggere l’arabo letterario: al-Jazeera è solo in arabo classico e la capiscono tutti. Tahar ben Jalloun ha dato una risposta lì, che non ha molto senso. Biassin ha dato una splendida risposta invece: le hanno chiesto perché scrivesse in francese e lei ha detto: “Il francese è un bottino di guerra e io del bottino di guerra faccio quello che voglio compreso scrivere!” Poi Tahar ben Jalloun risponde ad una domanda che fa a se stesso, perché poi non è vero che c’è tutta questa contestazione sulla scelta della lingua. Gli scrittori magrebini sentono la necessità di rispondere a delle domande immaginarie, anche con dei libri anche L’amore bilingue di Khatibi è una risposta ad una domanda immaginaria, perché si sentono un po’ in colpa nello scrivere nella lingua del colonizzatore. Noi abbiamo forte il senso del tradimento, che chiamiamo con una frase che significa vendere la propria religione. Quando uno prende la cittadinanza francese, gli viene detto “hai venduto la tua religione”, è molto significativo. Non è che ci sia tutta questa contestazione popolare se uno scrive in francese, tanto è vero che tanti scrittori che scrivono in francese vivono lì, Tahar ben Jalloun vive in Francia, non in Marocco, Raschid Mimouni, invece, viveva in Algeria e scriveva esclusivamente in francese e, molto più vicina a noi, Yasmina Khadra scrive in francese e nessuno mai l‘ha contestata o le ha chiesto perché. Fedele: E questo non determina un impoverimento della letteratura in arabo? 1 4 Daedalus 2012 Intervista a Tahar Lamri Lamri: No, la letteratura in lingua araba ha il suo percorso che non ha niente a che fare con la letteratura in un’altra lingua. Ci sono questi veicoli, questi mezzi, che sono le lingue e ognuno scrive nella lingua che gli è più consona, che gli piace di più, che gli suona meglio, nella quale, poi, forse sente di esprimersi meglio: quando mi esprimo in Italiano è ovvio, è chiaro, che le cose che esprimo le esprimo soltanto in Italiano, non ha niente a che fare con l’Arabo, non è possibile trasportare dei sentimenti dall’Arabo all’Italiano, perché la lingua non lo consente e neanche dal Francese che è una lingua sorella dell’Italiano. La letteratura araba ormai è quasi inesistente perché la gente sono anni che non legge letteratura: dagli anni ’90 si legge letteratura religiosa, che sta diventando sempre più forte, poi ogni tanto c’è qualche successo, che è più un successo in occidente, che nei paesi arabi. Palazzo Yacoubian di ‘Ala al-Aswani è stato scritto, tra l’altro utilizzando molto il dialetto egiziano, e ha avuto successo perché pubblicato a puntate sul giornale e poi è stato raccolto in un libro che ha avuto un po’ di successo in Egitto, ma non molto fuori. Poi è stato tradotto in tante lingue ed è ovvio che con l’aura del libro tradotto, è andato meglio, ma non si può dire che nasce da un grande successo arabo. Da alcuni anni manca una produzione letteraria in arabo. Ci sono sicuramente scrittori come Ibrahim al-Koni, che vive in Svizzera, ma scrive in arabo ed è libico; ci sono i libanesi come Khouri Elias che ha scritto La porta del sole sulla Palestina che ha avuto successo anche nei paesi arabi, ma perché la questione palestinese è particolare. Ci sono però gli intellettuali arabi che non necessariamente sono letterati, così come non tutti i letterati sono intellettuali: quando era vivo Edward Said, aveva una rubrica quotidiana nel giornale al-Hayat ed era una delle più lette, perché era un grande intellettuale arabo- americano che parlava di questioni che interessano la vita quotidiana delle persone e anche il direttore del giornale al-Quds al-Arabi Atwan, quando parla è molto, molto ascoltato in quanto intellettuale e giornalista e da qualche tempo anche Azmi Bishara soprattutto in queste ultime rivoluzioni in Tunisia e in Egitto. Oggi abbiamo un metodo per vedere il successo delle persone che è facebook, contando quante persone condividano e clicchino e Bishara è uno dei più cliccati. La letteratura in questo periodo non ha una funzione, non riesce ad avere la funzione della contestazione, che sarebbe quella che serve in questo momento, non ha fatto nulla contro i dittatori, non è stata una letteratura diciamo di protesta e, quindi, la gente non l’ha sentita e gli arabi non sono ancora 1 5 Daedalus 2012 Intervista a Tahar Lamri nella letteratura di evasione, non sono arrivati a quella fase lì, ma se continuano le rivoluzioni arriverà anche la letteratura. Fedele: Pensi che la letteratura della migrazione possa avere un impatto sulla letteratura araba? Alcuni lavori di Lakhous sono stati tradotti in arabo … Lamri: No, non credo perché Lakhous le scrive personalmente, le diffonde anche con una bella casa editrice, ma scrive in Arabo e riscrive in Italiano quello che ha scritto in Arabo ma non è che siano tradotti. Anche Tahar ben Jalloun, per parlare di cose più consolidate, perché l’Italia è ancora un po’ marginale e chi scrive in Italiano risente della marginalità della lingua italiana, anche Tahar ben Jalloun quando viene tradotto è letto nelle Università, non è una cosa popolare, non è ancora il momento. Poi, sai, gli arabi, come tutti, leggono i best seller tradotti in arabo, compresi ma non solo quelli arabi. Oltre alla letteratura religiosa si leggono molti saggi, perché c’è bisogno di capire quello che succede nel mondo, saggi di politici, giornalisti, perché non è come in Sud America dove, per esempio, la letteratura è stata fondamentale anche nella lotta contro le dittature. I nostri letterati si sono un po’ accomodati con i dittatori, non abbiamo un tunisino letterato che ha scritto qualcosa contro la dittatura tunisina e, quindi, la gente gli si è stretta intorno. C’è un po’ in Siria, ma poco, molto marginale e molto siriano. Non c’è nemmeno quello che fa il cinema iraniano, ad esempio, che racconta delle cose senza essere diretto e la stessa letteratura iraniana lotta come in America Latina. Fedele: Secondo te è identificabile un’unità culturale mediterranea, un discorso mediterraneo letterario comune? Lamri: Perché no? Però ti rispondo perché no, non ti posso rispondere sì! Io non riesco a considerare una letteratura di espressione francese veramente una letteratura algerina o marocchina, parla di questioni, ma non parla nella lingua del popolo, parla nella lingua d’élite. Sì, quindi, per la sponda nord del Mediterraneo, nel sud Italia, nel sud della Francia, un po’ la Spagna, un po’ la Jugoslavia, perché ci sono ci sono anche libri che non sono di fiction, tipo di Amin Maalouf, Jean Claude Izzo, ma nella sponda sud molto meno. 1 6 Daedalus 2012 Intervista a Tahar Lamri Una volontà sicuramente c’è stata, ma non è sfociata in un dialogo vero e proprio. Sai perché? Se io sono mediterraneo, se sono a sud, mi conviene, perché mi mette immediatamente anche nella sponda nord, ma pochi che sono nella sponda nord dicono lo stesso, perché nel momento in cui dici di essere mediterraneo, diventi immediatamente libanese, turco, algerino. Per questo parlo di espressione linguistica: chi scrive in francese fa già un’operazione di avvicinamento ad un’altra sponda e, quindi, è estraneo al popolo. Fedele: Rimanendo sul Mediterraneo, ma da un altro punto di vista, in una tua intervista dici che nello scrivere in italiano senti la responsabilità di quanti su questo mare, diventato una fossa comune, non hanno voce. Cosa ne pensi di quello che succede a Lampedusa? Lamri: Chi si autoproclama scrittore, appartiene ad un gruppo di pochi privilegiati che hanno diritto alla parola, hanno diritto al microfono, hanno diritto alla penna, hanno diritto di essere pubblicati etc., e quindi, in un certo senso, dovrebbe parlare anche di chi non ha accesso alla parola. Non succede, non avviene, perché noi, in quanto letterati della migrazione, non abbiamo mai detto una parola né sui rom, quando i rom erano sotto attacco, né sulle campagne mediatiche contro gli albanesi o contro altre popolazioni. Noi non abbiamo mai detto niente o preso una posizione insieme perché, appunto, ti dicevo prima, si è parlato troppo presto di una letteratura, di un movimento, che non esiste in realtà. Quello che succede è…sono paralizzato nel pensiero: cosa si può pensare? Ti rinvio la domanda…cosa si può pensare? A livello individuale ci sono cose belle: a Lampedusa hanno fatto un cuscus per tutti i tunisini arrivati, non l’abbiamo visto per televisione, ma l’abbiamo visto su you tube. Ora però i giovani si stanno ribellando, per esempio in Spagna, rispetto a questo modo di gestire il mondo, a questo modo un po’ nazista di gestire il mondo, in generale di svuotare il mondo e vivere sui debiti, su questa crescita insostenibile. I giovani europei non sono molto contenti ed hanno salutato con molto calore le rivoluzioni in Egitto ed in Tunisia, però è molto difficile avere dei pensieri lucidi su quello che succede, molto difficile. Basta pensare ai respingimenti, al respingere una persona, se fosse solo a livello individuale, lasciando stare la gestione politica: io vengo a casa tua e tu senza nemmeno sapere cosa voglio mi respingi. Era una cosa che mi ha molto colpito i primi anni che ero qui, come la gente rispondeva ai Testimoni di Geova che venivano a bussare nelle case e gli urlava 1 7 Daedalus 2012 Intervista a Tahar Lamri contro e mi colpiva molto questa cosa, non riuscivo a capire perché. Poi dopo un po’ ho capito che si è costruita sui Testimoni di Geova un’idea che li vede contro la religione cattolica, rompiscatole etc. tanto che uno nemmeno senza sapere cosa vogliono, gli urla contro. Già a livello individuale è brutto, perché un essere umano normalmente non si comporta così, non dovrebbe comportarsi così, perché le religioni dicono che non dovrebbe comportarsi così: nelle prime pagine della Bibbia la parola straniero è usata 36 volte per dire di dare asilo allo straniero, dargli da mangiare etc. Se vogliamo parlare di radici, le nostre radici comuni sono queste, no? I Tunisini hanno mandato una lettera all’Italia, una lettera del popolo tunisino all’Italia, nella quale si chiedevano come mai loro avevano accolto in poche settimane 170mila persone che fuggivano dalla Libia, c’era stata solidarietà, gli avevano dato da mangiare e addirittura c’era sovrabbondanza di cibo, tanto che l’organizzazione aveva avvertito di non mandare più cibo, e gli italiani per 5000 tunisini, i primi ad arrivare, avevano parlato di esodo biblico. Non capivano, i tunisini, cosa stava succedendo: siete più ricchi di noi e fate così e allora noi cosa dobbiamo dire? Quindi, vedi che io non devo pensare niente, perché i popoli ricevono dei messaggi, ricevono il messaggio che l’Europa non li vuole, parla degli ideali, però non li vuole e questo risponde anche alla domanda sul mediterraneo. Se tu fai questo e fai un intervento militare, allora non si capisce più niente. In Libia, ad esempio, i Libici stessi hanno chiesto l’intervento ed io all’inizio vedevo Gheddafi che massacrava il suo popolo, per cui ci sta anche la protezione delle popolazioni, ma se tu metti in relazione l’accoglienza degli immigrati con il bombardamento, è incomprensibile. Se li vedi separati, allora puoi spiegare l’intervento militare! La questione della Libia è molto complessa, ci sono molti sentimenti, è chiaro che le popolazioni civili bisogna proteggerle, io personalmente ero e sono con l’intervento, nel senso di protezione, anche perché seguivo minuto per minuto quello che succedeva in questa rivoluzione e vedevo i Libici che chiedevano aiuto. Quello che non si capisce è come mai vai ad aiutare i Libici, anche militarmente, e poi hai una barchetta di gente che muore di fame, può annegare da un momento all’altro, e non li salvi? Allora tu mi dici che stai salvando un popolo e non salvi 4 persone? C’è uno iato, tra le due cose, c’è qualcosa che non va. Fedele: Tu hai dedicato l’ultimo festival delle culture di Ravenna alle rivoluzioni. Dopo le rivoluzioni in Tunisia ed in Egitto, a quello che sta 1 8 Daedalus 2012 Intervista a Tahar Lamri adesso scuotendo la Libia, le manifestazioni che ci sono state in Algeria e in Marocco, pur tenendo conto della differenza nella storia economica, sociale ed istituzionale dei paesi del Nord Africa e considerando la situazione libica come comunque peculiare, cosa pensi che cambierà nei paesi sulla riva sud del mediterraneo? Lamri: Beh, la Libia non si può totalmente lasciare da parte perché sta diventando centrale e un po’ ha raffreddato le rivoluzioni, come la Siria. C’è qualcosa di inconcepibile, perché c’è un intervento in Libia e un’impossibilità di intervento in Siria: non puoi aprire due fronti, prima di tutto, e, poi, non puoi intervenire in Siria, anche se sono morte 1600 persone, molte di più che in Libia. Continuano a morire ancora i Siriani, continuano ad essere pacifici e non chiedono l’intervento militare. Se tu intervieni in Siria, per assurdo, vuol dire che favorisci Israele, perché tu non puoi distruggere l’esercito siriano, anche se lo chiedesse il popolo siriano perché lì c’è Israele e, a quel punto, tutti i popoli si opporrebbero all’intervento. E’ un paese che ha anche una zona che è sotto colonizzazione israeliana, il Golan, e tu non puoi distruggere quell’esercito, perché quell’esercito per tutti gli arabi è l’esercito che può un giorno o l’altro servire per i palestinesi. Perché dico questo? Perché questo sta raffreddando le rivoluzioni: dopo un grandissimo entusiasmo in Tunisia soprattutto e poi in Egitto, con tutta la sua grandiosità, perché l’Egitto è un paese grandioso per natura, poi succede la Libia e si ferma e arriva un intervento straniero, l’intervento della NATO, poi arriva la Siria e si sta uccidendo un popolo, ma non ci sono giornalisti, non ci sono televisioni, non c’è niente, solo quello che vedi su youtube. Ma c’è anche lo Yemen dove non si capisce ancora come andrà a finire, c’è il Bahrein dove è stato completamente distrutta la protesta dall’intervento dei Sauditi, l’Iraq di cui non si parla mai, il Marocco dove il collettivo del 20 Febbraio esce ogni domenica per strada. L’Algeria per il momento è silenziosa, all’inizio c’erano state insieme ai tunisini delle proteste, ma poi si sono fermate, anche perché l’Algeria è molto particolare, perché queste rivoluzioni le ha fatte nell’88. Adesso ci presentano le rivoluzioni come una cosa nuova, in realtà i paesi arabi non hanno mai smesso di fare le rivoluzioni le hanno sempre fatte. In Siria il padre dell’attuale presidente Hafez Assad aveva bombardato Hama, negli anni ’80, provocando 20.000 morti di cui non si è mai parlato! In Algeria nell’88 c’è stata la rivolta e 500 morti tra i giovani e subito dopo c’era stata la costituzione democratica e pluralista 1 9 Daedalus 2012 Intervista a Tahar Lamri etc. etc. Ma alle elezioni il popolo elegge il cattivo soggetto, gli integralisti, il FIS, come i Palestinesi che eleggono il cattivo soggetto Hamas, e vengono puniti, da cui nasce il terrorismo in Algeria per 10 anni con 200.000 morti. Gli Algerini, prima di fare una rivolta, ci pensano due volte, perché sanno cosa succede. Poi, comunque, il campo politico è più aperto, ci sono i giornali, si parla, non è che in Algeria si va in prigione perché dici una cosa, non è come la Tunisia, i mafiosi al potere sono molti di più, non sono solo Ben Ali e la sua famiglia, in Algeria ci sono i generali, il mostro ha cento teste, tagliata una, ce n’è un’altra. Però io credo che, aldilà di quello che succederà e che è successo, finalmente il mondo riconosce che in questa zona c’è una società civile, c’è un popolo, mentre prima si aveva l’impressione che da lì potesse venire solo l’islamismo, che è una cosa non reale. Qui si dicono delle cose ridicole tipo “Le tribù si danno appuntamento tramite facebook”! Qui ci sono degli stereotipi, come se lì non ci fossero dei giovani, non ci fosse internet, ma tanti Bin Laden islamisti, cose usate dall’occidente per sostenere Ben Ali, Mubarak etc., per sbarrare la strada agli islamisti fittizi, inventati da loro! Che poi gli islamisti sono persone come le altre non è che sono mostri! La rivoluzione, se vuoi, ha decostruito l’immagine dell’arabo o addormentato e accondiscendente o comunque fuori dalla storia. Soprattutto ha finalmente tolto di mezzo la sciocchezza dello scontro di civiltà, che veramente era una cosa insostenibile senza alcun senso. Queste idee americane come la fine della storia sono idee affascinanti, formule che, però, per fortuna hanno una scadenza; adesso nessuno parla più di scontro di civiltà, mentre due, tre anni fa tutti parlavano sempre di questo. Come in sociologia, fino a quattro, cinque anni fa si parlava solo di società liquida e sembrava che fosse proprio vero, adesso non ne parla più nessuno, l’idea aveva una data di scadenza e non lo sapevamo! Almeno queste rivoluzioni, a parte dare la libertà ai tunisini, agli egiziani e sicuramente anche ad altri, perché non possono finire, ormai quando un movimento così è iniziato non si può fermare, decostruiscono quest’immagine e fanno sembrare possibile una cooperazione anche culturale nel Mediterraneo. Finalmente può essere possibile, perché prima non lo era: quando hai dittatori, non è possibile nemmeno per la letteratura cooperare, perché è una cooperazione fasulla, politica che non ha niente a che fare con la realtà. 2 0 Daedalus 2012 Intervista a Tahar Lamri Fedele: Stamattina a proposito del Marocco ho letto che il primo di luglio i marocchini andranno a votare e tra le riforme costituzionali c’è l’inserimento tra le lingue ufficiali del dialetto berbero… Lamri: È solo demagogia, una promessa di dieci anni fa. Ciononostante va bene, verrà scritto nella costituzione, è comunque un avanzamento. Pensa che nella costituzione francese la lingua ufficiale è il francese e noi prendiamo il nostro modello della Francia. La costituzione italiana nell’articolo 6 parla invece - poi non si fa nella realtà - della promozione e della protezione delle lingue locali etc. … e non dice che la lingua italiana è la lingua unica del paese. La costituzione italiana è avanzata in questo senso. Fedele: Nei tuoi racconti colpisce l’attenzione al particolare, al significato quotidiano di grandi temi: in UNDICIZEROTREDUEMILAQUATTRO, per esempio, gli attentati di Madrid si palesano in un boato e nel trillo di telefonini che interrompe una carrellata quasi fotografica della quotidianità dei passeggeri del treno. Lamri: Lì cerco proprio di fare delle piccole biografie, perché i giornali parlano solo di morti, come con gli immigrati. Se scriverò qualcosa su Lampedusa, scriverò con nomi e cognomi. Anche perché come fai a parlare di grandi temi, come l’intercultura per esempio: se fai un saggio va bene, ma quando ne parli in un racconto qualunque cosa tu dica è falsa, pontifichi su una realtà mutevole. Noi siamo esseri umani, per natura cambiamo e, allora, nei racconti se vuoi parlare degli esseri umani, non puoi dire è così e basta! Fedele: Qual è il primo romanzo che hai letto in italiano? Lamri: Non mi ricordo, io leggo talmente tanto! L’autore che preferisco…ce ne sono diversi. Ultimamente ho letto per la prima volta Elio Vittorini e Conversazioni di Sicilia mi è piaciuto moltissimo, soprattutto nella parte iniziale, la figura della madre che parla con il figlio come fosse un amico … Ecco, sì! Nel primo periodo mi piaceva molto Pirandello perché era molto vicino a noi, alle nostre storie e poi ho letto tutte le opere di Calvino perché lo vedevo citato dappertutto, e ho preso tutte le sue opere: alcune mi sono piaciute tantissimo, altre meno, altre le ho trovate intellettuali. Ho letto Gadda che è anche lui 2 1 Daedalus 2012 Intervista a Tahar Lamri molto citato, ma non mi è piaciuto, non l’ho capito. Poi noi stranieri non abbiamo la scansione del tempo: se tu vai a scuola in Italia ti insegnano il canone e la cosa bella del canone è che ti insegna la scansione del tempo, invece quando leggi così non sai niente, è come con la musica, quando lo straniero arriva ascolta le canzoni italiane e le ascolta tutte insieme, non ha la canzone legata all’adolescenza, quella legata all’innamoramento o alla post-adolescenza, non ha tutta questa scansione che è necessaria: ascolti tutti e non sai la differenza tra Baglioni, De Gregori o Conte. Con la letteratura succede più o meno questo. I miei riferimenti culturali, quelli che mi piacciono di più sono Borges, Bachman, dove siamo nelle vette della femminilità e non solo della letteratura, Jean Genet. Fedele: E Camilleri nella letteratura migrante lo metti? Perché in effetti scrive in dialetto! Lamri: Camilleri è straordinario. Dire che scrive in siciliano è riduttivo, lui inventa una sua lingua, il suo a 80 anni è una specie di pulp bello! I libri mi sono piaciuti tutti, mi piace tantissimo e sì, lo metto nella letteratura di frontiera! Fedele: Un’ultima domanda: a che stai lavorando a questo momento? Lamri: Sto lavorando ad un romanzo – che fatica a vedere la luce – e che ha un incipit fra l’altro in un racconto già pubblicato Tutti gli altri lo chiamano Omero. Lo sto rendendo un romanzo, ma volevo fare dei quadri, dei racconti compiuti, a più voci. Quello che mi interessa mettere in evidenza è la contraddizione che ognuno di noi porta in sé, un argomento che mi affascina. 2 2 Daedalus 2012 Intervista a Jean-Léonard Touadi JEAN-LÉONARD TOUADI* INTERVISTATO DA ADELE VALERIA MESSINA Roma, 28 luglio 2011 Messina: Ascoltare la voce di chi è passato per l’esperienza migratoria quanto è importante? Mi tornano in mente le parole di Edward W. Said, critico letterario palestinese, che definisce l’esilio come “qualcosa di singolarmente avvincente a pensarci, ma terribile a viversi. […] una crepa incolmabile, perlopiù imposta con forza, che si insinua tra un essere umano e il posto in cui è nato, tra il sé e la sua casa nel mondo”1. Anche la sua migrazione potrebbe definirsi un’esperienza di esilio, almeno territoriale, quando dal Congo arriva in Italia? Potrebbe raccontare questa storia: perché ha scelto l’Italia, per esempio? Quando è diventato cittadino italiano? Di recente ho letto un bellissimo libro Auschwitz spiegato a mia figlia2; se lei dovesse spiegare le vicende della sua cittadinanza italiana ai suoi figli (dall’esperienza del viaggio, alle prime difficoltà, alla fine della sua migrazione) che cosa direbbe loro? Touadi: Io sono nato negli anni ’60 quando i paesi africani stavano diventando indipendenti e quindi sono frutto della lotta anticoloniale. Diciamo che nasco quando sorge in Africa l’alba della libertà; faccio parte della prima generazione di africani liberi dopo i tre secoli e mezzo di schiavitù e un secolo e mezzo di colonizzazione… il XVI secolo, inizio della schiavitù, il 1885, inizio della colonizzazione. Il mio paese di nascita, il Congo, ha conosciuto sia il periodo della schiavitù con i portoghesi (molti schiavi sono partiti dalla costa del Congo e dell’Angola verso le isole caraibiche, verso Cuba, molti dei cubani vengono da lì) che la colonizzazione francese successiva. E * Jean-Léonard Touadi è docente di Geografia Economico-Politica presso l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”. È membro del Gruppo Parlamentare “Partito Democratico” alla Camera dei Deputati, XVI legislatura. È stato componente di diversi organi parlamentari. Dal 26 luglio 2011 fa parte della III Commissione (Affari Esteri e Comunitari). 1 E. W. SAID, Nel segno dell’esilio. Riflessioni, letture ed altri saggi, Feltrinelli, Milano, 2008, p. 216 (ed. or. Reflections on the Exile and Other Essays, Harvard University Press, Cambridge, 2003). 2 A. WIEVIORKA, Auschwitz spiegato a mia figlia, Einaudi, Torino, 1999. 1 Daedalus 2012 Intervista a Jean-Léonard Touadi quindi noi nasciamo con questo sogno di libertà per l’Africa, ma anche con una specie di desiderio di rivincita storica: allora era il momento di costruire il continente, di ricostruire il paese. Era arrivato il momento di riappropriarsi della propria storia, del proprio spazio materiale, del proprio spazio simbolico, della propria cultura. Siccome la colonizzazione ha lasciato l’Africa senza una élite formata (pochissimi superavano la scuola superiore perché ai francesi non servivano degli ingegneri o dei medici indigeni: erano loro, i colonizzatori, che facevano questi lavori, mentre gli indigeni si accontentavano di avere funzioni subalterne), la decolonizzazione rappresentava un momento di svolta per l’Africa, il momento in cui doveva formare i suoi quadri. La mia generazione è quindi quella generazione sulla quale l’Africa moderna punta per la formazione. I governi hanno iniziato a stanziare molti soldi per la scuola, per delle buone scuole; e i migliori tra gli studenti dovevano andare in Europa, nelle università europee. Possiamo definirla come una missione prometeica: bisognava rubare il fuoco agli dei e portarlo giù, perché c’era desiderio di modernizzazione, di sviluppare l’Africa. Sì, quindi bisognava andare ad imparare il segreto dello sviluppo. Perciò posso dire, per rispondere alla domanda, che l’Europa era nel nostro orizzonte come luogo della formazione universitaria, essendo le università africane ancora molto embrionali: i migliori studenti delle scuole secondarie venivano mandati nelle università europee per studiare e poi tornare; quindi era messo in conto un esilio limitato. Messina: C’era un ritorno? Touadi: Un ritorno funzionale, strumentale, perché c’era il desiderio di tornare per assumere le responsabilità dell’Africa moderna; quindi l’Europa c’era, ma per me, nato in un paese colonizzato dalla Francia, l’Europa era la Francia; tant’è che nella mia lingua materna la parola “Europa” e la parola “Francia” coincidono. Messina: E come si pronuncia? Touadi: “Mputi”: m-p-u-t- i. Quando si dice “vado in Europa”, per noi significa che vai in Francia. Gli europei che noi abbiamo conosciuto, a parte la parentesi del XVI secolo dei portoghesi, erano la Francia. Io invece sono stato tra quei pochi studenti congolesi ad essere mandato in Italia. Erano i primi anni in cui le relazioni diplomatiche tra l’Italia e il 2 Daedalus 2012 Intervista a Jean-Léonard Touadi Congo cominciavano ad intensificarsi. Era stato scoperto il petrolio e quindi l’Agip iniziava ad insediarsi anche in Congo. Eravamo un contingente (una quarantina, una cinquantina, all’incirca) di studenti ad avere la possibilità di venire a studiare in Italia. Francamente non avevo mai pensato all’Italia. Per me l’Italia - visto che la mia famiglia è cattolica - era principalmente il paese del Papa, il paese di san Francesco, e così via. Comunque, avendo fatto il liceo classico, era la Roma antica, Virgilio, insomma, la leggenda della Roma antica e niente di più. Non conoscevo l’italiano e non penso nemmeno di avere mai conosciuto un italiano prima di arrivare in questo paese; quindi lo spaesamento era doppio: avevo lasciato il Congo per l’Italia e dovevo calarmi in una lingua diversa. Messina: La difficoltà della lingua è stata … Touadi: … il primo impatto è stato quello linguistico, anche se è stato un impatto limitato perché conoscevo lo spagnolo, avevo studiato spagnolo al liceo, e poi avevo studiato il latino, insomma, in qualche modo avevo qualche elemento per la lingua italiana … Messina: … e il francese … Touadi: … e il francese … ero francese … Messina: … tutte lingue neolatine. Touadi: La lingua italiana non è stata difficile da imparare. La difficoltà è stata un’altra, la lingua non è solo dire “buon giorno” e “buona sera”. Io ho avuto tutta una formazione francese: ho studiato la letteratura francese, la storia francese e mi sono ritrovato invece all’interno di una cultura dove bisognava sapere che cosa è il Risorgimento, dove un italiano medio sa che cosa sono I Promessi Sposi, sa chi è Ungaretti, sa chi è Pavese, e quindi ho dovuto ritrovare, oltre alla lingua, quegli elementi che mi avrebbero permesso di calarmi nella realtà non solo linguistica ma anche culturale, nei codici culturali storici di questo paese. E comunque era tutto diverso; l’amministrazione … Messina: All’inizio ha incontrato difficoltà burocratiche? Touadi: … le difficoltà burocratiche. Questa è la prima cosa con cui si scontra uno straniero. Orientarsi nella giungla burocratica italiana è 3 Daedalus 2012 Intervista a Jean-Léonard Touadi molto difficile per un italiano, figurati per uno straniero! Il primo impatto è quello con il permesso di soggiorno. Chi non ha fatto l’esperienza dell’essere straniero non può capire che cosa vuol dire avere il permesso di soggiorno. Il permesso di soggiorno per uno straniero è un po’ come per le persone uscire avendo in tasca qualche cosa. Sei spaesato. Non sei riconosciuto. Non hai accesso a nulla. Sei sempre impaurito ad ogni divisa, ad ogni macchina della polizia che vedi … quindi il permesso di soggiorno. La casa. La difficoltà di trovare casa. Non so se parlare di razzismo, però … insomma è capitato più di una volta: chiami al telefono, la casa c’è, quando ti presenti la casa non c’è più. È l’impatto con la ricerca della casa e il fatto di trovarsi le porte sbarrate. Vi era un po’ di ingenuità, un po’ di chiusura, ma di certo non c’era il razzismo teorizzato di oggi. Messina: Su questo aspetto, vorrei che lei si soffermasse. Touadi: Allora sentivi l’ingenuità, sentivi l’ignoranza, nel senso proprio positivo della parola di “non conoscenza”. Sentivi anche una certa curiosità naïve su di te, sul tuo paese di origine. Non c’era il razzismo teorizzato e praticato che c’è adesso; paradossalmente, era quasi più giustificato allora, quando era agli albori. Io sono arrivato nel ’78, proprio oggi, il 28 luglio. Messina: Continui, la prego! Touadi: Sì, oggi è l’anniversario! 28 luglio, alle 11. 00 di mattina. C’è stata un’evoluzione da allora, possiamo chiamarla una lenta discesa negli abissi della discriminazione, del rifiuto dell’alterità. Ed è stata proprio graduale. Io la identifico, l’ho sempre identificata, in tre momenti particolari. Alla fine degli anni ’80, c’era una consapevolezza diversa: “Siccome non c’è, prendiamone atto; facciamo una legge di sistema per regolare l’immigrazione”. E venne la legge Martelli. Sembrava che il paese stesse via via prendendo la consapevolezza del fenomeno. La caduta del muro di Berlino e il successivo afflusso dall’est di persone della Bosnia-Erzegovina, dall’Albania. Il luglio del ’91 ha segnato, secondo me, il momento in cui il paese ha cominciato a coltivare, a torto o a ragione, secondo a me a torto, una specie di sindrome di invasione: “ci stanno invadendo”. Questo momento 4 Daedalus 2012 Intervista a Jean-Léonard Touadi corrisponde anche, più o meno, all’ascesa dei partiti di estrema destra sia in Francia, con Le Pen, sia qui da noi: la grande ascesa della Lega Nord, che fa della questione immigrazione il suo feudo, il suo investimento elettorale, chiamiamolo così. Il paese, nonostante le statistiche annuali dell’Istat o dei dossiers Caritas dicessero che noi eravamo al di sotto della media europea (all’epoca era il 5%, di fronte alle punte del 9-10% di Belgio, Francia, Germania), nonostante le statistiche dicessero il contrario, il paese ha cominciato a coltivare la sindrome di invasione, che si traduce più o meno nella frase: “vengono tutti qua”. Qui s’interrompe l’auto-assolutoria convinzione degli italiani, che si sono sempre auto-rappresentati come diversi dagli altri europei. Messina: Mentre lei parlava, pensavo al libro di Angelo Del Boca Italiani, brava gente?3. Touadi: Esattamente. Noi abbiamo auto-assolto il nostro colonialismo, etichettandolo come un colonialismo “buono”, mentre tutta la storiografia più critica, più rigorosa, dimostra che il nostro colonialismo è stato uguale a quello degli altri. Siamo la nazione delle leggi razziali. Messina: Questo rimanda al razzismo istituzionalizzato a cui lei fa spesso riferimento? Touadi: Esatto, ma a questo poi ci arriviamo: è la terza fase. Siamo il popolo delle leggi razziali, siamo il popolo del Manifesto della razza scritto da Almirante. Siamo il popolo dell’Università della Sapienza, dove si era scritto all’epoca un trattato di psicologia tropicale che è un condensato di razzismo ideologico e superiorità razziale molto spinto. La maschera dell’autoassoluzione dell’Italia comincia a cadere con la sindrome di invasione, ma soprattutto con quel processo che inizia nel 2001, dopo la caduta delle Torri Gemelle, quando dalla sindrome di invasione passiamo al razzismo identitario, quando - anche attraverso una confusione lessicale, semantica - iniziamo a mettere tutto assieme: l’arabo, il fondamentalismo, l’islamismo, l’integralismo. Tutto si equivale. È una specie di costruzione sociale del nemico. Qui non ci sono solo le forze politiche: anche la cultura, anche i mass media concorrono a questa costruzione sociale del nemico con le 3 A. DEL BOCA, Italiani, brava gente?, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2006. 5 Daedalus 2012 Intervista a Jean-Léonard Touadi categorizzazioni riduttive, con le semplificazioni lessicali e semantiche, con l’amalgama di categorie che invece andavano distinte e così via dicendo. L’arabo diventa semplicemente il musulmano senza sapere che ci sono degli arabi cristiani in Libano, degli arabi cristiani in Egitto, ecc. ecc. Messina: … degli arabi ebrei... Touadi: Esatto, il musulmano diventa il mediorientale. Invece c’è tutto un Islam ad occidente di Maometto: la Malesia, l’Indonesia, il Pakistan, l’India, non hanno nulla a che fare col Medioriente. È un periodo di grande confusione. È il periodo in cui un prelato della Chiesa cattolica teorizza l’ingresso selettivo degli immigrati, preferendo gli europei dell’Est, bianchi cristiani, ai nuovi barbari che minacciano l’identità cristiana; è il momento in cui esponenti politici come Buttiglione, Ministro delle Politiche Europee, lo stesso Fini, Ministro degli Esteri, teorizzano l’ingresso selettivo per scoprire dopo - nel terzo schema del nostro razzismo - che questi stessi buoni immigrati, venuti dall’Est, bianchi cristiani e rumeni, erano dei ladri. A partire dal 2006, con l’ossessione della sicurezza, che è il terzo paradigma del nostro razzismo, gli stessi rumeni per cui si era teorizzato l’ingresso privilegiato diventano anche loro oggetto di una pesante campagna di criminalizzazione; quindi abbiamo la sindrome di invasione, il razzismo identitario, dove paradossalmente la croce, il messaggio universale del cristianesimo, viene piegata a fini verticali di esclusione. È una cosa del tutto paradossale. È quello che avviene quando ci si rifiuta ostinatamente di identificarsi con il popolo dal quale si proviene perché è portatore di un messaggio universale; il suo messaggio viene piegato come una spada brandita contro gli empi. È quello che sta avvenendo in Norvegia, dove si è avuta una drammatizzazione estrema di questi schemi. Tutti noi abbiamo stigmatizzato il pericolo fondamentalista. Sarebbe sciocco sottovalutare questa specie di aggressione ai valori moderni occidentali iniziata all’interno di alcune frange dell’Islam, dalla rivoluzione islamica fino a Hezbollah e alla caduta delle Torri Gemelle. Ma come fare a non sottovalutare questo e a prenderlo in considerazione senza entrare in una logica identitaria esasperata, come quella che ci ha portati ad esempio alla strage di Utoya? 6 Daedalus 2012 Intervista a Jean-Léonard Touadi Infine, abbiamo il terzo tipo di razzismo, quello istituzionalizzato, dove questa cosa strisciante che nasce col paradigma della sindrome di invasione, col paradigma islamico, entra a far parte del corpus legislativo dello Stato col pacchetto sicurezza del 2009. Ho detto, e misuro anche un po’ il peso delle parole, che col pacchetto sicurezza, noi, come Paese, entriamo tecnicamente in un regime di apartheid. Che cosa è stato l’apartheid in Sudafrica? Sviluppo separato, cioè loro, i bianchi, qua, e noi, i neri, là. Col pacchetto sicurezza abbiamo 5 milioni di persone che potenzialmente potrebbero essere private dei diritti nel caso in cui perdano la titolarità del permesso di soggiorno. Queste persone perdono il diritto a sposarsi, a curarsi, ad andare all’anagrafe o a chiedere i certificati, e così via dicendo. L’introduzione del reato di immigrazione clandestina, a mio avviso, muta profondamente i connotati della civiltà giuridica di questo paese, ma anche del pilastro costituzionale dell’uguaglianza. Messina: Secondo l’art. 3 della nostra Costituzione, “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione. […] ed è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”. Touadi: Esattamente, questo è compito, secondo quanto si può interpretare dai padri costituenti, dello Stato. È qualcosa di dirimente: non è che se lo Stato vuole lo fa, se non lo vuole non lo fa. Non è che se il governo è di centro-sinistra lo fa e se è di centro-destra … Tra l’altro, il secondo paragrafo ha come madre il secondo articolo: i diritti inalienabili non del cittadino, ma della persona, cioè la connaturalità, il carattere soggettivo della titolarità dei diritti. I diritti appartengono a te, non in quanto Valeria, ma in quanto persona, e io ho sempre ammirato, da persona che non è nata in questa cultura (è una delle cose che chi viene da fuori apprezza dell’identità europea), quel carattere di sacralità quasi laica, soprattutto dall’Illuminismo in poi, della soggettività personale portatrice di diritti. 7 Daedalus 2012 Intervista a Jean-Léonard Touadi Messina: Però, in nome di questo universalismo di uguaglianza, fratellanza e universalità in senso lato, alla fine si ricade in un individualismo che degenera nella paura o nell’incapacità di accettazione dell’altro? Touadi: Sì, questo universalismo presenta entrambi gli aspetti. Messina: Lei prima faceva riferimento all’importanza delle parole. Nel suo libro, Le parole per conoscere ne sottolinea il valore4. Oggi invece si fa molta confusione con i termini. Quanto è allora importante conoscere? E quanto l’opinione pubblica conosce? Ed in che modo, secondo lei, l’informazione viene manipolata? Che cosa suggerisce per migliorare la conoscenza dei fatti, passati e presenti – penso, ad esempio, alla necessità per i giovani italiani di conoscere e fare i conti col passato coloniale? Touadi: Quando parlavo di costruzione sociale del nemico facevo riferimento proprio a questo, visto che tale costruzione sociale del nemico ha avuto dei connotati essenzialmente lessico-semantici e simbolici, cioè l’alterità è stata costantemente collocata dai media nel cono d’ombra della criminalità. Dallo studio della cronaca nei giornali che riguarda l’immigrazione – lo hanno fatto molte università, facoltà, scuole di giornalismo – viene fuori che l’80-90% delle notizie sull’immigrazione è collocato nella cronaca nera. Messina: Sebbene oggi gli immigrati rappresentino una risorsa … Touadi: … mentre la normalità dell’immigrazione, cioè le storie personali di successo, oppure le storie normali di persone che vivono, che amano, che si sposano, che intessono rapporti con l’ambiente in cui vivono, che producono cultura, sono messe in secondo piano. La parte della letteratura che erroneamente si chiama “letteratura migrante”, è in realtà “nuova letteratura italiana”, perché si esprime in lingua italiana pur immettendo nella letteratura italiana degli orizzonti narrativi non classicamente italiani; quindi questa costruzione sociale del nemico è passata attraverso una sedimentazione di cornici simboliche e di parole inquinate. Jean L. TOUADI, Congo. Ruanda. Burundi. Le parole per conoscere, Editori Riuniti, Roma, 2004. 4 8 Daedalus 2012 Intervista a Jean-Léonard Touadi Messina: Quasi abusate? Touadi: Sì, la parola “clandestino”, la parola “vu cumprà” e tutte le altre parole che condensano in loro l’oggettivizzazione dell’alterità, come se fosse qualcosa di negativo o appartenente alla nuova barbarie, sono inquinate. Mi chiedevi prima come bisogna agire?. Ho sempre teorizzato che per contrastare il razzismo, bisogna passare per una tappa “propedeutica”, che consiste nella decodificazione del linguaggio dell’alterità. È necessario ricodificare il linguaggio e ritrovare in una società che è diventata plurale una nuova ecologia del linguaggio: non si tratta di una politica incoerente, è qualcosa di più profondo, qualcosa che fa spazio all’altro anche nei modi di parlare. “Fumare come un turco”, “lavorare come un negro”, ecc., sono delle espressioni che ci si poteva permettere in un contesto monoculturale; in un contesto interculturale c’è bisogno di un’ecologia del linguaggio che passa anche attraverso queste piccole cose. Ma è complessivamente la narrazione dell’alterità che deve mutare. Come muta secondo me? Non si può pensare che Feltri, Sallusti, ma la stessa Repubblica quando tratta di migrazione (sebbene non sia come Feltri) non sia ancora a quei livelli di ricerca di una espressività alternativa. Messina: Secondo lei, ciò potrebbe essere causato dal fatto che noi italiani non riconosciamo di essere essenzialmente razzisti? E facilmente dimentichiamo di essere stati un popolo di emigrati? Touadi: Io ho lavorato in Rai per tanti anni, ma nelle cronache ero sempre il giornalista di colore ed oggi sono il parlamentare di colore. In nessun paese europeo queste cose esistono più. C’è una patina, una sedimentazione incrostata di matrici simboliche di parole inquinate, che sono entrate a far parte dell’inconscio collettivo. Ecco perché parlavo di decodificazione: decodificare, disseppellire, portare alla luce, è un lavoro paziente … Dicevi, come si fa questo? Lo si fa solo immettendo nei luoghi del dibattito pubblico l’alterità stessa. L’alterità deve partecipare alla costruzione del linguaggio pubblico; nella nuova società plurale, la società ospitante non può pretendere unilateralmente di essere l’unica protagonista della metanoia linguistica di cui abbiamo bisogno. 9 Daedalus 2012 Intervista a Jean-Léonard Touadi Messina: Anche perché sarebbe dettata dall’alto senza una reale partecipazione democratica. Touadi: Esatto. Ciò significa che nelle redazioni, dove ci saranno sempre di più giornalisti e giornaliste di origine pakistana, di origine congolese, di origine nigeriana, piano piano ci sarà un mutamento, che avverrà proprio perché la compresenza dell’io e del tu, che si incontrano linguisticamente, semanticamente e simbolicamente, creeranno una nuova comunità significante. Sì, possiamo definirla così. È una cosa fantastica, bellissima. Non è una diminuzione per la società ospitante, non è una limitazione per chi viene ospitato, ma è la possibilità che qualcosa di nuovo e di più ricco possa nascere. È bello. Messina: Abbiamo esempi del genere in Italia? Touadi: Ahimè, no! C’è come un imbarbarimento, un’involuzione. Messina: Secondo lei, a che cosa è dovuto il fatto che l’Italia si porti dietro il fardello dell’alterità? Touadi: È una fissazione. Messina: Vediamo sempre dietro di noi la potenza dell’Impero romano … non so? Touadi: Non lo so, però è qualcosa di pervicace, di patologicamente pervicace. Io spero che si possa cambiare con le nuove generazioni, ma l’incapacità di accogliere non riguarda solo l’alterità etnica o razziale, riguarda l’alterità in senso lato. Messina: … la capacità di accoglienza … Touadi: L’alterità sessuale, l’orientamento sessuale diverso che in tutti i paesi sta ormai diventando una cosa rispettata, per esempio, da noi crea problemi. I sorrisetti, le battute che persistono traducono, da un lato, il disagio di un’alterità ancora non assimilata, non conosciuta, dall’altro, una violenza interrelazionale. Rispetto al ragazzetto in motorino che mi fa “buu” passando, se ci pensassi per tre minuti, forse avrei otto motivi per inferiorizzare lui di fronte al suo unico motivo per inferiorizzare me … Ne potrei avere otto: sono laureato, mio padre era un ambasciatore, faccio il deputato, 10 Daedalus 2012 Intervista a Jean-Léonard Touadi conosco cinque lingue, … avrei otto motivi per inferiorizzare lui … lui ne ha uno e, tra l’altro, frutto di una casualità naturale. Messina: Quanto è brutto essere cittadini italiani e non esserlo in fondo, quando passa il ragazzino che si comporta così? Touadi: Non ti nascondo che, quando vado in Inghilterra, in Francia, cessa questo tipo di ansia, mi riposo. Poi, mano a mano che sali nella scala sociale, capita 90 volte su 100 che sei l’unico “diverso” per il colore della tua pelle: in Parlamento sei l’unico, se viaggi in missione all’estero, e magari sei in prima classe, sei l’unico. Però, ci sono anche un po’ abituato. Messina: Spesso si parla del Mediterraneo come un luogo al centro del mondo. Io invece ritrovavo il “suo” Golfo di Guinea al centro del globo, per via di quel pezzo di storia della schiavitù a cui lei accennava all’inizio. La domanda è molto banale: quando lei si è spostato da questo centro verso quello del Mediterraneo italiano, con quale mezzo di trasporto si è spostato? Touadi: Ho usato un po’ di tutto: macchina, treno, aereo. Mi piacciono ovviamente i mezzi di trasporto comuni, perché permettono una relazione: una specie di occasione casuale di psicopatologia della vita quotidiana o di relazioni interetniche. Messina: E l’immagine del Mediterraneo che lei ha? Di questo mare nostrum, ponte tra due continenti? In questo caso, tra il Congo e l’Italia? Touadi: Io vengo da un popolo che ha dovuto elaborare e dare consapevolezza alla sua storia di popolo colonizzato, e l’abbiamo fatto attraverso lo studio della storia africana, della letteratura africana, attraverso la letteratura della diaspora, perché essere africano per noi significa anche guardare all’esperienza della diaspora africana. Nei Caraibi, in Brasile, negli Stati Uniti, quell’esperienza è mia, fa parte della mia esperienza; quindi, paradossalmente, ho elaborato – rispetto alla mia alterità con l’Europa – le mie risposte, di ribellione, ma anche di superamento del fatto storico. Io sono più avanti rispetto all’europeo o all’italiano. Mi rifaccio ai più grandi poeti africani, uno fra tutti, Léopold Sédar Senghor, presidente del Senegal, poeta accademico, che ha sempre immaginato il 11 Daedalus 2012 Intervista a Jean-Léonard Touadi Mediterraneo come luogo di incontro. Senghor parlava del Mediterraneo come il luogo della costruzione della civiltà universale, il luogo del dare e del ricevere. È una visione molto bella: credeva molto nella costruzione dello spazio euro-africano, che sta nella geografia. Io insegno geografia economica, so che si può cambiare tutto, ma i dati geografici non si cambiano. Siamo vicini, e dunque mi dispiace per gli europei: se non ci vogliono, devono spostare l’Africa e metterla da un’altra parte. Quindi, c’è la geografia, che è il dato geografico, e c’è il dato storico. C’è molta più Europa nell’Africa di quanto gli europei siano consapevoli, e c’è molta più Europa nell’Africa di quanto ci sia Africa nell’Europa. La mia posizione di afro-europeo, afro-italiano, mi spinge spontaneamente ad avere il ruolo, dico una cosa che sembrerà un po’ narcisistica, di essere pontefice, nel senso latino della parola, mediatore, pontem facere. E mi spiace per l’incapacità dell’Europa di elaborare un suo approccio storico-culturale e politico-economico nei confronti del continente africano. Messina: Ha incontrato delle difficoltà come parlamentare? Touadi: Sì, sì, sì. Ieri il partito mi ha chiesto di sostituire Fassino alla Commissione Esteri e ho pensato: ecco, sono qui alla Commissione Esteri, è questo che devo fare. Temo però che, più passa il tempo, più l’Europa stenti ad elaborare una risposta storico-culturale, compresa tutta la questione della memoria coloniale e della schiavitù, che per noi è molto importante; per noi la storia della schiavitù è un momento fondante e, se leggiamo i negro spirituals, troviamo in queste canzoni un’identificazione del popolo nero con il popolo ebraico. La schiavitù in Egitto, la traversata nel deserto e Sion. Sion come il back to Africa dei padri del panafricanesimo; il back to Africa ha la stessa simbologia forte del ritorno a Sion, cioè un nero della diaspora sogna il back to Africa, che può essere un ritorno effettivo in Africa, ma soprattutto è un ritorno ideale alla cultura, all’identità africana. Ecco perché ci dispiace che Michael Jackson abbia cercato di diventare bianco, perché ciò contraddice tutta la storia della diaspora nera che in esilio non ha mai smesso di rivendicare il ritorno a Sion, e allora, come stavo dicendo, mi dispiace che l’Europa arrivi in ritardo. Il ritardo dell’Europa ad elaborare quest’approccio fa sì che per la prima volta ci sia una deriva dei continenti. Per la prima volta l’Africa ha smesso e sta smettendo sempre di più di guardare verso l’Europa, ed 12 Daedalus 2012 Intervista a Jean-Léonard Touadi inizia a guardare alla Cina, alla Turchia, all’India, come partners privilegiati. È una cosa di cui l’Europa ancora non misura la portata, però bisogna tenerne conto. Certo, le tragedie in mare non migliorano la situazione. C’è una percezione in Africa di un’Europa che si autocostruisce come una fortezza e permette che migliaia e migliaia e migliaia di migranti trasformino quello che doveva essere il mare dell’incontro, il mare del dialogo, in un cimitero a cielo aperto. Ciò sta creando nell’opinione pubblica africana una repulsione nei confronti dell’Europa. L’Europa misurerà solo tardi le conseguenze di tale situazione, quando si ritroverà alle porte di casa un miliardo di persone - vicine geograficamente e storicamente - ostili perché nel frattempo hanno trovato altri partners. Quando ho visitato il Cie la settimana scorsa, ho visto quei ragazzi tunisini che abbiamo applaudito quando gridavano “libertà” a Ben Alì. Diamo loro i permessi temporanei, poi dal 5 di aprile li portiamo in galera. Questi ragazzi si rendono conto che i gelsomini non crescono in Italia; crescono in Tunisia, ma non crescono in Italia. Come faremo a costruire domani una politica euro-mediterranea, quando nell’opinione pubblica dell’Algeria, della Tunisia, del Marocco, sta passando l’idea che in Italia accade questo. Capisci? È drammatico e, allo stesso tempo, mi dico che dobbiamo continuare a crederci, perché non riesco a vedere un’Europa senza Africa e, viceversa, un’Africa senza Europa. Messina: Sono troppo vicine, per natura. Touadi: La geografia non si modifica. Messina: L’ultima volta che lei è ritornato nel suo paese, a Brazzaville? Touadi: L’anno scorso. C’è mia madre, ci sono tutti i miei fratelli. Ho due figlie e un figlio, che sono figli di un’italiana e di un italiano acquisito; mi piacerebbe che crescessero con la consapevolezza di poter attingere a due mammelle culturali, a due mammelle antropologiche, ed il fatto che io stesso sia riuscito a non far coincidere l’esilio materiale dall’Africa con l’esilio ideale culturale… mi piacerebbe dare loro gli strumenti letterari, antropologici, e sentire che possono crescere davvero come persone ricche di due identità. Questi figli li vedo proprio come un’anticipazione di quello che tutti noi siamo chiamati ad essere. 13 Daedalus 2012 Intervista a Jean-Léonard Touadi Messina: Come si dice “speranza” nella sua lingua materna? Touadi: “Elykta”: e-l-y-k-t-a… Crescono come italiani. Sono nati a Roma, hanno la loro mamma che è italiana, però mi piacerebbe che nello stesso tempo crescesse in loro la consapevolezza che c’è un altro orizzonte che appartiene loro, che sta lì e che un giorno potranno recuperare. Messina: Un ponte umano. Un’ultima domanda: in quale anno ha avuto la cittadinanza italiana? Touadi: 1986. Ho semplicemente rinunciato alla cittadinanza francese che avevo e ho acquisito quella italiana, conservando quella congolese. Messina: Mi stupisce lo scambio della cittadinanza francese con quella italiana. Touadi: Le consideravo equivalenti, mentre era più difficile scambiare quella congolese. Quella è rimasta. Messina: Quella deve rimanere. Touadi: È così che sono diventato cittadino italiano. 14 Daedalus 2012 Intervista a Fulvio Vassallo Paleologo FULVIO VASSALLO PALEOLOGO* INTERVISTATO DA DONATELLA LOPRIENO Palermo, 18 dicembre 2011 Loprieno: appartieni a quella particolare categoria di tecnici del diritto che qualcuno ama definire “giuristi-costituzionalisti”. Non hai dimenticato che il punto di riferimento essenziale per chi voglia esercitare degnamente e dignitosamente questo mestiere resta la Costituzione repubblicana del 1948 ed il suo sistema di tutela dei diritti di libertà. E, difatti, hai scelto di difendere i più deboli ed i più vulnerabili: i migranti e soprattutto quelli il cui soggiorno è irregolare. Avresti potuto scegliere una clientela diversa e molto più danarosa. Hai scelto una carriera diversa. Perché? Vassallo Paleologo: Ho esercitato la professione di avvocato, in campo commerciale, per sette anni prima di entrare nell’università. E quando ho cominciato a lavorare all’università, nel 1982, ho scelto di farlo sin da subito a tempo pieno. Il lavoro di ricerca, di formazione e di didattica mi permetteva di esprimermi nel modo più libero possibile anche se a quell’epoca l’immigrazione non era certo un fenomeno così rilevante come lo sarebbe diventato di lì a pochi anni. In quegli anni mi occupavo di diritti dei consumatori. Negli anni a venire, la restrizione degli spazi di libertà all’interno dell’università e, soprattutto, la risposta repressiva nei riguardi dell’immigrazione proprio sul finire degli anni Novanta, mi hanno portare a privilegiare la questione dei diritti umani. Così, dal Dipartimento di Diritto privato mi sono trasferito al Dipartimento di Studi su politica, diritto e società e quindi ho avuto la possibilità di lavorare con “non giuristi”, il che è cosa molto salutare specie per chi ha a che fare quotidianamente con il diritto positivo. La partecipazione al Dottorato in Diritti umani mi ha consentito poi di lavorare direttamente sulle questioni dell’immigrazione grazie anche alla presenza ed alle attività di validissimi giovani studiosi e studiose molto impegnati a collaborare con altri gruppi di ricerca in Europa e non solo. Avere avuto a che fare con questi ricercatori mi ha consentito di valorizzare molto la mia esperienza al di là dell’ambito strettamente giuridico. Più di recente, l’inasprimento della “politica della cattiveria” nei riguardi dei 1 Daedalus 2012 Intervista a Fulvio Vassallo Paleologo migranti inaugurata dall’ultimo governo Berlusconi e magnificata dal precedente Ministro Maroni mi ha, per forza di cose, costretto a lavorare sempre di più sulle questioni dei diritti dei migranti. Loprieno: In questi anni hai dedicato tempo ed energie per difendere, anche con la militanza dei tuoi articoli, principi quali il diritto alla libertà personale e più in generale il rispetto della dignità umana di tutti gli esseri umani. Credi che la tua militanza, che è militanza fondata sui principi del costituzionalismo stesso, abbia influenzato la carriera universitaria? Detto altrimenti. Avresti potuto scrivere magnifiche monografie su argomenti teorici molto cari ai giuristi dogmatici ma hai scelto una strada diversa. Vassallo Paleologo: Avrei dovuto scrivere per partecipare ai concorsi e fare carriera universitaria? È inutile negare che le commissioni di concorso apprezzano il taglio metodologico o la neutralità dell’autore rispetto all’argomento trattato. Ne sono testimonianza le tipiche espressioni usate nei giudizi di valutazione: la non continuità nell’attività di ricerca, la non piena neutralità, il carattere non sufficientemente tecnico del lavoro. Questo è vero per tutte le discipline ma si tratta di un retorica particolarmente in uso nel mondo dei giuristi. Tutto questo io l’ho sempre avuto ben presente e ne ho, in qualche modo, messo in preventivo le conseguenze: non ho inseguito la carriera universitaria a ogni costo. Ho trovato altri canali per la mia crescita umana e professionale anche se devo aggiungere una cosa importante. In questi ultimi anni, a prescindere dall’impegno dei singoli docenti, le progressioni di carriera nell’università sono state praticamente impedite. La riforma Gelmini ed i costanti ed insopportabili tagli alla ricerca hanno cancellato intere generazioni di studiosi; il blocco dei concorsi per professore associato o ordinario o la loro riduzione a entità puramente simboliche certamente hanno costituito un potentissimo fattore di disincentivazione. La mia scelta di lasciare l’università è stata anche dettata, oltre che dalla mancanza di possibilità di carriera accademica, dalla scomparsa di un intero gruppo di ricerca con cui nell’ultimo decennio ho condiviso progetti e ricerche. E si tratta di validissimi studiosi, da anni impegnati in gruppi di ricerca internazionali per i quali è stata cancellata la concreta possibilità di continuare il loro percorso scientifico ed umano nell’università italiana. 2 Daedalus 2012 Intervista a Fulvio Vassallo Paleologo Loprieno: Conosciamo la situazione della università pubblica italiana e l’enorme spreco di energie cagionato dalle ultime riforme. Avremmo dovuto forse lottare di più per difenderla ed assicurarne la crescita. Avremmo difeso così anche la Costituzione. Credi anche tu che difendere i diritti dei più deboli, nel nostro caso dei migranti, significhi in ultima analisi essere militanti della Costituzione? Vassallo Paleologo: Non ho dubbi al proposito. I primi segnali di un attacco ai diritti dei migranti sono venuti già dalla Legge TurcoNapolitano del 1998 ma certamente l’apparato repressivo è stato ampliato a dismisura nel 2002 con la Legge Bossi Fini. L’ultimo governo Prodi ha tentato di cambiare qualcosa con il disegno di legge Amato-Ferrero, senza riuscirci. L’ultimo anno poi è stato assolutamente disastroso per quanto riguarda i diritti dei migranti e non solo dei migranti. La materia si è caratterizzata sempre di più per la dilatazione della discrezionalità amministrativa e per il sostanziale svuotamento di una norma fondamentale per uno Stato democratico quale quella contenuta nell’art. 13 della Costituzione circa il controllo giurisdizionale delle attività di polizia sulle forme di limitazione della libertà personale. È accaduto e accade che sia dia più importanza a una circolare amministrativa che a un principio costituzionale o a una norma comunitaria e, quindi, si ubbidisca alla prima e non ai secondi. Ma così operando si mettono in forse principi addirittura fondativi dello Stato moderno di diritto come la separazione dei poteri, il principio di eguaglianza davanti alla legge o il principio del controllo giurisdizionale sugli atti di polizia. A essere leso e svilito non è il solo diritto costituzionale ma anche quello comunitario e principi basilari del diritto internazionale. Non è un caso che siano stati avanzati ricorsi alla Corte europea dei diritti dell’Uomo e alla Corte di Giustizia delle Comunità europea e a dirla tutta le risposte di queste corti internazionali hanno deluso o perché giunte con troppo ritardo o perché non soddisfacenti. Se questo è il quadro, chiaramente il diritto costituzionale ed il sistema dei limiti che esso prevede all’agire delle autorità di pubblica sicurezza in primis riacquista una priorità assoluta. E bada bene che la partita è a oggi tutta aperta perché la circostanza che il governo sia cambiato e che al posto del leghista Maroni ci sia una ministra tecnica non significa che le cose cambieranno. L’enorme dose di discrezionalità amministrativa che gli apparati hanno in qualche modo ormai assunto, assimilato, gestito e collaudato, quale che sia il 3 Daedalus 2012 Intervista a Fulvio Vassallo Paleologo governo ed il ministro che verrà, quale che sia la riforma legislativa che interverrà, farà si che il problema dell’arbitrio dei poteri amministrativi sui diritti fondamentali si ripresenterà puntualmente. Loprieno: Cosa ti fa più orrore nel diritto speciale degli stranieri? Il fatto che il legislatore italiano, specie dal 2002 in poi, abbia predisposto un sistema normativo “contro” gli stranieri o il fatto che ci siano stati tecnici del diritto che tale diritto hanno applicato senza battere ciglio? Vassallo Paleologo: Avvocati e magistrati, come categoria, hanno fatto il possibile. La Corte costituzionale è stata sollecitata moltissime volte e quando questa ha cancellato obbrobri giuridici, governo e maggioranza (che quegli obbrobri avevano approvato) hanno avuto parole durissime nei riguardi del Giudice delle leggi. Da questo punto di vista, alla categoria dei giuristi professionali non credo vadano mosse critiche. Spesso mi sono trovato accanto a giudici anche di orientamento moderato che hanno condiviso le nostre preoccupazioni sul piano della violazione delle regole costituzionali. Ciò che davvero mi ha preoccupato è stato “come” gli apparati di polizia hanno utilizzato quella enorme discrezionalità di cui parlavamo prima perché quel “come” ha a che fare con il disciplinamento del corpo dei migranti e con la sua traduzione in una diffusa discriminazione istituzionale nella quale si è frantumata l’unità del soggetto di diritto e della persona. L’immigrato tunisino che sbarca a Lampedusa non è un essere umano al quale riconoscere i diritti fondamentali della persona umana. La finalità di espellere sempre e comunque è stata ritenuta prevalente e superiore rispetto alle garanzie minime e senza tenere in minima considerazione le condizioni dei migranti, fossero essi persone malate o anziane, con gravi problemi psichici, con gravi problemi familiari o vittime di tortura o esposte al rischio di arresti senza il controllo del magistrato. Ma ciò non è successo solo a Lampedusa: succede ed è successo in maniera più nascosta nelle zone aeroportuali di Fiumicino o Malpensa, solo per citare due tra i moltissimi luoghi citabili. Ovviamente Lampedusa è stata usata come grande palcoscenico mediatico e come cassa di risonanza per la politica del governo ma non dobbiamo commettere l’errore di giudicare tutto quello che è successo in termini di violazione dei diritti umani alla luce soltanto di quanto successo a Lampedusa. Violazioni altrettanto gravi si sono verificate anche qui nel Porto di Palermo quando, il 23 settembre di quest’anno, tre navi (la Moby 4 Daedalus 2012 Intervista a Fulvio Vassallo Paleologo Fantasy, l’Audacia e la Moby Vincent) sono state utilizzare come Cie galleggianti per trattenere circa 700 tunisini trasferiti da Lampedusa. I migranti sono stati trasferiti sulle navi legati con fascette elastiche. Ciò che davvero mi inquieta è che se fino a qualche anno fa l’opinione pubblica reagiva e si indignava, ora dopo un decennio di cancellazione dei diritti fondamentali delle persone quasi più nulla scuote le coscienze. Le violazioni dei diritti umani e della dignità delle persone nei CIE sono ormai quotidiane, con situazioni che ricordano le violenze della Diaz e di Bolzaneto, a Genova nel 2001. Forse (ed in parte) questo è anche un effetto delle scelte di politica internazionale che per far rispettare i diritti umani hanno prodotto e legittimato Guantanamo, Abu Ghraib e tutto il resto. La cultura per cui il fine giustifica è entrata prepotentemente nel senso comune e vi impera e questo è veramente grave perché è la radice del razzismo e della destrutturazione dello stato di diritto. Loprieno: Concordo sul fatto che Lampedusa, pur essendo unica, non sia sostanzialmente altro rispetto a un qualsiasi altro campo per stranieri presente in Italia. Forse per chi leggerà questa intervista, è motivo di interesse sapere che stiamo chiacchierando cullati dal mare nella tua barca di famiglia. Ed a cullarci è il mare di Sicilia, isola nel Mediterraneo e sua propaggine. Qui si respira un’aria unica, quasi di terra di confine. La Sicilia è più vicina a Tunisi e o Trieste? Vassallo Paleologo: In realtà, la Sicilia è lontana sia da Tunisi che da Trieste. Il problema della Sicilia è il suo isolamento dall’Italia e dall’Europa: Lampedusa che è isola di una isola isolata non può che veder esaltato il suo isolamento. È per questa ragione che la Sicilia e le sue isole sono usate come luogo di transito e di esternalizzazione; problemi e situazioni che avrebbero dovuto essere gestiti a livello nazionale ed in territori ben più ampi sono stati invece esternalizzati in questo luogo che, per certi aspetti, è fuori dal diritto. La vicenda dei minori stranieri non accompagnati è emblematica del come il nostro territorio venga utilizzato. Il Ministero dell’Interno ha impedito, con prove alla mano, la legalizzazione di minori stranieri non accompagnati che avrebbe consentito il loro trasferimento in altre strutture definitive; ha inventato strutture ponte dove i minori vengono accolti nel senso che viene fornito loro il minimo indispensabile per la sussistenza (cibo, vestiario e alloggio) ma senza che vi siano figure professionali che li 5 Daedalus 2012 Intervista a Fulvio Vassallo Paleologo seguano, senza che vi sia comunicazione al giudice minorile o al tribunale dei minori o al giudice tutelare, senza che la questura rilasci i permessi di soggiorno. Nel frattempo molti di questi minori sono diventano maggiorenni (adulti in molti di questi minorenni lo sono già). Quindi la Sicilia è anche un luogo dove si trasformano i minori stranieri non accompagnati in adulti irregolari. Aggiungi che la gente di Sicilia non è particolarmente sensibile a queste tematiche tanto che i gruppi e le associazioni che protestano sono pochi e sempre gli stessi. Forse ciò è dovuto a una serie di convincimenti e primo tra tutti il fatto che gli immigrati non si fermano in Sicilia ed è vero visto che la percentuale di migranti sulla nostra isola è la più bassa d’Italia (siamo secondi forse solo alla Sardegna). C’è poi anche il convincimento che in Sicilia non ci sia il razzismo. Niente di più sbagliato perché nelle ultime settimane abbiamo assistito anche a episodi di razzismo istituzionale da parte di vigili urbani nei riguardi di venditori ambulanti. Lo scorso anno un ragazzo marocchino si è dato fuoco perché vittima di persecuzione da parte dei vigili urbani che gli impedivano di lavorare; sotto processo, proprio in questi giorni, vi è un altro ragazzo, sempre marocchino, picchiato dai vigili urbani perché esercitava una regolarissima attività ambulante ma fuori orario. Si tratta soltanto di due esempi, tra i moltissimi altri che potrei riportare, che attestano senza timore di smentita la presenza perniciosa e subdola di razzismo istituzionale. Loprieno: La Sicilia dunque continua a essere terra di primo approdo, da lasciare appena possibile. Vassallo Paleologo: Solo due giorni fa sono arrivati dalla Tunisia 69 somali provenienti dal campo di Susha, a una decina di Km dal confine libico. Non è un caso che dopo la chiusura di questo campo siano ripresi gli sbarchi a Lampedusa. Moltissimi richiedenti asilo vi hanno ricevuto un diniego di fatto inappellabile. Certo i numeri sono inferiori rispetto a prima ma a sbarcare sono cittadini somali che avrebbero il diritto ad accedere alle procedure per la richiesta dello status di rifugiato in uno qualunque dei paesi che hanno aderito alla Convenzione di Ginevra del 1951: non certo in Libia che a tale convenzione non ha mai aderito ma neanche in Tunisia che vi ha aderito ma sostanzialmente disattende tutti gli obblighi che da essa derivano. 6 Daedalus 2012 Intervista a Fulvio Vassallo Paleologo Loprieno: Quanto dici mi ha richiamato alla mente le molte, troppe, morti nel mare di chi sulla carta avrebbe tutto il diritto a vedersi riconosciuta una qualche forma di protezione internazionale. E mi è anche venuta in mente l’assurda vicenda dei pescatori accusati di aver tratto in salvo migranti alla deriva e pescherecci al centro di fuochi incrociati. Vassallo Paleologo: Lo scorso anno, un peschereccio è stato mitragliato da una mezzo libico con a bordo finanzieri italiani ma la vicenda è stata subito dimenticata. Altri pescherecci sono stati sequestrati, dopo lo scoppio della primavera araba, sia dai libici che dai tunisini perché probabilmente sono in corso di ridefinizione i rapporti economici. In Sicilia ci sono anche molte società miste, soprattutto italo tunisine, attive nel mercato della pesca internazionale. Moltissimi tunisini impegnati in queste attività di pesca non hanno i documenti in regola ma si tratta di un tipo di irregolarità ampiamente tollerato dalle autorità perché su di essa di basano i profitti degli armatori di Mazara del Vallo. Quello dei pescatori è un quadro davvero complesso. In passato, alcuni pescatori sono stati protagonisti di importanti azioni di salvataggio. Ed è davvero sconcertante che alcuni di questi pescatori stiano dovendo subire processi su processi. Abbiamo portato in appello un processo avviatosi ad Agrigento e che, in primo grado, ha visto addirittura la condanna di alcuni pescatori tunisini per favoreggiamento di immigrazione clandestina. La Corte di Appello di Palermo li ha assolti smentendo quanto la Procura di Agrigento aveva surrettiziamente sostenuto per anni nei termini di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina quando invece si era trattato di un vero e proprio salvataggio in mare. Surrettiziamente perché vi erano prove evidenti che di salvataggio si trattava e che esso era stato svolto sotto gli occhi della Guardia costiera. Nel processo è venuta fuori la contraddizione tra quanto asseriva la Guardia costiera e quanto invece il Ministero dell’interno aveva imposto di dire alla guardia di finanza e agli ufficiali di pubblica sicurezza che avevano raccolto le dichiarazioni dei pescatori giunti a Lampedusa. Malgrado queste assoluzioni i pescatori non operano più interventi di salvataggio e si ripetono i casi di migranti lasciati morire in mare, seppure in zone attraversate da navi commerciali e da mezzi militari (come è confermato anche in una recente denuncia del Consiglio d’Europa su un caso di omissione di soccorso a carico dell’Italia lo scorso anno). 7 Daedalus 2012 Intervista a Fulvio Vassallo Paleologo Loprieno: Quella che ci stai raccontando è davvero una vicenda sconcertante e sconvolgente. Un magistrato insiste a perseguire pescatori tunisini perché rei di aver salvato vite umane? Succede davvero di tutto nel Mediterraneo. Ed è al Mediterraneo come luogo da attraversare e come luogo in cui si muore che vorrei ritornare. Sembra quasi sia diventato un enorme cimitero questo mare. Le cifre sono impressionanti: negli ultimi 20 anni più di 13.000 persone. E della gran parte di loro non conosceremo mai nulla. Non le loro storie, non i loro nomi, non i loro volti. Sappiamo solo che sono partiti per migliorare le loro condizioni di vita. Vassallo Paleologo: Vero. Continuano a morire persone che dall’Algeria e dalla Tunisia cercano di arrivare in Spagna, a Cipro o in Grecia anche dalla Turchia. Le rotte sono tante e dappertutto si muore e ci sono vittime che nessuna cerca. Parlando però con quelli che ce l’hanno fatta, con i “salvati”, si apprende di altre imbarcazioni partite e di cui non si hanno più notizie. In questa fase storica, è difficilissimo parlare di Mediterraneo ed è complicatissimo il quadro interno di tutti i paesi che vi si affacciano compresi Israele, Siria e Turchia. Loprieno: Per l’Italia, ma anche per l’Europa, era molto più comodo avere a che fare con i sistemi di potere di un Gheddafi o di Ben Alì. Vassallo Paleologo: Certamente lo era. In molti stanno rimpiangendo e rimpiangeranno i vecchi dittatori ed il sistema di potere che essi avevano costruito. Ma si sta anche cercando di mantenere i vecchi accordi, con espulsioni e respingimenti collettivi, anche se l’Italia non pratica più, a quanto sembra, i pattugliamenti congiunti con le unità libiche. Adesso, in quei territori vi sono scontri tra gruppi economici internazionali e non a caso in Libia è presente un consistente numero di cinesi. Anche la forza lavoro viene scelta in estremo oriente, in Bangladesh piuttosto in Sri Lanka. La Libia dichiara di avere bisogno di ottocentomila lavoratori per sostituire quelli che sono stati costretti a fuggire a seguito dell’intervento armato della Nato. Ognuno di noi conserva il ricordo delle agghiaccianti immagini dei sub sahariani del Mali, della Nigeria, del Gabon, della Sierra Leone, trucidati perché ritenuti, a torto o a ragione, mercenari al soldo di Gheddafi. Chi non è riuscito a fuggire è stato ucciso, o rapinato e le donne sono state violentate. Chi è arrivato in Sicilia racconta di aver lasciato in Libia un certo benessere. Alle persone costrette a fuggire dalla Libia in fiamma 8 Daedalus 2012 Intervista a Fulvio Vassallo Paleologo ed in guerra, l’Italia non ha concesso neanche il permesso di soggiorno per motivi umanitari nonostante i continui appelli dell’Asgi e di Meeltingpot. Loprieno: Viviamo in un mare di contraddizioni. A tutti livelli, internazionale e comunitario e nazionale, abbondano dichiarazioni, convenzioni, accordi sui diritti universali delle persone umane. Ma per chi sono questi diritti? Chi ne può fruire? Tutti e tutte o solo chi ha la fortuna di avere la cittadinanza comunitaria? Vassallo Paleologo: Sul versante della tutela dei diritti fondamentali della persona umana i clamorosi passi indietro sono stati certamente indotti dalla crisi economica. Le opinioni pubbliche non sono tanto spaventate, come artatamente sobillato per anni, dalla criminalità quanto dalla percezione che la presenza dei migranti possa comportare la riduzione del pochissimo welfare che rimane o che l’immigrato possa essere un concorrente su un esangue mercato del lavoro. Si tratta di una percezione manipolata e alimentata sapientemente da alcuni partiti che hanno contribuito fortemente a diffondere xenofobia e chiusura nei confronti dei migranti. Queste stesse forze politiche e sociali non hanno capito che invece le economie hanno una speranza di sopravvivenza alla crisi se e nella misura in cui saranno capaci di includere e di innovare; le economie che si chiudono e che non si rinnovano saranno destinate al fallimento in quanto schiacciate dalla grande finanza internazionale. Loprieno: Si tratta di input che dovrebbero provenire anzitutto dall’Unione europea. Ma l’Europa non ha mai avuto una particolare attenzione per il Mediterraneo. Se poi l’attenzione assume le sembianze di Frontex, c’è poco da stare allegri. Vassallo Paleologo: In realtà, Frontex non è solo nel Mediterraneo ma anche negli aeroporti internazionali o al confine orientale. La presenza di Frontex nel Mediterraneo centrale è sempre stata assolutamente simbolica tanto che, fortunatamente dal mio punto di vista, essa non ha condotto nessuna operazione di respingimento. I mezzi impiegati da Frontex si sono limitati all’invio di funzionari comunitari, in giacca e cravatta, a Lampedusa con 42 gradi ad arrostire al sole con la loro pelle bianca di polacchi o sloveni. L’istituzione dell’agenzia Frontex è stata soprattutto una operazione ideologica e mediatica ma è anche molto 9 Daedalus 2012 Intervista a Fulvio Vassallo Paleologo servita al governo italiano per dire che le porcherie le faceva in collaborazione con Frontex. Quando parlo di “porcherie” intendo i respingimenti collettivi verso la Libia del 2009 per i quali l’Italia è sotto processo alla Corte europea nel caso Hirsi e altri c. Italia. Siamo in attesa di una decisione che stenta ad arrivare e questo non è affatto un bene perché quantomeno le due corti europee (la Corte di Giustizia e la Corte europea dei diritti umani) dovrebbero celermente rispondere alle domande di giustizia che provengono dall’Italia e dagli altri paesi 1 . Questo mi fa ritornare al punto di partenza della nostra conversazione ed esattamente alla rilevanza del diritto costituzionale perché ripropone l’importanza degli strumenti di tutela dei diritti fondamentali delle persone. Loprieno: Cosa è cambiato nelle dinamiche dei gruppi che approdano in Sicilia? Vassallo Paleologo: Negli anni immediatamente successivi al 2000, arrivavano soprattutto sudanesi. Poi vi è stata la fase della fuga dal Corno d’Africa e quindi Eritrea, Etiopia e Somalia. Nel ciclo degli arrivi e delle partenze giocano un ruolo importante l’apertura e la chiusura dei flussi legali di ingresso. Ad esempio, negli anni 2007-2008 molti nigeriani e ghanesi hanno potuto regolarizzarsi grazie all’apertura di canali di ingresso legali che erano o regolarizzazioni camuffate o veri e propri flussi di ingresso. Negli ultimi due anni, la chiusura ha riguardato anche richiedenti asilo e minori non accompagnati, tenuti in quarantena fino al raggiungimento della maggiore età per poterli espellere più rapidamente. Gli ultimi arrivi sono caratterizzati da una forte presenza di persone in fuga dal Nord africa: egiziani, tunisini, algerini, marocchini. La fase attuale poi deve essere analizzata e studiata anche dal punto del diritto internazionale. Per effetto degli accordi e dei materiali forniti dall’Italia alla Libia prima ed alla Tunisia dopo, vi è sostanzialmente una collaborazione di polizia in acque 1 Nelle more della pubblicazione della rivista, la Corte Europea dei Diritti Umani si è pronunciata il 23 febbraio del 2019 sul caso richiamato dal Prof. Vassallo Paleologo. In particolare, la Corte europea all'unanimità ha ritenuto l'Italia colpevole di aver intercettato in acque internazionali i cittadini eritrei e somali e di averli ricondotti nella Libia del colonnello Gheddafi il 6 maggio del 2009. In un solo colpo, le autorità italiane sono riuscite a violare i principi del non- refoulement, del divieto di trattamenti inumani e degradanti, il diritto a un ricordo effettivo nonché il divieto di espulsioni collettive. 10 Daedalus 2012 Intervista a Fulvio Vassallo Paleologo internazionali con la segnalazione delle imbarcazioni subito dopo la partenza; le nostre unità, quindi, cercano di far intervenire le unità libiche o tunisine in modo da evitare il trasbordo dei migranti sulle nostre imbarcazioni e non sporcandosi direttamente le mani. È questione nota anche ai non tecnici del diritto che quando un cittadino straniero sale su un natante battente bandiera italiana è come se entrasse sul territorio nazionale e gode del diritto di essere sbarcato in un luogo o porto sicuro oltre che del godimento di diritti proclamati dalla Convenzione europea dei diritti umani. Esiste anche un principio del diritto internazionale del mare secondo cui l’imbarcazione che prende a bordo una persona ha il diritto/dovere di sbarcarla in un luogo sicuro. Fino a quando resterà sull’imbarcazione è come se fosse nello Stato di cui batte bandiera il natante e dovrebbe essere obbligata a rispettare la Cedu. Loprieno: L’Africa sembrerebbe un continente in fuga. Vassallo Paleologo: Si. E questo perché anche le speranze di trasformazione e di rilancio economico sono state messe a dura prova in questi ultimi mesi. Sono stato a Tunisi a fine settembre prima delle elezioni ed il clima era pesante: nessuna esultanza o manifestazione di gioia per le strade. I fatti di questi ultimi mesi al Cairo ci fanno capire che la rivoluzione democratica è fallita ed è in corso uno scontro di poteri tra le diverse componenti della società musulmana. Loprieno: Cosa intendi per rivoluzione democratica? Non trovi sia un ossimoro? Vassallo Paleologo: Intendo quella portata avanti da ragazzi e ragazze giovani e giovanissimi che, in qualche modo, si sono ispirati anche ai nostri modelli di democrazia. Non è certo questione di esportarla questa democrazia ma certamente i principi del costituzionalismo democratico esercitano un fortissimo appeal sulle giovani generazioni nordafricane. Mi ha fatto un certo effetto vedere nelle strade di Tunisi donne velate o di sera vedere le strade vuote. Nel Sud della Tunisia e nelle periferie ci sono situazioni che non avresti mai immaginato di trovare anche solo un anno fa. 11 Daedalus 2012 Intervista a Fulvio Vassallo Paleologo Loprieno: I migranti con i quali hai parlato, che hai conosciuto e difeso, che idea hanno del Mediterraneo? Vassallo Paleologo: È impossibile generalizzare. Alcuni cercano di dimenticarlo per sempre. Chi arriva dall’estremo oriente e il mare non lo ha mai visto afferma spesso che non vorrà rivederlo mai più. Chi arriva dal nord Africa conserva, sovente, del mare di mezzo l’idea di un luogo di scambio e di passaggio perché magari i suoi genitori, tra gli anni Sessanta e Ottanta, vivevano e lavorano in Sicilia e potevano fare e rifare quel viaggio senza bisogno di particolari documenti. Penso agli insediamenti di Mazzara del vallo ed alle terze generazioni di tunisini e marocchini. Certo per un tunisino che abita a cento km dalle coste siciliane, l’attraversata del Mediterraneo è cosa ben diversa rispetto a un nigeriano o a chi proviene dal Bangladesh per i quali spesso quel viaggio è il viaggio della vita, un viaggio che può essere pagato una sola volta. A meno di non ottenere un permesso di soggiorno che è cosa quasi impossibile per chi quel viaggio lo fa con una barca scassata o una vecchia carretta. Loprieno: Qual è il ruolo della criminalità organizzata, se c’è, nella gestione dei flussi, nell’utilizzo come forza lavoro irregolare ma anche nella gestione di queste ultime entità di accoglienza dalla irrisolta natura giuridica? Penso ai Cie temporanei o ai simil-cara aperti in Calabria. Vassallo Paleologo: Per quanto riguarda l’accoglienza mi pare che la situazione in Sicilia sia diversa rispetto a quella calabrese. Ho visitato molti campi per stranieri, anche situati in zone tradizionalmente controllate dalla mafia, e tutto può dirsi quanto alla loro inefficacia ed inefficienza ma non ci sono elementi che attestino una qualche forma di presenza della criminalità organizzata. Ad esempio, Palma di Montechiaro ospita tre comunità per minori stranieri non accompagnati ed è ben noto che si tratta di una capitale della criminalità organizzata siciliana. Sempre a Palma di Montechiaro hanno anche arrestato alcuni scafisti stranieri che gestivano anche la sosta a terra, utilizzando dei capannoni di proprietà del sindaco, ed ubicati in riva al mare. Il sindaco era assolutamente all’oscuro di tutto. Piuttosto, anche in Sicilia nel settore della intermediazione non ufficiale del lavoro agricolo c’è un avvicinamento tra la sfera mafiosa e la sfera della gestione della manodopera irregolare. I quadri intermedi sono composti da immigrati ed i caporali spesso sono di nazionalità marocchina. Siamo però 12 Daedalus 2012 Intervista a Fulvio Vassallo Paleologo distanti dalle situazioni della Piana di Rosarno anche se a dirla tutta la zona di Pachino, quella del pomodorino, è l’unica che può essere comparata per certi aspetti a certe zone della Calabria. Nel resto della Sicilia, i migranti e le migranti sono impiegati nel settore dei servizi ma soprattutto svolgono lavoro di assistenza domestica. Sono moltissime le badanti anche comunitarie (prevalentemente dell’Est) che certamente non hanno gli stessi problemi delle loro colleghe extracomunitarie pur vivendo nelle stesse loro condizioni di sudditanza. L’altro problema che però ha un caratura nazionale concerne l’incidenza della criminalità organizzata nei settori più lucrosi del mercato dell’immigrazione: donne e minori non accompagnati e molto spesso donne minorenni da avviare alla prostituzione. In questo settore vi sono certamente reti di criminalità organizzata. È peraltro indicativo che, in alcuni casi, lo sfruttatore o chi ha trafficato e trattato la donna approfitti ancora una volta di lei facendosene scudo per avere una sorta di passaporto di ingresso e, quindi, potersi accreditare come componente di un nucleo familiare. Per fortuna, è accaduto che alcune donne a distanza di mesi hanno trovato il coraggio di denunciare la situazione. Loprieno: È plausibile parlare di contatti tra reti criminali mediterranee? Vassallo Paleologo: Nel caso di cui abbiamo appena parlato direi di no. Infatti, la rete criminale che gestiva il passaggio dalla Libia era composta quasi esclusivamente da nigeriani. Anche se negli ultimi tempi, Gheddafi ne aveva fatto arrestare qualcuno per dimostrare all’Europa di rispettare gli accordi e contrastare e combattere l’immigrazione clandestina, i gruppi di nigeriani in Libia sono stati definitivamente smantellati nel corso della guerra e della caduta del regime. Nuovi gruppi criminali di nigeriani si starebbero ricostituendo nelle zone quasi extraterritoriali al confine tra la Libia e l’Egitto e tra la Libia e la Tunisia, una striscia di deserto che è quasi una terra di nessuno. Situazioni simili si riscontrano al confine tra Algeria e Marocco; ad esempio, vicino alla città di Oujda, situata all’estremità orientale del paese confinante con l’Algeria, le autorità marocchine si sbarazzano dei migranti in condizioni di irregolarità semplicemente buttandoli verso il confine. I richiedenti asilo non subiscono certo un trattamento diverso e migliore visto che i documenti loro rilasciati dall’Achnur sono considerati carta straccia. I paesi del nord Africa 13 Daedalus 2012 Intervista a Fulvio Vassallo Paleologo hanno logiche espulsive molto violente che si traducono nell’abbandono delle persone in zone che sono terra di nessuno ove predoni, trafficanti e gruppi armati possono insediarsi. I nigeriani sono sicuramente presenti lungo i confini tra Libia, Tunisia, Algeria e Marocco. Loprieno: Credi che Cosa nostra abbia a che fare con questi gruppi? Vassallo Paleologo: Credo di no. Cosa nostra ha affari più lucrosi da curare. Potrebbero esserci contatti per quanto riguarda la prostituzione ma una volta che le vittime siano già arrivate sul territorio. Peraltro, la prostituzione che rende di più è quella bianca proveniente dai paesi dell’Est (Moldavia, Romania, Ucraina) e non certo quella proveniente dal nord Africa. Loprieno: Nella rete internazionale dei traffici lo sfruttamento della manodopera sta acquisendo una rilevanza centrale. Vassallo Paleologo: Certamente sì ma non qui, in Sicilia. Sommando tutti i migranti presenti nelle nove province siciliane, il loro numero resta inferiore al numero di immigrati nella provincia di Brescia. Ed è completamente diverso il mercato del lavoro. Se nei cantieri del nord Italia lavorano prevalentemente migranti, qui muratori e carpentieri sono soprattutto siciliani. Anche nel lavoro agricolo, vi è una fortissima prevalenza di siciliani. Loprieno: Mi piacerebbe ritornare sulla questione a cui accennavi prima a proposito delle violente politiche espulsive poste in essere nei paesi del Nord africa. Anche questo modus operandi mi pare funzionale ai desideri dell’Europa che ha chiesto e continua a chiedere ai paesi del nord Africa di fungere da cane di guardia del proprio territorio. Vassallo Paleologo: L’Europa ha chiesto ed ottenuto tutto ciò con lo strumento degli accordi bilaterali che, messi in dubbio durante le concitate fasi della primavera araba, ora sono stati rinnovati. Anche l’ultimo governo Monti ha rinnovato, in tutti i suoi termini, l’accordo bilaterale con la Libia che, peraltro, è stato denunciato a livello europeo in quanto contrario ai diritti umani. Si può ignorare il fatto che la Libia non ha mai aderito alla Convenzione di Ginevra sul riconoscimento dello status di rifugiato? Il Consiglio nazionale transitorio, da parte sua, 14 Daedalus 2012 Intervista a Fulvio Vassallo Paleologo non garantisce nessuno standard di protezione dei diritti umani né dei migranti né dei libici che non siano schierati con i vincitori. È certamente in corso, in Libia, uno scontro di potere all’interno del Consiglio dall’esito incerto. In questa fase così delicata e concitata, l’unico interesse della politica estera italiana è stato quello di mantenere inalterati i rapporti bilaterali con i libici. Questa scelta di politica estera si muove in linea di assoluta continuità con il passato: già a fine luglio del 1998, l’allora Ministro degli Interni Napolitano, firmava a Tunisi un accordo che individuava nella cooperazione bilaterale lo strumento centrale anche per la esternalizzazione della frontiera e dei controlli, ivi inclusi i sistemi di detenzione. Vorrei ricordare che in quegli accordi già si prevedeva l’apertura di tre centri di accoglienza con una capienza di 500 posti per gli immigrati espulsi dall’Italia e “accompagnati” in Tunisia. Loprieno: Dei migranti che hai difeso in questi anni, qualcuno ti ha lasciato una ferita non rimarginata? Vassallo Paleologo: Tante sono le ferite non rimarginate e talvolta anche sanguinanti. Potrei raccontare tante vicende dolorose e che quasi ti gettano nello sconforto. Qualche mese fa, a Trapani, abbiamo presentato ricorso contro il diniego alla richiesta di asilo da parte di un giovane tunisino con relativa richiesta di sospensione. La Questura di Trapani si è lanciata in una vera e proprio opera di interpretazione creativa del diritto: ha effettuato l’accompagnamento coattivo alla frontiera senza aspettare la pronuncia del giudice interpretando la mancata risposta come un diniego della richiesta di sospensione del provvedimento. Se il personale addetto alla tutela dell’ordine pubblico ritiene di poter inventare nuovi istituti laddove questi non possono esistere atteso, a voler tacere d’altro, che è sempre un giudice a dare l’assenso allora vengono meno una serie di principi all’origine dello Stato moderno di diritto: il principio di legalità ed il principio della separazione dei poteri. È oltremodo irritante verificare come negli Uffici immigrazione o nei Centri di identificazione le forze di polizia e le autorità amministrative applichino le leggi ed i regolamenti con una discrezionalità totale sì che tra quanto astrattamente proclamato dalla legge e quanto si verifica nella prassi la distanza è siderale. A tutto discapito, ovviamente, del regime delle libertà personali e della dignità dei migranti. Ho provato una sensazione simile nella Grecia dei 15 Daedalus 2012 Intervista a Fulvio Vassallo Paleologo colonnelli. Era il 1972 e sapendo che dentro certe caserme venivano trattenuti e torturati i dissidenti e gli oppositori politici, trovavo persino insopportabile passare le vacanze in quel paese. Ora per gran parte delle persone è normale vivere in un paese dove le garanzie democratiche valgono soltanto per alcuni e non per tutti. Loprieno: La questione da te sollevata circa la discrezionalità con cui le forze di polizia e le autorità amministrative applicano le leggi è davvero dirimente ed è insopportabile per chi abbia a cuore i valori delle democrazie costituzionali. Di fronte a un simile abominevole arbitrio a essere rimessa in forse ed in gioco è la qualità della democrazia costituzionale stessa. Inevitabilmente ritorna alla mente l’insegnamento di Foucault quando invitava a osservare il diritto non come legittimità da stabilire, ma dal punto di vista delle tecniche di assoggettamento che esso mette in opera. Assunta questa prospettiva, lo sguardo deve appuntarsi non al meccanismo generale ma al potere nelle sue estremità e terminazioni più periferiche, più locali. L’attenzione deve centrarsi laddove il potere scavalca le regole del diritto che lo organizzano e delimitano dandosi tecniche e strumenti di intervanto materiali che possono anche essere violente. L’invito del filosofo era quello di guardare al potere nell’estremità sempre meno giuridica del suo esercizio, dove produce effetti reali, sui corpi dove le procedure assoggettano i corpi, i corpi sono stigmatizzati, sorvegliati, controllati, nascosti, eventualmente puniti o messi a morte. E quando Foucault parla di messa a morte non intende solo o necessariamente la soppressione fisica degli individui, ma anche tutto ciò che può essere morte indiretta. Vassallo Paleologo: La violenza sui corpi di cui mi parli passa quasi sotto silenzio e ciò mi angoscia. Anche queste sono ferite che stentano a rimarginarsi. Parlo delle sistematiche punizioni fisiche alle quali sono soggetti gli immigrati quando si ribellano o quando rifiutano il cibo o quando hanno uno scatto di nervi: vengono isolati, circondati, spogliati nudi e picchiati. È cronaca di questi giorni, come le violenze verificate nei CIE di Trapani e di Gradisca di Isonzo. E questo avviene in maniera sistematica con varianti come l’esposizione al freddo, d’inverno, magari con abiti bagnati o l’isolamento in celle che sono luoghi di tortura perché piccolissime e senza aria a sufficienza, in estate, per poter respirare liberamente. Questo e molto altro accade qui, intorno e vicino a noi, a Trapani come a Palermo o a Bari o a Gradisca di Isonzo. I 16 Daedalus 2012 Intervista a Fulvio Vassallo Paleologo migranti che hanno subìto questo tipo di violenza quasi sempre lasciano capire cosa è loro successo ma, al contempo, ti chiedono quasi di tacere: io mi racconto, ma tu non denunciare perché potrebbe accadermi di peggio. Persino a Mineo e, dunque, in un centro di accoglienza per richiedenti asilo ci sono stati, nell’ estate del 2011, casi di pesanti pestaggi da parte della polizia. Le vittime, da noi subito fatte arrivare a Palermo, asserivano di avere immagini dei pestaggi sul telefonino, recavano segni fisici accertati dai medici inequivocabilmente derivanti da manganelli. Poi, però, al momento di formalizzare la denuncia, e pur soggiornando in una struttura di sicurezza a Palermo, non sono stati in grado di proseguire nell’azione perché i migranti sanno che il loro futuro è sotto l’arbitrio dell’autorità di pubblica sicurezza. Denunciare oggi, per un migrante, potrebbe significare trovarsi di fronte agli stessi agenti denunciati o ai loro compiacenti colleghi tra qualche anno. Loprieno: Il tuo racconto ci ha fatto venire alla mente i trattamenti disumani e crudeli che Don Cesare Lodeserto ed il suo staff riservavano ai trattenuti all’interno dell’allora CPT di San Foca di Melendugno ed oggetto di numerosissimi procedimenti giudiziari. Le cose che tu oggi racconti e che sono facilmente reperibili sulla rete solo a volerle sapere sono troppo simili a ciò che accadeva dieci anni fa. Non solo non è cambiato nulla ma ho la sensazione sgradevolissima che le cose siano peggiorate essendo diventate così generalizzate le violenze da essere considerate “normali”. Vassallo Paleologo: A fine dicembre del 2011, esattamente tra lo notte del 28 e del 29, sono trascorsi dodici anni dalla strage del rogo del Serraino Vulpitta in cui morirono (arsi vivi) subito tre tunisini ed altri tre, gravemente ustionati, nei mesi successivi. Io visitai il Vulpitta qualche settimana prima dell’incendio ed il clima che si respirava era tesissimo. Il sovraffollamento, così come accade nelle carceri oggi, contribuiva in maniera determinante a rendere invivibile una situazione ove spesso l’unico modo che le forze di polizia hanno per fare rispettare l’ordine e per farsi rispettare è picchiare, picchiare duro. L’idea che deve passare e che deve regolare il tutto è che non conviene ribellarsi perché le punizioni andranno ben oltre le previsioni regolamentari. Negli istituti penitenziari accadono cose simili ma non è la stessa cosa. Nelle carceri quantomeno ci sono giudici di sorveglianza, avvocati che entrano ed escono, le famiglie che fanno i colloqui. Resta certamente 17 Daedalus 2012 Intervista a Fulvio Vassallo Paleologo vero che gli stranieri in carcere subiscono trattamenti differenziati rispetto ai loro colleghi italiani. Ultimamente sta emergendo una nuova strategia punitiva nei riguardi dei migranti: forze dell’ordine ma anche vigili urbani in qualche modo contestano ai migranti il reato di violenza e lesione anche in maniera assolutamente surrettizia: la lesione del metacarpo è da intendere come il risultato di un pungo sferrato dall’agente allo straniero piuttosto che la conseguenza di una reazione violenta del migrante. Di un caso simile ci occupando proprio in questo periodo qui a Palermo. Si tratta di vicende inquietanti perché sono il sintomo evidente di una cultura diffusa tra le autorità di pubblica sicurezza che colpisce non solo gli immigrati ma tossicodipendenti, giovani donne, ubriachi. Soggetti deboli nei cui confronti la polizia usa violenza gratuitamente. E ancora una volta ritornano il diritto costituzionale ed i suoi principi. Il quarto comma dell’art. 13 della nostra Costituzione, quello interamente dedicato alla libertà personale, espressamente recita che “è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione di libertà”. Credo sarebbe una buona idea stampare questo principio così cristallino su adesivi da attaccare in ogni volante, in ogni caserma, in ogni luogo ove la libertà personale è limitata. Simili atteggiamenti violenti della polizia sono considerati assolutamente nella norma in nord Africa ed è terribile l’attonita sorpresa che coglie i migranti quando subiscono abusi: “non potevamo immaginare che qui funziona come da noi”. Molti dei tunisini giunti a Lampedusa dopo la rivoluzione dei gelsomini si guardavano attorno quasi inebetiti perché non si aspettavano che la polizia italiana li avrebbe trattati in questo modo. Loprieno: E, nonostante tutto questo, il Mediterraneo è continuamente attraversato da chi è alla ricerca di migliori condizioni di vita. Vassallo Paleologo: Il numero degli sbarchi è comunque molto diminuito. Nell’ultimo anno è stato come assistere a un fenomeno eruttivo, seguito prima da una scia sismica, poi da una lavica e poi dalla calma. Se le regole resteranno le stesse, se gli accordi bilaterali resteranno quelli che sono e se l’Europa continuerà a pagare per la detenzione dei migranti irregolarmente presenti, gli stati di partenza e di approdo continueranno a privilegiare il blocco delle persone rispetto alla loro valorizzazione anche come soggetti potenzialmente in grado di far arrivare nei paesi di origine risorse finanziarie importanti. Sembra, 18 Daedalus 2012 Intervista a Fulvio Vassallo Paleologo invece, che i paesi da cui si parte abbiano messo in vendita la loro forza lavoro ed il loro futuro in cambio di moneta contante. Da questo punto di vista non meno deludente è il comportamento dei c.d. nuovi governanti. In Libia, metà del governo transitorio è composto da ex ministri di Gheddafi; in Egitto, la forza dei Fratelli musulmani è diventata ancora più rilevante che nel recente passato. Chi ha ancora il coraggio di protestare per rivendicare la libertà e la dignità viene arrestato quando non ucciso. Nel mondo arabo vi è uno scontro tra un Islam fondamentalista e un Islam più moderato. Il fatto che i partiti fondamentalisti siano in crescita dappertutto e raccolgano consenso tra il popolo e tra le classi più marginali (ma non solo) dovrebbe farci riflettere e preoccuparci. Loprieno: Non più di quanto avrebbe dovuto preoccuparci la situazione preesistente. Fa molto più comodo all’Europa insistere sui pericoli di un imperante fondamentalismo che affrontare le ragioni di una diseguaglianza sociale e di un povertà di cui siamo correi. Altrimenti detto ho la sensazione che a Nord del Mediterraneo in molto preferiscano far finta di temere il fondamentalismo. Vassallo Paleologo: Credo non ci siano molti dubbi sul fatto che, in Europa, i centri istituzionali (e non) del potere politico ed economico trovino molto più conveniente avere a che fare con regimi forti perché sono quelli che garantiscono gli spazi di agibilità economica e sono capaci di reggere un accordo politico. Regimi forti, nella accezione che ne ho appena dato, difficilmente possono essere anche democratici. Vedremo come saranno le nuove costituzioni ma non nutro molte speranze o aspettative sulla avanzata democratica delle nuove costituzioni specie in Tunisia. Loprieno: In questa intervista corrono e si rincorrono due parole, Mediterraneo e Costituzione, tra le quali avverto una forte assonanza. La Costituzione è un bellissimo progetto, un insieme di principi che spesso non trovano conferme ed anzi vengono negati. Dall’altra parte, il Mediterraneo è sempre stato rappresentato come una bella utopia ma, di fatto, oggi questo mare è stato trasformato in cimitero, in luogo di esclusione piuttosto che di contatto. Non è che due utopie forse possono rafforzarsi? 19 Daedalus 2012 Intervista a Fulvio Vassallo Paleologo Vassallo Paleologo: Vorrei crederlo ma a oggi nulla mi fa pensare che sia possibile. La situazione nel nord Africa è diversissima, quasi indecifrabile per molti aspetti. Ma mi sembra esistano alcuni elementi comuni come ad esempio il fatto che l’economia corra molto più velocemente dello Stato e del diritto. Il mio timore è che, in questi luoghi strategici, possano affermarsi poteri economici molto forti e penso alle multinazionali del petrolio o alle produzioni e commercializzazione di prodotti da parte delle comunità dei cinesi. Contestualmente vedo depressione della manodopera intesa sia come riduzione della mobilità che come riduzione del salario; vedo disoccupazione soprattutto giovanile esattamente come è successo da noi. Sono già moltissimi i giovani tunisini che si stanno spostando per lavoro in Libia. Qui sono molto ben accetti, le distanze sono facilmente percorribili. Le tre ore che separano Brega da Tunisi sono cosa ben diversa che la traversata del Mediterraneo. Questi e altri segnali, mi lasciano credere che nel prossimo futuro i paesi del nord Africa si trasformeranno in paesi di immigrazione anche in ragione del loro potenziale tecnologico e della disponibilità di materie prime. Non accadrà domani, ci vorrà tempo. La vera scommessa è se questa trasformazione avverrà sotto regimi in via di democratizzazione o seguendo, ad esempio, il modello cinese. La Cina pur non potendo vantare il crisma della democraticità resta, infatti, un attore fondamentale del commercio mondiale con i quali tutti i paesi del mondo sono costretti a confrontarsi. È anche possibile, ma certo non auspicabile, che i paesi della riva sud rientrino nella sfera del commercio internazionale con bassissimi o anche inesistenti livelli di democrazia. Loprieno: Sono le tue percezioni di giurista contaminato da altre discipline a interessarci. I migranti con cui hai avuto a che fare percepiscono una unità del mediterraneo? Vassallo Paleologo: Assolutamente no. Percepiscono semmai la Francia, la Germania o anche l’Italia sebbene come ponte per raggiungere più facilmente l’Europa centrale. L’Italia generalmente non viene pensato come luogo di approdo definitivo perché offre troppe poche occasioni. Un giovane tunisino, vuoi per la lingua o per le rete parentali, ha in Francia più possibilità di realizzare il proprio progetto migratorio anche a causa delle stesse modalità di acquisizione della 20 Daedalus 2012 Intervista a Fulvio Vassallo Paleologo cittadinanza. Se un tunisino sposa una francese o ha una figlio da una francese ha delle ottime possibilità di sistemarsi. In Italia, a causa di una pessima legge sulla cittadinanza, tutto questo è impossibile. Ci sono persone che vivono in Italia da venti anni e ogni due anni devono andare in Questura per rinnovare il proprio permesso di soggiorno. Il sistema di welfare per gli immigrati è quasi inesistente ed odiose forme di discriminazione sono diffuse, pur se in maniera diversa, sia al Nord che al Sud. Non che in Francia o in Germania tutto questo non ci sia però alcuni elementi sono maggiormente prevedibili rispetto alla situazione di totale incertezza che regna in Italia quanto al proprio status giuridico. Loprieno: Davvero negli ultimissimi anni nulla o quasi nulla è stato fatto dal governo per agevolare percorsi di integrazione tra autoctoni e migranti. Stavo pensando alla assurdità dell’accordo di integrazione a punti. L’integrazione da processo quantomeno trilatero (istituzioni pubbliche, cittadini e migranti) si trasforma in obbligo: o ti integri a punti o ti espello. Vassallo Paleologo: Anni e anni di governo dell’immigrazione e di politica estera affidati ad apprendisti stregoni come Maroni e Frattini comportano, tra le altre cose, che le cose non potranno essere cambiate in sei mesi o in un anno. Specie negli ultimi due anni, sono stati fortemente danneggiati i rapporti tra i cittadini ed i migranti che ora paiono un corpo estraneo in un corpo sociale che già di suo ha perso buona parte del collante che lo teneva insieme. Ciò che oggi si avverte è il senso di estraneità che hanno gli immigrati in Italia e la difficoltà di aprirsi a ogni tentativo di integrazione anche quando ci sono le occasioni. Non è facile integrare e non è facile integrarsi; non è facile interagire con chi è stato discriminato ed additato come il capro espiatorio di molti mali. Molti migranti hanno un atteggiamento di sfiducia totale nei nostri riguardi e tanta voglia di andarsene. È l’amarissimo frutto che Maroni ed il suo governo ci hanno lasciato in eredità per il futuro. Loprieno: Vien fuori una immagine molto triste del Mediterraneo. Vassallo Paleologo: Scenari diversi e più rosei me li prefiguro se e nella misura in cui le piccole e medie imprese, gli enti locali e le 21 Daedalus 2012 Intervista a Fulvio Vassallo Paleologo associazioni di settore sceglieranno di costruire qualcosa direttamente in quei paesi. Forse un episodio può servire a meglio spiegare il mio punto di vista. Il nostro consolato di Rabat ha ritenuto di non dover concedere a un avvocato marocchino il visto di ingresso per poter partecipare a un convegno organizzato dall’Asgi a Trieste. I funzionari del consolato hanno giustificato il diniego adducendone le cause a un utilizzo strumentale della partecipazione al convegno cui sarebbe seguito un soggiorno illegale in Italia. Si trattava di un professionista con una attività molto ben avviata a Rabat e con molti collaboratori. Simili atteggiamenti di chiusura (anche ridicola) da parte delle nostre autorità producono danni enormi: non crescono i rapporti, non si avviano scambi né commerciali né culturali, si riduce la mobilità. Ovvio che questo atteggiamento di sbarramento nei riguardi dello straniero solo perché straniero rende molto in termini di dividendi elettorali. Temo che la prossima campagna elettorale sarà ancora una volta impostata dalla Lega in termini di pura xenofobia e razzismo. Loprieno: I leghisti, dall’opposizione, stanno già lanciando messaggi chiarissimi. È di qualche giorno fa l’idea insana secondo cui il servizio dell’asilo nido potrà essere fruito solo dagli stranieri regolarmente residenti nel comune da 15 anni. Vassallo Paleologo: I parlamentari leghisti molto probabilmente contesteranno anche le scelte amministrative con cui l’attuale governo cercherà di porre rimedio ai danni della cattiveria maroniana. Anche l’ultimo governo Prodi tentò in via amministrativa ciò che non si poteva ottenere per via legislativa. Loprieno: Uno dei primi atti della Ministra degli Interni è stato la revoca della famigerata circolare 1305 con cui Maroni il primo aprile del 2011 aveva vietato ai giornalisti l’accesso nei Centri di identificazione ed espulsione. Vassallo Paleologo: È certamente un buon segno ma non mi sento neanche di enfatizzarlo troppo. I giornalisti, è vero, potranno entrare nei Cie ma quando troveranno persone inebetite dagli psicofarmaci, che non hanno più nessuna voglia di raccontarsi perché il raccontarsi tramite la divulgazione di immagini o video dai loro cellulari ha loro provocato ulteriori botte, cosa potranno fare? Dopo che per un anno intero sono 22 Daedalus 2012 Intervista a Fulvio Vassallo Paleologo successe le cose che sono successe, c’è una sola questione da porsi: i danni sono reversibili, difficilmente reversibili o semplicemente addirittura irreversibili? Per quando mi riguarda, credo che gli attentati alla coesione sociale, tanto cara al presidente Napolitano, inflitti in questi ultimi anni sono stato talmente gravi che ci vorranno molti anni affinché si possa “guarire”. Dovrà essere superata la crisi economica, ci vorranno nuovi progetti, bisognerà andare incontro fisicamente alle persone nei luoghi da cui esse partono o transitano. La vera sfida è andare lì. Io sono stato in Tunisia a settembre e sono tornato con le ossa rotte. Ho verificato di persona come anche i nostri colleghi professori universitari che ai tempi di Ben Alì avevano il coraggio di esporsi denunciando ciò che accadeva ai danni dei migranti o degli operai che si ribellavano a Redejef o a Gafsa ora sono praticamente condannati al silenzio. Una cosa è portare una fabbrica di scarpe, altro è avviare attività associative in difesa dei diritti umani perché si rischia di essere arrestati. In Egitto ci sono migliaia e migliaia di giovani attivisti democratici arrestati e esposti a pesanti trattamenti da parte della polizia egiziana. Ho usato l’aggettivo democratico perché questi giovani e queste giovani si sono battuti per la libertà e per la dignità umana ed è irrilevante (per me) che siano musulmani, cristiani o coopti o altro. E quando sono dovuti fuggire dai loro paesi per aver salva la propria vita o non essere sottoposti a trattamenti disumani e crudeli, noi qui in Italia li abbiamo rimandati indietro. Li abbiamo riconsegnati alla polizia egiziana con cui quella italiana ha consolidatissimi (e moralmente assai censurabili) rapporti di collaborazione. Loprieno: Nel mentre noi continuiamo a ricordare ai nostri studenti ed alle nostre studentesse la straordinaria importanza della Rivoluzione francese del 1789 e di come essa abbia sparso i semi della libertà, della giustizia e della eguaglianza in tutta Europa. Osanniamo le rivoluzioni che furono per disconoscere quelle che sono in atto, sotto i nostri occhi. Vassallo Paleologo: Sono d’accordo con te. Bisognerebbe portare i nostri studenti lì e tentare di costruire ponti perché i ponti, quelli veri, non sono costruiti con i governi o dai governi. Hanno da poco riaperto l’oleodotto dalla Libia verso la Sicilia ed hanno riaperto la collaborazione con l’Algeria per quanto riguarda il gas che, in realtà, non si era mai interrotta. Non dobbiamo cadere nella trappola di non considerare importanti anche questi ponti e questi scambi puramente 23 Daedalus 2012 Intervista a Fulvio Vassallo Paleologo commerciali ma la mia preoccupazione è che privilegiando solo questi si finisca per cancellare l’aspetto umano. Del resto se sta avvenendo in Italia non c’è ragione per credere che una diversa politica non si possa verificare in paesi che certo non sono campioni di democrazia. Loprieno: Mi pare che un buon titolo per questa chiacchierata possa essere, visto che il numero è centrato sul Mediterraneo ovviamente anche in forma critica: “Mediterraneo? Una illusione ottica percepibile solo dalla costa europea”. Ho l’impressione che ci sia un po’ di retorica sul Mediterraneo che solo noi siamo nelle condizioni di coltivare, placando i morsi della nostra coscienza ma poi, dall’altra parte, questa entità sia assolutamente invisibile. È un problema per la storia. Vassallo Paleologo: Non saprei se considerarlo un problema per la storia. Dal Mediterraneo, comunque, arrivano risorse anche umane da acquistare nel modo più conveniente possibile. È conveniente acquistare forza lavoro clandestina da pagare poco ed espellere quando e come si vuole perché semplicemente non serve più. La forma più flessibile di lavoro è proprio la clandestinità e, da questo punto di vista, la mia sensazione è che si stia utilizzando il Mediterraneo come luogo di scambio di forza lavoro irregolare a basso costo da espellere nel modo più facile possibile quando non risponde più alle esigenze del mercato. Insomma fabbricare clandestini è conveniente. Loprieno: Il mio compagno, Ercole Giap Parini, ha passato un anno a studiare un’altra “costa” di frontiera, ma dove non c’è il mare. Quella tra gli Stati Uniti e il Messico. Da quello che ho capito, lì almeno non c’è quella retorica, c’è un filo spinato elettrificato voluto dal democratico Clinton. Intervistava imprenditori agricoli che gli dicevano: noi siamo con Clinton per la elettrificazione perché questo comporta che loro, i migranti, vengono a lavorare in condizioni peggiori e per un salario minore. Naturalmente, Giap ha raccolto interviste spacciandosi per un loro collega agricoltore e non certo presentandosi come ricercatore sociale. Ed è riuscito ad avere queste “confidenze”. Spesso le politiche di restrizione dei flussi vengono appoggiate anche da chi pensa di sfruttare di più la manodopera. Vassallo Paleologo: Quanti migranti lavorano nelle fabbriche e nelle aziende di leghisti? E come mai è stata fatta una sanatoria apposta per le 24 Daedalus 2012 Intervista a Fulvio Vassallo Paleologo badanti? Uno dei problemi è che lo sfruttamento dei migranti mette in discussione la stessa idea di democrazia dei nostri paesi e, d’altra parte, rende più complessa la questione dell’accesso alle materie prime perché appiattisce i rapporti con i paesi di provenienza e di transito esclusivamente sullo scambio di materie prime. Con la Libia e con la Tunisia gli scambi hanno a che fare o con le materie prime (gas e petrolio) o con la facilitazione di scambi finanziari e infrastrutturali: strade ed ospedali in cambio di oro nero. L’elemento umano è assolutamente assente. O meglio si preferisce non formalizzarlo perché, sottobanco, conviene a tutti che se ne parli poco, che la gente si muova, che venga espulsa, che ritorni per essere espulsa di nuovo. Tutto ciò diventa irrilevante se e nella misura in cui produce margini di convenienza. Certamente si tratta di un’ottica miope. I fattori di disperazione sociale da una parte e dall’altra del Mediterraneo potrebbero diventare così forti da innescare rivolte: tutto dipende dal livello di impoverimento del corpo sociale e non è detto che anche da noi non ci saranno rivolte del pane. Loprieno: Il pericolo per noi è che stiamo assimilando l’idea che la differenziazione possa passare anche attraverso e sui corpi delle persone. Vassallo Paleologo: Concordo. Il mercato mondiale ci impone regole di abbattimento dei diritti sociali ma questo significa anche un abbattimento dei diritti umani. La crisi sociale si traduce in uno svilimento dei diritti umani. La storia del Novecento sta a testimoniarlo. Nel 1919, subito dopo la Prima Guerra Mondiale, mio nonno dovette emigrò in Argentina ma il suo progetto migratorio fallì e ritornò in Italia. Erano gli anni in cui si preparava il brodo di coltura del fascismo e mio nonno diventò fascista salvo capire, allo scoccare della seconda Guerra Mondiale, a cosa conduceva lo Stato fascista. Divenne antifascista ma per venti anni crebbe, da salariato e con problemi di quotidiana sopravvivenza, in quella ideologia. Talvolta, un regime autoritario e populista (altrettanto pericoloso di una tradizionale dittatura) appare più in grado di fornire facili e immediate risposte alle paure e alle domande quotidiane di quanto possa fare un regime democratico. In un percorso democratico prima di individuare una linea di intervento si deve passare da tante mediazioni e da molti compromessi. 25 Daedalus 2012 Intervista a Fulvio Vassallo Paleologo Loprieno: Che la democrazia, come procedura e come sostanza, sia faticosa, imponga e richieda sacrifici è fuori di dubbio. Vassallo Paleologo: La democrazia forse è anche un lusso che nei periodi di vacche magre potremmo non permetterci. Non è un caso che si muovano delle critiche alle istituzioni europee perché troppo frammentate e, quindi, poco funzionali. Anche il povero Berlusconi che legge e commenta i diari di Mussolini si ritrova a dovergli dare ragione: il suo disegno presupponeva una concentrazione di poteri che, fortunatamente per noi, gli attuali assetti costituzionali e comunitari non consentono. La linea di tensione e di tendenza è verso il ricompattamento delle destre populiste. Chi si presenterà alle prossime lezioni, avrà un programma ancora più di destra e ancora più populista anche perché dovrà sbaragliare l’agguerrita concorrenza della lega nord. Loprieno: Ci sono tanti ingredienti pericolosi. C’è una crisi economica, c’è una tendenza al populismo ed alla decostituzionalizzazione, c’è un nemico etnico visibile. Certo questo nemico non è più immediatamente l’ebreo ma potrebbe essere il rom che oggi anche noi benpensanti facciamo fatica ad accettare. Loprieno: Molte delle attuali condizioni ricordano molto ciò che accadde in Europa dopo il 1919 ed in particolare al periodo successivo all’entrata in vigore della Costituzione di Weimar ed al suo tentativo di tenere insieme capitale e lavoro. Loprieno: Monti incarna proprio lo spirito di quella epoca a cui facevo riferimento: la politica completamente indebolita e lo strapotere delle banche e dei banchieri che certo non sono incolpevoli. Sui socialnetwork fioccano le accuse alla plutocrazia. Ma cosa si cela dietro la retorica contro le banche? Io ci vedo il sempiterno antisemitismo e questa retorica contro i poteri occulti mi fa orrore. Vassallo Paleologo: Ciò che dici è convincente. In una ottica maggiormente euro mediterranea, dovremo capire come si evolverà il feeling tra le nostre democrazie e i regimi di transizione in nord Africa. Tutto è ancora da sperimentare e può andare nelle direzioni più diverse. In questo momento sono davvero contento di essere un giurista e non, 26 Daedalus 2012 Intervista a Fulvio Vassallo Paleologo per esempio, un sociologo perché non capirei assolutamente nulla del mondo circostante. Il giurista che è in me si limita a registrare determinate percezioni, a metterle insieme, a cogliere il senso di una prassi anche per meglio cogliere una evoluzione legislativa. Loprieno: Da quello che so, però, un sociologo fa esattamente ciò che hai appena descritto: cerca di cogliere il senso di una prassi e di rapportarlo a qualche categoria che gli sembra utile. Vassallo Paleologo: E non è facile trovarlo. Io sono in grossa difficoltà quando scrivo un libro. Voglio rivolgermi a un pubblico vasto fatto non soltanto di tecnici del diritto e non è facile comunicare mantenendo un minimo di rigore scientifico, non è facile comunicare le trasformazione in atto. I processi sono talmente in continua evoluzione che ha senso solo fermarli in un testo per un convegno o da pubblicare su internet. Fermarli in un testo cartaceo, nella legittima speranza che venga letto anche dopo qualche anno dalla pubblicazione, è una impresa ardua. Quando scrivo qualcosa mi chiedo spesso cosa di utile ci sarà tra due o tre anni posto che in questo lasso di tempo certamente cambieranno una serie di cose in maniera abbastanza radicale. Loprieno: Sai cosa forse non cambierà? Non cambierà che di fronte ai corpi dei migranti sottoposti a violenze in uno Stato che si professa democratico continueremo a inorridire. Vassallo Paleologo: Per chi ha almeno il coraggio della denuncia e della indignazione, sono due cose che cerca di comunicare. Io cerco di farlo sempre. 27 Daedalus 2012 Mediterraneo e migrazioni. Una rassegna LUIGI AMBROSI MEDITERRANEO E MIGRAZIONI. UNA RASSEGNA Lo scopo di questo contributo è proporre alcune brevi annotazioni riguardanti la produzione scientifica e culturale su “Mediterraneo e migrazioni” negli ultimi anni. Il tema rappresenta la prosecuzione e l’approfondimento del percorso di riflessione iniziato con il secondo numero della versione on line di Daedalus, dal titolo Il Mediterraneo possibile, e con il terzo, Sguardi incrociati sul Mediterraneo. L’intervallo di tempo preso in considerazione è proprio quello coperto da questi due numeri del periodico, pubblicati tra il 2009 e il 2011. L’oggetto è costituito da convegni e seminari, volumi e strumenti di ricerca, in altre parole novità scientifiche ed editoriali, segnalate senza alcuna pretesa di esaustività. Questa rassegna ha inoltre la funzione di cornice per ulteriori e specifici contributi: le recensioni al romanzo di Amara Lakhous, Un pirata piccolo piccolo, a cura di Valentina Fedele, e alla raccolta di saggi di Mohammed Bennis, Il Mediterraneo e la parola, da parte di Sabrina Garofalo; la nota critica di Stefania Salvino al libro Occhio a Pinocchio di Jarmila Očkayová; la recensione off topic al volume di Ulrich Beck, Potere e contropotere nell’età globale, a cura di Rossella Paino. La segnalazione di incontri di studio non può che iniziare da un accenno a quello tenuto il 21 gennaio 2010 all’Università della Calabria, con l’obiettivo di presentare il numero 2 di Daedalus, dedicato alla cultura del Mediterraneo e alla dialettica presenza/assenza dell’altro nell’epoca della globalizzazione. Introdotti da Ercole Giap Parini e Vittorio Cappelli e coordinati da Alberto Ventura, sono intervenuti il sociologo Franco Cassano e la storica Marta Petrusewicz. Entrambi sono stati protagonisti, l’uno nella veste dell’intervistato da Parini e Donatella Loprieno e l’altra dell’intervistatrice dello storico americano Edmund Burke III, dei due dialoghi che hanno aperto il numero intitolato Il Mediterraneo possibile, mettendo sul tappeto e sviscerando il tema, in una comune prospettiva interdisciplinare e di ampio respiro cronologico. In tal caso, l’agile forma del contraddittorio ha esaltato la vivacità intellettuale con cui è stata trattata la materia, fornendo così numerosi spunti investigativi e di 1 Daedalus 2012 Mediterraneo e migrazioni. Una rassegna valutazione a un dibattito più ampio, stimolato poi con lo strumento del Call for papers rivolto a studiosi di varia estrazione disciplinare e territoriale. Dalle molteplici sfaccettature considerate è emerso il rilievo, se non la centralità, del fenomeno migratorio nel contesto mediterraneo, che con il presente numero si intende affrontare per assi portanti, mediante dialoghi con studiosi e operatori culturali e sociali impegnati su questo versante, per sollecitare poi un ampliamento del dibattito per mezzo di un nuovo Cfp rivolto a reti nazionali e internazionali di sociologi, storici, orientalisti, ecc. Un metodo dunque che la redazione di Daedalus ha deciso di confermare e reiterare, valorizzando i risultati già raggiunti e cercando di sfruttarne ulteriormente il potenziale espresso. Per quanto riguarda la specifica prospettiva presa in esame, va segnalato innanzitutto il convegno dal titolo Le migrazioni nel Mediterraneo. Storia, economia, linguaggi, tenuto il 30 giugno 2010 a Napoli. La sua rilevanza sta nella pluralità di approcci disciplinari e metodologici come pure nell’essere l’espressione di un lavoro continuativo e strutturato. La giornata di studio organizzata dall’Istituto di Studi sulle società del Mediterraneo (http://www.issm.cnr.it) emerge, infatti, dal contesto istituzionale e intellettuale del Consiglio nazionale delle ricerche, al cui Dipartimento Identità Culturale afferisce l’Issm, nato una decina d’anni orsono dalla fusione di tre precedenti istituti (Ricerche sull’Economia mediterranea, Storia economica del Mezzogiorno e Studi sulle Strutture finanziarie e lo sviluppo economico). Dunque, con una marcata matrice storico-economica e all’insegna della più estesa e sistematica interdisciplinarietà, l’istituto svolge attività di ricerca lungo differenti assi, tra cui l’analisi dell’evoluzione demografica e delle migrazioni all’interno del bacino del Mediterraneo. Ciò avviene nell’ambito di un più ampio progetto dipartimentale, intitolato “Migrazioni”, condotto da diversi anni con altri istituti del Cnr, sotto la responsabilità di Maria Eugenia Cadeddu, lungo molteplici articolazioni, tra le quali, solo a mo’ di esempio: Migrazioni mediterranee. Lavoro, integrazione sociale e problematiche linguistico-comunicative; 2 Daedalus 2012 Mediterraneo e migrazioni. Una rassegna Migrazioni e diritto internazionale; Aspetti storico-culturali e linguistico-lessicografici dei fenomeni migratori e Migrazioni: trasmissione di saperi e dialoghi interculturali. La commessa attualmente in corso, che ha fornito il contesto al convegno, è quella Migrazioni Mediterranee. Storia ed Economia, di cui è responsabile la ricercatrice e docente di Lingua Araba presso il Cnr, Immacolata Caruso. Nell’ambito dell’Issm, essa si incrocia con una commessa dal focus tangenziale al tema delle migrazioni, intitolata Crescita e convergenza nell’area mediterranea: popolazione, innovazioni, istituzioni, governance, e indirizzata dallo storico economico Paolo Malanima, direttore dell’Issm, come parte del più ampio progetto Identità mediterranea ed Europa. Mobilità, migrazioni, relazioni interculturali. La ricerca del gruppo coordinato dalla Caruso intende ricostruire il quadro complessivo delle migrazioni nel Mediterraneo a partire dagli anni Cinquanta del XX secolo, soffermandosi sul rapporto tra flussi migratori e sviluppo, sia nei contesti di origine che di destinazione dei migranti. Nel panorama dei flussi migratori internazionali, il bacino del Mediterraneo appare particolarmente esemplificativo per comprendere la complessità del fenomeno migratorio e i meccanismi che regolano le migrazioni odierne, alla luce delle rilevanti trasformazioni avvenute nell'ultimo decennio. Come l’Italia, d’altronde, molti dei paesi interessati dalle migrazioni sono diventati allo stesso tempo paesi di origine e di destinazione nonché di transito di migranti e, con il permanere e spesso l'acutizzarsi delle cause che generano i flussi, anche il modo nel quale le migrazioni si erano manifestate in precedenza è cambiato. Tra i vari obiettivi che si pone il progetto, c’è quello di offrire un ulteriore strumento di lavoro per quanti indagano il tema: il database Migra-Euromed, ancora in costruzione, che comprende statistiche di tipo economico, costituite dai dati sul prodotto oltre che dai diversi indici di sviluppo umano, elaborate da organismi internazionali e da istituzioni di ricerca, e che copre un arco di tempo compreso tra gli anni Cinquanta e l’oggi, relativamente a tutti i paesi del Mediterraneo. 3 Daedalus 2012 Mediterraneo e migrazioni. Una rassegna I punti di vista e gli approcci presenti nel convegno napoletano del giugno 2010 rispecchiano la complessità del tema, a cui corrisponde l’articolazione del progetto di ricerca, senza ignorare la priorità politica e istituzionale di cui è rivestito. Lo attesta in particolare la seconda parte del convegno, in cui sono stati presentati interventi di operatori e imprenditori sociali, di soggetti che uniscono l’attività di studio con l’intervento economico, quali l’Onlus Less, ovvero il Centro studi e iniziative di lotta e all’esclusione sociale e per lo sviluppo, e la cooperativa Dedalus, entrambi napoletane. Questa interazione ha naturalmente indirizzato lo sguardo in modo più particolareggiato verso il territorio, l’Italia e l’area napoletana e vesuviana specialmente, sotto diversi aspetti: dalle condizioni di vita dei migranti alla gestione dei servizi da parte degli enti locali, dall’imprenditoria straniera alla disciplina del lavoro migrante, con un’attenzione specifica per i problemi fondamentali e trasversali di carattere linguistico e comunicativo. La prima parte del convegno, invece, è stata di carattere più “accademico”, teorico, scientifico, con una relazione riguardante il database sui flussi migratori citato in precedenza, come strumento di gestione e trattamento di un’imponente messe di fonti, un’altra dedicata alle specificità di alcune aree territoriali (i Balcani, nonché i paesi del Magrheb e del Mashreq, cioè la macroregione orientale del mondo arabo che comprende anche Iraq e Kuwait) e quella inerente le politiche di accoglienza nei principali paese europei e mediterranei. A questo proposito, non sorprende la collocazione dell’Italia insieme alla Spagna tra i paesi che applicano delle mere politiche tampone nei confronti dei fenomeni migratori. Nella comparazione delle politiche dei singoli paesi europei, dei maggiori paesi europei emerge quanto conti il loro passato e la loro cultura d’appartenenza nel fronteggiare i flussi di donne e uomini che cercano fortuna o scampo: la Francia con un approccio utilitarista mentre la Germania con un atteggiamento assimilazionista. Certo ancora non è possibile individuare alcun tipo di politica, unitaria e coerente a livello comunitario, meno di quanto sia possibile rintracciare per ogni singolo paese. 4 Daedalus 2012 Mediterraneo e migrazioni. Una rassegna Le politiche di accoglienza (o sarebbe meglio dire di respingimento, vista la prevalenza di questa opzione) e di integrazione, regolarizzazione, ecc. sono un argomento che costituisce un punto di contatto e spesso di frizione fra il mondo della ricerca e quello istituzionale e politico, incentrando il dibattito sull’emergenziale attualità, sulle contingenti fasi del processo migratorio. Ne è un esempio il seminario su Gli attuali movimenti migratori tra Tunisia, Libia e Italia, tenuto lunedì 23 maggio 2011 presso l’Università di Bergamo, con uno sguardo sulla questione dei rifugiati e dei migranti tra Tunisia, Libia e Italia, anche nel contesto delle recenti dinamiche rivoluzionarie che hanno attraversato il Maghreb. Viceversa, la tematica può essere affrontata in una prospettiva di ampiezza cronologica notevole, attraverso un approccio multimediale oltreché interdisciplinare, per mezzo di un cosiddetto “contrappunto dialogico”. È ciò che ha visto protagonisti l’antropologo, sociologo e caposcuola dei cultural studies Iain Chambers, insieme a artisti, videomakers e musicisti di varia provenienza (i videoartisti Anri Sala e Isaac Julien, il live art performer Lello Lopez, il live music performer Mario 4MX Formisano), su Migrazione, Mediterraneo e Musica, svolto l’8 giugno 2011 a Napoli. Evento basato su un progetto di sradicamento, promosso dalle musiche che permettono di muoversi in spazi extra-territoriali e dalla fluidità dei concetti e dei linguaggi dell’arte contemporanea: elementi che forniscono un’economia affettiva – una modalità per recepire e ascoltare il mondo – in una maniera che permette di ‘piegare’ le mappe abituali per ‘sentire’ un Mediterraneo e una modernità diversa. Sempre a Napoli, ad attestazione della centralità anche intellettuale – oltreché geografica - della metropoli partenopea nello spazio mediterraneo, si è tenuto all’inizio di giugno 2011 presso l’Università Orientale, un altro convegno riguardante Le migrazioni nel Mediterraneo. Di taglio prevalentemente giuridico, nell’ottica prevalente della tutela diritti umani, l’incontro di studio ha visto avvicendarsi studiosi di provenienza accademica e scientifica, dell’Orientale e dell’ateneo Palermo, del Cnr e 5 Daedalus 2012 Mediterraneo e migrazioni. Una rassegna dell’università d’Antwerp in Belgio, nonché istituzionale, quali il segretario della commissione Libe (libertà civili, giustizia e affari interni) del Parlamento Europeo. Questi ultimi sono intervenuti specificatamente su: le intercettazioni in alto mare, in relazione agli obblighi derivanti dai trattati sui diritti umani e in materia di salvataggio e soccorso; il ruolo di Frontex, l’Agenzia europea istituita nel 2004, con il compito di coordinare gli Stati membri in materia di gestione delle frontiere esterne, ad esempio attraverso la formazione di guardie nazionali di confine, l’elaborazione di norme comuni, l’aiuto agli Stati membri per organizzare operazioni di rimpatrio congiunte; sulla politica di respingimento dell’Unione Europea, con particolare riferimento alla questione del “burden sharing”, cioè della redistribuzione dei migranti su tutto il territorio continentale; infine, sull’accoglienza e la detenzione dei migranti arrivati specificatamente negli ultimi mesi dall’Africa sulle coste italiane. Si tratta delle questioni che quotidianamente affronta Gabriele del Grande, non dal punto di vista degli Stati impegnati a frenare e regolare il fenomeno migratorio, ma dei migranti che vengono respinti e spesso perdono la vita nel mar Mediterraneo. È questo il tema del suo libro, Il mare di mezzo. Al tempo dei respingimenti, pubblicato dalle edizioni Infinito di Castel Gandolfo, nel 2010. Esso giunge dopo il successo del precedente Mamadou va a morire. La strage dei clandestini nel Mediterraneo, tradotto in diverse lingue, con cinquemila copie vendute, tre ristampe e una seconda edizione aggiornata, plurirecensito e pluripremiato. L’autore è l’animatore del blog FortressEurope (http://fortresseurope.blogspot.com), «osservatorio sulle vittime della frontiera» e anche per Il mare di mezzo, che ha avuto due ristampe in meno di due mesi, si prospetta un successo editoriale, che certamente fornirà rilievo alle storie di migliaia di uomini e donne, spesso bambini, che compiono una coraggiosa esplorazione sulle due sponde del Mare Mediterraneo, lungo le rotte dei viaggiatori di ieri e di oggi. Protagonisti della narrazione del De Grande sono anche le barriere, materiali e morali, di acciaio e pregiudizio, contro cui 6 Daedalus 2012 Mediterraneo e migrazioni. Una rassegna spesso si scontrano i migranti; i mercanti di esseri umani che li accompagnano e i feroci carcerieri che li bloccano alla partenza, in base a crudeli accordi internazionali, come quello tra Italia e Libia; i pescatori del Canale di Sicilia, per cui – come ricorda anche Emanuele Crialese nel suo recente Terraferma – non si può lasciare che degli esseri umani naufraghino in mare senza tentarne un salvataggio. È una storia di vite disperse in mare o rinchiuse in un centro di espulsione, dove il diritto è sospeso… Si tratta di tre anni di inchieste, un viaggio tra memoria e attualità, che rappresenta un Mediterraneo sempre più blindato dalla paura dell’altro. Del Grande si è messo in gioco di persona, risultando espulso dalla Tunisia e nella lista nera dei servizi segreti locali, per essersi messo sulle tracce dei somali e degli eritrei respinti in Libia, facendo luce sul più misterioso naufragio mai verificatosi sulla rotta per l’Italia. La sua rete di informatori, sulle due sponde del Mediterraneo, gli fornisce materia per indagare e documentare truffe e pestaggi. Le sue inchieste scavano nella misera storia coloniale del nostro paese, raccontando le diaspore di due territori occupati dalla nostra volontà di espansione imperiale, come l’Eritrea e la Somalia. Eppure Il mare di mezzo è stato luogo in cui – nel corso dei secoli – è cresciuto il mito dell’ospitalità, se di mito si tratta… Donatella Puliga, docente di Mitologia classica e Lingua e Letteratura latina presso l’Università di Siena si è posta tale quesito nel suo libro L’ospitalità è un mito? Un cammino tra i racconti del mediterraneo e oltre, edito per il Melangolo nel 2010. Il volume raccoglie e commenta una serie di testi antichi legati tra loro dal tema dell'ospitalità, raccontando la transitorietà dell'esistenza, del nostro essere ospiti gli uni degli altri, non di rado a noi stessi, e tutti alla terra e alla vita. Dai poemi omerici alle Metamorfosi di Ovidio, dalla Bibbia ai grandi poemi babilonesi, il racconto dell’ospitalità e delle sue infinite possibili trame (l’ospitalità negata, l’ospitalità ambigua, la distanza ospitale, il dono) si snoda in una narrazione piacevole e affascinante, che ci parla della transitorietà dell’esistenza, del nostro essere ospiti gli uni agli altri, non di rado a noi stessi, e 7 Daedalus 2012 Mediterraneo e migrazioni. Una rassegna tutti alla terra e alla vita. Quel vincolo attraverso cui l’incontro con l’altro, fosse uomo o dio, comunque straniero, veniva misteriosamente inserito in un ambito di sacralità e sentito come un bene dei più preziosi. In ambito letterario si muove anche Daniele Comberiati, chargé de Recherche presso l’Université Libre di Bruxelles, dove ha conseguito il dottorato di ricerca con una tesi sulla letteratura italiana della migrazione. Dopo il suo libro, La quarta sponda, in cui raccoglieva le testimonianze di nove scrittrici in viaggio dall’Africa coloniale all’Italia, ha proseguito la presentazione dei suoi studi con il volume Scrivere nella lingua dell’altro. La letteratura degli immigrati in Italia (1989-2007), edito dalla casa editrice internazionale Peter Lang nel 2010. Il contesto è quello che ci appare dalla seconda metà degli anni Ottanta, con la già citata trasformazione dell’Italia da paese di emigrazione a paese di immigrazione. La letteratura scritta da immigrati è una delle testimonianze di tale cambiamento. Comberiati esamina storicamente e sociologicamente i mutamenti dell'ultimo ventennio, delineandone le influenze sulla letteratura e sulla lingua italiana, ne mette in luce le correnti culturali principali e gli autori più rappresentativi, correla inoltre queste osservazioni agli studi postcoloniali e di genere, e traccia della letteratura italiana della migrazione le linee-guida e le prime conclusioni. 8 Daedalus 2012 La violenza della linea retta… STEFANIA SALVINO LA VIOLENZA DELLA LINEA RETTA. RIFLESSIONI SU OCCHIO A PINOCCHIO, DI JARMILA OČKAYOVÁ, COSMO IANNONE, ISERNIA 2006 Così lo straniero, per definizione senza luogo, quindi facile al fraintendimento, non parla ma è parlato, dietro le sue parole si ha sempre la tendenza a leggere ciò che egli vorrebbe dire, o meglio, ciò che non vuole dire ma che suo malgrado dice (con il colore della pelle, i gesti, i modi, l’insito esotismo), come se la parola dello straniero fosse un pleonasma e la sua verità, ossia la verità umana profonda, soltanto una forma di irresponsabilità o di immaturità. T. Lamri, I sessanta nomi dell'amore Il romanzo Occhio a Pinocchio di Jarmila Očkayová, pubblicato nel 2006 da Cosmo Iannone Editore, è l’ultimo di quattro romanzi1 scritti in italiano dall’autrice. L’aver scelto la lingua italiana per scrivere questi romanzi colloca l’autrice – slovacca di nascita e immigrata in Italia ormai da più di trentacinque anni – nel filone della “letteratura della migrazione” o “scrittura migrante”. E della migrazione i suoi libri narrano, conducendo la riflessione – sua e nostra – sulle complesse ricomposizioni del sé a partire dallo strappo biografico esperito con la dipartita – temporanea o definitiva – dal paese d’origine, ma anche sulle dinamiche relazionali che si intrecciano tra gli individui all'interno della società, che è anche società d'approdo per chi giunge da un altrove. Nata in Slovacchia nel 1955, da giovanissima pubblica racconti e poesie su alcune riviste di Bratislava. Si laurea a Bologna per poi trasferirsi a Reggio Emilia, dove vive e lavora. Dopo essere rimasta sospesa tra due lingue per dieci anni, l’autrice riprende a dedicarsi alla scrittura, stavolta optando per l’italiano2, perché – come lei ha sostenuto in diverse interviste – se uno scrittore decide di scrivere in una lingua diversa da quella del paese in cui vive, è condannato a una sorta di isolamento interiore, perché la lingua è come l'aria, che ci avvolge e penetra attraverso i polmoni, entrando fin “negli anfratti affettivi, psicologici, metaforici” (Očkayová 2002, p. 60). 1 I tre romanzi precedenti scritti dall'autrice sono: Verrà la vita e avrà i tuoi occhi (1995); L'essenziale è invisibile agli occhi (1997); Requiem per tre padri (1998). 2 In Italia ha scritto saggi e interventi in vari campi, un racconto per ragazzi (Appuntamento nel bosco, 1998) ed è stata curatrice e traduttrice di una raccolta di antiche fiabe slovacche, raccolte da Pavol Dobsinsky e pubblicate da Sellerio col titolo Il re del tempo, che nel 1998 è stato premiato dall’Unione degli Scrittori Slovacchi. 1 Daedalus 2012 La violenza della linea retta… La scelta di scrivere nella lingua dell’altro si rivela, dunque, principio e occasione sostantiva di arricchimento dell’immaginario linguistico e semantico. Pone a confronto le due culture consegnando loro “una bella lezione di reciprocità” (Očkayová 2002, p. 60) e, liberandole da ogni particolarismo, punta apertamente all’essenziale. Le due lingue corrono parallelamente, ognuna con i propri universi di senso, traducendosi in una sinfonia dell’anima che tiene insieme – eseguendole come in un’orchestra – tutte le note che meglio si adeguano alla melodia cui si desidera dar vita. È uno spogliarsi e indossare abiti sempre diversi, a seconda dei luoghi e dei momenti. Un poter scegliere tra due strumenti in relazione all’umore e allo stato d’animo. Un essere diviso e doppio che dà conto di una ricchezza e dovizia espressiva – di modi, temi, essenze e lingue – tanto più fertile, quanto più è messa al lavoro. PINOCCHIO E LA SUA AUTRICE: DUE UNIVERSI PARALLELI A CONFRONTO L’incontro con il romanzo Occhio a Pinocchio di Jarmila Očkayová (e con i diversi materiali che su di lei, o per mezzo di lei – interviste, saggi, riflessioni varie – sono stati scritti), è stato foriero di infinite suggestioni. Così tante da dover necessariamente operare una scelta tematica 3 . Il mio sguardo si è, quindi, posato solo su alcune questioni – migrazione, identità e riconoscimento – su cui tenterò di svolgere delle brevi riflessioni, plausibili di ulteriore indagine, rispetto a questo testo così ricco e complesso, i cui piani di lettura si intersecano, complicandosi all'infinito in un continuo giochi di rimandi tra il fantastico e il reale. La storia che l’autrice racconta è proprio su quel burattino a noi ben noto, le cui avventure rocambolesche e un po’ angoscianti – ma pur sempre a lieto fine – vengono narrate nel classico di Carlo Collodi. Quel burattino qui si presenta da sé, divenendo io narrante e raccontando in prima persona un’altra storia, la sua storia – che è anche storia dell’ 3 Un’attenzione speciale andrebbe rivolta all'uso spregiudicato e giocoso riservato alla lingua, alle capovolte e torsioni eseguite dalle parole che prospettano un immaginario pulsante di mondi onirici, intrecciandosi a personaggi fantastici che sbucano da ognidove, popolando le pagine di una intensa vitalità. L’apparato testuale appare intessuto di chiari intenti ironico-parodistici e un assiduo ricorso alle metafore, il cui uso, come la stessa autrice dichiara, è mutuato dalla cultura degli ex-paesi sovietici, dove in un clima di rigida censura costituiva una modalità espressiva usuale e necessaria alla sopravvivenza stessa. 2 Daedalus 2012 La violenza della linea retta… ‘umanità’ che con lui ha interagito – narrata dal suo punto di vista, che diventa focale e de-stabilizzante. Dopo ben 250 anni di silenzio il burattino prende finalmente la parola e ne sovverte il senso, fornendo spiegazioni inedite, s-velandone misteri e capo-volgendo immagini e racconti. Il rovesciamento del punto di vista – che io ho provato a leggere attraverso le lenti di Viktor Šklovskij e Mikhail Bachtin – propone la rappresentazione di una realtà inedita, capovolta, in cui un burattino, liberandosi dai “fili che lo manovrano”, decide di darsi voce facendosi “soggetto di enunciazione” (Sabelli 2007, p. 178). La parola, “indiscussa protagonista” del romanzo (Camilotti 2008, p. 96), assurge qui ad una funzione assolutamente significativa, divenendo dimora del disallineamento tra i differenti universi di senso, spazio che “reca le tracce dell’alterità con cui interagisce” (Floriani 2004, p. 15). Ma anche sorgente ristoratrice e rivelatrice delle infinite possibilità verso cui la comunicazione può muovere. È una parola che si fa sostanza, scarnificata fino all’essenziale, sovversiva nel suo essere costituita da mille sguardi e periferie e da nessun centro, se non quello, profondo, primigenio, dell'animo umano. Očkayová mostra avere una particolare predilezione per la dimensione fiabesca, sostenuta dall’intima convinzione che essa configuri – insieme al sogno – gli “spazi interiori della coscienza” e come tale ci possa spronare “ad avere uno sguardo inedito sulla realtà, più acuto, più penetrante, più partecipe” (Očkayová 2002, p. 65). La fiaba è, dunque, assunta a parabola di vita: metafora della condizione esistenziale e delle sue complesse, e spesso dolorose, trasformazioni. Rispetto ai precedenti romanzi si nota un cambio di ‘umore’ della scrittrice, che, in una intervista immediatamente successiva alla pubblicazione di Pinocchio, afferma: “dopo tre quinti della mia vita passati in Italia, ora mi sento più che mai, dolorosamente, straniera” (Pegoraro 2007, p. 1). Per spiegare l’insorgere di questo suo stato d’animo Očkayová ripercorre le fasi della sua parabola migratoria discendente, individuando in essa tre momenti peculiari: l’abbandono del paese d’origine e l’arrivo in Italia, segnati dall’ambizioso conseguimento dell’integrazione e da una forte tensione verso il presente, in una dimensione ancora venata da una pungente nostalgia verso il passato. La necessità di ripercorrere le proprie radici per poter giungere alla costruzione di una identità nuova, allargata. E, infine – e siamo allo stadio da cui è scaturito Pinocchio –, la percezione che non c’è costruzione senza ‘disintegrazione’ e sedimentazione profonda delle diverse culture e appartenenze di cui l’esistenza ci ha fatto carico: un 3 Daedalus 2012 La violenza della linea retta… percorso interiore che deve puntare a tirare fuori il meglio da ciò che si è (ricevuto) facendolo “macerare”, “tentando di distillarne l'essenza” (Pegoraro 2007, p. 1). L’impossibilità di tradurre questa dinamica individuale in un confronto aperto, in un processo di reciproca accoglienza ha instillato nella scrittrice l’acuta coscienza di una solitudine profonda e il convincimento che la costruzione dell’identità può avvenire solo in rapporto all’alterità. Solo nella reciprocità ci può essere riconoscimento. Ed è solo riconoscendo l’altro che possiamo riconoscere noi stessi. Un movimento, dunque, di andata e ritorno da e su se stessi. Il Pinocchio di Očkayová ripercorre il medesimo cammino, giungendo alla stessa amara conclusione. Pungolando la vita (e il lettore) affinché si risvegli dal sonno in cui è rovinosamente scivolata. Perché “la fiaba non è stata creata, come le ninne nanne per i bambini perché si addormentino. È nata come confessione degli adulti fatta agli adulti, perché si sveglino”4. PINOCCHIO E LA METAFORA DELLA MIGRAZIONE 5 : TRA TRADIZIONE E MODERNITÀ Pinocchio di Očkayová è una storia di duplice appartenenza che rovina nella non appartenenza. La duplice appartenenza è quella che Pinocchio sente nei confronti del bosco, da cui ha avuto origine, e del mondo degli uomini, cui è stato destinato. La non appartenenza è sancita nei suoi confronti dai ‘contesti’ cui il nostro celebre personaggio fiabesco indirizza le sue domande di riconoscimento. Attraverso la figura di Pinocchio l’autrice interroga, quindi, la nozione di identità: dal punto di vista del soggetto – il burattino che tenta di conciliare le duplici nature da cui è segnato – e della comunità – l’atteggiamento di rifiuto nei riguardi del ‘difforme’, il non accoglimento della soggettività altra. Il suo essere diverso, “così nudo senza la corteccia che mi aveva protetto per secoli, e comunque fino a quel momento” (Očkayová 2006, p. 18) e lo sforzo di vivere in between, sono ostacolati e percepiti dai contesti di appartenenza come una minaccia alla “sicurezza di una comunità” (Očkayová 2006, p. 18): 4 La citazione, del poeta slovacco Milan Rufus, è stata scelta da Očkayová come epigrafe al libro di favole slovacche. 5 Come la stessa scrittrice sostiene, nell’intervista rilasciata a Pegoraro nel 2007, una delle possibili chiavi di lettura del romanzo è vedere in Pinocchio una metafora della figura del migrante, benché questa non corrisponda ad una sua precisa e consapevole scelta iniziale. 4 Daedalus 2012 La violenza della linea retta… questo coso è davvero cadaverico. Ha un’aria decisamente malsana, d’altro mondo. Ma, dico io, vi siete chiesti da dove venga questa specie di burattino?! Vi siete chiesti che cosa ci porteremmo a casa portandolo con noi?! Avete pensato ai vostri figli, che potrebbero venirne contagiati? […] questa bizzarria, questa amputazione, questo ibrido che hai creato è uno sberleffo alle leggi della natura. E da qui lo sciorinare delle varie proposte-rimedio alla risoluzione dell’imbarazzante ‘problema’: Propongo di attaccarlo seduta stante all’albero d’origine. […] propongo di portarlo nel luogo più appropriato: al museo cittadino. Lì appronteremo un’apposita sezione dandogli il rilievo che merita. […] Propongo perciò di scavare una buca e seppellirlo dentro e aspettare il tempo necessario perché metta radici e germogli: solo così potremo scoprire con chi avremo a che fare. […] E questa situazione esige anzitutto questo: il controllo. Anzi, di più: la verifica. Immediata. […] è pur sempre un ramo che si è messo a camminare! È un fatto anormale, inquietante. In una sola parola: diabolico. […] Propongo dunque di dargli fuoco immediatamente. Se è solo un burattino, poco male, avremo ridotto in cenere un semplice pezzo di legno; se invece è qualcosa d’altro, riusciremo a prevenire il peggio. - E se è qualcosa d'altro ma innocente? […] Chi siamo noi per erigerci a giudici così estremi? Il fuoco è talmente...talmente definitivo![...] Propongo una prova più equa: acqua...Portiamolo giù al fiume e buttiamolo dentro: se rimarrà a galla è senz'altro un ramo; se affogherà assai probabilmente è un ragazzino (Očkayová 2006, pp. 20-22). La condizione esperita da Pinocchio, che rimanda a quella dell'autrice, è la condizione di un soggetto-frontiera, costretto ad abitare un ‘terzo spazio’, il limen, lo spazio del margine, della sospensione, non appartenendo più interamente né al contesto di partenza né a quello di approdo. in quel momento ero ancora in quello stato di sospensione tra il non essere più e il non essere ancora: un ramo spezzato che prendeva lentamente la forma umana (Očkayová 2006, p. 12). È la condizione di chi è tenuto a contrastare il disorientamento provocato dall'evento della migrazione, il senso frantumato di sé e lo ‘stato di transitorietà’ e di imprevedibilità che caratterizzano la nuova dimensione in cui si ritrova. È la condizione di chi ha introiettato la “capacità di coabitare con – e di assimilare – universi simbolici in tensione con il proprio”(Sparti 2009, pp. 261-262), tanto da farsi “spazio che incorpora la differenza come costitutiva dell’identità” (Hall, cit. da Giaccardi, Magatti 2001, p. 35). La soggettività del migrante diviene alterità essa stessa, sia rispetto alla comunità d’origine che a quella ricevente. E come tale è letta da entrambi i (o dai diversi) contesti. 5 Daedalus 2012 La violenza della linea retta… Mi ascoltavano sì, ma come si ascolta il rintocco di una campana, l’ululare di una sirena, l’abbaiare di un cane lontano. Come se le mie parole fossero la colonna sonora di un film. Un loro film. Una musica qualsiasi, dei suoni astratti. E invece io non ero astratto: io ero un burattino in legno e ossa, e stavo male (Očkayová 2006, p. 106). L’identità trasloca, senza quietarsi nel contesto d’arrivo “desideravo ridiventare ramo. Ma il mio pino era lontano e il mio corpo di burattino reclamava la vita” (Očkayová 2006, p. 139) -, dando atto ad un processo di ripensamento del sé che dovrà ricucire insieme i pezzi di due vissuti, che si collocano, temporalmente e spazialmente, in due differenti dimensioni dell’esperienza. L’identità si scuce. E ricuce. Aggiungendo, come in un puzzle, pezzi “nuovi”, che andranno a ridefinire un sé che non sarà più appartenente e completamente identificabile con la società di partenza, come, forse, non sarà mai completamente parte della società d’arrivo6. Significativa è la discussione tra Geppetto e i Maestri, gli alberi del bosco, che non riconoscono più Pinocchio come ‘uno di loro’: – – – – – – – – – – – Dimentichi un particolare Geppetto. E cioè? E cioè che questo è un ramo del mio albero. Questo è Pinocchio, - precisò Geppetto. Un orfano, - precisò il maestro Abete. Uno sbandato, - precisò il maestro Ciliegia. Un intruso, - precisò il maestro Pioppo. Un capro espiatorio, - precisò il maestro Platano. Un essere embrionale di origine sconosciuta, - precisò il maestro Cipresso. Un'opera del diavolo, - precisò il maestro Castagno. Un mistero da svelare, - precisò il maestro Salice. 6 Il pensiero va ad un film del 2009, Io sono l’amore, di Luca Guadagnino. La protagonista principale è una donna russa che sposa un uomo italiano e si trasferisce a Milano, dove crea una famiglia. Finché lei scopre l’Amore – un amore travolgente – che la porterà ad abbandonare figli, marito ed una vita confortevole. Durante una conversazione-narrazione con l’‘amante’ – in cui la donna tenta di mettere a fuoco il proprio vissuto biografico – lei racconta del profondo senso di spaesamento e di disorientamento avvertito nella sua esperienza di migrante. E dice: “Quando sono arrivata a Milano ho smesso di essere russa. Per me c’era troppo di tutto: nelle strade, nei negozi. Ho dovuto imparare ad essere italiana”. La sua esperienza della migrazione è vissuta come una sostituzione di identità, a cominciare dal cambio del nome, di cui non serba più memoria. Emerge il chiaro senso di sospensione e frammentazione che, in questo caso, trovano un certo sollievo nella verità della relazione amorosa. Come afferma Paolo Jedlowski: “Se la ricerca del sé ha qualche possibilità di incontrare un punto in cui rinfrancarsi è presso l’altro: un altro solidale e amoroso che ci riconosce nel doppio senso di attribuirci una dignità esistenziale e di farci sentire compresi” (Jedlowski 2000, p. 119). 6 Daedalus 2012 – La violenza della linea retta… Un'occasione da cogliere al volo, - precisò il maestro Noce (Očkayová 2006, p. 23). Pinocchio prova a ripensare la sua identità di uomo-burattino anelando la nascita di una “forma” dell’essere, capace di contenere in sé il prima e il dopo, senza essere costretto a sottrarre nessuno dei due momenti fondanti, ma “vivendo per addizione” (Abate 2010), riconciliato con una vita non più disgiunta e inconciliabile, ma interiorizzata attraverso uno sguardo policromatico e polifonico. L’identità del migrante – come costitutivamente avviene anche per l’uomo contemporaneo – si dispiega in una ricerca che si riproduce e si ridefinisce costantemente, restando indefinitamente incompiuta. In fondo siamo tutti un po’ – noi individui della e nella modernità – migranti: “siamo forse tutti stranieri sulla faccia della terra. Ogni individuo chiuso nella sua complessità e nella sua unica e insondabile realtà”. (Lamri 2009, p. 71) Nomadi. Viandanti. Alla ricerca mai conclusa di una identità comprendente, che tenga insieme le infinite dimensioni in cui l’esistenza contemporanea, sfaccettata e disomogenea, si esplica. Homeles. Perché si è perso il senso di sicurezza ontologica, del radicamento in uno spazio familiare in cui prevalgano l’intellegibilità e la prevedibilità dell’agire altrui. Il Pinocchio-migrante fa del dubbio il suo elemento biografico e identitario costitutivo, istituzionalizzandolo, declinandolo e ricomponendolo attraverso il paradigma della riflessività (Giddens 1994), divenuto uno dei tratti cardine della modernità. Pinocchio non si riconosce più, non ritrova più l’identità tra il sé che abitava l’altrove e il sé che alberga il qui e l’ora: è la tensione tra identità e non identità, di cui parla Crespi, che qui si acuisce. È quel “bisogno confuso di perdersi e di ritrovarsi” a cui accenna Melucci (2000, p. 38). È quel fuoriuscire dalla cornice a cui allude Frida Kahlo7. È come un trasloco che, dopo aver avuto luogo, richiede una riorganizzazione “interna”: non sempre i “moduli” pensati per la prima abitazione risultano adatti per la nuova, quasi mai si incastrano bene: c’è sempre qualche variazione da fare, qualche aggiustamento, qualche sostituzione. Si sperimentano così diverse soluzioni possibili: alcuni pezzi che nel prima avevano una rilevanza maggiore, dopo potranno apparire meno rilevante, magari usati in forma indebolita, non egemonica. Non si tratta di costruire un’identità ex-novo, ma di ri7 Ci si riferisce alla citazione: “È necessario che le nuvole fuoriescano anche dalla cornice. Tutto esce sempre da se stessi: il sangue, le lacrime, le nuvole, la vita stessa”. 7 Daedalus 2012 La violenza della linea retta… modularla, arricchendola di nuovi elementi, trovando i giusti adattamenti. L’identità si configura, quindi, come sistema e processo, permanenza e mutamento. Se assumiamo l’incertezza come una delle dimensioni qualificanti l’esperienza contemporanea dell’individuo moderno, riusciamo a cogliere meglio il senso e la portata delle trasformazioni ‘subite’ dall’identità e il carattere processuale da essa via via assunto. L’esistenza di Pinocchio è una continua domanda; la sua identità un dubbio irrisolto; la relazione con l’altro, una contraddizione dolorosa. In questo senso l’identità si traduce in un “campo di possibilità e di limiti” (Melucci 2000, p. 34) – soggetto ad aperture e chiusure, variazioni e persistenze – che si costruisce in relazione con l’altro. E, sicuramente, il Pinocchio di Očkayová si delinea come una figura intrisa, dalle radici ai rami protesi verso il cielo, di modernità. I “FILI” DELLA DIFFERENZA: LA DIFFICOLTÀ DEL RICONOSCIMENTO Il riconoscimento dell’altro si configura come “l’imperativo morale fondamentale” dell’individuo, la cui violazione comporta la violazione della stessa natura di essere umani (Cortella cit. da Crespi 2011, p. 8). Sparti la definisce come un atto di respons-ability, verso l’altro e verso noi stessi. Come lo stesso autore precisa, il termine ‘riconoscimento’ è usato non nel senso hegeliano, ripreso da Crespi, di riconoscimento ‘reciproco’, né nel senso kantiano di “eguale rispetto”, ma come “riconoscimento pratico” o, con il termine inglese, acknowledgement. Quando ad essere riconosciuta è un’altra persona, l’aknowledgement si traduce in “risposta alla sua presenza”, che significa essere sensibili o “responsivi” nei suoi confronti8. Pinocchio durante il suo “viaggio iniziatico” – come lo definisce la scrittrice in una sua intervista – “dal bosco/albero/natura a qualcosa di autenticamente umano. O atrocemente disumano, laddove l'umanità viene calpestata, negata” (Pegoraro 2007, p. 2), sperimenta il fraintendimento, il dissenso e il conflitto: elementi che impediscono il 8 In particolare Sparti opera una distinzione tra identificazione cognitiva o recognition e riconoscimento etico espressivo o aknowledgement: mentre il primo è un capire “con chi abbiamo a che fare”, e identifica “una funzione di orientamento sociale”; il secondo è un approvare, un “conferire valore alla presenza dell’altro”, che “contribuisce sia a formare geneticamente una identità personale che a mantenere eticamente la dignità della nostra appartenenza alla metasfera dell’umanità” (Sparti 2000, pp. 54-55). 8 Daedalus 2012 La violenza della linea retta… processo dell’incontro con l’altro. Il tentativo di spogliare lo sguardo dai confini che lo vincolano, viene qui ostacolato dalle comunità di ‘appartenenza”, che incatena la sua lacerante parole9, impietosamente profanando “tutto ciò che oggi vuole dirsi ancora umano” (Očkayová 2006, p. 184)10. La sua soggettività non è, dunque, riconosciuta nella sua identità totale, ma subisce un processo di emarginazione e di misconoscimento, che impedisce la reciprocità. Nell’atto del riconoscimento è insita la scelta dell’altro, che si traduce in un atto di responsabilità. Si tratta di tessere trame di inclusione o di esclusione dell’altro. E l’esclusione, nella storia di Pinocchio, è “ad alta gradazione angoscica” (Očkayová 2006, p. 119), benché da essa il nostro burattino tenti di sfuggire, smaterializzandosi in uno ‘stoppino’ – “Stoppinocchio” – tramite il quale recupera la libertà del pensiero e dell’immaginazione11. Credo che questo passaggio sia significativo: Pinocchio consegna al proprio ‘doppio’ le sue aspirazioni (emotive e sociali) recondite, non realizzate; le consegna all'ombra di se stesso, che si ritaglia nel sogno-visione uno spazio di libertà irriducibile, una via di fuga da una realtà che ha scartato la propria soggettività, ricusandola12. Come ci ricorda ancora Sparti, l’atto del riconoscimento 9 Il riferimento è chiaramente ai concetti di langue e parole di de Saussure, che qui non è dato approfondire. 10 A un certo punto della storia Pinocchio viene trascinato sotto la Quercia grande da Mangiafuoco e incatenato e minacciato di morte se non avesse pronunciato le parole fatali: “Desidero avere dei fili!”. Il rifiuto gli costa l’incarcerazione in un casotto a forma di pescecane, da cui non ne uscirà, se non in forma ‘rarefatta’. 11 Alla fine anche Pinocchio di Očkayová si trasformerà in uomo: ma sarà un uomo in catene e rinchiuso a vita in un gabiotto soffocante, benché ancora irriducibilmente aggrappato alla sua immaginazione e alla speranza. 12 Esempi di questo sdoppiamento si possono riscontrare in molta parte della letteratura moderna, in cui troviamo diversi personaggi che “non avendo una chiara coscienza del proprio Io”, si sdoppiano, sostituendolo “con quello di un altro, estraneo” (De Vidovich, p. 47). Tra questi, ricordiamo due tra i tanti personaggi della tradizione letteraria slava: Akakij Akakievič, protagonista del romanzo Il cappotto di Gogol’ e Goljadkin, del Sosia di Dostoevskij. E la lista potrebbe continuare: penso soprattutto a Gregor Samsa de La metamorfosi di Franz Kafka. In relazione alla vicenda di Pinocchio, molto ci dice il racconto di Gogol’. A differenza di Pinocchio, il personaggio del racconto di Gogol’, attua la strategia dell’isolamento dal mondo, rintanato nel guscio della sua pensione, dove conduce un’esistenza monadica. È la resa dell’individuo di fronte ad una società da cui è disconosciuto. Ed è proprio al fine di ottenere riconoscimento – oltre che per proteggersi dal freddo pungente di San Pietroburgo – che Akakij Akakievič decide di dar fondo ai suoi risparmi e farsi cucire finalmente un cappotto nuovo, per mezzo del quale, sebbene per un tempo brevissimo, ‘conquisterà’ una nuova identità – omologante – che gli permetterà finalmente di essere visto e considerato dai suoi colleghi, e di 9 Daedalus 2012 La violenza della linea retta… all’interno di una relazione – che non è il risultato scontato dell’incontro con l’alterità – conferisce alla persona riconosciuta un ‘bene d’identità’, determinandone una ‘fioritura’. Quando ci accostiamo, ci ‘esponiamo’ all’altro nell’incontro, siamo generalmente colti da un ‘impulso scettico’ (che è ciò che succede per esempio ai ‘maestri’ nei confronti di Pinocchio), per mezzo del quale tendiamo ad eluderlo, cosicché nascosto ai nostri occhi, l’altro non si vede, non gli si dà la giusta considerazione etica e sociale. Tale scetticismo può, dunque, sfociare in una elusione (che è disconoscimento della stessa condizione umana, ovvero della finitudine, dei limiti e della vulnerabilità che le sono proprie) che crea indifferenza e separatezza; o tramutarsi in un riconoscimento che può essere, appunto, di tipo cognitivo (l’individuo viene identificato all’interno della categoria di ruolo) o espressivo (riconoscimento della singolarità dell’individuo e della sua dignità). Ciò che accade in ‘questa’ storia di Pinocchio è proprio l’elusione, la separatezza, una percezione distorta dell'alterità, giustificata dall’assunzione di una prospettiva ‘centrista’ che stabilisce aprioristicamente chi è (o dev’essere) illuminato “dai raggi di ‘valenza universale’” (Očkayová 1995, p. 102). Per dirla con le parole della nostra autrice, il mondo non è altro che “un mosaico di idee, o meglio di raccoglitori di idee, tessere viventi che si accostano l’una all’altra e nell'accostarsi percepiscono l’alterità accanto e ne sono percepite e così disegnano i confini di sé, che sono contemporaneamente i confini dell’altro e l’idea che ci facciamo del mondo intorno a noi. Dunque, non solo il mondo non esiste se noi non lo percepiamo, ma nemmeno noi esistiamo se non veniamo percepiti dal mondo” (Očkayová 1995, p. 23). Il riconoscimento è, dunque, un bisogno inalienabile dell’individuo, e viene prima ancora del riconoscimento di sé. È un atto che potremo considerare come elementare e fondativo dell’esistenza umana, che si gioca, come nella comunicazione, tra un emittente e un destinatario, o nei racconti, tra un soggetto narrante e un uditore. È la modalità dialogica e relazionale che si instaura tra due soggetti interlocutori e, come tale, non è neutra, ma può essere positivamente o negativamente connotata, e aggettivata con una vasta gamma di assumere un’inedita, benché momentanea, consistenza, dando luogo ad un principio di quel riconoscimento etico, attraverso il quale si attua la cura dell’identità, nella relazione con l’altro. Il racconto si conclude con la morte di Akakij, il quale, non riuscendo a sopportare la ‘perdita’ del cappotto nuovo, si trasfigurerà in un fantasma che, nella notte – a mo’ di rivincita – sbeffeggia i malcapitati strappando loro i cappotti da dosso… 10 Daedalus 2012 La violenza della linea retta… espressioni. Il riconoscimento è essenziale per la costruzione dell’identità individuale: la sua non concessione, il suo misconoscimento divengono condizioni distruttive dell’identità. Che è quanto si verifica a conclusione della fabula romanzata da Jarmila Očkayová. Il finale del romanzo di Pinocchio, che si presenta come una sbavatura rispetto al classico collodiano, destabilizzando il lettore che si aspetta il lieto fine, ci consegna l'impressione di un dialogo interrotto. L'invito alla speranza sembra infrangersi contro un'incomunicabilità che si fa pietra, tramutandosi gradualmente in una dimensione di indifferenza stagnante, che tutto copre e raggela. Essa si tradisce quale piaga incurabile del soggetto in relazione, in cammino verso la ricerca della propria identità e del senso universale del vivere. Punte di angoscia si introducono nelle pieghe dell’animo del lettore – che, ritornato quasi bambino, si chiede: ma perché?, ma che fanno?, ma non si rendono conto che così lo ridurranno alla morte? –, disorientandolo fin quasi allo smarrimento di fronte ad una fine così inaspettatamente amara e (quasi) fraudolenta. È l’ombra dell’(insopprimibile?) umana incomprensione che transita attraverso le parole palpitanti, insinuando trepidazione e inquietudine. La costernazione che ne promana è appena spezzata dal farsi carne di una flebile speranza: una nostalgia per un futuro che si traduce in un sogno muto: “la felicità dell'attesa del sole”(Abate 2007, p. 75), che Pinocchio pare rincorrere “come un assetato che segue un miraggio” (Lamri 2009, p. 69). E Pinocchio, “occhio di pino”, con “quel suffisso che nel mio nome specifica la facoltà visiva” (Očkayová 2006, 18), muove verso l’ultimo viaggio: il viaggio di ritorno verso di sé. Controvento. Perché qui il ribaltamento della storia si manifesta sino alla sua conclusione: l’eroe non vince, ma, alla stregua di una visione onirica, si dilegua nel bosco incantato, sconfitto dal drago13. Se è vero che “lo straniero conosce “in vita” l'esperienza della morte – “Si muore a degli affetti, a dei paesaggi, dei pensieri per rinascere ad altri affetti, altri paesaggi, altri pensieri” (Lamri 2009, p. 44) – lo straniero-Pinocchio muore senza aver la possibilità di rinascere a nuova vita: di trovare ciò per cui si era messo in cammino, di veder fiorire unitamente le sue due identità attraverso una parabola di 13 Questa considerazione riecheggia volutamente la conclusione della proesia ‘Germanese’ di Carmine Abate: “[...] L'eroe vince sempre / e il drago sconfitto ma vivo / si dilegua nel bosco incantato” (Abate 2011, pp. 67-68). 11 Daedalus 2012 La violenza della linea retta… metamorfosi interiore. E muore per volontà di chi non ha saputo (voluto?) riconoscerlo, di chi lo ha estromesso – isolandolo ed escludendolo – in nome di una diversità che spiazza e intimorisce: è l'impossibilità di categorizzarlo, di farlo rientrare in forme ingessate ma immediatamente riconoscibili che induce la comunità a respingerlo. Concluderei con le parole della stessa autrice: sono profondamente convinta che le radici etniche siano importantissime: forgiano il nostro senso di appartenenza, la coscienza della nostra identità, il nostro primo alfabeto dei valori, dei sogni, delle emozioni. Ma non siamo alberi per cui le nostre radici hanno davvero un senso, soltanto se sappiamo protenderle verso gli altri (Očkayová 2002, p. 62). 12 Daedalus 2012 La violenza della linea retta… BIBLIOGRAFIA Abate C. (2006), Il mosaico del tempo grande, Mondadori, Milano. Abate C. (2010), Vivere per addizione e altri viaggi, Mondadori, Milano. Abate C. (2011), Terre di andata, Il Maestrale, Nuoro. Berger P. 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Tassinari S. (1999), Where, Emilia Romagna, a. I, n. 3 settembre, dispoibile su: http://www.el-ghibli.provincia.bologna.it/index.php?= id2&issue=00. 14 Daedalus 2012 «voglio fare la straniera»… SONIA FLORIANI «VOGLIO FARE LA STRANIERA». APPUNTI DI LETTURA SU CONCERTO A BERLINO DI FRANCESCA VISCONE, CITTÀ DEL SOLE, REGGIO CALABRIA 2009 IL MURO E I MURI Il “concerto a Berlino” – che dà il titolo al romanzo di Francesca Viscone1 – è un’esecuzione al pianoforte sulle macerie del muro, sotto una pioggia pungente. Il muro di Berlino è stato ormai abbattuto. Il romanzo si apre, appunto, sull’evento, di cui riferisce Piera, la giovane donna calabrese che è la protagonista e l’io narrante. Piera assiste al crollo, ma con distacco, senza lasciarsi coinvolgere dall’euforia dei Berlinesi. Non perché sia straniera, bensì perché aspettava da tempo che l’evento accadesse, perché ha ormai capito che la storia è fatta di inizi e di conclusioni, e che il superamento è la sua legge ineluttabile. E perché è convinta che non tutti gli eventi riescono a cambiare effettivamente il corso della Storia e i destini individuali, e, nel caso specifico, che l’abbattimento di questo muro di mattoni non contribuirà ad abbattere altri ‘muri’, invisibili e impercettibili, ma non meno invalicabili. A riguardo, la ragazza avrà ragione: il crollo del muro di Berlino non riesce nemmeno a scalfire altri ‘muri’, quelli eretti sul pregiudizio che non si lascia tentare dalla curiosità dell’esperienza e della conoscenza dirette, i quali sono funzionali, in Germania e ovunque, a mortificare, a discriminare, a escludere l’altro. Da qui il suo convincimento che un muro di mattoni, deperibile come tutto ciò che è materiale ed edificato, potrebbe essere di minore impedimento, nella coesistenza con l’altro, del “muro dei muri” – si può dire parafrasando Abate (2006)2 – del pregiudizio. Non che il muro di Berlino non abbia diviso ed escluso, non abbia lasciato tracce di sé nella ‘grande’ Storia, o non abbia segnato 1 Francesca Viscone, calabrese, è docente di lingua e civiltà tedesca, scrittrice, giornalista e saggista. La pubblicazione di questo romanzo è del 2009, per le edizioni Città del Sole di Reggio Calabria. Nel testo farò a esso riferimento con la sigla CaB. 2 Il racconto di Abate, che dà il titolo alla raccolta di cui è parte, narra di un episodio di violenza estrema ai danni di un giovane figlio di immigrati italiani nella Germania post riunificazione, un episodio che attesta la resistenza del ‘muro’ del razzismo nonostante la caduta (eccessivamente enfatizzata e celebrata) di altri muri fisici. 1 Daedalus 2012 «voglio fare la straniera»… irrimediabilmente le ‘piccole’ vite di tanti uomini e tante donne. Anzi. Queste tracce e questi segni Piera li aveva già rilevati in passato nella parte est di una Berlino ancora divisa, nel corso di una visita solitaria nella città stretta nella morsa del regime, oppressa dal controllo poliziesco, immobilizzata nel passato, decadente nell’architettura, e deprivata delle libertà fondamentali, di qualunque prospettiva, di qualunque aspirazione, se non quella alla fuga, solo immaginata o anche tentata. E li rileva poi, più drammaticamente, nel vissuto e nel destino di Christian, il giovane pianista berlinese di cui si innamora. La famiglia di Christian è originaria della Germania orientale. Dopo aver vissuto l’orrore della guerra, la divisione del Paese la pone – come accade, del resto, a tanti Tedeschi dell’Est – davanti a una scelta difficilissima: scegliere in quale Germania vivere e quale abbandonare; decidere quale Germania eleggere a propria patria. Una ‘scelta’ lacerante che, quando ‘privilegia’ la fuga, impone la separazione, l’abbandono e, quasi sempre, una lacerazione non ricomponibile. Il padre del giovane, Uwe, seguendo la madre e i fratelli, scappa alla volta della Germania occidentale prima della costruzione del muro; la fidanzata, Ulrike, lo raggiunge successivamente, dopo che il muro è stato costruito, attraverso una fuga fantasiosa e pericolosa con cui si lascia dietro i familiari. Nonostante il matrimonio e la nascita di Christian, Ulrike non riesce a superare il rimorso per aver abbandonato la sua famiglia e, poi, per la morte del fratello ucciso nel corso di un tentativo di fuga all’Ovest. A questo punto, andando incontro a un tragico destino prima di incarcerazione e poi di collaborazione con la Stasi, la donna fa ritorno nella Germania orientale, scomparendo per sempre dalla vita del marito e del figlio. A questo ulteriore abbandono, Uwe reagisce in maniera estrema: abbandona, a sua volta, il figlio e il mondo, e vive recluso in casa, intento a un’impresa folle, quella dell’abbattimento e della ricostruzione continua delle pareti di casa, un tentativo forse di esorcizzare il ricordo di quel muro che, costruito per dividere uno stesso popolo, ha separato tanti dal proprio percorso esistenziale. Christian, abbandonato da tutti, lasciato a se stesso, chiuso nel ricordo ossessivo della madre da cui spera ardentemente di essere cercato e trovato, fa del suo attaccamento al pianoforte e del suo progetto di divenire un concertista il baricentro della sua esistenza. Ma, purtroppo, il passato familiare si impone come forza distruttiva sul suo vissuto proprio quando il futuro pare avviarsi. Nel corso del suo primo concerto importante a Berlino, ricompare la madre 2 Daedalus 2012 «voglio fare la straniera»… che, non vista, assiste all’esecuzione del figlio. A questa fuggevole ricomparsa segue il suicidio della donna. E Christian si arrende, lasciandosi travolgere e inghiottire dalla sofferenza del passato e del presente, e non potendo pertanto procedere verso il futuro, nella sua vita e nella sua carriera, nella relazione con Piera. L’esecuzione al pianoforte sulle macerie del muro è di Christian, ormai fuori dal mondo e irraggiungibile per tutti, chiuso in una dipendenza ossessiva ed esclusiva dal suo pianoforte. E questa esecuzione è l’ultima immagine che Piera cattura di lui, immediatamente prima di lasciare per sempre Berlino e dopo essersi dovuta arrendere all’impossibilità di questa storia d’amore. Eppure, il giovane pianista tedesco e la giovane studentessa calabrese avevano scommesso sulla tenuta della loro relazione, sulla possibilità di attraversare insieme il presente e il futuro accogliendosi nei rispettivi mondi e nelle rispettive storie. A patto però, come intuisce Piera, di riuscire entrambi a prendere le distanze dal proprio passato e a liberarsi dai relativi vincoli – Christian, dal suo passato personale di abbandoni, solitudine e sofferenze, dal passato familiare di fughe, lacerazioni e sconfitte, dal passato tedesco di violenza e orrori; Piera, dal passato subìto nel luogo d’origine e dagli eventi dolorosi che hanno toccato persone a lei care. Nessuno dei due riesce nell’intento, nemmeno Piera, in fuga perenne dal paese, ma incapace di staccarsi effettivamente dal passato. La loro storia viene, quindi, sconfitta dai fantasmi del passato, che non riescono tuttavia a soffocare i sentimenti, i ricordi, la sofferenza. Il muro dei muri – sembra allora di capire – può anche essere il muro interiore che i vincoli e il peso del passato riescono a costruire dentro di noi, un muro invisibile agli altri, impercettibile per sé e per gli altri, eppure invalicabile nella corsa dentro il presente, verso il futuro, alla volta dell’altrove. L’ERRANZA, GLI ALTROVE E IL NON RITORNO Piera, che abbiamo visto immersa nelle vicende tedesche, non è una migrante. Quantomeno non lo è secondo la categoria sociologica di migrante, la cui definizione più ricorrente, ancorché problematica per la sua approssimazione, include il trasferimento dal paese natio o di residenza abituale e la prolungata permanenza nel nuovo paese (Ambrosini 2005, p. 17). Nel romanzo i termini che ricorrono maggiormente per descrivere il suo movimento continuo sono “fuggitiva” e “nomadismo”. Io proporrei di considerarla un soggetto 3 Daedalus 2012 «voglio fare la straniera»… errante. Piera si è messa in viaggio, senza una meta precisa ma con una chiara direzione: la sua erranza prevede soltanto di andare avanti, verso nuovi altrove, e di non tornare mai indietro, né al paese natio né in alcuno dei luoghi in cui è già stata. Come lei stessa afferma: “In verità, non tutte le rondini sono ritornelle. Alcune vanno e basta” (CaB, p. 75). Piera è, appunto, una rondine non ritornella. Sintetizzando la sua giovane biografia nei tre luoghi più salienti, Piera dice di sé: “Venivo da un paesino vuoto e abbandonato e da una Napoli violenta e invivibile. Berlino per me era tutto un mondo. Era il mondo intero” (CaB, p. 84). La ragazza è nata e cresciuta in un tipico paesino calabrese, arroccato sulla collina e distante uno sputo dalla costa. Nei suoi vent’anni o poco più di vita, il paese è stato per lei l’unico luogo in cui ha provato un senso di appartenenza totalizzante, il luogo degli affetti certi e irrinunciabili, l’unico luogo in cui è stato pensabile condividere ogni cosa e di cui avere nostalgia. Queste certezze esistenziali sono state però pagate a un prezzo altissimo: il primato della comunità sulla persona. In paese, difatti, il controllo sociale sulla persona è costante e capillare impedendo così qualunque aspirazione alla libertà, all’autodeterminazione, alla scelta. In paese, cioè, ognuno è deprivato della libertà di essere se stesso e diverso dagli altri, ma a ognuno è imposto di essere uguale agli altri, di comportarsi come gli altri, di fare le stesse cose degli altri, anteponendo quello che pensano tutti a quello che pensa e vuole il singolo, il pregiudizio e le convenzioni sociali all’esperienza e ai sentimenti. Il tutto immerso nel vuoto, nell’immobilismo, nella chiusura verso l’esterno, nel ripiegamento su di sé3. E con l’aggravante della presenza mafiosa, che tutto può distorcere e tutti può traviare, ma, rinunciando a credere che un’altra realtà sia possibile, la resistenza per non farsi contaminare diventa sempre più difficile, la libertà di azione e scelta e, spesso, la vita sono messe a serio Il suicidio dell’amica Letizia, per esempio, è stato la conseguenza tragica del rifiuto opposto dalla famiglia alla sua storia d’amore con un giovane palestinese, degli ostacoli posti al ricongiungimento fra i due amanti, dell’abbandono inflitto nel momento della solitudine e della disperazione. Come conclude amaramente Piera: “A volte è quasi più facile non avere nessuno. Non avere nessuno che abbia delle idee, dei desideri sul tuo conto o dei progetti di felicità per il tuo futuro” (CaB, p. 36). 3 4 Daedalus 2012 «voglio fare la straniera»… rischio, e la progettualità, che si nutre di vita, diventa sempre più evanescente4. Rinunciando alla certezza e al conforto dell’appartenenza, dal paese si deve scappare via e non farvi più ritorno. L’erranza di Piera inizia, appunto, con questa fuga. La fuga è stata preceduta e, in un certo senso, originata da altre fughe, più lontane nel tempo. La fuga del paese da se stesso: agli inizi dell’adolescenza di Piera, il paese si è difatti svuotato ed è sceso dalla collina al mare, e sui suoi vicoli e sulla sua piazza è calato definitivamente il silenzio. Ma anche le fughe di breve distanza che Piera compiva insieme a Nicola, amico d’infanzia e primo amore, per sottrarsi al controllo ossessivo della comunità paesana, e per poter immaginare altre fughe insieme in futuro, alla volta delle metropoli in cui accade la Storia e in cui poter essere finalmente liberi. E, soprattutto, la fuga migratoria del padre della ragazza. Il padre di Piera – come tanti, troppi Calabresi - è migrato in un Paese europeo, da cui faceva periodicamente ritorno a casa, ma mai del tutto visto che il suo sguardo rimaneva sempre velato di altrove. Quando tornava, l’uomo evitava di farsi vedere in giro e non faceva alcun tentativo di reintegrazione in paese. La sua fuga perenne lo portava a chiudersi nel progetto ambizioso, mai realizzato compiutamente, di costruire una grande casa per l’intera famiglia. La biografia del padre è stata forse per la ragazza la lezione più convincente che nessuna fuga possa consentire un effettivo ritorno, e, soprattutto, di mettere nuovamente radici, di avere nuovamente dimora nel posto che si è lasciato (o in qualunque altro). Nell’erranza di Piera, la tappa di Napoli è soltanto una parentesi, quella universitaria, che si profila tale già al momento della scelta e che si confermerà tale attraverso l’esperienza. La città è esperita, cioè, soltanto come un altrove di passaggio, in cui la giovane non sa cercare e non sa trovare niente se non quel forte senso di precarietà che “è l’unica cosa che rischia di diventare eternamente stabile nella mia vita” (CaB, p. 66), e sul quale non sembra possibile edificare un progetto di vita di lungo termine. Forse anche perché la città presenta delle similitudini inquietanti con il paese di origine: la presenza di una (micro)criminalità diffusa in maniera capillare, alla quale sembra Il fratello di Titti, un’altra amica di infanzia, pagherà con la vita la scelta di avvicinarsi agli ambienti mafiosi, seguendo l’infelice esempio del padre di entrare in contatto con questi ambienti e di scendere a compromessi. 4 5 Daedalus 2012 «voglio fare la straniera»… impossibile sfuggire e che limita fortemente la libertà di movimento; l’impossibilità di sottrarre la propria quotidianità alla coralità della comunità che abita il vicolo del centro storico in cui Piera vive, di sottrarsi agli eventi (spesso paradossali) che animano il quartiere, di sottrarre gli eventi della propria vita all’occhio vigile della comunità, di stare insomma per conto proprio e di sottrarsi al vocio continuo, ai rumori, al chiasso; e, per di più, l’impossibilità di sottrarre la propria quotidianità all’emergenza post terremoto, che dovrebbe ormai essere superata, ma che è stata invece routinizzata, contribuendo ad ‘arricchire’ quel misto di disordine, improvvisazione e precarietà che in questa città sono la norma. La tappa di Berlino è la cifra più autentica dell’erranza in cui Piera vuole trasformare la sua esistenza. La città è un altrove in cui poter archiviare i luoghi nei quali è già stata e le esperienze già vissute, e da cui procedere in avanti, verso altrove sconosciuti. Perché è una metropoli popolata di una varietà molto differenziata di persone, in cui potersi sentire uno “straniero in terra di stranieri” (Floriani 2004, p. 89), potersi confondere protetta dall’invisibilità dell’anonimato, e godendo così di libertà di movimento, di pensiero, di scelta. A Berlino, nella parte ovest, la giovane donna approda quando la città è ancora divisa. La sua erranza sta già prendendo forma attraverso i suoi movimenti in Europa. “Io avevo cominciato a girare l’Europa, inquieta” (CaB, p. 58). Un’inquietudine che, approdando a Berlino, si declina come aspirazione all’estraneità e al ritorno a sé e al presente. “Ma era questo che volevo: […] assaporare la sensazione di essere un’estranea, una straniera fra le tante e nient’altro. […] Volevo […] godere la libertà dell’anonimato. Camminare per strade affollatissime senza conoscere nessuno, senza essere riconosciuta, sentendomi parte integrante di quell’universo ignoto. […] E poi niente. Cercavo il presente” (CaB, pp. 79-80). Questo è, invero, il senso dell’intera esperienza tedesca di Piera, anche se le motivazioni dichiarate sono di volta in volta diverse. Da studentessa universitaria, è intenta a svolgere la sua tesi di laurea e lavora come assistente di lingua italiana e come interprete; il ritorno a Düsseldorf, subito dopo la laurea, per capire dove andrà poi; da qui torna, per insistenza di Christian, nella Berlino non più divisa dal muro, una città in transizione e non ancora ridefinita nella sua forma e nella sua struttura, che teme in effetti di affrontare perché non vorrebbe sovrapporla, nella sua indefinitezza, alla Berlino divisa dei suoi ricordi. Nella nuova Berlino, che proprio come lei non sa ancora cosa diventerà, 6 Daedalus 2012 «voglio fare la straniera»… si compie il suo destino di errante, quando svanisce la possibilità di intrecciare il suo percorso a quello di Christian e di radicarli entrambi nella città. LA STRANIERA, LE APPARTENENZE RELATIVE E LA NARRAZIONE-DIMORA L’erranza di Piera è un movimento sempre in avanti, alla volta di nuovi e sconosciuti altrove, che non prevede il ritorno ai luoghi già vissuti, e attraverso cui la giovane donna diviene una straniera. La figura dello straniero è stata tematizzata in sociologia – a partire dal breve e fortunatissimo saggio di Georg Simmel (1908) – soprattutto con riferimento al contesto di approdo, dove lo straniero non ha un passato, ma ha un presente e avrà un futuro. L’estraneità di Piera riguarda, invece, sia il luogo di origine sia gli altrove che si susseguiranno nella sua esistenza, ed è la presa di coscienza della prima estraneità che darà origine e forma a tutte le altre esperienze di straniera. Il paese di origine è stato, nel vissuto della ragazza, il luogo delle radici, il luogo dell’appartenenza certa. Smette di esserlo, non tanto quando si indeboliscono le radici ed entra in crisi il senso di appartenenza, bensì quando non si riescono a intravedere le condizioni per costruire qui il proprio futuro, per elaborare e perseguire qui un progetto di vita, perché è un luogo svuotato di condizioni del genere, immobile nel suo vuoto di condizioni, e in cui la libertà di scelta e di autodeterminazione è negata. Piera, cioè, diviene straniera nel suo paese perché qui non vi è un futuro in cui radicare il progetto di sé. “Dove sono nata io non ci sono muri. Solo impossibilità. Limiti. Non è l’America. Chi nasce nessuno diventa nessuno. Allora cominci a vedere lo spazio vuoto. Il paese e il suo vuoto ti crescono dentro. Poi i divieti. L’adolescenza che brucia. Aspetti l’università come un miracolo. Per andare via. Finisci gli studi. Vai via, ancora una volta. A un certo punto non ti importa più dove. A un certo punto capisci che il biglietto sarà sempre di sola andata. E anche il ritorno non è un ritorno ma un andare, perché nel frattempo nessuno più ti riconosce e tu non riconosci più nessuno” (CaB, p. 72). Il senso di estraneità rispetto al futuro non è meno totalizzante di quello relativo al passato; forse lo è ancor di più. Rende inimmaginabile il progetto del ritorno. “Quando l’estraneità ha vinto su tutto, non c’è alcun ritorno possibile. […] Si può vivere solo guardando avanti. […] Qualsiasi posto andrà bene. Purché sia diverso da tutti i luoghi che ho 7 Daedalus 2012 «voglio fare la straniera»… conosciuto finora. L’importante è andarsene. Da qui o altrove” (CaB, pp. 36, 37, 43). Piera, divenuta straniera nella sua terra, è presa da “una strana nostalgia, come di terre sconosciute” (CaB, p. 13) e ‘sceglie’ di errare di altrove in altrove, alla ricerca di quel futuro di cui sente di essere stata deprivata. Ma, errando da un altrove all’altro, essendo ‘qui’ oggi e non rimanendo anche domani, incontrare il futuro è difficile, direi impossibile. In un’erranza continua è invece possibile trovare e acquisire altro. Il soggetto errante è un soggetto di passaggio che, in quanto tale, può più facilmente sottrarsi alle aspettative e alle richieste altrui, e conquistare così libertà di immaginazione, di movimento, di scelta – che, agli occhi di Piera proveniente da una comunità fortemente condizionante, risalta in modo particolare. Anzi, è irrinunciabile. “Mi piace sentirmi straniera. Non devo giustificare niente. Mi accettano tutti così come sono e anche se sono diversa dagli altri e ho delle stranezze, va bene così: è perché sono straniera. Gli stranieri hanno diritto a una maggiore libertà. […] L’importante è restare un po’ straniera. Ovunque.” (CaB, p. 9). Non si può dire, invero, che questa libertà dello straniero sarebbe consentita e garantita ovunque. Non lo sarebbe nel paese natio di Piera. La ragazza, infatti, apprende dall’esperienza quel che immaginava da adolescente: un soggetto è tanto più libero di essere straniero quanto più è grande la città in cui si trasferisce, e tanto più se questa città è popolata di stranieri di diversa provenienza, perché è la consistenza della presenza multietnica che legittima la personale condizione di straniero rendendola immediatamente comprensibile. Lo straniero è tanto più libero di essere tale laddove “è pieno di gente […] eppure […] non c’è nessuno” (CaB, p. 16), come, per esempio, nella multietnica metropoli di Berlino, dove è consentito “alla nostra diversità e disuguaglianza di rimanere dappertutto testardamente identica a se stessa. […] Tutti uguali. Tutti diversi. Tutti profondamente estranei gli uni agli altri” (CaB, p. 24). L’estraneità, che Piera sa costruire di altrove in altrove, si declina dunque, da un lato, come liberazione dai vincoli del radicamento e, dall’altro, come perdita dell’appartenenza. Uno stato, quest’ultimo, che non è però rielaborato negativamente, in termini di angosciosa solitudine, disadattamento, struggente nostalgia. Questa figura di straniero errante perde difatti il senso assoluto di appartenenza, quel senso che vincola e limita, conquistando in cambio più sentimenti 8 Daedalus 2012 «voglio fare la straniera»… parziali di appartenenza ai tanti e diversi luoghi che si succedono nel suo percorso di erranza, una parzialità che fa rima con libertà. Percependosi ed essendo percepita dagli altri come una straniera, Piera finisce per rivendicare questa condizione per le potenzialità che apre. “Qui sono straniera. […] Io non sono di qui e nessuno mai lo dimentica. […] Sbaglia. Io sono anche di qui. È proprio perché sento di appartenere a tanti posti che sono straniera. Sono straniera dentro perché nulla mi possiede totalmente” (CaB, p. 8). In definitiva, l’errante Piera diviene una straniera, cioè un soggetto dalle molteplici appartenenze relative, cui corrispondono più estraneità relative che, di altrove in altrove, aprono nuovi spazi di libertà personale. Però, se la moltiplicazione e la relativizzazione delle appartenenze e delle estraneità arricchiscono in termini di libertà del sé, possono al contempo destabilizzare perché deprivano del conforto del radicamento e, quindi, del calore di una dimora. È improbabile, infatti, che ci si possa sentire a casa laddove si è di passaggio, in attesa di muovere verso il prossimo altrove. In questa erranza continua, straniante e liberatoria, l’unica dimora possibile sembra essere il sé con i suoi ricordi relativi all’antica dimora ormai perduta, “a quell’altrove che è sempre il luogo dove nascono le fughe e i sogni, la terra dove si è nati e che si porta nel cuore” (CaB, p. 115), e con le storie che ha incontrato, che racconta, che rielabora e fa proprie. “Voglio costruire storie. Voglio raccontare fiabe. Io non ho un progetto di vita. Voglio fare la straniera. […] Voglio essere libera. Come l’aria. Libera e lontana. Da qui e da altrove” (CaB, pp. 18, 34). L’immagine che conclude il romanzo rende ancora meglio questa idea dell’erranza infinita, nel corso della quale solo la narrazione può dare dimora: “La mia vita non è altro che la strada che percorro ogni giorno, sentiero che insegue i mulinelli del tempo. Cammino cammino e ogni tanto salgo a cavallo del vento. Ho proiettato la mia scelta di fuga verso tempi e spazi infiniti. Sono diventata narratrice di fiabe, di antiche magie e principesse inventate. Allora vago, di piazza in piazza e di paese in paese e canto le storie di cui sono prigioniera.” (CaB, p. 116). La biografia errante di Piera sembra allora suggerirci che quando la dinamica fra “nostalgia di casa” e “nostalgia dell’altrove” (Jedlowski 2009, pp. 14-15) – dinamica che è costitutiva di ogni biografia contemporanea – si risolve a favore della seconda, quando cioè è il richiamo dell’altrove a determinare la direzione del cammino, e non è più possibile il ritorno al luogo d’origine, lì dove “il mondo ci si è 9 Daedalus 2012 «voglio fare la straniera»… manifestato per la prima volta, e il modo in cui ci si manifestò ci è a lungo apparso come quello «naturale»” (Jedlowski 2009, p. 113), lì dove pertanto ci si è sentiti intimamente a casa, diventa impossibile riconquistare la prima dimora e forse anche altre dimore fisiche, ma non per questo si è destinati a rinunciare per sempre al conforto di una dimora. Forse non sarà soltanto una, forse non sarà definitiva, forse non sarà fisica, ma altre dimore possono ancora essere possibili. I racconti, in cui rielaborare, comprendere e conquistare la propria esperienza, possono offrire dimora – come accade nel vissuto di Piera e come è ipotizzato da Jedlowski (2009). Una dimora poco solidamente edificata, a tratti anche evanescente, ma, almeno, sosta nell’erranza e rifugio dalle sue fatiche. Niente di certo e di rassicurante, ma meglio di niente. Per tutti i soggetti contemporanei condannati, loro malgrado, alle forme più diverse di erranza. BIBLIOGRAFIA Abate C. (2006), Il muro dei muri, Arnoldo Mondadori, Milano. Ambrosini M. (2005), Sociologia delle migrazioni, il Mulino, Bologna. Floriani S. (2004), Identità di frontiera. Migrazione, biografie, vita quotidiana, Rubbettino, Soveria Mannelli. Jedlowski P. (2009), Il racconto come dimora. Heimat e le memorie d’Europa, Bollati Boringhieri, Torino. Simmel G. (1908), Lo straniero, trad. it. in S. Tabboni (a cura di) (1991), Vicinanza e lontananza. Modelli e figure dello straniero come categoria sociologica, FrancoAngeli, Milano, pp. 147-154. Viscone F. (2009), Concerto a Berlino, Città del Sole, Reggio Calabria. 10 Daedalus 2012 Amara Lakhous… VALENTINA FEDELE AMARA LAKHOUS, UN PIRATA PICCOLO PICCOLO, EDIZIONI E/O, ROMA 2011 Amara Lakhous è uno dei più noti esponenti della letteratura migrante, insieme eterogeneo in cui confluiscono esperienze personali e generi letterari diversi, ascrivibili ad autori direttamente o indirettamente legati alle migrazioni, che scelgono come forma espressiva la lingua italiana, con la quale ingenerano un rapporto peculiare, complesso, al centro delle riflessioni degli studiosi del campo. Da questo punto di vista, Lakhous rappresenta quasi un’eccezione, visto che nel suo caso la lingua italiana non sostituisce completamente la lingua araba, piuttosto entrambe sono parte della stessa ipotesi creativa, dello stesso progetto letterario e dell’utopia narrativa, manifesto dell’autore, di arabizzare l’italiano e italianizzare l’arabo, e che si concretizza non solo in una scrittura in doppia lingua, ma in uno stile linguistico ibrido, contaminato, metropolitano – come lo definisce l’arabista Francesco Leggio nella post-fazione del libro – che il pubblico ha imparato a conoscere nei due scritti che hanno affermato l’ingresso di Lakhous nel panorama letterario italiano Scontro di Civiltà per un Ascensore a Piazza Vittorio (2006) e Divorzio all’Islamica a Viale Marconi (2010). Contaminazioni e stile metropolitano caratterizzano lo stile dell’autore fin dal primo romanzo, il cui manoscritto risale al 1989, inizialmente pubblicato, ma non distribuito, in Italia, nella traduzione di Francesco Leggio, col titolo Le cimici e il Pirata (1999) e uscito nuovamente nel 2011 per le Edizioni e/o con il titolo “Un Pirata Piccolo Piccolo”. Il racconto, ambientato nell’Algeria degli anni immediatamente precedenti la guerra civile che dal 1992 avrebbe insanguinato il paese, si rivela estremamente attuale, alla luce delle Primavere Arabe che hanno scosso recentemente la riva sud del mediterraneo e il Vicino e Medio Oriente. La storia, infatti, ripercorre, attraverso i pensieri che ne attraversano la mente, tre giorni della vita di Hassinu, un piccolo borghese – il titolo richiama, ma senza riferimenti diretti, il film di Monicelli (1977) e l’omonimo libro di Cerami (1976) Un borghese piccolo piccolo – scapolo, sulla soglia dei quaranta, cui piace presumersi discendente del pirata Reis Hamidou, al quale ispira le sue 1 Daedalus 2012 Amara Lakhous… azioni, circostanza sostenuta dal vivere nel Quartiere dei Pirati e dal sostenere attivamente la pirateria televisiva. La quotidianità di Hassinu, fatta di lavoro, di moschea, di sesso programmato e a pagamento, di incursioni familiari, fornisce un ritratto secco e nello stesso tempo corale della società urbana algerina alla fine degli anni ’80, una società che manca di lavoro, di prospettive e di speranza, disillusa dagli eventi storici, impossibilitata al cambiamento, all’interno della quale tutti cercano, con più o meno successo, di trovare senso e significati, nella religione e nella cultura, negli affari e nel clientelismo: è questa la società che, come dice l’autore nella prefazione, “ha anticipato in qualche modo tutto quello che sta succedendo oggi nel mondo arabo” (p. 15) e che determina la declinazione che la Primavera Araba ha avuto in Algeria, rispetto ai paesi confinanti, segnata dalla paura di una memoria nazionale mai pienamente rielaborata, repressa, disattesa, in qualche modo rubata, come le vite che incrociano la strada e i pensieri del protagonista. D’altra parte, Hassinu stesso è l’emblema di una generazione rubata: nato il 29 febbraio, d’un colpo ha 40 anni, un’età difficile, di bilanci anch’essi rubati, perché d’improvviso si accorge che è passato del tempo, che non ha un suo posto, un riconoscimento sociale, che è sospeso, come il giudizio su coloro che sono pazzi, bambini o dormienti di cui parla l’hadīth in epigrafe. Vite pazze, infantili e dormienti – come tutti nel Quartiere dei Pirati dove si dorme per riempiere le ore disoccupate o per sfuggire ai problemi – vite da cimici, di cui il protagonista disprezza la vicinanza, l’odore, le parole, i pensieri, ma a cui tragicamente anch’egli assomiglia, malgrado i vestiti costosi, l’ordine e la pulizia dei suoi giorni e la convinzione di essersi guadagnato il paradiso. L’alternativa è andare via: emigrando, rifugiandosi dalla religione, drogandosi, dormendo, impazzendo o rimanendo bambini, e Hassinu si ritrova necessariamente a pensare che non importa se hai venti, quaranta o sessant’anni, se la tua età è comunque rubata non rimane che essere un pirata immaginario e inconsapevole, che, con l’unica compagnia della sua virilità Fértas, non alzerà mai bandiera bianca. BIBLIOGRAFIA Cerami V. (1976), Un borghese piccolo piccolo, Garzanti, Milano. Lakhous A. (1999), Le cimici e il pirata, Arlem, Roma. 2 Daedalus 2012 Amara Lakhous… Lakhous A. (2006), Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio, Edizioni e/o, Roma. Lakhous A. (2010), Divorzio all’islamica in viale Marconi, Edizioni e/o, Roma. Lakhous A. (2011), Un pirata piccolo piccolo, Edizioni e/o, Roma. 3 Daedalus 2012 Mohammed Bennis… SABRINA GAROFALO MOHAMMED BENNIS, IL MEDITERRANEO E LA PAROLA. VIAGGIO, POESIA, OSPITALITÀ, DONZELLI, ROMA 2009 “La mia appartenenza al Mediterraneo è appartenenza al viaggio” (Bennis 2009, p. 27): è sufficiente leggere questa frase per entrare immediatamente nella poesia e nel pensiero di Mohammed Bennis. Poeta marocchino della generazione degli anni ’70, è riconosciuto come uno dei maggiori rappresentanti dell’avanguardia artistica del Nord Africa per la sua forte innovazione e sperimentazione nella scrittura. Autore di più di trenta opere tra poesie, traduzioni saggi e prose, la sua può essere definita letteratura migrante per i contenuti, le prospettive, le modalità e il pensiero. Nella dimensione globale del nostro tempo, è necessario, secondo Bennis, ripartire dai punti di vista, dalle diverse prospettive per leggere la realtà e riconsiderare il passato svincolato da condizionamenti e rigide categorie. Il poeta è, in tal senso, capace di andare oltre la visione che normalmente, come scrive Francesca Corrao, “sfugge alla vista. Bennis sostiene che il messaggio poetico ha un alto valore umanitario” (Corrao in Bennis 2009, p. X). Il Mediterraneo e la parola è un testo dinamico e aperto, che mette in evidenza il rapporto stretto e dialettico tra poetica e Mediterraneo. L’autore, ripercorrendo la sua vita, propone una lettura dei diversi modi in cui lo spazio mediterraneo è stato costruito come idea, a partire da quella che definisce visione araba, che ignorando il mare, si concentra su “quel passaggio ristretto che ci permette di andare da un quartiere all’altro come se l’intera regione costituisse un’unità architettonica urbana che attraversiamo senza timore né difficoltà” (Bennis 2009, p. 4). Un passaggio, aperto che riporta all’assenza di distinzione di una identità coloniale e colonizzata, e che ha sviluppato, nel poeta ancora adolescente, una consapevolezza che, come scrive, “ha trasmesso una speciale forza d’animo nel difendere la mia libera appartenenza alla cultura mediterranea” (Bennis 2009, p. 5). Passare senza timore è quindi un atteggiamento legato all’appartenenza, a quel sentimento tipico del 1968 che spingeva a pensare e andare oltre, come se si potesse appartenere sia all’una che all’altra riva del Mediterraneo. Ma con il passare degli anni questa idea di Mediterraneo aperta e dinamica si chiude. Sono gli anni ’80, quelli in cui si vive forte la sensazione che “lo spazio aperto del Mediterraneo (…) fosse stato rubato” (Bennis 2009, p. 5) da chi ha reso difficile quel 1 Daedalus 2012 Mohammed Bennis… passaggio, quasi come se la riva settentrionale avesse chiuso le porte a sud. Ma è qui il centro della trattazione: “vietare il viaggio reale racchiude in sé il divieto del viaggio simbolico”, un legame tra spostamenti vissuti e immaginati, che mette in discussione quel rapporto particolare con percorsi di vita, a partire dall’idea del viaggio come “dimensione ineliminabile dell’esperienza biografica” (Floriani in Siebert, Floriani 2010, p. 140). Ancora, tutto ciò implica una riflessione sul rapporto tra quel particolare viaggio che sono le migrazioni e la costruzione di una idea del Mediterraneo suggerita da Fernand Braudel, come spazio movimento. La dimensione della mobilità geografica è insita nell’immaginario mediterraneo: spostamento, movimento, viaggio. Scriveva Braudel, nel Mediterraneo “all’apporto dello spazio circostante, terrestre e marino, che è alla base della vita quotidiana, si assommano i doni del movimento” (Braudel 1985, p. 28). Uno spazio quindi, di incontro, di scambio, di pratiche quotidiane di accoglienza. Allo scambio, secondo Bennis, viene assegnata una funzione di creazione: “e in questo scambio creativo — scrive — colgo ciò che perpetua l’essenza del Mediterraneo in quanto dimora comune” (Bennis 2009, p.12). Quello che viene definito il movimento azzurro dell’intercultura, facendo riferimento all’immagine del mare, porta in sé il carico di significato offerto dall’esperienza del viaggio. Appartenere al Mediterraneo è appartenere al viaggio, è situarsi in uno spaziomovimento che è apertura verso l’altro “senza indugi e ripensamenti”. Il Mediterraneo è, altresì, spazio di riconoscimento perché è lo spazio dell’accoglienza di culture e lingue che trovano una dimora comune. Dimensione centrale ha qui la parola: il linguaggio è visto come il luogo dell’incontro tra le culture, e le traduzioni producono importanti cambiamenti: “per il poeta – scrive Corrao – quello del tradurre non è un lavoro chimico, ma fisico, perché si tratta dell’incontro tra due forme” (Corrao in Bennis 2009, p. XV). La poesia è, in questo senso, una parola che fa durare le parole, dando un valore al sogno che è legato alla memoria (Bennis 2009, p. 53). Per Bennis, la costruzione del Mediterraneo passa attraverso il potere della poesia, “che non si ferma ai confini”. L’autore afferma: “Ogni poesia mediterranea è mia. Ogni poesia che annuncia il viaggio, che dà ospitalità che semina generosità. In ogni angolo del mondo. È lì che comincia il Mediterraneo. Non un luogo 2 Daedalus 2012 Mohammed Bennis… recintato da principi geografici o da un’idea che rinnega l’Altro che viene dal sud, da oriente o da occidente” (Bennis 2009, p. 29). Il Mediterraneo è quindi, luogo della resistenza, ovvero “alternativa mediterranea” (Cassano 2007) rispetto ai modelli di narrazione dominanti, rispetto “alla deriva universalistica e monoteistica che viene dall’occidente estremo” ma anche denuncia contro “il fondamentalismo neoimperiale che si propone di recidere ogni rapporto tra le due rive del Mediterraneo” (Bennis 2009, p. 16). Bennis lo scrive a chiare lettere: “La globalizzazione contraddistingue un momento in cui la supremazia dell’economia riorienta la politica verso la strategia dell’utile, e tende a svilire tutto ciò che percepisce di dominio dell’inutile. La cultura, in questa strategia, è l’inutile per eccellenza. La ricerca scientifica, le opere del pensiero e le creazioni letterarie e artistiche sono sempre considerate beni inutili in rapporto alle merci che obbediscono alla logica del profitto e delle leggi del mercato” (Bennis 2009, p. 17). La poesia, la cultura e la ricerca sono quindi, secondo l’autore, spazi di resistenza: luoghi di dialogo e di incontro, di ospitalità e di bellezza. Unica soluzione, per costruire un Mediterraneo, dimora comune. BIBLIOGRAFIA Bennis M. (2009), Il Mediterraneo e la parola. Viaggio, poesia, ospitalità, Donzelli, Roma. Braudel F. (1985), Il Mediterraneo. Lo spazio e la storia. Gli uomini e la tradizione, Bompiani, Milano. Cassano F. (2007), Il pensiero meridiano, Laterza, Roma-Bari. Siebert, R., Floriani, S. (2010), Incontri tra le righe, Pellegrini, Cosenza. 3 Daedalus 2012 Wu Ming 2, Antar Mohamed… GIULIANO SANTORO WU MING 2, ANTAR MOHAMED, TIMIRA. ROMANZO METICCIO EINAUDI, TORINO 2012 Anni fa, all’indomani del successo di “Q” e al momento del cambio di nome da Luther Blissett a Wu Ming, il gruppo di scrittori Senza Nome diffuse il suo manifesto d’intenti e promise di mantenere fede all’impegno della scrittura collettiva. “Wu Ming intende valorizzare la cooperazione sociale tanto nella forma del produrre quanto nella sua sostanza – si leggeva nella dichiarazione di intenti del gruppo. La potenza del collettivo è allo stesso tempo contenuto ed espressione del narrare”. Poteva apparire come una promessa ingenua o magari come un’ostinazione ideologica. E invece leggendo romanzi come “Timira”, che porta la firma di Wu Ming 2 e Antar Mohamed capisci come i Senza Nome tengano fede sempre di più a quella promessa, cogliendo al tempo stesso la necessità di mantenere uno stile autoriale e l’esperimento di allargare il racconto e renderlo davvero orizzontale e multiplo. Collettivo. Il libro racconta la storia di Isabella Marincola, figlia rimossa del passato italiano: nasce dalla relazione tra suo padre Giuseppe e la donna somala Aschirò Assan. Isabella è il parto illegittimo del colonialismo. Il soldato, mescolando in un groviglio inestricabile (uno dei tanti grovigli di questa storia), retoriche da “missione civilizzatrice” coloniale e buon senso paterno, non accetta di fare quello che facevano praticamente tutti gli italiani occupanti: rifiuta di abbandonare i figli meticci del sogno imperiale italico in Africa. Dunque, decide di riconoscere lei e suo fratello maggiore Giorgio, di strapparli alla madre per crescerli nell’Italia del fascismo. Giorgio cresce a Pizzo Calabro, dove il colore della sua pelle passa sostanzialmente inosservato. Arriva a Roma per le scuole superiori, si arruola nelle brigate partigiane di Giustizia e Libertà e viene ucciso dalle truppe naziste in ritirata, ormai a guerra finita, in Val di Fiemme. La sua storia è stata raccontata da Lorenzo Teodonio e Carlo Costa in “Razza partigiana” (edito da Iacobelli). Isabella, invece, arriva direttamente a Roma, dove suo padre si è sposato e ha avuto altri due figli e dove sperimenta da subito la sua esistenza in-between di straniera nelle sue nazioni. È una storia di violenza coloniale e postcoloniale, questa. Ma è anche una storia di padri e madri, di riconoscimenti e abbandoni, di 1 Daedalus 2012 Wu Ming 2, Antar Mohamed… patrie e matrie, di figli e figliastri. Perché, come sostiene la scrittrice algerina Assja Djebar, “La colonia è innanzitutto un mondo diviso in due […] La colonia è un mondo senza eredi, senza eredità. I bambini di entrambe le parti non vivranno nella casa dei loro padri” (il corsivo è mio). I figli dei colonizzatori e dei colonizzati, insomma, hanno in destino di essere dei “senza patria”, incapaci di riconoscere nella terra che li ospita il luogo delle origini e quello dell’arrivo. Questa è la condizione contemporanea, ci sentiamo un po’ tutti nella condizione di essere dei profughi culturali, e questa è la condizione di Timira, figlia al tempo stesso di colonizzatori e colonizzati. Da una vita straordinaria, al di fuori dell’ordinario, cogliamo la metafora potente del farsi-uno-del mondo, del confondersi tra centro e periferia, tra colonizzatori e colonizzati, tra scultori e modelli, tra registi e attori. La donna finisce a far da modella, precipita nel mondo del cinema. È una mondina nera in “Riso Amaro”, pietra miliare del neorealismo: pare che il regista Giuseppe De Santis l’avesse scelta per rafforzare l’allegoria delle donne lavoratrici come metafora dell’Internazionale. Poi, il ritorno a Mogadiscio, dove sposa un musulmano, prende il nome di Timira e mette al mondo Antar, che oggi vive a Bologna, fa il mediatore culturale ed è co-autore di questo romanzo. Ma Timira non è solo Timira. È anche Isabella. La donna rivendica la sua libertà di donna italiana, rifiutando i vincoli dell’uso locale e senza per questo conformarsi agli usi dell’aristocrazia coloniale italica. È elegante, ma a modo suo, perché “eleganza e colori accesi non vanno d’accordo nelle mode d’Occidente”. Il ritorno in Italia della protagonista nel 1991, all’alba della Seconda Repubblica e durante la guerra civile somala e la guerra umanitaria dell’Occidente contro Saddam Hussein, rappresenta l’arrivo della colonia, delle sue contraddizioni e dei suoi conflitti nelle nostre città, in un mondo “che si sono venduti tra loro senza che fossimo avvertiti”, un mondo nel quale all’improvviso le galline diventano avvoltoi e si avventano sui cadaveri. Quello che prima veniva artificialmente separato dai confini culturali e materiali, non può più essere nascosto. Di tutto ciò l’inquietudine esistenziale di IsabellaTimira è il simbolo, con la sua vita ingombrante e perturbante, difficile da incasellare. Porta la violenza della schiavitù nel suo bagaglio culturale, per questo rifiuta di farsi serva in Italia, nonostante si trovi a fare da dama di compagnia a una donna bolognese – significativamente chiamata Itala – che va perdendo la memoria e non riesce a distinguere i suoi ricordi da quelli della sua badante. 2 Daedalus 2012 Wu Ming 2, Antar Mohamed… “Timira” è un romanzo percorso da una tensione palpabile. Mettiamo il naso tra le sue pagine e veniamo presi da una sorta di agitazione, un’inquietudine che non fa stare comodi sulla sedia, “Come se avessimo delle puntine sotto il sedere”, dice Wu Ming 2 parlando del libro. Questa tensione è la ricerca di un rapporto paritario tra narratore e narrato e tra autori, uno stile davvero scevro da ogni retaggio coloniale. È un approccio che ricorda lo spiazzamento imposto allo sguardo sulle donne del sud del mondo da parte della femminista anglo-indiana Nirmal Puwar. Per sottrarre le donne dalla condizione obbligata di “vittima”, di puro oggetto astratto della violenza coloniale e patriarcale, magari da compatire e aiutare senza tuttavia condividerne le lotte e le aspirazioni, Puwar sposta l’obiettivo da chi è osservato verso chi osserva e chiede: “Che cosa state cercando?”, per scoprire che lo sguardo occidentale va alla ricerca soltanto della marginalità, della victimhood. Allo stesso modo, Timira-Isabella sbuca dalle pagine del romanzo e chiede a Wu Ming 2: “Cosa vuoi fare di me?”. La domanda è dirompente. L’ex modella sa bene quale è la differenza tra “posare” per un artista e interagire con lui, essere co-autrice. “I margini per l’autonarrazione sono particolarmente aperti quando le testimoni sono capaci di suscitare pietà è lacrime”, nota Puwar. “Ho cominciato a chiedermi se sia possibile, per uno che di mestiere scrive e racconta storie, porgere la tastiera a chi non l'ha mai usata prima e aiutarlo a mettere in romanzo la sua vita, senza però confiscarla con le metafore e gli arnesi che ha imparato a usare”, confessa invece Wu Ming 2. Non è facile scrivere una storia così complessa. Non è facile ambientare un romanzo a cavallo tra tempi storici diversi, culture differenti e luoghi molteplici, facendo intrecciare le tante voci di Timira e le molte lingue narranti. La scelta intrigante di mettere in scena la voce dello scrittore e la sua paura di colonizzare le vite dei narrati, affiancando le sorti dei personaggi del romanzo. I dubbi metodologici e le scelte letterarie emergono pagina dopo pagina assieme all’evolversi del racconto. Quei dubbi fanno il paio con le traversie di Isabella Marincola e di Antar Mohamed. In fondo, anche loro come noi – genitori, figli e genti del mondo postcoloniale – sono alla ricerca di un domicilio, del modo giusto per abitare il mondo. 3 Daedalus 2012 Ulrich Beck… ROSSELLA PAINO ULRICH BECK, POTERE E CONTROPOTERE NELL’ETÀ GLOBALE, LATERZA, ROMA-BARI 2010 Il pensiero sociologico contemporaneo dispone di una ricca serie di espressioni linguistiche volte a definire gli aspetti e i fenomeni più rilevanti della società attuale: postmodernità, tarda modernità, alta modernità, seconda modernità, modernità riflessiva, società del rischio, società di contatti, società dell’informazione, società globalizzata e il più recente dell’elenco, la società cosmopolita. Il senso ultimo di questo sforzo terminologico va probabilmente ricercato nella maggiore attenzione prestata dalla disciplina verso i temi connessi alla domanda “cosa succede?” piuttosto che verso le questioni sottese alla domanda “perché accadono queste cose?”. Da qui la maggiore diffusione di analisi e teorie “diagnostiche”, piuttosto che “esplicative”, che provano a comprimere la realtà in alcune strutture concettuali ordinate, in alcuni modelli teorici che darebbero un significato più definito alle trasformazioni sociali percepite nel mondo globalizzato. Famosi teorici sociali del nostro tempo, quali Jurgen Habermas, Anthony Giddens, Zygmunt Bauman, Manuel Castells, Jean Baudrillard, hanno offerto diverse diagnosi di questo tipo, generalizzate e assiologicamente caratterizzate (ad esempio la teoria dell’agire comunicativo di Habermas, la teoria della strutturazione di Giddens, ecc.). Ulrich Beck è un’esponente di primo piano della sociologia, che, per intenderci, abbiamo denominato “diagnostica”, e il suo volume Potere e contropotere nell’età globale, originariamente pubblicato in Germania nel 2002, in Inghilterra nel 2005 e disponibile in Italia dal novembre del 2010, ne è un chiaro esempio. È importante per il lettore tenere a mente queste date perché questo saggio è un testo che è stato scritto in un mondo in cui la guerra in Afghanistan non era ancora scoppiata, Saddam e Bin Laden erano ancora vivi e Bush era Presidente degli Stati Uniti. Con Potere e contropotere nell’età globale, Beck cerca di realizzare due ambiziosi obiettivi: uno metodologico e uno ideologico (inteso come nesso tra la comprensione del mondo e una pratica di trasformazione conseguente). Da un lato, Beck mira a formulare un nuovo paradigma scientifico che prenderebbe in considerazione le trasformazioni adottate dalla seconda modernità per effetto della crisi 1 Daedalus 2012 Ulrich Beck… globale ed ecologica, l’aumento delle diseguaglianze transnazionali, l’individualizzazione, le forme precarie di lavoro retribuito e le sfide della globalizzazione culturale, politica e militare. Dall’altro lato, viene proposta una nuova pratica, basata sulla conoscenza acquisita come una conseguenza di questa nuova prospettiva, ovvero la pratica del realismo cosmopolita, caratterizzata da una serie di atteggiamenti che pongono l’attenzione non solo sul ruolo cruciale del potere economico globale, ma anche sugli attori del business globale nei rapporti di cooperazione e competizione tra Stati. L’innovazione epistemologica di Beck, colta nell’efficace metafora dell’immaginazione cosmopolita (che riecheggia la metafora dell’immaginazione sociologica di Charles Wright Mills), è frutto del cambiamento di paradigma che richiede l’abbandono del nazionalismo metodologico, ossia dell’approccio teoretico incentrato sull’idea di società dello Stato-nazione, in modo tale che gli Stati e i loro governi siano considerati come pietre angolari dell’analisi delle scienze politiche, in favore del cosmopolitismo metodologico (che prevede lo smantellamento dello spazio e della politica, despazializzazione dello Stato e della società, emergenza della società civile mondiale, molteplice appartenenza politica, e religioni ed etnie pluralizzate). Sostiene Beck che questa conversione metodologica è motivata dalla logica della globalizzazione e dalla “grande trasformazione” indotta dagli sviluppi economici e politici causati dalla globalizzazione stessa. Il potere, di conseguenza, si è spostato in un altro luogo e, se le scienze politiche intendono ancora studiare il potere in modo adeguato, devono andare in quest’altro luogo mediante il mutamento di struttura concettuale. Il cambiamento del concetto di potere deve essere inteso non solo in senso spaziale/geografico, occorre invece transitare da Statinazione con confini rigidi e ben definiti a società commerciali transnazionali, corpi impersonali antidemocratici che esercitano la sovranità economica. È necessario ammettere l’esistenza di una nuova forma organizzativa non pubblica di violenza privata e legislativa che si erga al di sopra degli Stati sovrani, senza possedere essa stessa la sovranità dello Stato. Questo cambiamento deve avvenire anche in senso sociale e culturale, come dimostrato dagli stessi criteri su cui risiedeva il potere nella prima modernità. In quella fase, violenza, forza militare o intervento, consenso democratico e principio territoriale, sono stati riconvertiti in un tipo diverso di dominazione, basata sull’efficienza, la conoscenza e la flessibilità economica, intesa come l’abilità di investire più convenientemente altrove. 2 Daedalus 2012 Ulrich Beck… Questa nuova condizione di “senzatetto”, per così dire, del capitale globale ha enormi implicazioni sia per le politiche di Stato che per la vita quotidiana e il benessere dei cittadini globali. Di conseguenza, gli Stati sono costretti a competere tra loro per attrarre flussi di denaro mentre i cittadini debbono diventare sempre più dipendenti dalle azioni volontaristiche delle società transnazionali nel perseguimento di profitti. Abbastanza sorprendentemente, questo pessimismo teoretico (la convinzione del ritardo dei concetti tradizionali e il bisogno impetuoso di cambiamento) è associato a un punto di vista pratico e ideologico abbastanza ottimistico: “globalizzazione non è destino, può essere formata e influenzata”. Come risultato, i processi globali appaiono non come una sorte inevitabile, come afferma la narrativa del capitalismo globale, ma come un corso illimitato di azioni che potrebbero essere trasformate e dirette secondo l’equilibrio di forze esistenti in un dato momento. In questo modo, gli sforzi ideologici di Beck sono orientati ad analizzare come questo equilibrio di forze emerge e cambia, con quali strategie e quali vantaggi e, infine, come i “bravi giocatori” (qui le simpatie di Beck sono evidenti) possono evitare di perdere i loro benefici. Prima di tutto, lo stesso gioco della globalizzazione, dichiara Beck, è molto diverso dai vecchi giochi perché, a differenza dei giochi politici dell’era dello Stato-nazione, che funzionavano con l’applicazione di un certo numero di regole, la nuova politica mondiale si preoccupa di cambiare le regole continuativamente. Né i giocatori né le loro strategie sono pre-determinati. Invece, i partecipanti guadagnano la loro posizione nel metagame, ovvero nella metodologia di comportamento che ogni giocatore applica in determinate situazioni di gioco, organizzandosi politicamente nel gioco. Una volta che lo scenario è aperto, altri giocatori possono entrare in scena come, per esempio, le reti terroristiche (Organizzazioni non governative dedite alla violenza, come le definisce Beck). Tre attori principali di solito acquisiscono il potere di partecipare a questo processo di formazione e influenza della globalizzazione: gli Stati-nazione, il capitale (il nuovo ordinamento economico neoliberale) e la società civile globale. Ognuno di questi attori-giocatori ha a disposizione una serie di strategie possibili e risorse di ogni tipo (discorsive, finanziarie, etiche e politiche) così come diversi livelli di auto-organizzazione. I risultati del gioco della globalizzazione dipendono dalle abilità dei giocatori di approfittare sia delle proprie forze che delle debolezze dei loro rivali. In sostanza, suggerisce Beck, 3 Daedalus 2012 Ulrich Beck… un giocatore svantaggiato può solo essere emarginato ma non eliminato dal tavolo poiché esiste un legame di reciprocità tra coloro che causano la rovina di un attore indesiderato. Il business globale necessita di uno Stato forte (deregolamentazione del mercato, privatizzazione dei servizi pubblici e rafforzamento delle norme commerciali globali non possono essere raggiunti da uno stato debole), così come ha bisogno di cittadini globali disciplinati per usufruire dei beni e dei servizi forniti dalle imprese. Di conseguenza, la coesistenza, non solo è possibile ma necessaria. Dal momento che la società civile globale sembra essere un progetto futuro, il gioco principale è condotto dallo Stato e dal grande capitale piuttosto che da una realtà tangibile. Per indebolire lo Stato, il capitale usa vari stratagemmi che possono essere raggruppati in quattro categorie principali: strategie autarchiche (per rendere lo Stato facilmente sostituibile e intercambiabile), strategie di sostituzione (per mettere lo Stato in competizione col maggior numero possibile di stati confrontabili), strategie di monopolizzazione (lo Stato deve aver interiorizzato il regime del mercato mondiale neo-liberale, un monopolio sulla razionalità economica per il commercio globale) e strategie di dominio preventivo (lo Stato deve usare il suo monopolio sulla violenza per rafforzare l’autonomia e il potere vincolante degli attori del business globale). Al riguardo, le politiche e gli sforzi dello Stato saranno destinati a combattere queste strategie del capitale globale e gli Stati potranno scegliere tra: strategie di indispensabilità, strategie di insostituibilità, strategie volte alla riduzione della competizione tra Stati, strategie volte alla ripoliticizzazione della politica, strategie volta alla trasformazione cosmopolita degli Stati. Nella riflessione di Beck, lo Stato-nazione, il “grande perdente” della globalizzazione, potrebbe assumere maggiori poteri sullo spazio transnazionale dei flussi e contrastare l’autarchia del capitale. La prospettiva lungo cui si muove il sociologo tedesco si avvicina, attraverso un’evidente sensibilità sociologica, a quella di politologi come Martin Shaw o David Held. In questa direzione, lo Stato cosmopolita accede a nuove possibilità di azione connettendosi e aprendosi a reti transnazionali fornite da altri Stati, istituzioni sovranazionali ed organizzazioni di vario tipo. Riguardo alla società civile globale (sorprendentemente solo poche delle 472 pagine sono dedicate allo sforzo della comprensione del suo ruolo e delle sue possibilità), la sua fonte principale di potere risiede nella retorica e nei racconti. Beck immagina questa situazione in una 4 Daedalus 2012 Ulrich Beck… sorta di trappola di legittimazione dove, le società transnazionali e le organizzazioni commerciali hanno molto potere ma poca legittimità. I movimenti sociali, invece, hanno solo poco potere ma un alto grado di legittimità che trae la sua origine dal prestigio della moralità come fonte di potere nell’età globale. La base del contropotere della società civile globale contiene principalmente due strumenti straordinari: le Organizzazioni non governative, attraverso cui i cittadini possono imporre un regime etico globale dei diritti umani che può ammortizzare i beni del capitale globale nella giusta prospettiva e, il cliente globale, che detiene l’enorme potere globale di rifiuto e di non-acquisto il quale, può influenzare la politica del capitale globale. Suggerisce Beck che gli Stati interpreteranno un ruolo d’intermediari tra il grande capitale e i cittadini e, le future battaglie, saranno combattute per l’accesso e la manipolazione di quest’ultimo. Le difficoltà filosofiche e politiche emergono quando nozioni speculative e altamente astratte come cosmopolitismo, parti mondiali e società civile globale sono tradotte in pratica politica. Beck non riesce a offrire una struttura discorsiva e istituzionale attraverso cui queste nozioni vengono poste in essere, non ha intrapreso una carriera di calcolo dei rischi, ancora meno ha cercato di ridurli. Il sociologo tedesco, nell’ambito dell’accademia, sembra ritagliarsi un ruolo da Cassandra, diagnosticando l’ottimistica inutilità con cui cerchiamo di gestire l’ingestibile. Come potrebbe emergere un discorso globale sui diritti umani se lo stesso contenuto del concetto “diritti umani” varia a seconda delle culture e delle comunità? Come potrebbe la sostanza umanistica del “cosmopolitismo” e della “società civile globale” opporsi al ricco simbolismo del capitalismo che può travisare queste nozioni e imporre ad esse nuovi significati attraverso la pubblicità? In altre parole, i cittadini globali sceglieranno la baffuta figura militante di José Bové o i corpi seducenti delle sosia della diva Pamela Anderson su spiagge tropicali ovvero, l’immaginario standard del paradiso capitalista? Similmente, il cosmopolitismo di Beck (la lotta per una cultura umana in cui tradizioni molto diverse possono vivere l’una accanto all’altra) sembra trarre ispirazione dalla “sfera pubblica” habermasiana, in cui gli attori sono ugualmente resi potenti dalle capacità argomentative e razionali del discorso. Beck sembra riprodurre la stessa logica ottimistica e ingenua: nonostante la dichiarata neutralità ideologica, il cosmopolitismo incorpora in sé una forte e pericolosa illusione in quanto, è basato sull’inconsapevolezza (o sulla manipolazione) delle 5 Daedalus 2012 Ulrich Beck… condizioni di accesso alla sfera politica e dei fattori di discriminazione che limitano le possibilità di accesso. Qui, l’uguaglianza delle tradizioni è forse più un’illusione retorica che una sorta di dimensione reale e le risorse discorsive che una comunità possiede sono differenziate e non equilibrate. 6