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on-line - Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali
4/2012
on-line
UNIVERSITÀ DELLA CALABRIA
DIPARTIMENTO DI SOCIOLOGIA E DI
SCIENZA POLITICA
Daedalus 2012
presentazione del numero
DAEDALUS
Quaderni di Storia e Scienze Sociali
Direzione scientifica
Vittorio Cappelli, Ercole Giap Parini, Osvaldo Pieroni,
Alberto Ventura
Redattori e collaboratori
Luca Addante, Olimpia Affuso, Luigi Ambrosi, Rosa Maria
Cappelli, Renata Ciaccio, Bernardino Cozza (†), Barbara
Curli, Francesco Di Vasto, Loredana Donnici, Valentina
Fedele, Aurelio Garofalo (†), Sabrina Garofalo, Teresa Grande,
Salvatore Inglese, Donatella Loprieno, Francesco Mainieri,
Matteo Marini, Adele Valeria Messina, Patrizia Nardi, Saverio
Napolitano, Tiziana Noce, Giuseppina Pellegrino, Maria Perri,
Luigi Piccioni, Antonella Salomoni, Manuela Stranges, Pia
Tucci
Direzione e redazione e amministrazione
Dipartimento di Sociologia e di Scienza Politica
dell'Università della Calabria
87036 Arcavacata di Rende (Cosenza).
Tel. 0984 492568-67-65-32
E-mail: [email protected]; [email protected];
[email protected]; [email protected]
Direttore Responsabile Pia Tucci
Numero 4/2012 on-line
Numero 23/2012 seguendo la numerazione della precedente
edizione cartacea
Pubblicato on line nel settembre 2012
Daedalus 2012
presentazione del numero
Presentazione
Con questo numero, Daedalus vuole riproporre e rilanciare una
riflessione, ormai pluriennale, sul Mediterraneo. Iniziammo, aprendo il
numero 2 della nuova serie on line della rivista, con due conversazioni
dedicate al Mediterraneo in idea, nella storia e nella realtà presente,
regalateci da due importanti studiosi: lo storico Edmund Burke III e il
sociologo Franco Cassano, intervistati da Marta Petrusewicz, il primo,
e da Ercole Giap Parini e Donatella Loprieno, il secondo. Ha fatto
seguito, l’anno scorso, un numero monografico, che era il risultato,
ricco e variegato, del call for papers lanciato a partire da quelle
conversazioni. Oggi proviamo a replicare lo stesso metodo, che ha già
dato risultati assai interessanti, mettendo a fuoco un tema specifico e
cruciale della storia passata e presente del Mediterraneo: le migrazioni,
gli attraversamenti, dalla sponda meridionale alla sponda settentrionale
(e viceversa) e dal Mediterraneo verso il resto del mondo.
Se è noto che le migrazioni sono, con particolare enfasi negli
ultimi due secoli, un elemento costitutivo della storia europea e – più
che in ogni altro luogo del continente – della storia italiana, non è
altrettanto scontato che il Mediterraneo sia stato luogo di
attraversamenti in età contemporanea, ben prima dell’attuale vettore
migratorio sud-nord, che ha posto drammaticamente al centro della
scena le sponde della penisola italiana, come primo approdo per i
migranti provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente.
Scarsa attenzione si è posta, in genere, alla storia
dell’emigrazione europea verso le sponde africane e mediorientali del
Mediterraneo. Trascuratissima, se non ignorata, è l’emigrazione italiana
in queste regioni (con l’eccezione, per ovvie ragioni, della Libia).
Eppure la presenza di comunità italiane sulle sponde meridionali del
Mediterraneo, tra Otto e Novecento, è di straordinario interesse, dal
Marocco a Istanbul, passando per l’Algeria, la Tunisia e l’Egitto. Vale
la pena rammentare che le statistiche contano, tra il 1876 e il 1925,
circa 300.000 partenze verso l’Africa non italiana: oltre 10.000 le
presenze medie registrate in Marocco, 28.000 in Algeria, quasi 50.000
in Egitto e addirittura quasi 100.000 in Tunisia, dove la popolazione
italiana è tra Otto e Novecento più numerosa di quella francese. La
fiorente comunità italiana di Istanbul, infine, conta circa 10.000
persone nella seconda metà dell’Ottocento, fino alla drammatica rottura
della guerra italo-turca per la Libia, nel 1911.
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Peraltro, l’esplosione dell’emigrazione di massa, che tra Otto e
Novecento si diresse principalmente verso le Americhe, non ha
riguardato soltanto l’Europa latina e balcanica, ma anche le sponde
meridionali del Mediterraneo. Un flusso migratorio, ancor oggi
scarsamente conosciuto, si formò in alcune regioni dell’allora
declinante impero turco: furono numerosissimi i libanesi, i siriani e i
palestinesi che partirono per le Americhe, seguendo le piste (e talora
inventandole) dei commerci itineranti e dei mestieri urbani. Essi si
diressero principalmente negli Stati Uniti, in Brasile e in Argentina, ma
raggiunsero numerosi anche la Colombia, il Venezuela, il Messico, il
Centroamerica, Cuba, il Cile e il Canada.
Di questa migrazione araba è particolarmente interessante quella
diretta in Brasile, di cui s’è occupato ampiamente lo storico paulista
Oswaldo Truzzi, a cominciare dall’impulso iniziale dovuto alla visita
effettuata in Palestina, in Libano e in Siria, nel 1876, dall’imperatore
don Pedro II, accompagnato dalla sua sposa napoletana Teresa Cristina
di Borbone. I libanesi, in specie, si recarono nel nuovo secolo in ogni
regione del Brasile, introducendo col commercio ambulante la moderna
tecnica della vendita rateale e affiancandosi non di rado agli immigrati
italiani (con i quali condividevano talvolta anche la partecipazione alla
massoneria; come accadde anche nel caso, puntualmente documentato,
di Costa Rica).
Giunsero persino in Amazzonia, i libanesi, profittando dell’auge
del caucciù e animando i commerci fluviali. Di conseguenza, non
sorprende che proprio a Manaus sia nato da una famiglia libanese
Milton Hatoum, uno degli scrittori brasiliani più importanti del nostro
tempo, nella cui narrativa è fortemente presente la vicenda migratoria
dei libanesi, che ha dato vita ad una delle tante anime culturali del
Brasile contemporaneo, nel quale sopravvivono, dunque, anche gli echi
della tradizione orale dei narratori orientali.
È proprio sul terreno letterario che Daedalus vuole aprire questa
nuova riflessione sugli attraversamenti del Mediterraneo, privilegiando
il tema attualissimo della letteratura della migrazione. Su questo piano,
abbiamo alle spalle il mare magnum della letteratura degli italiani negli
Stati Uniti, da John Fante a Helen Barolini. Una letteratura
efficacemente antologizzata nello scorso decennio da Francesco
Durante, in due ponderosi volumi, che si arrestano però al 1943; e di
cui si occupa da tempo, nell’Università della Calabria, Margherita
Ganeri. Naturalmente, non vanno dimenticati neppure i tanti scrittori
latinoamericani di origine italiana, dall’argentino Ernesto Sábato, figlio
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di calabresi, al venezuelano Vicente Gerbasi, figlio di cilentani, a Zélia
Gattai, moglie italiana di Jorge Amado, in Brasile, tanto per ricordare
solo alcuni tra gli autori più noti, che hanno introdotto in vario modo
nella letteratura iberoamericana temi e questioni migratorie.
Ma la nostra attenzione è attirata ora, piuttosto che da questo
esteso patrimonio storico-letterario italoamericano, che pure non cessa
di meritare studi ulteriori, dalla più recente esperienza letteraria di non
pochi immigrati in Italia. Da alcuni anni la letteratura scritta dagli
immigrati è argomento di riflessione e di studio nel nostro Paese, come
si segnala in questo numero di Daedalus nella rassegna curata da Luigi
Ambrosi, che connette il fenomeno, ovviamente, alla recente
immigrazione, soprattutto africana, in Italia.
Noi ce ne occupiamo qui a partire dall’intervista di Valentina
Fedele a Tahar Lamri. Questo scrittore italiano, algerino di nascita,
preferisce in verità parlare di “letteratura di frontiera”, piuttosto che di
“letteratura della migrazione”, poiché egli estende la nozione di
attraversamento e superamento di un confine dallo spostamento fisico,
proprio delle biografie individuali, all’attraversamento dei canoni.
Sicché, secondo Lamri, anche autori italiani come Claudio Magris e
Andrea Camilleri potrebbero rientrare nella “letteratura di frontiera”.
Nell’intervista a Lamri ricorre più volte il nome di Amara
Lakhous, altro autore algerino che scrive in italiano, al quale Daedalus
dedica anche una recensione, e che riconosce invece, a differenza di
Lamri, la congruità della definizione di “letteratura della migrazione”.
Il tema, dunque, viene fuori in termini problematici, con continui
rimandi alla complessità delle relazioni tra cultura araba e cultura
europea e alla pluralità di ciascuna di queste.
La seconda intervista è quella che Adele Valeria Messina ha
rivolto a Jean-Léonard Touadi, congolese di Brazzaville, che in Italia è
diventato, oltre che giornalista e scrittore, docente universitario e infine
deputato al Parlamento (prima in Italia dei Valori e poi nel Partito
Democratico). Anche a Touadi sta stretta la definizione di “letteratura
migrante”. Preferirebbe parlare di “nuova letteratura italiana”, nella
quale compaiono “orizzonti narrativi non classicamente italiani”.
Ma, come si è già detto, la discussione sulla “letteratura di
migrazione” (traduzione dell’inglese “migration literature”), è
relativamente recente in Italia; tuttavia essa non è certo una novità in
altri Paesi. Quel che di nuovo c’è nel nostro caso è la freschezza del
fenomeno nella letteratura italiana e nel contesto mediterraneo degli
ultimi decenni. E su questo varrebbe la pena di riflettere, anche alla
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luce delle nuove asimmetrie storico-politiche e culturali: la crisi, il
“declino” europeo da un lato e le “rivoluzioni” del mondo arabo
dall’altro, con nel mezzo il mare che unisce e divide…
La terza intervista di questo numero di Daedalus affronta gli
aspetti più dolorosi di questa relazione tra le sponde del Mediterraneo
oggi, che intervengono quando gli attraversamenti hanno esiti
drammatici o addirittura tragici, concludendosi infine con i
respingimenti e/o con la morte. Donatella Loprieno ha intervistato
Fulvio Vassallo Paleologo, giurista e avvocato, studioso di diritto
internazionale, costituzionale e comunitario, ma soprattutto attivista
militante in difesa dei diritti umani. Dal colloquio emerge la
drammaticità attualissima della questione, con ricchezza di esempi e
profondità di analisi.
Le tre interviste spaziano, dunque, tra le contaminazioni culturali
e le fratture e i conflitti politici, obbligandoci ad una riflessione che
dev’esser capace di misurarsi con le connessioni tra passato e presente,
intessendo ragionamenti multidisciplinari, che possano nutrire e
suggerire nuove ricerche.
Vittorio Cappelli
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Intervista a Tahar Lamri
TAHAR LAMRI1
INTERVISTATO DA VALENTINA FEDELE
Ravenna, giugno 2011
Fedele: La prima domanda è una curiosità: ho letto che hai una
formazione giuridica, che hai lavorato come traduttore, ma come sei
diventato uno scrittore?
Lamri: Non è strano: Čechov era medico, Dostoevskij era ingegnere,
però, in effetti, la scrittura è anteriore agli studi, ma era una scrittura per
me. Poi, dopo che sono immigrato in Italia, non so perché,
improvvisamente, la scrittura vera è propria è venuta, dopo aver
imparato l’italiano. Io ho imparato l’italiano quando sono venuto in
Italia, prima non lo conoscevo e non dovevo nemmeno venire in Italia.
Sono venuto in Italia per caso, o forse per destino, se il destino è, come
dicevano i greci, il carattere di un uomo. Ero a Parigi, aspettavo il visto
per andare in Oman e poi ho conosciuto una ragazza di Ravenna, è nato
un amore e, pochi mesi dopo, appena ho ricevuto il visto per andare in
Oman ho deciso di venire in Italia: giusto per fare qualcosa contrario al
destino, quello scritto! Quell’amore è finito dopo un anno e mezzo di
vita qui, però, devo dire che appena sono arrivato in Italia ho
cominciato a scrivere prima in Francese, traducendo delle cose, non
pubblicabili certamente, che sono scomparse, e, poi, all’inizio degli anni
’90 – io sono arrivato nell’’87 – ho iniziato a scrivere seriamente.
Avevo questi racconti da parte e ho cominciato a partecipare ad alcuni
concorsi, spinto da persone che conoscevo, perché io non immaginavo
mai di poter pubblicare, essere pubblicato, letto, intervistato da te che ti
chiami Valentina…queste cose che sono successe dopo, non le avrei
mai immaginate. È stato, quindi, un po’ per caso, però il caso non esiste,
perché, come nel racconto di Borges, ogni incontro casuale è in realtà
un appuntamento, da questo punto di vista, il caso non esiste, nel senso
che una persona si sente spinta a fare qualcosa, nel mio caso la scrittura:
non siamo obbligati a scrivere, la scrittura è una cosa molto artificiale.
Per caso, quindi, sì, nell’economia generale, però se ci rifletto, con te, in
Tahar Lamri è uno scrittore algerino che vive a Ravenna dal 1986. Preceduto da
numerosi racconti, il suo primo romanzo, I sessanta nomi dell’amore, è stato pubblicato
nel 2006 da Fara Editore.
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Intervista a Tahar Lamri
questo momento, direi che c’era una spinta ben precisa che comprende
l’essere accettati, l’essere accolti, l’integrazione, tutto il progetto
migratorio, se vuoi.
Fedele: E come mai sei rimasto a Ravenna?
Lamri: Non lo so! Ravenna è davvero una palude quando poi ci si sta, è
difficile uscirne. Quando sono arrivato, non c’erano le leggi per
l’immigrazione, c’era la legge Martelli, che è stata fatta mentre io ero
già qui, non c’erano nemmeno tutti gli immigrati che ci sono adesso: mi
ricordo che andavo in questura per il rinnovo del permesso di
soggiorno, c’era questa persona che compilava i documenti con la
macchina da scrivere e c’ero solo io, non c’erano le file, non era come
oggi e non potevo stare qui se non sposato. Appena arrivato, quindi, mi
sono sposato, poi dopo un anno e mezzo ho divorziato e dopo ho
cercato di andare via, ma sono rimasto. Sul rimanere o meno in un
luogo, io credo che non abbiamo molta scelta, come esseri umani
intendo, nel senso che siamo sempre nel posto sbagliato, un po’ tutti.
L’immigrato ancora di più perché è una persona che non ha nessun
luogo, lo dicevano i greci a-topos. Forse per questo si parla molto di
abitare le lingue, cosa sulla quale ho un po’ di dubbi. Alcuni anni fa lo
scrivevo anch’io, ma ora ho dei dubbi, perché la lingua non è un luogo
fisico, è la lingua che ci abita in realtà. Se penso a come ho imparato
l’italiano, è chiaro che non ho mai abitato la lingua italiana, è sempre
stata la lingua italiana ad abitare me. In primo luogo perché la lingua
italiana l’ho imparata per strada: il mio percorso è molto diverso da
quello di uno della cosiddetta seconda generazione, che impara
l’italiano sui banchi di scuola, legge i classici sui banchi di scuola e poi
scrive. Uno come me, di prima generazione, si sposta, è immigrato,
mentre uno di seconda generazione non è immigrato, non ha mai
immigrato, non si è mai spostato, eredita la condizione se vogliamo,
perché gliela fanno ereditare: anche la frase “di seconda generazione” si
riferisce ad immigrato…se tu dicessi al figlio di un cieco “cieco di
seconda generazione” non avrebbe senso, sarebbe sbagliato, anche
perché il figlio di un cieco non è necessariamente cieco! Quindi dire al
figlio di un immigrato “immigrato di seconda generazione” è
assolutamente falso. Io ho imparato l’italiano per strada e poi ho letto i
classici, è un percorso molto diverso, importante da sottolineare in un
paese come l’Italia dove il canone è molto rigido, dove dopo che De
Sanctis ha scritto la storia della letteratura italiana l’ha fossilizzata in
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Intervista a Tahar Lamri
quel canone lì, tagliando tutte le espressioni regionali, perché era
necessario dare al paese, al territorio, una lingua che finisse insieme
all’Italia. Infatti, uno scrittore ticinese che scrive in italiano, non è uno
scrittore italiano…è molto strano ed è simbolico della rigidità del
canone. In realtà è la lingua italiana che mi ha abitato, sempre, a volte
anche con violenza: la lingua italiana si è insinuata nei miei sogni,
perché io, per esempio, è da tantissimo tempo che sogno in italiano. Un
po’ anche perché a Ravenna non c’erano algerini, all’inizio ero molto
scollegato dalla realtà degli altri immigrati, soprattutto miei
connazionali, non volevo vederli, mescolarmi con loro, volevo essere
integrato, anzi assimilato: è stata un’auto-assimilazione! Poi, quando
sono venuti più algerini ho cominciato a frequentarli e ho dovuto
davvero fare degli sforzi per recuperare i miei sogni. Adesso sogno un
po’ in algerino e sono molto contento di questa conquista, anche se poi i
sogni non sono volontari, ma forse lo sono un po’.
Fedele: Beh, però si dice che è quando cominci a sognare in una lingua,
che la padroneggi completamente…
Lamri: È vero! La lingua entra dentro di te, si insinua dappertutto, nel
tuo inconscio e, quindi, nei sogni. Però, mentre prima ne ero convinto
adesso non lo so, perché ho fatto un altro percorso e ho cercato di
recuperare i sogni e tutta la dimensione algerina che avevo cercato di
dimenticare, ma che invece è molto importante. C’è stata in questo
senso una specie di auto-mutilazione, necessaria se vuoi per poter
scrivere tranquillamente con la mente sgombra dalla nostalgia, intesa
come i greci come nostos e algos, dolore del ritorno. Si scrive meglio
almeno le prime opere, i primi racconti – perché è una ricerca, perché è
una sperimentazione – si scrive meglio se si ha la mente sgombra dalla
nostalgia, così non si magnifica il passato: a volte si magnifica il
presente, però è sempre meglio che magnificare un passato che in realtà
non esiste e diventa un po’ biblico, una terra promessa, che non ha
niente a che fare con la realtà.
Fedele: Nella definizione di letteratura della migrazione non tutti gli
scrittori si riconoscono: Abdelmalek Smari la considera diminutiva
della qualità letteraria dei lavori degli scrittori migranti; Amara Lakhous
la considera un appellativo congruo per definire un uso della scrittura
che comporta inevitabilmente il richiamo ad un bagaglio culturale
“migrante”. In un’intervista tu hai dichiarato che, invece, si può
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Daedalus 2012
Intervista a Tahar Lamri
rivendicare la dicitura letteratura migrante se questa fa riferimento però
ad un percorso personale, legato non tanto allo spostamento fisico,
quanto al superamento di un confine, arrivando ad includere, se ho ben
inteso, anche la letteratura dialettale che supera i confini del canone…
Lamri:…anche letteratura non dialettale, come Claudio Magris che si
richiama, per esempio, alla tradizione mitteleuropea. La questione della
letteratura della migrazione passa da diverse fasi. Molti di quelli che
dicevano di non voler essere riconosciuti come scrittori migranti hanno
visto che non conveniva essere scrittori italiani tout court e sono tornati
a riconoscersi nella letteratura della migrazione. É un’etichetta e il
problema delle etichette è sempre quello: servono per indicare qualcosa,
per poterla studiare, ma se la fossilizzano, rappresentano un problema.
Il problema delle etichette è che si appongono su cose mutevoli. Ci sono
poi delle scuole, tra virgolette: quelli che sono vicini ad Armando
Gnisci rivendicano fortemente l’appellativo di scrittura della
migrazione, perché è lui che la ha teorizzata, che ne parla, che parla di
creolizzazione. Forse la domanda da porsi è: esiste o no una letteratura
nazionale? Questo va al di là della migrazione. È chiaro che la
migrazione, in quanto movimento, mette in dubbio lo stato nazionale,
inteso come invenzione di sé ed esclusione degli altri: l’abbiamo visto
nel fascismo e nel nazismo. Le letterature nazionali esistono o no? Se
guardiamo alla letteratura, se guardiamo gli stili letterari attraverso la
storia troviamo che non esiste una letteratura nazionale. Si pensi
all’impatto della scrittura di Dante sulla letteratura europea, non solo
sulla letteratura italiana, e Dante è quello che dà finalmente ad un
territorio una lingua, esce dal latino, esce da altre lingue canoniche e
scrive in volgare ed è stato il primo, poi seguito dagli altri, e poi ogni
paese ha cominciato a scrivere nella propria lingua. Prima di questo in
Europa era impensabile: le uniche due lingue esistenti erano l’Arabo e
l’Ebraico, nelle quali si scriveva prima di Dante, nessuno scriveva in
Italiano o in Francese. C’erano i trovatori che cantavano in una lingua
mista di latino, una specie di lingua franca. Infatti, se pensiamo alle
lingue d’oc e d’oil, per chiamarle si utilizzava il termine che
corrispondeva al sì: sono definite così perché in una zona per dire sì, si
utilizzava oc, nell’altra oil. E in latino non c’era il sì, c’era sic che vuol
dire è così, ma non c’era il sì come adesso, come yes, oui, etc. Quindi
già chiamare queste lingue all’inizio era problematico. La questione
della letteratura della migrazione pone problemi che vanno al di là della
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Intervista a Tahar Lamri
migrazione. Io non credo nella creolizzazione, non so nemmeno che
cosa significa: è un’idea che è stata mutuata dai caraibici, come
Glissant, che parlano molto di creolizzazione, ma l’idea di creolizzare
l’Europa non mi convince molto, perché il creolo era la lingua degli
schiavi bianchi, i poveri delle regioni francesi, per esempio, che poi è
passata agli schiavi neri che non potendo comunicare fra loro, non
avendo la lingua comune, adottarono questa lingua. Sposandosi tra di
loro hanno creato una classe, quella dei meticci che non erano liberi e,
quindi, la creolizzazione, come idea, la trovo un po’ tirata per i capelli.
Tant’è vero che io scrivo in Italiano o in Francese o in Arabo, non posso
prendere queste tre lingue, mischiarle, creare una lingua nuova e poi
imporla all’Italia. È impossibile…
Fedele: É possibile una contaminazione però, l’utilizzo di alcune parole
per esempio in arabo…
Lamri: Questo è possibile. Ma io non sono nemmeno d’accordo con
Amara Lakhous che dice di italianizzare l’Arabo e arabizzare l’Italiano,
per me non ha senso. Perché non si può né italianizzare l’Arabo, né
arabizzare l’Italiano: è un processo lento e lungo. L’Italiano contiene
tantissime parole arabe, che sono però arrivate nei secoli. L’Arabo
contiene alcune parole italiane: in Egitto, nel dialetto egiziano, si usa
robivecchi per indicare le cose vecchie, perché gli immigrati italiani
facevano appunto compravendita di cose vecchie e dicevano, passando
con i loro carretti, “robivecchi! robivecchi!”. Nel dialetto algerino, ci
sono parole turche, francesi, berbere, latine, che indicano il passaggio di
tante popolazioni sull’Algeria. Ma poi italianizzare l’Arabo e arabizzare
l’Italiano… non vedo nemmeno il perché…cioè non capisco nemmeno
la finalità.
La letteratura della migrazione pone tantissime problematiche che
vanno al di là delle contaminazioni che si possono fare, ma devono
essere prima di tutto limitate: io non posso contaminare nemmeno il
40% di un testo, perché per essere comprensibile la contaminazione non
può superare l’1%, a meno che uno non sia un genio che inventa una
lingua nuova facilmente e immediatamente comprensibile a tutti!
L’etichetta letteratura della migrazione rinvia all’immigrazione, allo
spostamento, al viaggio e, quindi, nella nostra mente di uomini di oggi,
a persone che fuggono dalla guerra, dalla povertà e che vanno verso
paesi che sono più ricchi. Non è esattamente così, perché ci sono
scrittori di origine italiana, che scrivevano in francese, ma vivevano in
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Daedalus 2012
Intervista a Tahar Lamri
Marocco, completamente sconosciuti in Italia; ci sono scrittori poeti
della comunità italiana di Tunisi; c’è Kavafis, che era della comunità
greca di Alessandria, però scriveva in greco. Nel corso della storia ci
sono stati molti scrittori che scrivevano non esattamente nel proprio
territorio, ma nel loro territorio di elezione, o, comunque, in un altro
territorio, ma anche in una lingua che non era la loro. Conrad era
polacco e ha scritto dei capolavori in inglese, magari non avrebbe mai
pensato di scrivere in inglese quando si è imbarcato sulle navi in inglesi.
Questa non è solo storia di oggi, Conrad come lo vogliamo chiamare:
letteratura della migrazione, letteratura inglese, letteratura polacca,
letteratura del mare, letteratura coloniale, letteratura post coloniale?
Fedele: E allora come definiamo la letteratura della migrazione?
Lamri: È quello il punto! È molto difficile. È stata definita negli ultimi
vent’anni per comodità, non certamente per fossilizzarla, per erigere
barricate. L’Europa ha problemi con l’altro, in Europa nasce il
nazionalismo, ha problemi con l’altro in questo senso qui. In Francia
tutti quelli che non sono francesi rientrano nella definizione letteratura
francofona, perché è letteratura francofona un libanese che scrive in
francese? Per quale motivo? Perché è più comodo fare così, fare la
differenza tra la letteratura de souche, franco-francofona e la letteratura
scritta da un africano, cosa che gli inglesi non hanno, perché ci sono
motivazioni storiche. Gli americani non sono così: i russi che negli
ultimi anni hanno avuto tanto successo in America non sono stati
chiamati letteratura della migrazione, ma letteratura e basta, tra l’altro
letteratura di consumo, nemmeno letteratura di nicchia. Molti paesi,
l’Olanda, la Norvegia, i paesi nordici hanno scrittori che scrivono da un
po’ nelle loro lingue nazionali, ma non li chiamano letteratura della
migrazione, non li chiamano in nessun modo, li chiamano con i loro
nomi e basta. Kader Abdolah è uno scrittore che scrive in olandese, per
loro è uno scrittore olandese tanto che, quando hanno fatto il
referendum nel 2007 su quali fossero gli autori olandesi più importanti è
venuto fuori come primo Multatuli, che è come dire Dante qui, e per
secondo Kader Abdolah, che scrive da nemmeno 20 anni in olandese. E
poi scrive solo storie che riguardano l’Iran, nemmeno storie che
riguardano l’Olanda: “Il messaggero”, “La casa della moschea”, tutte
storie che riguardano l’Iran, perché storicamente l’Olanda non si pone
problemi di questo tipo. Devo dire che i paesi protestanti si pongono
meno problemi dei paesi cattolici, che si pongono più problemi con
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Daedalus 2012
Intervista a Tahar Lamri
l’altro, con la definizione dell’altro, forse, perché sono stati paesi in cui
ci sono state eresie e l’altro è stato sempre problematico. Tanto è vero
che uno come Carmine Abate, che è uno scrittore italiano secondo me,
poiché viene dalla comunità arbëreshë, anche se non scrive in arbëreshë,
è inserito nella letteratura della migrazione…sono i suoi antenati che
sono immigrati dalla Albania per venire in Calabria nell’epoca
ottomana! E viene messo non so per quale motivo nella letteratura della
migrazione. Un arbëreshë che viene dalla Piana degli Albanesi, che ha
anche un nome italiano, come fa a essere inserito nella letteratura della
migrazione? C’è un problema con l’altro più che un problema di
letteratura…
Fedele: Però per te è ancora valida come definizione…
Lamri: Rimane valida come definizione di letteratura di frontiera, di
una specie di frontiera nella quale c’è Salman Rushdie, Amin Maalouf,
ci potrei essere io, c’è Amara Lakhous, c’è Claudio Magris, Luigi
Meneghello, per certi versi Vincenzo Consolo, persone che sono nelle
frontiere, dove c’è Stefano D’Arrigo, che non rientra nel canone italiano
ed è accusato di essere troppo siciliano. Questi non sono problemi di
letteratura ma di critica letteraria, di accademia, e non è la stessa cosa.
Fedele: Qual è il contributo di questa letteratura alla letteratura italiana,
soprattutto in relazione ad un canone che se all’inizio riconosceva la
letteratura dialettale ha finito per accantonarla?
Lamri: Mah, forse si è chiamato qualcosa troppo frettolosamente
letteratura della migrazione in Italia. Ci sono libri scritta da immigrati,
ma non credo che ci sia ancora una letteratura, intesa come corpus ben
preciso. Ancora è presto per dirlo. Il contributo futuro si spera sarà di
partecipare a formare un nuovo immaginario – questa è la funzione
della letteratura – e aiutarci a vivere insieme. La società italiana si è
aperta tantissimo, non è vero che si è chiusa; si apre, ma non lo sa, ci
sono aperture, fessure, interstizi…ed è normale che sia così, perché non
può essere diversamente, che sia la società italiana o un’altra. Per dare
solo un esempio, non letterario perché la letteratura ha tempi molto
lunghi, solo dieci anni fa gli studi sociologici parlavano dell’invenzione
del fast food, di contro è nato il movimento dello slow food, ma nessuno
aveva previsto l’arrivo del kebab che si è installato nelle pizzerie ed è
entrato nelle abitudini degli italiani. Qualche sindaco ha voluto vietarlo
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Daedalus 2012
Intervista a Tahar Lamri
nel centro storico, ma poi i ragazzi italiani hanno deciso diversamente.
Questa è la seconda cosa a cui partecipa la letteratura, seppur
marginalmente visto che la letteratura nei nostri tempi non ha più
quell’impatto che aveva una volta, perché la narrazione quotidiana del
sé avviene altrove, nei giornali, nelle televisioni oppure in grandi
affreschi, se vogliamo, reportage letterari, come nel caso di Gomorra.
Questo esempio è molto significativo: tratta di una zona di cui si parlava
poco, o comunque in un certo modo, solo sui giornali, l’autore ha messo
insieme una narrazione e l’Italia vi si è riconosciuta. Invece, la
letteratura tout court ha dei tempi lunghissimi: se la mettiamo in
relazione con i figli degli immigrati che non sono altro che italiani con
cognomi rumeni, algerini, albanesi, allora si capisce l’impatto che ci
può essere sui giovani. Sui grandi, sulla prima generazione, io vedo che,
anche se marginalmente, sapere che c’è qualcuno che parla a nome tuo,
anche se non dice esattamente le cose che ti raccontano, saperlo è una
specie di occasione di successo. Tante volte in tanti incontri letterari a
cui ho partecipato personalmente c’erano marocchini e tunisini – gli
algerini in Italia non sono molti – e si sentivano veramente
rappresentati: ecco finalmente un immigrato che non corrisponde
all’immigrato inventato nella cronaca nera dei giornali, ma un
immigrato che è quasi un italiano, che però è come me e, quindi, dice le
cose che io non so dire, perché non è il mio lavoro, perché sono, non so,
un manovale, un operaio. Tantissimi mi presentano i loro figli, sono
felici di presentarmeli, come a dire: “Speriamo che anche questi figli
possano essere come te”.
Fedele: La costruzione di un nuovo immaginario attraverso la
letteratura della migrazione è molto interessante considerando la storia
linguistica italiana, dove appunto la lingua ha preceduto il popolo…
Lamri: Gli italiani partecipano anche loro a questa costruzione. Per
ritornare alla questione del kebab, a Roma dicono il kebbabaro che è
una parola che tre anni fa non c’era e adesso lo dicono tutti, è una parola
contaminata. Sono queste le grandi contaminazioni che si impongono a
tutto il popolo: le parole della letteratura sono parole riservate ad un
numero relativo di persone, mentre nella lingua italiana entrano alcune
parole piano piano, un po’ anche perché i giornali e le televisioni le
riprendono e, quindi, si diffondono.
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Daedalus 2012
Intervista a Tahar Lamri
Fedele: Rispetto ancora alla letteratura migrante, gli studiosi del settore
mettono in evidenza da un lato tre fasi nel suo sviluppo - una prima in
cui prevale la testimonianza scritta a quattro mani, una seconda in cui lo
scrittore migrante si autonomizza e vengono anche prodotti generi
diversi e una terza fase in cui vi è l’ingresso nel panorama della
letteratura migrante delle cosiddette seconde generazioni- dall’altro che
proprio la convergenza dei temi tra prima e seconda generazione è una
caratteristica propria della letteratura migrante italiana. Cosa ne pensi?
C’è secondo te davvero questa convergenza e come si articola? E cosa
pensi dei romanzi della seconda generazione che hanno come tema
l’islām, come quelli di Randha Ghazi o Sumaya Abdel Qader?
Lamri: La situazione è come la descrivi, ma non dovrebbe essere così.
Non dovrebbe essere così perché tutto quello che hai detto è il segno
della dismissione totale degli scrittori italiani. Normalmente la tematica
dell’immigrazione non è monopolio degli immigrati. C’è una società e
si scrive della società che si ha intorno, ma nella letteratura italiana
troviamo pochissima immigrazione e spesso scritta con degli stereotipi,
che non hanno niente a che fare con la realtà, col progetto migratorio,
con gli immigrati stessi. Quindi è un po’ la letteratura italiana che non è
nella realtà quotidiana dell’Italia e non so per quale motivo. Gli
immigrati non devono parlare necessariamente degli immigrati, un
immigrato può parlare di qualsiasi cosa e, se è uno scrittore, se pretende
di essere uno scrittore a tutto campo, non della migrazione, dovrebbe
scrivere di qualsiasi cosa. Le fasi che hai descritto sono più o meno
reali, nel senso che all’inizio ci sono stati tre scrittori Pap Khuma,
Mohamed Bouchan e Salah Metani, che, credo sollecitati da scrittori
italiani, hanno raccolto le loro testimonianze che sono state pubblicate e
le case editrici italiane hanno messo prima il nome dell’italiano e poi il
nome dell’immigrato, giusto per! Però allo stesso tempo non è
esattamente così: Jarmila Ockayova, per esempio, che era cecoslovacca
- c’era la Cecoslovacchia quando è venuta qui - scrive da sempre in
italiano, da sola, a livello altissimo e non ha mai avuto bisogno né di
testimoniare, né di scrivere la sua autobiografia, ma scrive la sua
letteratura nella pura tradizione boema se vogliamo, cui appartiene
Milan Kundera. Non sono, perciò, fasi così rigide: ci sono altri che
scrivevano e che solo poi sono diventati scrittori della migrazione,
mentre prima non lo erano, ma erano solo scrittori cecoslovacchi che
scrivevano in italiano, che sono diventati scrittori della migrazione,
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Daedalus 2012
Intervista a Tahar Lamri
perché ci vuole una scansione, una etichettatura etc. Per quanto riguarda
la cosiddetta seconda generazione, anche lì il problema è complesso,
perché ci sono quelli che sono nati qui, quelli che sono arrivati
successivamente e conoscono quindi anche la realtà del paese da cui
vengono i genitori, sono immigrati piccoli, non hanno scelto la
migrazione e poi ci sono i figli dei matrimoni misti: Gabriella Kuruvilla,
per esempio, ascritta alla seconda generazione, non è di seconda
generazione, ha il padre indiano e la madre italiana e lei è milanese,
solo che ha il padre indiano. Naturalmente scrive in italiano, perché è
sempre stata qui, è cresciuta qui, indipendentemente dal fatto che il
padre sia indiano o meno, perché lei è milanese, successivamente ha
recuperato delle questioni indiane, scrive dell’India, ma lo può fare
anche chi non ha il padre indiano. Anche Layla Wadia, un’altra indiana
viene erroneamente messa con le seconde generazioni, visto che a volte
le seconde generazioni sono intese in senso anagrafico, uno emigra, ma
se è giovane è di seconda generazione! Layla Wadia è immigrata, si è
spostata dall’India in Italia, solo che aveva trent’anni, credo, e, quindi,
l’hanno messa con la seconda generazione: è una seconda generazione
embedded, come i giornalisti con l’esercito americano. E quindi c’è
anche una specie di confusione, una semplificazione. È il rapporto degli
scrittori italiani con questi temi che fa sembrare che ci sia una
convergenza di temi che, in realtà, non c’è. Non devi essere tibetana per
scrivere del Tibet, potresti tranquillamente scrivere del Tibet,
ambientando nel Tibet qualcosa…o sei campana di origine e niente ti
impedisce di ambientare un tuo romanzo in Emilia Romagna e non
sarebbe letteratura di viaggio, ma letteratura e basta. Il fatto che gli
scrittori italiani non si occupino di questo tema, che è un tema attuale,
non è un tema che riguarda gli immigrati, è un tema mondiale che
riguarda, appunto, la mondializzazione e i popoli che si spostano, le
merci, la finanza, è incomprensibile! Al massimo scrivono dei gialli o
dei noir, nei quali normalmente c’è un albanese o un rumeno, perché i
giornali sono pieni di questo, e questo fa sembrare che gli scrittori di
prima, seconda e terza generazione abbiano temi convergenti, ma non è
vero, è solo una prospettiva deformata. Anche in Italia prima e seconda
generazione sono diverse! L’età cambia, l’esperienza cambia: se uno è
bambino in Italia ha un’esperienza totalmente diversa da uno che è
bambino ad Algeri.
Per la questione dell’islām ho difficoltà a rispondere a questa domanda
perché io li trovo artificiali, trovo brutti anche i titoli Metto il velo e
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Daedalus 2012
Intervista a Tahar Lamri
ascolto i Queen e che c’entra? Qual è il nesso fra i Queen e il velo, non
riesco a vederlo, anche perché nessuna donna in Algeria o in Egitto
nessuna donna che mette il velo, si porrebbe questa domanda. Si sono
sempre ascoltati i Queen o i Rolling Stone o i Beatles nei nostri paesi!
Io ho tantissime amiche che all’epoca mettevano il velo e ascoltavano i
Beatles, con le mamme che non sapevano leggere e scrivere con il velo,
che ascoltavano, magari amavano anche queste musiche…non riesco a
vedere il nesso!
Fedele: Credo che sia nel tentativo di decostruire l’immagine della
donna musulmana che se rivendica la propria identità religiosa, non può
avere una vita normale e ascoltare, per esempio la musica…
Lamri: Infatti…e non vedo il nesso! Essere musulmani non impedisce
assolutamente nulla di quello che si fa normalmente! Guarda ti racconto
la storia di un mio amico senegalese per farti capire cosa voglio dire. I
senegalesi spesso anche qui mettono il bubu… soprattutto dopo il
lavoro, per sentirsi a loro agio e anche perché, se è caldo, stanno più
freschi. Allora, un giorno il mio amico senegalese mi racconta che
messo il suo bubu, esce ed incontra un suo collega di lavoro che gli
dice: “Ah!guarda! Sei vestito all’islamica oggi!”. E il mio amico
senegalese lo guarda e gli dice: “Io non ho mai pensato che tu fossi
vestito alla cattolica!”.
Perché un cattolico non si pone la questione di ascoltare o meno i
Queen e un musulmano si? Lo trovo assolutamente fuori luogo! Perché
bisogna rispondere alle domande false? Se dei preti dicono che
ascoltando i dischi rock al contrario si sente la parola satana,
un’assurdità, io non capisco nemmeno perché si dovrebbe ascoltare
all’incontrario un disco, non saprei neanche come fare, io non lo trovo
molto diverso da quello che dice Bin Laden e non capisco perché un
musulmano normale, una donna musulmana, che magari, per scelta, si
mette un velo, debba rispondere a queste cose e dire che a lei piacciono
i Queen! A parte il fatto che non è interessante, non vedo che cosa porti
anche nella decostruzione anzi, potrebbe essere dannoso, potrebbe
indurre a dire “Lei ascolta i Queen, invece quell’altra non li ascolta”
quindi trasformare in un valore ascoltare i Queen! Per me non è un
valore, potrebbe piacermi più Fadil al-Atrash che i Queen o Umm
Kalthum, che secondo me è superiore ai Queen.
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Daedalus 2012
Intervista a Tahar Lamri
Fedele: Passando ai temi dei tuoi racconti, ne I sessanta nomi
dell’amore, insisti molto sul rapporto tra scrittura e oralità, quest’ultima
un topos della letteratura araba in generale, come l’analfabetismo, che
essendo nella tradizione la condizione del Profeta al momento della
rivelazione del Corano, riferimento primo nella costruzione della lingua
araba, diventa sinonimo dell’essere letterati puri. In cosa la tradizione
della letteratura araba, sia nello stile che nelle immagini, influenza i
tuoi scritti?
Lamri: Più che di letteratura araba parlerei di letteratura magrebina.
Nella nostra regione c’è stata una rielaborazione della letteratura araba,
l’abbiamo ricevuta un po’ per echi, ma non siamo a pieno dentro la
letteratura araba. La letteratura araba poi è essenzialmente poesia, non
siamo così imbevuti di poesia araba, come lo può essere un palestinese,
un giordano, un siriano. Loro sono veramente imbevuti di letteratura
araba, anche perché ce l’hanno lì: se tu vai in Siria vai a Maarat alNuman e lì c’era al-Maari, Abu Faraj al Hamadani girava ad Aleppo, è
come dire Dante tra Firenze e Ravenna! Nel Maghreb è diverso: prima
di tutto siamo in Africa e questa è una cosa che esiste, è una cosa che
storicamente è esistita ed è stata molto forte, ma è stata dimenticata: se
guardi la letteratura magrebina, l’Africa non la trovi, perché gli occhi
sono tutti rivolti al Mediterraneo o all’Europa, soprattutto quelli di
coloro che scrivono in francese, ma anche di chi scrive in arabo. Si
parla di Mediterraneo e di Europa, mentre la dimensione africana è
totalmente assente.
Fedele: Perché?
Lamri: Per il colonialismo, per una certa taba’iya …non so come dire
in italiano: diceva ibn Khaldun che il colonizzato segue sempre il suo
antico padrone, e un po’ per essere mediterranei, anche se, in fondo,
mediterranei non è nemmeno giusto, visto che i marocchini sono
sull’Atlantico! Io ne Il pellegrinaggio della voce ho cercato di
recuperare l’oralità – un po’ i proverbi di mia madre, un po’ la figura
del griot – e ho voluto proprio finire il racconto in Africa, per dire che
forse è ora che la dimensione dell’Africa sia recuperata nella nostra
letteratura. Lo scrivo in italiano ed è un po’ comico, perché l’italiano
non lo legge nessun magrebino: e nemmeno questo è del tutto vero!
Sono andato ad Algeri a tenere una conferenza all’Università e ho visto
che gli studenti di Italiano con cui ero andato a parlare erano molto
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Daedalus 2012
Intervista a Tahar Lamri
sensibili a questo tema, lo sentono molto, anche perché storicamente i
libri viaggiavano tra Timbuctu, Cinghetti, Fez, il sud dell’Algeria, le vie
del pellegrinaggio, ma anche questo è stato dimenticato. Quando ero
piccolo ad Algeri andavo sempre al suq a sentire il meddah, il nostro
griot, che racconta le storie, ma non è come il griot senegalese che ha
una funzione ben precisa, piuttosto è un cantastorie. Quando sono
arrivato in Italia e ho incontrato la cosiddetta civiltà, la civiltà
tecnologica, mi sono reso conto che anche qui era uguale, dalla
tradizione dei pupi siciliani, alla tradizione di tutti i cantastorie che
venivano nelle stalle a raccontare e, vedi, tutto ciò è legato in un certo
senso. Il fascino della civiltà avanzata, della tecnologia, etc. fa si che
tutte queste cose sembrano legate alla povertà, al mondo contadino, che
bisogna rinnegare!
Più che immagini arabe, quindi, sono immagini un po’ legate
alla mia infanzia, un po’ al fatto di essere africani, comunque di essere
in Africa, anche se ce lo dimentichiamo spesso. Il pellegrinaggio della
voce ad esempio, è un testo che ho scritto per leggerlo ad alta voce,
infatti, quando lo leggi a bassa voce, è un po’ astruso. Non è da tanto
tempo che gli esseri umani leggono a voce bassa: se Sant’Agostino, che
tra l’altro veniva dall’Algeria, scrive che entrando nella stanza di
Sant’Ambrogio, lo vede immerso nella lettura, senza muovere le labbra,
ed è così stupito che lo scrive nelle Confessioni, il che vuol dire che
Sant’Ambrogio faceva una cosa molto strana e all’epoca tutti leggevano
a voce alta. E lì nel racconto, dove parlo dei denti, uno con un dente,
due denti, tre denti, quattro denti, fino ad arrivare a sette senti, quando
lo leggevo le persone mi facevano sempre domande su questa questione
dei denti, e io cercavo sempre di trovare delle risposte un
po’…intellettuali. Noi amiamo ammirarci, invece spesso se uno scrive,
non sa perché scrive una cosa o un’altra, delle volte succede che uno
non sia padrone della propria scrittura, almeno non sempre. Un giorno
nella provincia di Milano ho fatto questa lettura e mi hanno fatto una
domanda sui denti e io ho cercato di dare una risposta e una signora
anziana che era lì mi ha detto: “Guardi non è vero, non è così! La
risposta non è così! La risposta vera è che io mi ricordo quando
venivano delle persone a raccontare storie e avevano pochi denti nella
bocca!” E io ho detto: “Signora guardi mi ha dato veramente la
risposta, mi ha dato proprio la risposta che io cercavo da anni!”. La
cosa strana è che io ero ad Algeri e lei a Milano e ha risposto a una
domanda che veniva dal fondo dei miei ricordi d’infanzia. Questo lo
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Daedalus 2012
Intervista a Tahar Lamri
trovo straordinario e lo può fare l’oralità non la scrittura. Come diceva
Platone, il libro è antipatico perché se gli fai una domanda non ti
risponde, non è come il poeta che se gli fai una domanda ti risponde
perché è lì davanti a te.
Fedele: Tahar ben Jalloun dice che se scrivesse in arabo scriverebbe dei
pessimi racconti e tu stesso metti in evidenza che l’arabo in quanto
lingua del Corano inibisce il suo uso in un ambito profano: tu scriveresti
in un’altra lingua?
Lamri: Io in arabo scriverò, non so quando, perché io non produco
molto. In arabo letterario, perché è l’unico che si legge, tutti sanno
leggere l’arabo letterario: al-Jazeera è solo in arabo classico e la
capiscono tutti. Tahar ben Jalloun ha dato una risposta lì, che non ha
molto senso. Biassin ha dato una splendida risposta invece: le hanno
chiesto perché scrivesse in francese e lei ha detto: “Il francese è un
bottino di guerra e io del bottino di guerra faccio quello che voglio
compreso scrivere!” Poi Tahar ben Jalloun risponde ad una domanda
che fa a se stesso, perché poi non è vero che c’è tutta questa
contestazione sulla scelta della lingua. Gli scrittori magrebini sentono la
necessità di rispondere a delle domande immaginarie, anche con dei
libri anche L’amore bilingue di Khatibi è una risposta ad una domanda
immaginaria, perché si sentono un po’ in colpa nello scrivere nella
lingua del colonizzatore. Noi abbiamo forte il senso del tradimento, che
chiamiamo con una frase che significa vendere la propria religione.
Quando uno prende la cittadinanza francese, gli viene detto “hai
venduto la tua religione”, è molto significativo. Non è che ci sia tutta
questa contestazione popolare se uno scrive in francese, tanto è vero che
tanti scrittori che scrivono in francese vivono lì, Tahar ben Jalloun vive
in Francia, non in Marocco, Raschid Mimouni, invece, viveva in
Algeria e scriveva esclusivamente in francese e, molto più vicina a noi,
Yasmina Khadra scrive in francese e nessuno mai l‘ha contestata o le ha
chiesto perché.
Fedele: E questo non determina un impoverimento della letteratura in
arabo?
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Daedalus 2012
Intervista a Tahar Lamri
Lamri: No, la letteratura in lingua araba ha il suo percorso che non ha
niente a che fare con la letteratura in un’altra lingua. Ci sono questi
veicoli, questi mezzi, che sono le lingue e ognuno scrive nella lingua
che gli è più consona, che gli piace di più, che gli suona meglio, nella
quale, poi, forse sente di esprimersi meglio: quando mi esprimo in
Italiano è ovvio, è chiaro, che le cose che esprimo le esprimo soltanto in
Italiano, non ha niente a che fare con l’Arabo, non è possibile
trasportare dei sentimenti dall’Arabo all’Italiano, perché la lingua non
lo consente e neanche dal Francese che è una lingua sorella
dell’Italiano. La letteratura araba ormai è quasi inesistente perché la
gente sono anni che non legge letteratura: dagli anni ’90 si legge
letteratura religiosa, che sta diventando sempre più forte, poi ogni tanto
c’è qualche successo, che è più un successo in occidente, che nei paesi
arabi. Palazzo Yacoubian di ‘Ala al-Aswani è stato scritto, tra l’altro
utilizzando molto il dialetto egiziano, e ha avuto successo perché
pubblicato a puntate sul giornale e poi è stato raccolto in un libro che ha
avuto un po’ di successo in Egitto, ma non molto fuori. Poi è stato
tradotto in tante lingue ed è ovvio che con l’aura del libro tradotto, è
andato meglio, ma non si può dire che nasce da un grande successo
arabo. Da alcuni anni manca una produzione letteraria in arabo. Ci sono
sicuramente scrittori come Ibrahim al-Koni, che vive in Svizzera, ma
scrive in arabo ed è libico; ci sono i libanesi come Khouri Elias che ha
scritto La porta del sole sulla Palestina che ha avuto successo anche nei
paesi arabi, ma perché la questione palestinese è particolare. Ci sono
però gli intellettuali arabi che non necessariamente sono letterati, così
come non tutti i letterati sono intellettuali: quando era vivo Edward
Said, aveva una rubrica quotidiana nel giornale al-Hayat ed era una
delle più lette, perché era un grande intellettuale arabo- americano che
parlava di questioni che interessano la vita quotidiana delle persone e
anche il direttore del giornale al-Quds al-Arabi Atwan, quando parla è
molto, molto ascoltato in quanto intellettuale e giornalista e da qualche
tempo anche Azmi Bishara soprattutto in queste ultime rivoluzioni in
Tunisia e in Egitto. Oggi abbiamo un metodo per vedere il successo
delle persone che è facebook, contando quante persone condividano e
clicchino e Bishara è uno dei più cliccati. La letteratura in questo
periodo non ha una funzione, non riesce ad avere la funzione della
contestazione, che sarebbe quella che serve in questo momento, non ha
fatto nulla contro i dittatori, non è stata una letteratura diciamo di
protesta e, quindi, la gente non l’ha sentita e gli arabi non sono ancora
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Daedalus 2012
Intervista a Tahar Lamri
nella letteratura di evasione, non sono arrivati a quella fase lì, ma se
continuano le rivoluzioni arriverà anche la letteratura.
Fedele: Pensi che la letteratura della migrazione possa avere un impatto
sulla letteratura araba? Alcuni lavori di Lakhous sono stati tradotti in
arabo …
Lamri: No, non credo perché Lakhous le scrive personalmente, le
diffonde anche con una bella casa editrice, ma scrive in Arabo e riscrive
in Italiano quello che ha scritto in Arabo ma non è che siano tradotti.
Anche Tahar ben Jalloun, per parlare di cose più consolidate, perché
l’Italia è ancora un po’ marginale e chi scrive in Italiano risente della
marginalità della lingua italiana, anche Tahar ben Jalloun quando viene
tradotto è letto nelle Università, non è una cosa popolare, non è ancora
il momento. Poi, sai, gli arabi, come tutti, leggono i best seller tradotti
in arabo, compresi ma non solo quelli arabi. Oltre alla letteratura
religiosa si leggono molti saggi, perché c’è bisogno di capire quello che
succede nel mondo, saggi di politici, giornalisti, perché non è come in
Sud America dove, per esempio, la letteratura è stata fondamentale
anche nella lotta contro le dittature. I nostri letterati si sono un po’
accomodati con i dittatori, non abbiamo un tunisino letterato che ha
scritto qualcosa contro la dittatura tunisina e, quindi, la gente gli si è
stretta intorno. C’è un po’ in Siria, ma poco, molto marginale e molto
siriano. Non c’è nemmeno quello che fa il cinema iraniano, ad esempio,
che racconta delle cose senza essere diretto e la stessa letteratura
iraniana lotta come in America Latina.
Fedele: Secondo te è identificabile un’unità culturale mediterranea, un
discorso mediterraneo letterario comune?
Lamri: Perché no? Però ti rispondo perché no, non ti posso rispondere
sì! Io non riesco a considerare una letteratura di espressione francese
veramente una letteratura algerina o marocchina, parla di questioni, ma
non parla nella lingua del popolo, parla nella lingua d’élite. Sì, quindi,
per la sponda nord del Mediterraneo, nel sud Italia, nel sud della
Francia, un po’ la Spagna, un po’ la Jugoslavia, perché ci sono ci sono
anche libri che non sono di fiction, tipo di Amin Maalouf, Jean Claude
Izzo, ma nella sponda sud molto meno.
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Daedalus 2012
Intervista a Tahar Lamri
Una volontà sicuramente c’è stata, ma non è sfociata in un dialogo vero
e proprio. Sai perché? Se io sono mediterraneo, se sono a sud, mi
conviene, perché mi mette immediatamente anche nella sponda nord,
ma pochi che sono nella sponda nord dicono lo stesso, perché nel
momento in cui dici di essere mediterraneo, diventi immediatamente
libanese, turco, algerino. Per questo parlo di espressione linguistica: chi
scrive in francese fa già un’operazione di avvicinamento ad un’altra
sponda e, quindi, è estraneo al popolo.
Fedele: Rimanendo sul Mediterraneo, ma da un altro punto di vista, in
una tua intervista dici che nello scrivere in italiano senti la
responsabilità di quanti su questo mare, diventato una fossa comune,
non hanno voce. Cosa ne pensi di quello che succede a Lampedusa?
Lamri: Chi si autoproclama scrittore, appartiene ad un gruppo di pochi
privilegiati che hanno diritto alla parola, hanno diritto al microfono,
hanno diritto alla penna, hanno diritto di essere pubblicati etc., e quindi,
in un certo senso, dovrebbe parlare anche di chi non ha accesso alla
parola. Non succede, non avviene, perché noi, in quanto letterati della
migrazione, non abbiamo mai detto una parola né sui rom, quando i rom
erano sotto attacco, né sulle campagne mediatiche contro gli albanesi o
contro altre popolazioni. Noi non abbiamo mai detto niente o preso una
posizione insieme perché, appunto, ti dicevo prima, si è parlato troppo
presto di una letteratura, di un movimento, che non esiste in realtà.
Quello che succede è…sono paralizzato nel pensiero: cosa si può
pensare? Ti rinvio la domanda…cosa si può pensare? A livello
individuale ci sono cose belle: a Lampedusa hanno fatto un cuscus per
tutti i tunisini arrivati, non l’abbiamo visto per televisione, ma
l’abbiamo visto su you tube. Ora però i giovani si stanno ribellando, per
esempio in Spagna, rispetto a questo modo di gestire il mondo, a questo
modo un po’ nazista di gestire il mondo, in generale di svuotare il
mondo e vivere sui debiti, su questa crescita insostenibile. I giovani
europei non sono molto contenti ed hanno salutato con molto calore le
rivoluzioni in Egitto ed in Tunisia, però è molto difficile avere dei
pensieri lucidi su quello che succede, molto difficile. Basta pensare ai
respingimenti, al respingere una persona, se fosse solo a livello
individuale, lasciando stare la gestione politica: io vengo a casa tua e tu
senza nemmeno sapere cosa voglio mi respingi. Era una cosa che mi ha
molto colpito i primi anni che ero qui, come la gente rispondeva ai
Testimoni di Geova che venivano a bussare nelle case e gli urlava
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Daedalus 2012
Intervista a Tahar Lamri
contro e mi colpiva molto questa cosa, non riuscivo a capire perché. Poi
dopo un po’ ho capito che si è costruita sui Testimoni di Geova un’idea
che li vede contro la religione cattolica, rompiscatole etc. tanto che uno
nemmeno senza sapere cosa vogliono, gli urla contro. Già a livello
individuale è brutto, perché un essere umano normalmente non si
comporta così, non dovrebbe comportarsi così, perché le religioni
dicono che non dovrebbe comportarsi così: nelle prime pagine della
Bibbia la parola straniero è usata 36 volte per dire di dare asilo allo
straniero, dargli da mangiare etc. Se vogliamo parlare di radici, le nostre
radici comuni sono queste, no? I Tunisini hanno mandato una lettera
all’Italia, una lettera del popolo tunisino all’Italia, nella quale si
chiedevano come mai loro avevano accolto in poche settimane 170mila
persone che fuggivano dalla Libia, c’era stata solidarietà, gli avevano
dato da mangiare e addirittura c’era sovrabbondanza di cibo, tanto che
l’organizzazione aveva avvertito di non mandare più cibo, e gli italiani
per 5000 tunisini, i primi ad arrivare, avevano parlato di esodo biblico.
Non capivano, i tunisini, cosa stava succedendo: siete più ricchi di noi e
fate così e allora noi cosa dobbiamo dire? Quindi, vedi che io non devo
pensare niente, perché i popoli ricevono dei messaggi, ricevono il
messaggio che l’Europa non li vuole, parla degli ideali, però non li
vuole e questo risponde anche alla domanda sul mediterraneo. Se tu fai
questo e fai un intervento militare, allora non si capisce più niente. In
Libia, ad esempio, i Libici stessi hanno chiesto l’intervento ed io
all’inizio vedevo Gheddafi che massacrava il suo popolo, per cui ci sta
anche la protezione delle popolazioni, ma se tu metti in relazione
l’accoglienza degli immigrati con il bombardamento, è incomprensibile.
Se li vedi separati, allora puoi spiegare l’intervento militare! La
questione della Libia è molto complessa, ci sono molti sentimenti, è
chiaro che le popolazioni civili bisogna proteggerle, io personalmente
ero e sono con l’intervento, nel senso di protezione, anche perché
seguivo minuto per minuto quello che succedeva in questa rivoluzione e
vedevo i Libici che chiedevano aiuto. Quello che non si capisce è come
mai vai ad aiutare i Libici, anche militarmente, e poi hai una barchetta
di gente che muore di fame, può annegare da un momento all’altro, e
non li salvi? Allora tu mi dici che stai salvando un popolo e non salvi 4
persone? C’è uno iato, tra le due cose, c’è qualcosa che non va.
Fedele: Tu hai dedicato l’ultimo festival delle culture di Ravenna alle
rivoluzioni. Dopo le rivoluzioni in Tunisia ed in Egitto, a quello che sta
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Daedalus 2012
Intervista a Tahar Lamri
adesso scuotendo la Libia, le manifestazioni che ci sono state in Algeria
e in Marocco, pur tenendo conto della differenza nella storia economica,
sociale ed istituzionale dei paesi del Nord Africa e considerando la
situazione libica come comunque peculiare, cosa pensi che cambierà nei
paesi sulla riva sud del mediterraneo?
Lamri: Beh, la Libia non si può totalmente lasciare da parte perché sta
diventando centrale e un po’ ha raffreddato le rivoluzioni, come la Siria.
C’è qualcosa di inconcepibile, perché c’è un intervento in Libia e
un’impossibilità di intervento in Siria: non puoi aprire due fronti, prima
di tutto, e, poi, non puoi intervenire in Siria, anche se sono morte 1600
persone, molte di più che in Libia. Continuano a morire ancora i Siriani,
continuano ad essere pacifici e non chiedono l’intervento militare. Se tu
intervieni in Siria, per assurdo, vuol dire che favorisci Israele, perché tu
non puoi distruggere l’esercito siriano, anche se lo chiedesse il popolo
siriano perché lì c’è Israele e, a quel punto, tutti i popoli si opporrebbero
all’intervento. E’ un paese che ha anche una zona che è sotto
colonizzazione israeliana, il Golan, e tu non puoi distruggere
quell’esercito, perché quell’esercito per tutti gli arabi è l’esercito che
può un giorno o l’altro servire per i palestinesi. Perché dico questo?
Perché questo sta raffreddando le rivoluzioni: dopo un grandissimo
entusiasmo in Tunisia soprattutto e poi in Egitto, con tutta la sua
grandiosità, perché l’Egitto è un paese grandioso per natura, poi succede
la Libia e si ferma e arriva un intervento straniero, l’intervento della
NATO, poi arriva la Siria e si sta uccidendo un popolo, ma non ci sono
giornalisti, non ci sono televisioni, non c’è niente, solo quello che vedi
su youtube. Ma c’è anche lo Yemen dove non si capisce ancora come
andrà a finire, c’è il Bahrein dove è stato completamente distrutta la
protesta dall’intervento dei Sauditi, l’Iraq di cui non si parla mai, il
Marocco dove il collettivo del 20 Febbraio esce ogni domenica per
strada. L’Algeria per il momento è silenziosa, all’inizio c’erano state
insieme ai tunisini delle proteste, ma poi si sono fermate, anche perché
l’Algeria è molto particolare, perché queste rivoluzioni le ha fatte
nell’88. Adesso ci presentano le rivoluzioni come una cosa nuova, in
realtà i paesi arabi non hanno mai smesso di fare le rivoluzioni le hanno
sempre fatte. In Siria il padre dell’attuale presidente Hafez Assad aveva
bombardato Hama, negli anni ’80, provocando 20.000 morti di cui non
si è mai parlato! In Algeria nell’88 c’è stata la rivolta e 500 morti tra i
giovani e subito dopo c’era stata la costituzione democratica e pluralista
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Daedalus 2012
Intervista a Tahar Lamri
etc. etc. Ma alle elezioni il popolo elegge il cattivo soggetto, gli
integralisti, il FIS, come i Palestinesi che eleggono il cattivo soggetto
Hamas, e vengono puniti, da cui nasce il terrorismo in Algeria per 10
anni con 200.000 morti. Gli Algerini, prima di fare una rivolta, ci
pensano due volte, perché sanno cosa succede. Poi, comunque, il campo
politico è più aperto, ci sono i giornali, si parla, non è che in Algeria si
va in prigione perché dici una cosa, non è come la Tunisia, i mafiosi al
potere sono molti di più, non sono solo Ben Ali e la sua famiglia, in
Algeria ci sono i generali, il mostro ha cento teste, tagliata una, ce n’è
un’altra. Però io credo che, aldilà di quello che succederà e che è
successo, finalmente il mondo riconosce che in questa zona c’è una
società civile, c’è un popolo, mentre prima si aveva l’impressione che
da lì potesse venire solo l’islamismo, che è una cosa non reale. Qui si
dicono delle cose ridicole tipo “Le tribù si danno appuntamento tramite
facebook”! Qui ci sono degli stereotipi, come se lì non ci fossero dei
giovani, non ci fosse internet, ma tanti Bin Laden islamisti, cose usate
dall’occidente per sostenere Ben Ali, Mubarak etc., per sbarrare la
strada agli islamisti fittizi, inventati da loro! Che poi gli islamisti sono
persone come le altre non è che sono mostri! La rivoluzione, se vuoi, ha
decostruito l’immagine dell’arabo o addormentato e accondiscendente o
comunque fuori dalla storia. Soprattutto ha finalmente tolto di mezzo la
sciocchezza dello scontro di civiltà, che veramente era una cosa
insostenibile senza alcun senso. Queste idee americane come la fine
della storia sono idee affascinanti, formule che, però, per fortuna hanno
una scadenza; adesso nessuno parla più di scontro di civiltà, mentre due,
tre anni fa tutti parlavano sempre di questo. Come in sociologia, fino a
quattro, cinque anni fa si parlava solo di società liquida e sembrava che
fosse proprio vero, adesso non ne parla più nessuno, l’idea aveva una
data di scadenza e non lo sapevamo! Almeno queste rivoluzioni, a parte
dare la libertà ai tunisini, agli egiziani e sicuramente anche ad altri,
perché non possono finire, ormai quando un movimento così è iniziato
non si può fermare, decostruiscono quest’immagine e fanno sembrare
possibile una cooperazione anche culturale nel Mediterraneo.
Finalmente può essere possibile, perché prima non lo era: quando hai
dittatori, non è possibile nemmeno per la letteratura cooperare, perché è
una cooperazione fasulla, politica che non ha niente a che fare con la
realtà.
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Daedalus 2012
Intervista a Tahar Lamri
Fedele: Stamattina a proposito del Marocco ho letto che il primo di
luglio i marocchini andranno a votare e tra le riforme costituzionali c’è
l’inserimento tra le lingue ufficiali del dialetto berbero…
Lamri: È solo demagogia, una promessa di dieci anni fa. Ciononostante
va bene, verrà scritto nella costituzione, è comunque un avanzamento.
Pensa che nella costituzione francese la lingua ufficiale è il francese e
noi prendiamo il nostro modello della Francia. La costituzione italiana
nell’articolo 6 parla invece - poi non si fa nella realtà - della
promozione e della protezione delle lingue locali etc. … e non dice che
la lingua italiana è la lingua unica del paese. La costituzione italiana è
avanzata in questo senso.
Fedele: Nei tuoi racconti colpisce l’attenzione al particolare, al
significato
quotidiano
di
grandi
temi:
in
UNDICIZEROTREDUEMILAQUATTRO, per esempio, gli attentati di
Madrid si palesano in un boato e nel trillo di telefonini che interrompe
una carrellata quasi fotografica della quotidianità dei passeggeri del
treno.
Lamri: Lì cerco proprio di fare delle piccole biografie, perché i giornali
parlano solo di morti, come con gli immigrati. Se scriverò qualcosa su
Lampedusa, scriverò con nomi e cognomi. Anche perché come fai a
parlare di grandi temi, come l’intercultura per esempio: se fai un saggio
va bene, ma quando ne parli in un racconto qualunque cosa tu dica è
falsa, pontifichi su una realtà mutevole. Noi siamo esseri umani, per
natura cambiamo e, allora, nei racconti se vuoi parlare degli esseri
umani, non puoi dire è così e basta!
Fedele: Qual è il primo romanzo che hai letto in italiano?
Lamri: Non mi ricordo, io leggo talmente tanto! L’autore che
preferisco…ce ne sono diversi. Ultimamente ho letto per la prima volta
Elio Vittorini e Conversazioni di Sicilia mi è piaciuto moltissimo,
soprattutto nella parte iniziale, la figura della madre che parla con il
figlio come fosse un amico … Ecco, sì! Nel primo periodo mi piaceva
molto Pirandello perché era molto vicino a noi, alle nostre storie e poi
ho letto tutte le opere di Calvino perché lo vedevo citato dappertutto, e
ho preso tutte le sue opere: alcune mi sono piaciute tantissimo, altre
meno, altre le ho trovate intellettuali. Ho letto Gadda che è anche lui
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Daedalus 2012
Intervista a Tahar Lamri
molto citato, ma non mi è piaciuto, non l’ho capito. Poi noi stranieri non
abbiamo la scansione del tempo: se tu vai a scuola in Italia ti insegnano
il canone e la cosa bella del canone è che ti insegna la scansione del
tempo, invece quando leggi così non sai niente, è come con la musica,
quando lo straniero arriva ascolta le canzoni italiane e le ascolta tutte
insieme, non ha la canzone legata all’adolescenza, quella legata
all’innamoramento o alla post-adolescenza, non ha tutta questa
scansione che è necessaria: ascolti tutti e non sai la differenza tra
Baglioni, De Gregori o Conte. Con la letteratura succede più o meno
questo. I miei riferimenti culturali, quelli che mi piacciono di più sono
Borges, Bachman, dove siamo nelle vette della femminilità e non solo
della letteratura, Jean Genet.
Fedele: E Camilleri nella letteratura migrante lo metti? Perché in effetti
scrive in dialetto!
Lamri: Camilleri è straordinario. Dire che scrive in siciliano è riduttivo,
lui inventa una sua lingua, il suo a 80 anni è una specie di pulp bello! I
libri mi sono piaciuti tutti, mi piace tantissimo e sì, lo metto nella
letteratura di frontiera!
Fedele: Un’ultima domanda: a che stai lavorando a questo momento?
Lamri: Sto lavorando ad un romanzo – che fatica a vedere la luce – e
che ha un incipit fra l’altro in un racconto già pubblicato Tutti gli altri
lo chiamano Omero. Lo sto rendendo un romanzo, ma volevo fare dei
quadri, dei racconti compiuti, a più voci. Quello che mi interessa
mettere in evidenza è la contraddizione che ognuno di noi porta in sé,
un argomento che mi affascina.
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Daedalus 2012
Intervista a Jean-Léonard Touadi
JEAN-LÉONARD TOUADI*
INTERVISTATO DA ADELE VALERIA MESSINA
Roma, 28 luglio 2011
Messina: Ascoltare la voce di chi è passato per l’esperienza migratoria
quanto è importante? Mi tornano in mente le parole di Edward W. Said,
critico letterario palestinese, che definisce l’esilio come “qualcosa di
singolarmente avvincente a pensarci, ma terribile a viversi. […] una
crepa incolmabile, perlopiù imposta con forza, che si insinua tra un
essere umano e il posto in cui è nato, tra il sé e la sua casa nel mondo”1.
Anche la sua migrazione potrebbe definirsi un’esperienza di esilio,
almeno territoriale, quando dal Congo arriva in Italia?
Potrebbe raccontare questa storia: perché ha scelto l’Italia, per esempio?
Quando è diventato cittadino italiano? Di recente ho letto un bellissimo
libro Auschwitz spiegato a mia figlia2; se lei dovesse spiegare le vicende
della sua cittadinanza italiana ai suoi figli (dall’esperienza del viaggio,
alle prime difficoltà, alla fine della sua migrazione) che cosa direbbe
loro?
Touadi: Io sono nato negli anni ’60 quando i paesi africani stavano
diventando indipendenti e quindi sono frutto della lotta anticoloniale.
Diciamo che nasco quando sorge in Africa l’alba della libertà; faccio
parte della prima generazione di africani liberi dopo i tre secoli e mezzo
di schiavitù e un secolo e mezzo di colonizzazione… il XVI secolo,
inizio della schiavitù, il 1885, inizio della colonizzazione.
Il mio paese di nascita, il Congo, ha conosciuto sia il periodo della
schiavitù con i portoghesi (molti schiavi sono partiti dalla costa del
Congo e dell’Angola verso le isole caraibiche, verso Cuba, molti dei
cubani vengono da lì) che la colonizzazione francese successiva. E
* Jean-Léonard Touadi è docente di Geografia Economico-Politica presso l’Università
degli Studi di Roma “Tor Vergata”. È membro del Gruppo Parlamentare “Partito
Democratico” alla Camera dei Deputati, XVI legislatura. È stato componente di diversi
organi parlamentari. Dal 26 luglio 2011 fa parte della III Commissione (Affari Esteri e
Comunitari).
1 E. W. SAID, Nel segno dell’esilio. Riflessioni, letture ed altri saggi, Feltrinelli,
Milano, 2008, p. 216 (ed. or. Reflections on the Exile and Other Essays, Harvard
University Press, Cambridge, 2003).
2 A. WIEVIORKA, Auschwitz spiegato a mia figlia, Einaudi, Torino, 1999.
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Daedalus 2012
Intervista a Jean-Léonard Touadi
quindi noi nasciamo con questo sogno di libertà per l’Africa, ma anche
con una specie di desiderio di rivincita storica: allora era il momento di
costruire il continente, di ricostruire il paese. Era arrivato il momento di
riappropriarsi della propria storia, del proprio spazio materiale, del
proprio spazio simbolico, della propria cultura.
Siccome la colonizzazione ha lasciato l’Africa senza una élite formata
(pochissimi superavano la scuola superiore perché ai francesi non
servivano degli ingegneri o dei medici indigeni: erano loro, i
colonizzatori, che facevano questi lavori, mentre gli indigeni si
accontentavano di avere funzioni subalterne), la decolonizzazione
rappresentava un momento di svolta per l’Africa, il momento in cui
doveva formare i suoi quadri. La mia generazione è quindi quella
generazione sulla quale l’Africa moderna punta per la formazione. I
governi hanno iniziato a stanziare molti soldi per la scuola, per delle
buone scuole; e i migliori tra gli studenti dovevano andare in Europa,
nelle università europee. Possiamo definirla come una missione
prometeica: bisognava rubare il fuoco agli dei e portarlo giù, perché
c’era desiderio di modernizzazione, di sviluppare l’Africa. Sì, quindi
bisognava andare ad imparare il segreto dello sviluppo. Perciò posso
dire, per rispondere alla domanda, che l’Europa era nel nostro orizzonte
come luogo della formazione universitaria, essendo le università
africane ancora molto embrionali: i migliori studenti delle scuole
secondarie venivano mandati nelle università europee per studiare e poi
tornare; quindi era messo in conto un esilio limitato.
Messina: C’era un ritorno?
Touadi: Un ritorno funzionale, strumentale, perché c’era il desiderio di
tornare per assumere le responsabilità dell’Africa moderna; quindi
l’Europa c’era, ma per me, nato in un paese colonizzato dalla Francia,
l’Europa era la Francia; tant’è che nella mia lingua materna la parola
“Europa” e la parola “Francia” coincidono.
Messina: E come si pronuncia?
Touadi: “Mputi”: m-p-u-t- i. Quando si dice “vado in Europa”, per noi
significa che vai in Francia. Gli europei che noi abbiamo conosciuto, a
parte la parentesi del XVI secolo dei portoghesi, erano la Francia. Io
invece sono stato tra quei pochi studenti congolesi ad essere mandato in
Italia. Erano i primi anni in cui le relazioni diplomatiche tra l’Italia e il
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Daedalus 2012
Intervista a Jean-Léonard Touadi
Congo cominciavano ad intensificarsi. Era stato scoperto il petrolio e
quindi l’Agip iniziava ad insediarsi anche in Congo. Eravamo un
contingente (una quarantina, una cinquantina, all’incirca) di studenti ad
avere la possibilità di venire a studiare in Italia.
Francamente non avevo mai pensato all’Italia. Per me l’Italia - visto che
la mia famiglia è cattolica - era principalmente il paese del Papa, il
paese di san Francesco, e così via. Comunque, avendo fatto il liceo
classico, era la Roma antica, Virgilio, insomma, la leggenda della Roma
antica e niente di più. Non conoscevo l’italiano e non penso nemmeno
di avere mai conosciuto un italiano prima di arrivare in questo paese;
quindi lo spaesamento era doppio: avevo lasciato il Congo per l’Italia e
dovevo calarmi in una lingua diversa.
Messina: La difficoltà della lingua è stata …
Touadi: … il primo impatto è stato quello linguistico, anche se è stato
un impatto limitato perché conoscevo lo spagnolo, avevo studiato
spagnolo al liceo, e poi avevo studiato il latino, insomma, in qualche
modo avevo qualche elemento per la lingua italiana …
Messina: … e il francese …
Touadi: … e il francese … ero francese …
Messina: … tutte lingue neolatine.
Touadi: La lingua italiana non è stata difficile da imparare. La difficoltà
è stata un’altra, la lingua non è solo dire “buon giorno” e “buona sera”.
Io ho avuto tutta una formazione francese: ho studiato la letteratura
francese, la storia francese e mi sono ritrovato invece all’interno di una
cultura dove bisognava sapere che cosa è il Risorgimento, dove un
italiano medio sa che cosa sono I Promessi Sposi, sa chi è Ungaretti, sa
chi è Pavese, e quindi ho dovuto ritrovare, oltre alla lingua, quegli
elementi che mi avrebbero permesso di calarmi nella realtà non solo
linguistica ma anche culturale, nei codici culturali storici di questo
paese. E comunque era tutto diverso; l’amministrazione …
Messina: All’inizio ha incontrato difficoltà burocratiche?
Touadi: … le difficoltà burocratiche. Questa è la prima cosa con cui si
scontra uno straniero. Orientarsi nella giungla burocratica italiana è
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Daedalus 2012
Intervista a Jean-Léonard Touadi
molto difficile per un italiano, figurati per uno straniero! Il primo
impatto è quello con il permesso di soggiorno. Chi non ha fatto
l’esperienza dell’essere straniero non può capire che cosa vuol dire
avere il permesso di soggiorno. Il permesso di soggiorno per uno
straniero è un po’ come per le persone uscire avendo in tasca qualche
cosa. Sei spaesato. Non sei riconosciuto. Non hai accesso a nulla. Sei
sempre impaurito ad ogni divisa, ad ogni macchina della polizia che
vedi … quindi il permesso di soggiorno.
La casa. La difficoltà di trovare casa. Non so se parlare di razzismo,
però … insomma è capitato più di una volta: chiami al telefono, la casa
c’è, quando ti presenti la casa non c’è più. È l’impatto con la ricerca
della casa e il fatto di trovarsi le porte sbarrate. Vi era un po’ di
ingenuità, un po’ di chiusura, ma di certo non c’era il razzismo
teorizzato di oggi.
Messina: Su questo aspetto, vorrei che lei si soffermasse.
Touadi: Allora sentivi l’ingenuità, sentivi l’ignoranza, nel senso
proprio positivo della parola di “non conoscenza”. Sentivi anche una
certa curiosità naïve su di te, sul tuo paese di origine. Non c’era il
razzismo teorizzato e praticato che c’è adesso; paradossalmente, era
quasi più giustificato allora, quando era agli albori. Io sono arrivato nel
’78, proprio oggi, il 28 luglio.
Messina: Continui, la prego!
Touadi: Sì, oggi è l’anniversario! 28 luglio, alle 11. 00 di mattina. C’è
stata un’evoluzione da allora, possiamo chiamarla una lenta discesa
negli abissi della discriminazione, del rifiuto dell’alterità. Ed è stata
proprio graduale. Io la identifico, l’ho sempre identificata, in tre
momenti particolari.
Alla fine degli anni ’80, c’era una consapevolezza diversa: “Siccome
non c’è, prendiamone atto; facciamo una legge di sistema per regolare
l’immigrazione”. E venne la legge Martelli. Sembrava che il paese
stesse via via prendendo la consapevolezza del fenomeno.
La caduta del muro di Berlino e il successivo afflusso dall’est di
persone della Bosnia-Erzegovina, dall’Albania. Il luglio del ’91 ha
segnato, secondo me, il momento in cui il paese ha cominciato a
coltivare, a torto o a ragione, secondo a me a torto, una specie di
sindrome di invasione: “ci stanno invadendo”. Questo momento
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Daedalus 2012
Intervista a Jean-Léonard Touadi
corrisponde anche, più o meno, all’ascesa dei partiti di estrema destra
sia in Francia, con Le Pen, sia qui da noi: la grande ascesa della Lega
Nord, che fa della questione immigrazione il suo feudo, il suo
investimento elettorale, chiamiamolo così. Il paese, nonostante le
statistiche annuali dell’Istat o dei dossiers Caritas dicessero che noi
eravamo al di sotto della media europea (all’epoca era il 5%, di fronte
alle punte del 9-10% di Belgio, Francia, Germania), nonostante le
statistiche dicessero il contrario, il paese ha cominciato a coltivare la
sindrome di invasione, che si traduce più o meno nella frase: “vengono
tutti qua”. Qui s’interrompe l’auto-assolutoria convinzione degli
italiani, che si sono sempre auto-rappresentati come diversi dagli altri
europei.
Messina: Mentre lei parlava, pensavo al libro di Angelo Del Boca
Italiani, brava gente?3.
Touadi: Esattamente. Noi abbiamo auto-assolto il nostro colonialismo,
etichettandolo come un colonialismo “buono”, mentre tutta la
storiografia più critica, più rigorosa, dimostra che il nostro colonialismo
è stato uguale a quello degli altri. Siamo la nazione delle leggi razziali.
Messina: Questo rimanda al razzismo istituzionalizzato a cui lei fa
spesso riferimento?
Touadi: Esatto, ma a questo poi ci arriviamo: è la terza fase. Siamo il
popolo delle leggi razziali, siamo il popolo del Manifesto della razza
scritto da Almirante. Siamo il popolo dell’Università della Sapienza,
dove si era scritto all’epoca un trattato di psicologia tropicale che è un
condensato di razzismo ideologico e superiorità razziale molto spinto.
La maschera dell’autoassoluzione dell’Italia comincia a cadere con la
sindrome di invasione, ma soprattutto con quel processo che inizia nel
2001, dopo la caduta delle Torri Gemelle, quando dalla sindrome di
invasione passiamo al razzismo identitario, quando - anche attraverso
una confusione lessicale, semantica - iniziamo a mettere tutto assieme:
l’arabo, il fondamentalismo, l’islamismo, l’integralismo. Tutto si
equivale. È una specie di costruzione sociale del nemico. Qui non ci
sono solo le forze politiche: anche la cultura, anche i mass media
concorrono a questa costruzione sociale del nemico con le
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A. DEL BOCA, Italiani, brava gente?, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2006.
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Daedalus 2012
Intervista a Jean-Léonard Touadi
categorizzazioni riduttive, con le semplificazioni lessicali e semantiche,
con l’amalgama di categorie che invece andavano distinte e così via
dicendo. L’arabo diventa semplicemente il musulmano senza sapere
che ci sono degli arabi cristiani in Libano, degli arabi cristiani in Egitto,
ecc. ecc.
Messina: … degli arabi ebrei...
Touadi: Esatto, il musulmano diventa il mediorientale. Invece c’è tutto
un Islam ad occidente di Maometto: la Malesia, l’Indonesia, il Pakistan,
l’India, non hanno nulla a che fare col Medioriente.
È un periodo di grande confusione. È il periodo in cui un prelato della
Chiesa cattolica teorizza l’ingresso selettivo degli immigrati, preferendo
gli europei dell’Est, bianchi cristiani, ai nuovi barbari che minacciano
l’identità cristiana; è il momento in cui esponenti politici come
Buttiglione, Ministro delle Politiche Europee, lo stesso Fini, Ministro
degli Esteri, teorizzano l’ingresso selettivo per scoprire dopo - nel terzo
schema del nostro razzismo - che questi stessi buoni immigrati, venuti
dall’Est, bianchi cristiani e rumeni, erano dei ladri. A partire dal 2006,
con l’ossessione della sicurezza, che è il terzo paradigma del nostro
razzismo, gli stessi rumeni per cui si era teorizzato l’ingresso
privilegiato diventano anche loro oggetto di una pesante campagna di
criminalizzazione; quindi abbiamo la sindrome di invasione, il razzismo
identitario, dove paradossalmente la croce, il messaggio universale del
cristianesimo, viene piegata a fini verticali di esclusione.
È una cosa del tutto paradossale. È quello che avviene quando ci si
rifiuta ostinatamente di identificarsi con il popolo dal quale si proviene
perché è portatore di un messaggio universale; il suo messaggio viene
piegato come una spada brandita contro gli empi. È quello che sta
avvenendo in Norvegia, dove si è avuta una drammatizzazione estrema
di questi schemi. Tutti noi abbiamo stigmatizzato il pericolo
fondamentalista. Sarebbe sciocco sottovalutare questa specie di
aggressione ai valori moderni occidentali iniziata all’interno di alcune
frange dell’Islam, dalla rivoluzione islamica fino a Hezbollah e alla
caduta delle Torri Gemelle. Ma come fare a non sottovalutare questo e a
prenderlo in considerazione senza entrare in una logica identitaria
esasperata, come quella che ci ha portati ad esempio alla strage di
Utoya?
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Daedalus 2012
Intervista a Jean-Léonard Touadi
Infine, abbiamo il terzo tipo di razzismo, quello istituzionalizzato, dove
questa cosa strisciante che nasce col paradigma della sindrome di
invasione, col paradigma islamico, entra a far parte del corpus
legislativo dello Stato col pacchetto sicurezza del 2009.
Ho detto, e misuro anche un po’ il peso delle parole, che col pacchetto
sicurezza, noi, come Paese, entriamo tecnicamente in un regime di
apartheid. Che cosa è stato l’apartheid in Sudafrica? Sviluppo separato,
cioè loro, i bianchi, qua, e noi, i neri, là.
Col pacchetto sicurezza abbiamo 5 milioni di persone che
potenzialmente potrebbero essere private dei diritti nel caso in cui
perdano la titolarità del permesso di soggiorno. Queste persone perdono
il diritto a sposarsi, a curarsi, ad andare all’anagrafe o a chiedere i
certificati, e così via dicendo. L’introduzione del reato di immigrazione
clandestina, a mio avviso, muta profondamente i connotati della civiltà
giuridica di questo paese, ma anche del pilastro costituzionale
dell’uguaglianza.
Messina: Secondo l’art. 3 della nostra Costituzione, “tutti i cittadini
hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza
distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione. […] ed è compito
della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale,
che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini,
impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva
partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica,
economica e sociale del paese”.
Touadi: Esattamente, questo è compito, secondo quanto si può
interpretare dai padri costituenti, dello Stato. È qualcosa di dirimente:
non è che se lo Stato vuole lo fa, se non lo vuole non lo fa. Non è che se
il governo è di centro-sinistra lo fa e se è di centro-destra … Tra l’altro,
il secondo paragrafo ha come madre il secondo articolo: i diritti
inalienabili non del cittadino, ma della persona, cioè la connaturalità, il
carattere soggettivo della titolarità dei diritti. I diritti appartengono a te,
non in quanto Valeria, ma in quanto persona, e io ho sempre ammirato,
da persona che non è nata in questa cultura (è una delle cose che chi
viene da fuori apprezza dell’identità europea), quel carattere di sacralità
quasi laica, soprattutto dall’Illuminismo in poi, della soggettività
personale portatrice di diritti.
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Daedalus 2012
Intervista a Jean-Léonard Touadi
Messina: Però, in nome di questo universalismo di uguaglianza,
fratellanza e universalità in senso lato, alla fine si ricade in un
individualismo che degenera nella paura o nell’incapacità di
accettazione dell’altro?
Touadi: Sì, questo universalismo presenta entrambi gli aspetti.
Messina: Lei prima faceva riferimento all’importanza delle parole. Nel
suo libro, Le parole per conoscere ne sottolinea il valore4. Oggi invece
si fa molta confusione con i termini. Quanto è allora importante
conoscere? E quanto l’opinione pubblica conosce? Ed in che modo,
secondo lei, l’informazione viene manipolata? Che cosa suggerisce per
migliorare la conoscenza dei fatti, passati e presenti – penso, ad
esempio, alla necessità per i giovani italiani di conoscere e fare i conti
col passato coloniale?
Touadi: Quando parlavo di costruzione sociale del nemico facevo
riferimento proprio a questo, visto che tale costruzione sociale del
nemico ha avuto dei connotati essenzialmente lessico-semantici e
simbolici, cioè l’alterità è stata costantemente collocata dai media nel
cono d’ombra della criminalità. Dallo studio della cronaca nei giornali
che riguarda l’immigrazione – lo hanno fatto molte università, facoltà,
scuole di giornalismo – viene fuori che l’80-90% delle notizie
sull’immigrazione è collocato nella cronaca nera.
Messina: Sebbene oggi gli immigrati rappresentino una risorsa …
Touadi: … mentre la normalità dell’immigrazione, cioè le storie
personali di successo, oppure le storie normali di persone che vivono,
che amano, che si sposano, che intessono rapporti con l’ambiente in cui
vivono, che producono cultura, sono messe in secondo piano. La parte
della letteratura che erroneamente si chiama “letteratura migrante”, è in
realtà “nuova letteratura italiana”, perché si esprime in lingua italiana
pur immettendo nella letteratura italiana degli orizzonti narrativi non
classicamente italiani; quindi questa costruzione sociale del nemico è
passata attraverso una sedimentazione di cornici simboliche e di parole
inquinate.
Jean L. TOUADI, Congo. Ruanda. Burundi. Le parole per conoscere, Editori Riuniti,
Roma, 2004.
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Daedalus 2012
Intervista a Jean-Léonard Touadi
Messina: Quasi abusate?
Touadi: Sì, la parola “clandestino”, la parola “vu cumprà” e tutte le
altre parole che condensano in loro l’oggettivizzazione dell’alterità,
come se fosse qualcosa di negativo o appartenente alla nuova barbarie,
sono inquinate.
Mi chiedevi prima come bisogna agire?. Ho sempre teorizzato che per
contrastare il razzismo, bisogna passare per una tappa “propedeutica”,
che consiste nella decodificazione del linguaggio dell’alterità. È
necessario ricodificare il linguaggio e ritrovare in una società che è
diventata plurale una nuova ecologia del linguaggio: non si tratta di una
politica incoerente, è qualcosa di più profondo, qualcosa che fa spazio
all’altro anche nei modi di parlare.
“Fumare come un turco”, “lavorare come un negro”, ecc., sono delle
espressioni che ci si poteva permettere in un contesto monoculturale; in
un contesto interculturale c’è bisogno di un’ecologia del linguaggio che
passa anche attraverso queste piccole cose. Ma è complessivamente la
narrazione dell’alterità che deve mutare. Come muta secondo me? Non
si può pensare che Feltri, Sallusti, ma la stessa Repubblica quando tratta
di migrazione (sebbene non sia come Feltri) non sia ancora a quei livelli
di ricerca di una espressività alternativa.
Messina: Secondo lei, ciò potrebbe essere causato dal fatto che noi
italiani non riconosciamo di essere essenzialmente razzisti? E
facilmente dimentichiamo di essere stati un popolo di emigrati?
Touadi: Io ho lavorato in Rai per tanti anni, ma nelle cronache ero
sempre il giornalista di colore ed oggi sono il parlamentare di colore. In
nessun paese europeo queste cose esistono più. C’è una patina, una
sedimentazione incrostata di matrici simboliche di parole inquinate, che
sono entrate a far parte dell’inconscio collettivo. Ecco perché parlavo di
decodificazione: decodificare, disseppellire, portare alla luce, è un
lavoro paziente …
Dicevi, come si fa questo? Lo si fa solo immettendo nei luoghi del
dibattito pubblico l’alterità stessa. L’alterità deve partecipare alla
costruzione del linguaggio pubblico; nella nuova società plurale, la
società ospitante non può pretendere unilateralmente di essere l’unica
protagonista della metanoia linguistica di cui abbiamo bisogno.
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Daedalus 2012
Intervista a Jean-Léonard Touadi
Messina: Anche perché sarebbe dettata dall’alto senza una reale
partecipazione democratica.
Touadi: Esatto. Ciò significa che nelle redazioni, dove ci saranno
sempre di più giornalisti e giornaliste di origine pakistana, di origine
congolese, di origine nigeriana, piano piano ci sarà un mutamento, che
avverrà proprio perché la compresenza dell’io e del tu, che si incontrano
linguisticamente, semanticamente e simbolicamente, creeranno una
nuova comunità significante. Sì, possiamo definirla così. È una cosa
fantastica, bellissima. Non è una diminuzione per la società ospitante,
non è una limitazione per chi viene ospitato, ma è la possibilità che
qualcosa di nuovo e di più ricco possa nascere. È bello.
Messina: Abbiamo esempi del genere in Italia?
Touadi: Ahimè, no! C’è come un imbarbarimento, un’involuzione.
Messina: Secondo lei, a che cosa è dovuto il fatto che l’Italia si porti
dietro il fardello dell’alterità?
Touadi: È una fissazione.
Messina: Vediamo sempre dietro di noi la potenza dell’Impero romano
… non so?
Touadi: Non lo so, però è qualcosa di pervicace, di patologicamente
pervicace. Io spero che si possa cambiare con le nuove generazioni, ma
l’incapacità di accogliere non riguarda solo l’alterità etnica o razziale,
riguarda l’alterità in senso lato.
Messina: … la capacità di accoglienza …
Touadi: L’alterità sessuale, l’orientamento sessuale diverso che in tutti i
paesi sta ormai diventando una cosa rispettata, per esempio, da noi crea
problemi. I sorrisetti, le battute che persistono traducono, da un lato, il
disagio di un’alterità ancora non assimilata, non conosciuta, dall’altro,
una violenza interrelazionale.
Rispetto al ragazzetto in motorino che mi fa “buu” passando, se ci
pensassi per tre minuti, forse avrei otto motivi per inferiorizzare lui di
fronte al suo unico motivo per inferiorizzare me … Ne potrei avere otto:
sono laureato, mio padre era un ambasciatore, faccio il deputato,
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Daedalus 2012
Intervista a Jean-Léonard Touadi
conosco cinque lingue, … avrei otto motivi per inferiorizzare lui … lui
ne ha uno e, tra l’altro, frutto di una casualità naturale.
Messina: Quanto è brutto essere cittadini italiani e non esserlo in fondo,
quando passa il ragazzino che si comporta così?
Touadi: Non ti nascondo che, quando vado in Inghilterra, in Francia,
cessa questo tipo di ansia, mi riposo. Poi, mano a mano che sali nella
scala sociale, capita 90 volte su 100 che sei l’unico “diverso” per il
colore della tua pelle: in Parlamento sei l’unico, se viaggi in missione
all’estero, e magari sei in prima classe, sei l’unico. Però, ci sono anche
un po’ abituato.
Messina: Spesso si parla del Mediterraneo come un luogo al centro del
mondo. Io invece ritrovavo il “suo” Golfo di Guinea al centro del
globo, per via di quel pezzo di storia della schiavitù a cui lei accennava
all’inizio. La domanda è molto banale: quando lei si è spostato da
questo centro verso quello del Mediterraneo italiano, con quale mezzo
di trasporto si è spostato?
Touadi: Ho usato un po’ di tutto: macchina, treno, aereo. Mi piacciono
ovviamente i mezzi di trasporto comuni, perché permettono una
relazione: una specie di occasione casuale di psicopatologia della vita
quotidiana o di relazioni interetniche.
Messina: E l’immagine del Mediterraneo che lei ha? Di questo mare
nostrum, ponte tra due continenti? In questo caso, tra il Congo e l’Italia?
Touadi: Io vengo da un popolo che ha dovuto elaborare e dare
consapevolezza alla sua storia di popolo colonizzato, e l’abbiamo fatto
attraverso lo studio della storia africana, della letteratura africana,
attraverso la letteratura della diaspora, perché essere africano per noi
significa anche guardare all’esperienza della diaspora africana. Nei
Caraibi, in Brasile, negli Stati Uniti, quell’esperienza è mia, fa parte
della mia esperienza; quindi, paradossalmente, ho elaborato – rispetto
alla mia alterità con l’Europa – le mie risposte, di ribellione, ma anche
di superamento del fatto storico.
Io sono più avanti rispetto all’europeo o all’italiano. Mi rifaccio ai più
grandi poeti africani, uno fra tutti, Léopold Sédar Senghor, presidente
del Senegal, poeta accademico, che ha sempre immaginato il
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Daedalus 2012
Intervista a Jean-Léonard Touadi
Mediterraneo come luogo di incontro. Senghor parlava del
Mediterraneo come il luogo della costruzione della civiltà universale, il
luogo del dare e del ricevere. È una visione molto bella: credeva molto
nella costruzione dello spazio euro-africano, che sta nella geografia. Io
insegno geografia economica, so che si può cambiare tutto, ma i dati
geografici non si cambiano. Siamo vicini, e dunque mi dispiace per gli
europei: se non ci vogliono, devono spostare l’Africa e metterla da
un’altra parte.
Quindi, c’è la geografia, che è il dato geografico, e c’è il dato storico.
C’è molta più Europa nell’Africa di quanto gli europei siano
consapevoli, e c’è molta più Europa nell’Africa di quanto ci sia Africa
nell’Europa. La mia posizione di afro-europeo, afro-italiano, mi spinge
spontaneamente ad avere il ruolo, dico una cosa che sembrerà un po’
narcisistica, di essere pontefice, nel senso latino della parola, mediatore,
pontem facere. E mi spiace per l’incapacità dell’Europa di elaborare un
suo approccio storico-culturale e politico-economico nei confronti del
continente africano.
Messina: Ha incontrato delle difficoltà come parlamentare?
Touadi: Sì, sì, sì. Ieri il partito mi ha chiesto di sostituire Fassino alla
Commissione Esteri e ho pensato: ecco, sono qui alla Commissione
Esteri, è questo che devo fare. Temo però che, più passa il tempo, più
l’Europa stenti ad elaborare una risposta storico-culturale, compresa
tutta la questione della memoria coloniale e della schiavitù, che per noi
è molto importante; per noi la storia della schiavitù è un momento
fondante e, se leggiamo i negro spirituals, troviamo in queste canzoni
un’identificazione del popolo nero con il popolo ebraico.
La schiavitù in Egitto, la traversata nel deserto e Sion. Sion come il
back to Africa dei padri del panafricanesimo; il back to Africa ha la
stessa simbologia forte del ritorno a Sion, cioè un nero della diaspora
sogna il back to Africa, che può essere un ritorno effettivo in Africa, ma
soprattutto è un ritorno ideale alla cultura, all’identità africana. Ecco
perché ci dispiace che Michael Jackson abbia cercato di diventare
bianco, perché ciò contraddice tutta la storia della diaspora nera che in
esilio non ha mai smesso di rivendicare il ritorno a Sion, e allora, come
stavo dicendo, mi dispiace che l’Europa arrivi in ritardo.
Il ritardo dell’Europa ad elaborare quest’approccio fa sì che per la prima
volta ci sia una deriva dei continenti. Per la prima volta l’Africa ha
smesso e sta smettendo sempre di più di guardare verso l’Europa, ed
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Daedalus 2012
Intervista a Jean-Léonard Touadi
inizia a guardare alla Cina, alla Turchia, all’India, come partners
privilegiati. È una cosa di cui l’Europa ancora non misura la portata,
però bisogna tenerne conto. Certo, le tragedie in mare non migliorano la
situazione.
C’è una percezione in Africa di un’Europa che si autocostruisce come
una fortezza e permette che migliaia e migliaia e migliaia di migranti
trasformino quello che doveva essere il mare dell’incontro, il mare del
dialogo, in un cimitero a cielo aperto. Ciò sta creando nell’opinione
pubblica africana una repulsione nei confronti dell’Europa. L’Europa
misurerà solo tardi le conseguenze di tale situazione, quando si ritroverà
alle porte di casa un miliardo di persone - vicine geograficamente e
storicamente - ostili perché nel frattempo hanno trovato altri partners.
Quando ho visitato il Cie la settimana scorsa, ho visto quei ragazzi
tunisini che abbiamo applaudito quando gridavano “libertà” a Ben Alì.
Diamo loro i permessi temporanei, poi dal 5 di aprile li portiamo in
galera. Questi ragazzi si rendono conto che i gelsomini non crescono in
Italia; crescono in Tunisia, ma non crescono in Italia.
Come faremo a costruire domani una politica euro-mediterranea,
quando nell’opinione pubblica dell’Algeria, della Tunisia, del Marocco,
sta passando l’idea che in Italia accade questo. Capisci? È drammatico
e, allo stesso tempo, mi dico che dobbiamo continuare a crederci,
perché non riesco a vedere un’Europa senza Africa e, viceversa,
un’Africa senza Europa.
Messina: Sono troppo vicine, per natura.
Touadi: La geografia non si modifica.
Messina: L’ultima volta che lei è ritornato nel suo paese, a Brazzaville?
Touadi: L’anno scorso. C’è mia madre, ci sono tutti i miei fratelli.
Ho due figlie e un figlio, che sono figli di un’italiana e di un italiano
acquisito; mi piacerebbe che crescessero con la consapevolezza di poter
attingere a due mammelle culturali, a due mammelle antropologiche, ed
il fatto che io stesso sia riuscito a non far coincidere l’esilio materiale
dall’Africa con l’esilio ideale culturale… mi piacerebbe dare loro gli
strumenti letterari, antropologici, e sentire che possono crescere davvero
come persone ricche di due identità. Questi figli li vedo proprio come
un’anticipazione di quello che tutti noi siamo chiamati ad essere.
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Daedalus 2012
Intervista a Jean-Léonard Touadi
Messina: Come si dice “speranza” nella sua lingua materna?
Touadi: “Elykta”: e-l-y-k-t-a…
Crescono come italiani. Sono nati a Roma, hanno la loro mamma che è
italiana, però mi piacerebbe che nello stesso tempo crescesse in loro la
consapevolezza che c’è un altro orizzonte che appartiene loro, che sta lì
e che un giorno potranno recuperare.
Messina: Un ponte umano. Un’ultima domanda: in quale anno ha avuto
la cittadinanza italiana?
Touadi: 1986. Ho semplicemente rinunciato alla cittadinanza francese
che avevo e ho acquisito quella italiana, conservando quella congolese.
Messina: Mi stupisce lo scambio della cittadinanza francese con quella
italiana.
Touadi: Le consideravo equivalenti, mentre era più difficile scambiare
quella congolese. Quella è rimasta.
Messina: Quella deve rimanere.
Touadi: È così che sono diventato cittadino italiano.
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Daedalus 2012
Intervista a Fulvio Vassallo Paleologo
FULVIO VASSALLO PALEOLOGO*
INTERVISTATO DA DONATELLA LOPRIENO
Palermo, 18 dicembre 2011
Loprieno: appartieni a quella particolare categoria di tecnici del diritto
che qualcuno ama definire “giuristi-costituzionalisti”. Non hai
dimenticato che il punto di riferimento essenziale per chi voglia
esercitare degnamente e dignitosamente questo mestiere resta la
Costituzione repubblicana del 1948 ed il suo sistema di tutela dei diritti
di libertà. E, difatti, hai scelto di difendere i più deboli ed i più
vulnerabili: i migranti e soprattutto quelli il cui soggiorno è irregolare.
Avresti potuto scegliere una clientela diversa e molto più danarosa. Hai
scelto una carriera diversa. Perché?
Vassallo Paleologo: Ho esercitato la professione di avvocato, in campo
commerciale, per sette anni prima di entrare nell’università. E quando
ho cominciato a lavorare all’università, nel 1982, ho scelto di farlo sin
da subito a tempo pieno. Il lavoro di ricerca, di formazione e di didattica
mi permetteva di esprimermi nel modo più libero possibile anche se a
quell’epoca l’immigrazione non era certo un fenomeno così rilevante
come lo sarebbe diventato di lì a pochi anni. In quegli anni mi occupavo
di diritti dei consumatori. Negli anni a venire, la restrizione degli spazi
di libertà all’interno dell’università e, soprattutto, la risposta repressiva
nei riguardi dell’immigrazione proprio sul finire degli anni Novanta, mi
hanno portare a privilegiare la questione dei diritti umani. Così, dal
Dipartimento di Diritto privato mi sono trasferito al Dipartimento di
Studi su politica, diritto e società e quindi ho avuto la possibilità di
lavorare con “non giuristi”, il che è cosa molto salutare specie per chi ha
a che fare quotidianamente con il diritto positivo. La partecipazione al
Dottorato in Diritti umani mi ha consentito poi di lavorare direttamente
sulle questioni dell’immigrazione grazie anche alla presenza ed alle
attività di validissimi giovani studiosi e studiose molto impegnati a
collaborare con altri gruppi di ricerca in Europa e non solo. Avere avuto
a che fare con questi ricercatori mi ha consentito di valorizzare molto la
mia esperienza al di là dell’ambito strettamente giuridico. Più di
recente, l’inasprimento della “politica della cattiveria” nei riguardi dei
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Daedalus 2012
Intervista a Fulvio Vassallo Paleologo
migranti inaugurata dall’ultimo governo Berlusconi e magnificata dal
precedente Ministro Maroni mi ha, per forza di cose, costretto a
lavorare sempre di più sulle questioni dei diritti dei migranti.
Loprieno: In questi anni hai dedicato tempo ed energie per difendere,
anche con la militanza dei tuoi articoli, principi quali il diritto alla
libertà personale e più in generale il rispetto della dignità umana di tutti
gli esseri umani. Credi che la tua militanza, che è militanza fondata sui
principi del costituzionalismo stesso, abbia influenzato la carriera
universitaria? Detto altrimenti. Avresti potuto scrivere magnifiche
monografie su argomenti teorici molto cari ai giuristi dogmatici ma hai
scelto una strada diversa.
Vassallo Paleologo: Avrei dovuto scrivere per partecipare ai concorsi e
fare carriera universitaria? È inutile negare che le commissioni di
concorso apprezzano il taglio metodologico o la neutralità dell’autore
rispetto all’argomento trattato. Ne sono testimonianza le tipiche
espressioni usate nei giudizi di valutazione: la non continuità
nell’attività di ricerca, la non piena neutralità, il carattere non
sufficientemente tecnico del lavoro. Questo è vero per tutte le discipline
ma si tratta di un retorica particolarmente in uso nel mondo dei giuristi.
Tutto questo io l’ho sempre avuto ben presente e ne ho, in qualche
modo, messo in preventivo le conseguenze: non ho inseguito la carriera
universitaria a ogni costo. Ho trovato altri canali per la mia crescita
umana e professionale anche se devo aggiungere una cosa importante.
In questi ultimi anni, a prescindere dall’impegno dei singoli docenti, le
progressioni di carriera nell’università sono state praticamente impedite.
La riforma Gelmini ed i costanti ed insopportabili tagli alla ricerca
hanno cancellato intere generazioni di studiosi; il blocco dei concorsi
per professore associato o ordinario o la loro riduzione a entità
puramente simboliche certamente hanno costituito un potentissimo
fattore di disincentivazione. La mia scelta di lasciare l’università è stata
anche dettata, oltre che dalla mancanza di possibilità di carriera
accademica, dalla scomparsa di un intero gruppo di ricerca con cui
nell’ultimo decennio ho condiviso progetti e ricerche. E si tratta di
validissimi studiosi, da anni impegnati in gruppi di ricerca
internazionali per i quali è stata cancellata la concreta possibilità di
continuare il loro percorso scientifico ed umano nell’università italiana.
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Daedalus 2012
Intervista a Fulvio Vassallo Paleologo
Loprieno: Conosciamo la situazione della università pubblica italiana e
l’enorme spreco di energie cagionato dalle ultime riforme. Avremmo
dovuto forse lottare di più per difenderla ed assicurarne la crescita.
Avremmo difeso così anche la Costituzione. Credi anche tu che
difendere i diritti dei più deboli, nel nostro caso dei migranti, significhi
in ultima analisi essere militanti della Costituzione?
Vassallo Paleologo: Non ho dubbi al proposito. I primi segnali di un
attacco ai diritti dei migranti sono venuti già dalla Legge TurcoNapolitano del 1998 ma certamente l’apparato repressivo è stato
ampliato a dismisura nel 2002 con la Legge Bossi Fini. L’ultimo
governo Prodi ha tentato di cambiare qualcosa con il disegno di legge
Amato-Ferrero, senza riuscirci. L’ultimo anno poi è stato assolutamente
disastroso per quanto riguarda i diritti dei migranti e non solo dei
migranti. La materia si è caratterizzata sempre di più per la dilatazione
della discrezionalità amministrativa e per il sostanziale svuotamento di
una norma fondamentale per uno Stato democratico quale quella
contenuta nell’art. 13 della Costituzione circa il controllo
giurisdizionale delle attività di polizia sulle forme di limitazione della
libertà personale. È accaduto e accade che sia dia più importanza a una
circolare amministrativa che a un principio costituzionale o a una norma
comunitaria e, quindi, si ubbidisca alla prima e non ai secondi. Ma così
operando si mettono in forse principi addirittura fondativi dello Stato
moderno di diritto come la separazione dei poteri, il principio di
eguaglianza davanti alla legge o il principio del controllo
giurisdizionale sugli atti di polizia. A essere leso e svilito non è il solo
diritto costituzionale ma anche quello comunitario e principi basilari del
diritto internazionale. Non è un caso che siano stati avanzati ricorsi alla
Corte europea dei diritti dell’Uomo e alla Corte di Giustizia delle
Comunità europea e a dirla tutta le risposte di queste corti internazionali
hanno deluso o perché giunte con troppo ritardo o perché non
soddisfacenti. Se questo è il quadro, chiaramente il diritto costituzionale
ed il sistema dei limiti che esso prevede all’agire delle autorità di
pubblica sicurezza in primis riacquista una priorità assoluta. E bada
bene che la partita è a oggi tutta aperta perché la circostanza che il
governo sia cambiato e che al posto del leghista Maroni ci sia una
ministra tecnica non significa che le cose cambieranno. L’enorme dose
di discrezionalità amministrativa che gli apparati hanno in qualche
modo ormai assunto, assimilato, gestito e collaudato, quale che sia il
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Daedalus 2012
Intervista a Fulvio Vassallo Paleologo
governo ed il ministro che verrà, quale che sia la riforma legislativa che
interverrà, farà si che il problema dell’arbitrio dei poteri amministrativi
sui diritti fondamentali si ripresenterà puntualmente.
Loprieno: Cosa ti fa più orrore nel diritto speciale degli stranieri? Il
fatto che il legislatore italiano, specie dal 2002 in poi, abbia predisposto
un sistema normativo “contro” gli stranieri o il fatto che ci siano stati
tecnici del diritto che tale diritto hanno applicato senza battere ciglio?
Vassallo Paleologo: Avvocati e magistrati, come categoria, hanno fatto
il possibile. La Corte costituzionale è stata sollecitata moltissime volte e
quando questa ha cancellato obbrobri giuridici, governo e maggioranza
(che quegli obbrobri avevano approvato) hanno avuto parole durissime
nei riguardi del Giudice delle leggi. Da questo punto di vista, alla
categoria dei giuristi professionali non credo vadano mosse critiche.
Spesso mi sono trovato accanto a giudici anche di orientamento
moderato che hanno condiviso le nostre preoccupazioni sul piano della
violazione delle regole costituzionali. Ciò che davvero mi ha
preoccupato è stato “come” gli apparati di polizia hanno utilizzato
quella enorme discrezionalità di cui parlavamo prima perché quel
“come” ha a che fare con il disciplinamento del corpo dei migranti e
con la sua traduzione in una diffusa discriminazione istituzionale nella
quale si è frantumata l’unità del soggetto di diritto e della persona.
L’immigrato tunisino che sbarca a Lampedusa non è un essere umano al
quale riconoscere i diritti fondamentali della persona umana. La finalità
di espellere sempre e comunque è stata ritenuta prevalente e superiore
rispetto alle garanzie minime e senza tenere in minima considerazione
le condizioni dei migranti, fossero essi persone malate o anziane, con
gravi problemi psichici, con gravi problemi familiari o vittime di tortura
o esposte al rischio di arresti senza il controllo del magistrato. Ma ciò
non è successo solo a Lampedusa: succede ed è successo in maniera più
nascosta nelle zone aeroportuali di Fiumicino o Malpensa, solo per
citare due tra i moltissimi luoghi citabili. Ovviamente Lampedusa è
stata usata come grande palcoscenico mediatico e come cassa di
risonanza per la politica del governo ma non dobbiamo commettere
l’errore di giudicare tutto quello che è successo in termini di violazione
dei diritti umani alla luce soltanto di quanto successo a Lampedusa.
Violazioni altrettanto gravi si sono verificate anche qui nel Porto di
Palermo quando, il 23 settembre di quest’anno, tre navi (la Moby
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Daedalus 2012
Intervista a Fulvio Vassallo Paleologo
Fantasy, l’Audacia e la Moby Vincent) sono state utilizzare come Cie
galleggianti per trattenere circa 700 tunisini trasferiti da Lampedusa. I
migranti sono stati trasferiti sulle navi legati con fascette elastiche. Ciò
che davvero mi inquieta è che se fino a qualche anno fa l’opinione
pubblica reagiva e si indignava, ora dopo un decennio di cancellazione
dei diritti fondamentali delle persone quasi più nulla scuote le
coscienze. Le violazioni dei diritti umani e della dignità delle persone
nei CIE sono ormai quotidiane, con situazioni che ricordano le violenze
della Diaz e di Bolzaneto, a Genova nel 2001. Forse (ed in parte) questo
è anche un effetto delle scelte di politica internazionale che per far
rispettare i diritti umani hanno prodotto e legittimato Guantanamo, Abu
Ghraib e tutto il resto. La cultura per cui il fine giustifica è entrata
prepotentemente nel senso comune e vi impera e questo è veramente
grave perché è la radice del razzismo e della destrutturazione dello stato
di diritto.
Loprieno: Concordo sul fatto che Lampedusa, pur essendo unica, non
sia sostanzialmente altro rispetto a un qualsiasi altro campo per stranieri
presente in Italia. Forse per chi leggerà questa intervista, è motivo di
interesse sapere che stiamo chiacchierando cullati dal mare nella tua
barca di famiglia. Ed a cullarci è il mare di Sicilia, isola nel
Mediterraneo e sua propaggine. Qui si respira un’aria unica, quasi di
terra di confine. La Sicilia è più vicina a Tunisi e o Trieste?
Vassallo Paleologo: In realtà, la Sicilia è lontana sia da Tunisi che da
Trieste. Il problema della Sicilia è il suo isolamento dall’Italia e
dall’Europa: Lampedusa che è isola di una isola isolata non può che
veder esaltato il suo isolamento. È per questa ragione che la Sicilia e le
sue isole sono usate come luogo di transito e di esternalizzazione;
problemi e situazioni che avrebbero dovuto essere gestiti a livello
nazionale ed in territori ben più ampi sono stati invece esternalizzati in
questo luogo che, per certi aspetti, è fuori dal diritto. La vicenda dei
minori stranieri non accompagnati è emblematica del come il nostro
territorio venga utilizzato. Il Ministero dell’Interno ha impedito, con
prove alla mano, la legalizzazione di minori stranieri non accompagnati
che avrebbe consentito il loro trasferimento in altre strutture definitive;
ha inventato strutture ponte dove i minori vengono accolti nel senso che
viene fornito loro il minimo indispensabile per la sussistenza (cibo,
vestiario e alloggio) ma senza che vi siano figure professionali che li
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Daedalus 2012
Intervista a Fulvio Vassallo Paleologo
seguano, senza che vi sia comunicazione al giudice minorile o al
tribunale dei minori o al giudice tutelare, senza che la questura rilasci i
permessi di soggiorno. Nel frattempo molti di questi minori sono
diventano maggiorenni (adulti in molti di questi minorenni lo sono già).
Quindi la Sicilia è anche un luogo dove si trasformano i minori stranieri
non accompagnati in adulti irregolari. Aggiungi che la gente di Sicilia
non è particolarmente sensibile a queste tematiche tanto che i gruppi e
le associazioni che protestano sono pochi e sempre gli stessi. Forse ciò è
dovuto a una serie di convincimenti e primo tra tutti il fatto che gli
immigrati non si fermano in Sicilia ed è vero visto che la percentuale di
migranti sulla nostra isola è la più bassa d’Italia (siamo secondi forse
solo alla Sardegna). C’è poi anche il convincimento che in Sicilia non ci
sia il razzismo. Niente di più sbagliato perché nelle ultime settimane
abbiamo assistito anche a episodi di razzismo istituzionale da parte di
vigili urbani nei riguardi di venditori ambulanti. Lo scorso anno un
ragazzo marocchino si è dato fuoco perché vittima di persecuzione da
parte dei vigili urbani che gli impedivano di lavorare; sotto processo,
proprio in questi giorni, vi è un altro ragazzo, sempre marocchino,
picchiato dai vigili urbani perché esercitava una regolarissima attività
ambulante ma fuori orario. Si tratta soltanto di due esempi, tra i
moltissimi altri che potrei riportare, che attestano senza timore di
smentita la presenza perniciosa e subdola di razzismo istituzionale.
Loprieno: La Sicilia dunque continua a essere terra di primo approdo,
da lasciare appena possibile.
Vassallo Paleologo: Solo due giorni fa sono arrivati dalla Tunisia 69
somali provenienti dal campo di Susha, a una decina di Km dal confine
libico. Non è un caso che dopo la chiusura di questo campo siano ripresi
gli sbarchi a Lampedusa. Moltissimi richiedenti asilo vi hanno ricevuto
un diniego di fatto inappellabile. Certo i numeri sono inferiori rispetto a
prima ma a sbarcare sono cittadini somali che avrebbero il diritto ad
accedere alle procedure per la richiesta dello status di rifugiato in uno
qualunque dei paesi che hanno aderito alla Convenzione di Ginevra del
1951: non certo in Libia che a tale convenzione non ha mai aderito ma
neanche in Tunisia che vi ha aderito ma sostanzialmente disattende tutti
gli obblighi che da essa derivano.
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Daedalus 2012
Intervista a Fulvio Vassallo Paleologo
Loprieno: Quanto dici mi ha richiamato alla mente le molte, troppe,
morti nel mare di chi sulla carta avrebbe tutto il diritto a vedersi
riconosciuta una qualche forma di protezione internazionale. E mi è
anche venuta in mente l’assurda vicenda dei pescatori accusati di aver
tratto in salvo migranti alla deriva e pescherecci al centro di fuochi
incrociati.
Vassallo Paleologo: Lo scorso anno, un peschereccio è stato mitragliato
da una mezzo libico con a bordo finanzieri italiani ma la vicenda è stata
subito dimenticata. Altri pescherecci sono stati sequestrati, dopo lo
scoppio della primavera araba, sia dai libici che dai tunisini perché
probabilmente sono in corso di ridefinizione i rapporti economici. In
Sicilia ci sono anche molte società miste, soprattutto italo tunisine,
attive nel mercato della pesca internazionale. Moltissimi tunisini
impegnati in queste attività di pesca non hanno i documenti in regola
ma si tratta di un tipo di irregolarità ampiamente tollerato dalle autorità
perché su di essa di basano i profitti degli armatori di Mazara del Vallo.
Quello dei pescatori è un quadro davvero complesso. In passato, alcuni
pescatori sono stati protagonisti di importanti azioni di salvataggio. Ed è
davvero sconcertante che alcuni di questi pescatori stiano dovendo
subire processi su processi. Abbiamo portato in appello un processo
avviatosi ad Agrigento e che, in primo grado, ha visto addirittura la
condanna di alcuni pescatori tunisini per favoreggiamento di
immigrazione clandestina. La Corte di Appello di Palermo li ha assolti
smentendo quanto la Procura di Agrigento aveva surrettiziamente
sostenuto per anni nei termini di favoreggiamento dell’immigrazione
clandestina quando invece si era trattato di un vero e proprio
salvataggio in mare. Surrettiziamente perché vi erano prove evidenti che
di salvataggio si trattava e che esso era stato svolto sotto gli occhi della
Guardia costiera. Nel processo è venuta fuori la contraddizione tra
quanto asseriva la Guardia costiera e quanto invece il Ministero
dell’interno aveva imposto di dire alla guardia di finanza e agli ufficiali
di pubblica sicurezza che avevano raccolto le dichiarazioni dei pescatori
giunti a Lampedusa. Malgrado queste assoluzioni i pescatori non
operano più interventi di salvataggio e si ripetono i casi di migranti
lasciati morire in mare, seppure in zone attraversate da navi
commerciali e da mezzi militari (come è confermato anche in una
recente denuncia del Consiglio d’Europa su un caso di omissione di
soccorso a carico dell’Italia lo scorso anno).
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Daedalus 2012
Intervista a Fulvio Vassallo Paleologo
Loprieno: Quella che ci stai raccontando è davvero una vicenda
sconcertante e sconvolgente. Un magistrato insiste a perseguire
pescatori tunisini perché rei di aver salvato vite umane? Succede
davvero di tutto nel Mediterraneo. Ed è al Mediterraneo come luogo da
attraversare e come luogo in cui si muore che vorrei ritornare. Sembra
quasi sia diventato un enorme cimitero questo mare. Le cifre sono
impressionanti: negli ultimi 20 anni più di 13.000 persone. E della gran
parte di loro non conosceremo mai nulla. Non le loro storie, non i loro
nomi, non i loro volti. Sappiamo solo che sono partiti per migliorare le
loro condizioni di vita.
Vassallo Paleologo:
Vero. Continuano a morire persone che
dall’Algeria e dalla Tunisia cercano di arrivare in Spagna, a Cipro o in
Grecia anche dalla Turchia. Le rotte sono tante e dappertutto si muore e
ci sono vittime che nessuna cerca. Parlando però con quelli che ce
l’hanno fatta, con i “salvati”, si apprende di altre imbarcazioni partite e
di cui non si hanno più notizie. In questa fase storica, è difficilissimo
parlare di Mediterraneo ed è complicatissimo il quadro interno di tutti i
paesi che vi si affacciano compresi Israele, Siria e Turchia.
Loprieno: Per l’Italia, ma anche per l’Europa, era molto più comodo
avere a che fare con i sistemi di potere di un Gheddafi o di Ben Alì.
Vassallo Paleologo: Certamente lo era. In molti stanno rimpiangendo e
rimpiangeranno i vecchi dittatori ed il sistema di potere che essi
avevano costruito. Ma si sta anche cercando di mantenere i vecchi
accordi, con espulsioni e respingimenti collettivi, anche se l’Italia non
pratica più, a quanto sembra, i pattugliamenti congiunti con le unità
libiche. Adesso, in quei territori vi sono scontri tra gruppi economici
internazionali e non a caso in Libia è presente un consistente numero di
cinesi. Anche la forza lavoro viene scelta in estremo oriente, in
Bangladesh piuttosto in Sri Lanka. La Libia dichiara di avere bisogno di
ottocentomila lavoratori per sostituire quelli che sono stati costretti a
fuggire a seguito dell’intervento armato della Nato. Ognuno di noi
conserva il ricordo delle agghiaccianti immagini dei sub sahariani del
Mali, della Nigeria, del Gabon, della Sierra Leone, trucidati perché
ritenuti, a torto o a ragione, mercenari al soldo di Gheddafi. Chi non è
riuscito a fuggire è stato ucciso, o rapinato e le donne sono state
violentate. Chi è arrivato in Sicilia racconta di aver lasciato in Libia un
certo benessere. Alle persone costrette a fuggire dalla Libia in fiamma
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Daedalus 2012
Intervista a Fulvio Vassallo Paleologo
ed in guerra, l’Italia non ha concesso neanche il permesso di soggiorno
per motivi umanitari nonostante i continui appelli dell’Asgi e di
Meeltingpot.
Loprieno: Viviamo in un mare di contraddizioni. A tutti livelli,
internazionale e comunitario e nazionale, abbondano dichiarazioni,
convenzioni, accordi sui diritti universali delle persone umane. Ma per
chi sono questi diritti? Chi ne può fruire? Tutti e tutte o solo chi ha la
fortuna di avere la cittadinanza comunitaria?
Vassallo Paleologo: Sul versante della tutela dei diritti fondamentali
della persona umana i clamorosi passi indietro sono stati certamente
indotti dalla crisi economica. Le opinioni pubbliche non sono tanto
spaventate, come artatamente sobillato per anni, dalla criminalità quanto
dalla percezione che la presenza dei migranti possa comportare la
riduzione del pochissimo welfare che rimane o che l’immigrato possa
essere un concorrente su un esangue mercato del lavoro. Si tratta di una
percezione manipolata e alimentata sapientemente da alcuni partiti che
hanno contribuito fortemente a diffondere xenofobia e chiusura nei
confronti dei migranti. Queste stesse forze politiche e sociali non hanno
capito che invece le economie hanno una speranza di sopravvivenza alla
crisi se e nella misura in cui saranno capaci di includere e di innovare;
le economie che si chiudono e che non si rinnovano saranno destinate al
fallimento in quanto schiacciate dalla grande finanza internazionale.
Loprieno: Si tratta di input che dovrebbero provenire anzitutto
dall’Unione europea. Ma l’Europa non ha mai avuto una particolare
attenzione per il Mediterraneo. Se poi l’attenzione assume le sembianze
di Frontex, c’è poco da stare allegri.
Vassallo Paleologo: In realtà, Frontex non è solo nel Mediterraneo ma
anche negli aeroporti internazionali o al confine orientale. La presenza
di Frontex nel Mediterraneo centrale è sempre stata assolutamente
simbolica tanto che, fortunatamente dal mio punto di vista, essa non ha
condotto nessuna operazione di respingimento. I mezzi impiegati da
Frontex si sono limitati all’invio di funzionari comunitari, in giacca e
cravatta, a Lampedusa con 42 gradi ad arrostire al sole con la loro pelle
bianca di polacchi o sloveni. L’istituzione dell’agenzia Frontex è stata
soprattutto una operazione ideologica e mediatica ma è anche molto
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Daedalus 2012
Intervista a Fulvio Vassallo Paleologo
servita al governo italiano per dire che le porcherie le faceva in
collaborazione con Frontex. Quando parlo di “porcherie” intendo i
respingimenti collettivi verso la Libia del 2009 per i quali l’Italia è sotto
processo alla Corte europea nel caso Hirsi e altri c. Italia. Siamo in
attesa di una decisione che stenta ad arrivare e questo non è affatto un
bene perché quantomeno le due corti europee (la Corte di Giustizia e la
Corte europea dei diritti umani) dovrebbero celermente rispondere alle
domande di giustizia che provengono dall’Italia e dagli altri paesi 1 .
Questo mi fa ritornare al punto di partenza della nostra conversazione
ed esattamente alla rilevanza del diritto costituzionale perché ripropone
l’importanza degli strumenti di tutela dei diritti fondamentali delle
persone.
Loprieno: Cosa è cambiato nelle dinamiche dei gruppi che approdano
in Sicilia?
Vassallo Paleologo: Negli anni immediatamente successivi al 2000,
arrivavano soprattutto sudanesi. Poi vi è stata la fase della fuga dal
Corno d’Africa e quindi Eritrea, Etiopia e Somalia. Nel ciclo degli
arrivi e delle partenze giocano un ruolo importante l’apertura e la
chiusura dei flussi legali di ingresso. Ad esempio, negli anni 2007-2008
molti nigeriani e ghanesi hanno potuto regolarizzarsi grazie all’apertura
di canali di ingresso legali che erano o regolarizzazioni camuffate o veri
e propri flussi di ingresso. Negli ultimi due anni, la chiusura ha
riguardato anche richiedenti asilo e minori non accompagnati, tenuti in
quarantena fino al raggiungimento della maggiore età per poterli
espellere più rapidamente. Gli ultimi arrivi sono caratterizzati da una
forte presenza di persone in fuga dal Nord africa: egiziani, tunisini,
algerini, marocchini. La fase attuale poi deve essere analizzata e
studiata anche dal punto del diritto internazionale. Per effetto degli
accordi e dei materiali forniti dall’Italia alla Libia prima ed alla Tunisia
dopo, vi è sostanzialmente una collaborazione di polizia in acque
1 Nelle more della pubblicazione della rivista, la Corte Europea dei Diritti Umani si è
pronunciata il 23 febbraio del 2019 sul caso richiamato dal Prof. Vassallo Paleologo. In
particolare, la Corte europea all'unanimità ha ritenuto l'Italia colpevole di aver
intercettato in acque internazionali i cittadini eritrei e somali e di averli ricondotti nella
Libia del colonnello Gheddafi il 6 maggio del 2009. In un solo colpo, le autorità italiane
sono riuscite a violare i principi del non- refoulement, del divieto di trattamenti inumani
e degradanti, il diritto a un ricordo effettivo nonché il divieto di espulsioni collettive.
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Daedalus 2012
Intervista a Fulvio Vassallo Paleologo
internazionali con la segnalazione delle imbarcazioni subito dopo la
partenza; le nostre unità, quindi, cercano di far intervenire le unità
libiche o tunisine in modo da evitare il trasbordo dei migranti sulle
nostre imbarcazioni e non sporcandosi direttamente le mani. È
questione nota anche ai non tecnici del diritto che quando un cittadino
straniero sale su un natante battente bandiera italiana è come se entrasse
sul territorio nazionale e gode del diritto di essere sbarcato in un luogo o
porto sicuro oltre che del godimento di diritti proclamati dalla
Convenzione europea dei diritti umani. Esiste anche un principio del
diritto internazionale del mare secondo cui l’imbarcazione che prende a
bordo una persona ha il diritto/dovere di sbarcarla in un luogo sicuro.
Fino a quando resterà sull’imbarcazione è come se fosse nello Stato di
cui batte bandiera il natante e dovrebbe essere obbligata a rispettare la
Cedu.
Loprieno: L’Africa sembrerebbe un continente in fuga.
Vassallo Paleologo: Si. E questo perché anche le speranze di
trasformazione e di rilancio economico sono state messe a dura prova in
questi ultimi mesi. Sono stato a Tunisi a fine settembre prima delle
elezioni ed il clima era pesante: nessuna esultanza o manifestazione di
gioia per le strade. I fatti di questi ultimi mesi al Cairo ci fanno capire
che la rivoluzione democratica è fallita ed è in corso uno scontro di
poteri tra le diverse componenti della società musulmana.
Loprieno: Cosa intendi per rivoluzione democratica? Non trovi sia un
ossimoro?
Vassallo Paleologo: Intendo quella portata avanti da ragazzi e ragazze
giovani e giovanissimi che, in qualche modo, si sono ispirati anche ai
nostri modelli di democrazia. Non è certo questione di esportarla questa
democrazia ma certamente i principi del costituzionalismo democratico
esercitano un fortissimo appeal sulle giovani generazioni nordafricane.
Mi ha fatto un certo effetto vedere nelle strade di Tunisi donne velate o
di sera vedere le strade vuote. Nel Sud della Tunisia e nelle periferie ci
sono situazioni che non avresti mai immaginato di trovare anche solo un
anno fa.
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Daedalus 2012
Intervista a Fulvio Vassallo Paleologo
Loprieno: I migranti con i quali hai parlato, che hai conosciuto e
difeso, che idea hanno del Mediterraneo?
Vassallo Paleologo: È impossibile generalizzare. Alcuni cercano di
dimenticarlo per sempre. Chi arriva dall’estremo oriente e il mare non
lo ha mai visto afferma spesso che non vorrà rivederlo mai più. Chi
arriva dal nord Africa conserva, sovente, del mare di mezzo l’idea di un
luogo di scambio e di passaggio perché magari i suoi genitori, tra gli
anni Sessanta e Ottanta, vivevano e lavorano in Sicilia e potevano fare e
rifare quel viaggio senza bisogno di particolari documenti. Penso agli
insediamenti di Mazzara del vallo ed alle terze generazioni di tunisini e
marocchini. Certo per un tunisino che abita a cento km dalle coste
siciliane, l’attraversata del Mediterraneo è cosa ben diversa rispetto a un
nigeriano o a chi proviene dal Bangladesh per i quali spesso quel
viaggio è il viaggio della vita, un viaggio che può essere pagato una sola
volta. A meno di non ottenere un permesso di soggiorno che è cosa
quasi impossibile per chi quel viaggio lo fa con una barca scassata o una
vecchia carretta.
Loprieno: Qual è il ruolo della criminalità organizzata, se c’è, nella
gestione dei flussi, nell’utilizzo come forza lavoro irregolare ma anche
nella gestione di queste ultime entità di accoglienza dalla irrisolta natura
giuridica? Penso ai Cie temporanei o ai simil-cara aperti in Calabria.
Vassallo Paleologo: Per quanto riguarda l’accoglienza mi pare che la
situazione in Sicilia sia diversa rispetto a quella calabrese. Ho visitato
molti campi per stranieri, anche situati in zone tradizionalmente
controllate dalla mafia, e tutto può dirsi quanto alla loro inefficacia ed
inefficienza ma non ci sono elementi che attestino una qualche forma di
presenza della criminalità organizzata. Ad esempio, Palma di
Montechiaro ospita tre comunità per minori stranieri non accompagnati
ed è ben noto che si tratta di una capitale della criminalità organizzata
siciliana. Sempre a Palma di Montechiaro hanno anche arrestato alcuni
scafisti stranieri che gestivano anche la sosta a terra, utilizzando dei
capannoni di proprietà del sindaco, ed ubicati in riva al mare. Il sindaco
era assolutamente all’oscuro di tutto. Piuttosto, anche in Sicilia nel
settore della intermediazione non ufficiale del lavoro agricolo c’è un
avvicinamento tra la sfera mafiosa e la sfera della gestione della
manodopera irregolare. I quadri intermedi sono composti da immigrati
ed i caporali spesso sono di nazionalità marocchina. Siamo però
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Daedalus 2012
Intervista a Fulvio Vassallo Paleologo
distanti dalle situazioni della Piana di Rosarno anche se a dirla tutta la
zona di Pachino, quella del pomodorino, è l’unica che può essere
comparata per certi aspetti a certe zone della Calabria. Nel resto della
Sicilia, i migranti e le migranti sono impiegati nel settore dei servizi ma
soprattutto svolgono lavoro di assistenza domestica. Sono moltissime le
badanti anche comunitarie (prevalentemente dell’Est) che certamente
non hanno gli stessi problemi delle loro colleghe extracomunitarie pur
vivendo nelle stesse loro condizioni di sudditanza. L’altro problema che
però ha un caratura nazionale concerne l’incidenza della criminalità
organizzata nei settori più lucrosi del mercato dell’immigrazione: donne
e minori non accompagnati e molto spesso donne minorenni da avviare
alla prostituzione. In questo settore vi sono certamente reti di
criminalità organizzata. È peraltro indicativo che, in alcuni casi, lo
sfruttatore o chi ha trafficato e trattato la donna approfitti ancora una
volta di lei facendosene scudo per avere una sorta di passaporto di
ingresso e, quindi, potersi accreditare come componente di un nucleo
familiare. Per fortuna, è accaduto che alcune donne a distanza di mesi
hanno trovato il coraggio di denunciare la situazione.
Loprieno: È plausibile parlare di contatti tra reti criminali
mediterranee?
Vassallo Paleologo: Nel caso di cui abbiamo appena parlato direi di no.
Infatti, la rete criminale che gestiva il passaggio dalla Libia era
composta quasi esclusivamente da nigeriani. Anche se negli ultimi
tempi, Gheddafi ne aveva fatto arrestare qualcuno per dimostrare
all’Europa di rispettare gli accordi e contrastare e combattere
l’immigrazione clandestina, i gruppi di nigeriani in Libia sono stati
definitivamente smantellati nel corso della guerra e della caduta del
regime. Nuovi gruppi criminali di nigeriani si starebbero ricostituendo
nelle zone quasi extraterritoriali al confine tra la Libia e l’Egitto e tra la
Libia e la Tunisia, una striscia di deserto che è quasi una terra di
nessuno. Situazioni simili si riscontrano al confine tra Algeria e
Marocco; ad esempio, vicino alla città di Oujda, situata all’estremità
orientale del paese confinante con l’Algeria, le autorità marocchine si
sbarazzano dei migranti in condizioni di irregolarità semplicemente
buttandoli verso il confine. I richiedenti asilo non subiscono certo un
trattamento diverso e migliore visto che i documenti loro rilasciati
dall’Achnur sono considerati carta straccia. I paesi del nord Africa
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Daedalus 2012
Intervista a Fulvio Vassallo Paleologo
hanno logiche espulsive molto violente che si traducono nell’abbandono
delle persone in zone che sono terra di nessuno ove predoni, trafficanti e
gruppi armati possono insediarsi. I nigeriani sono sicuramente presenti
lungo i confini tra Libia, Tunisia, Algeria e Marocco.
Loprieno: Credi che Cosa nostra abbia a che fare con questi gruppi?
Vassallo Paleologo: Credo di no. Cosa nostra ha affari più lucrosi da
curare. Potrebbero esserci contatti per quanto riguarda la prostituzione
ma una volta che le vittime siano già arrivate sul territorio. Peraltro, la
prostituzione che rende di più è quella bianca proveniente dai paesi
dell’Est (Moldavia, Romania, Ucraina) e non certo quella proveniente
dal nord Africa.
Loprieno: Nella rete internazionale dei traffici lo sfruttamento della
manodopera sta acquisendo una rilevanza centrale.
Vassallo Paleologo: Certamente sì ma non qui, in Sicilia. Sommando
tutti i migranti presenti nelle nove province siciliane, il loro numero
resta inferiore al numero di immigrati nella provincia di Brescia. Ed è
completamente diverso il mercato del lavoro. Se nei cantieri del nord
Italia lavorano prevalentemente migranti, qui muratori e carpentieri
sono soprattutto siciliani. Anche nel lavoro agricolo, vi è una fortissima
prevalenza di siciliani.
Loprieno: Mi piacerebbe ritornare sulla questione a cui accennavi
prima a proposito delle violente politiche espulsive poste in essere nei
paesi del Nord africa. Anche questo modus operandi mi pare funzionale
ai desideri dell’Europa che ha chiesto e continua a chiedere ai paesi del
nord Africa di fungere da cane di guardia del proprio territorio.
Vassallo Paleologo: L’Europa ha chiesto ed ottenuto tutto ciò con lo
strumento degli accordi bilaterali che, messi in dubbio durante le
concitate fasi della primavera araba, ora sono stati rinnovati. Anche
l’ultimo governo Monti ha rinnovato, in tutti i suoi termini, l’accordo
bilaterale con la Libia che, peraltro, è stato denunciato a livello europeo
in quanto contrario ai diritti umani. Si può ignorare il fatto che la Libia
non ha mai aderito alla Convenzione di Ginevra sul riconoscimento
dello status di rifugiato? Il Consiglio nazionale transitorio, da parte sua,
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Daedalus 2012
Intervista a Fulvio Vassallo Paleologo
non garantisce nessuno standard di protezione dei diritti umani né dei
migranti né dei libici che non siano schierati con i vincitori. È
certamente in corso, in Libia, uno scontro di potere all’interno del
Consiglio dall’esito incerto. In questa fase così delicata e concitata,
l’unico interesse della politica estera italiana è stato quello di mantenere
inalterati i rapporti bilaterali con i libici. Questa scelta di politica estera
si muove in linea di assoluta continuità con il passato: già a fine luglio
del 1998, l’allora Ministro degli Interni Napolitano, firmava a Tunisi un
accordo che individuava nella cooperazione bilaterale lo strumento
centrale anche per la esternalizzazione della frontiera e dei controlli, ivi
inclusi i sistemi di detenzione. Vorrei ricordare che in quegli accordi già
si prevedeva l’apertura di tre centri di accoglienza con una capienza di
500 posti per gli immigrati espulsi dall’Italia e “accompagnati” in
Tunisia.
Loprieno: Dei migranti che hai difeso in questi anni, qualcuno ti ha
lasciato una ferita non rimarginata?
Vassallo Paleologo: Tante sono le ferite non rimarginate e talvolta
anche sanguinanti. Potrei raccontare tante vicende dolorose e che quasi
ti gettano nello sconforto. Qualche mese fa, a Trapani, abbiamo
presentato ricorso contro il diniego alla richiesta di asilo da parte di un
giovane tunisino con relativa richiesta di sospensione. La Questura di
Trapani si è lanciata in una vera e proprio opera di interpretazione
creativa del diritto: ha effettuato l’accompagnamento coattivo alla
frontiera senza aspettare la pronuncia del giudice interpretando la
mancata risposta come un diniego della richiesta di sospensione del
provvedimento. Se il personale addetto alla tutela dell’ordine pubblico
ritiene di poter inventare nuovi istituti laddove questi non possono
esistere atteso, a voler tacere d’altro, che è sempre un giudice a dare
l’assenso allora vengono meno una serie di principi all’origine dello
Stato moderno di diritto: il principio di legalità ed il principio della
separazione dei poteri. È oltremodo irritante verificare come negli
Uffici immigrazione o nei Centri di identificazione le forze di polizia e
le autorità amministrative applichino le leggi ed i regolamenti con una
discrezionalità totale sì che tra quanto astrattamente proclamato dalla
legge e quanto si verifica nella prassi la distanza è siderale. A tutto
discapito, ovviamente, del regime delle libertà personali e della dignità
dei migranti. Ho provato una sensazione simile nella Grecia dei
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Daedalus 2012
Intervista a Fulvio Vassallo Paleologo
colonnelli. Era il 1972 e sapendo che dentro certe caserme venivano
trattenuti e torturati i dissidenti e gli oppositori politici, trovavo persino
insopportabile passare le vacanze in quel paese. Ora per gran parte delle
persone è normale vivere in un paese dove le garanzie democratiche
valgono soltanto per alcuni e non per tutti.
Loprieno: La questione da te sollevata circa la discrezionalità con cui
le forze di polizia e le autorità amministrative applicano le leggi è
davvero dirimente ed è insopportabile per chi abbia a cuore i valori
delle democrazie costituzionali. Di fronte a un simile abominevole
arbitrio a essere rimessa in forse ed in gioco è la qualità della
democrazia costituzionale stessa. Inevitabilmente ritorna alla mente
l’insegnamento di Foucault quando invitava a osservare il diritto non
come legittimità da stabilire, ma dal punto di vista delle tecniche di
assoggettamento che esso mette in opera. Assunta questa prospettiva, lo
sguardo deve appuntarsi non al meccanismo generale ma al potere nelle
sue estremità e terminazioni più periferiche, più locali. L’attenzione
deve centrarsi laddove il potere scavalca le regole del diritto che lo
organizzano e delimitano dandosi tecniche e strumenti di intervanto
materiali che possono anche essere violente. L’invito del filosofo era
quello di guardare al potere nell’estremità sempre meno giuridica del
suo esercizio, dove produce effetti reali, sui corpi dove le procedure
assoggettano i corpi, i corpi sono stigmatizzati, sorvegliati, controllati,
nascosti, eventualmente puniti o messi a morte. E quando Foucault parla
di messa a morte non intende solo o necessariamente la soppressione
fisica degli individui, ma anche tutto ciò che può essere morte indiretta.
Vassallo Paleologo: La violenza sui corpi di cui mi parli passa quasi
sotto silenzio e ciò mi angoscia. Anche queste sono ferite che stentano a
rimarginarsi. Parlo delle sistematiche punizioni fisiche alle quali sono
soggetti gli immigrati quando si ribellano o quando rifiutano il cibo o
quando hanno uno scatto di nervi: vengono isolati, circondati, spogliati
nudi e picchiati. È cronaca di questi giorni, come le violenze verificate
nei CIE di Trapani e di Gradisca di Isonzo. E questo avviene in maniera
sistematica con varianti come l’esposizione al freddo, d’inverno, magari
con abiti bagnati o l’isolamento in celle che sono luoghi di tortura
perché piccolissime e senza aria a sufficienza, in estate, per poter
respirare liberamente. Questo e molto altro accade qui, intorno e vicino
a noi, a Trapani come a Palermo o a Bari o a Gradisca di Isonzo. I
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Daedalus 2012
Intervista a Fulvio Vassallo Paleologo
migranti che hanno subìto questo tipo di violenza quasi sempre lasciano
capire cosa è loro successo ma, al contempo, ti chiedono quasi di tacere:
io mi racconto, ma tu non denunciare perché potrebbe accadermi di
peggio. Persino a Mineo e, dunque, in un centro di accoglienza per
richiedenti asilo ci sono stati, nell’ estate del 2011, casi di pesanti
pestaggi da parte della polizia. Le vittime, da noi subito fatte arrivare a
Palermo, asserivano di avere immagini dei pestaggi sul telefonino,
recavano segni fisici accertati dai medici inequivocabilmente derivanti
da manganelli. Poi, però, al momento di formalizzare la denuncia, e pur
soggiornando in una struttura di sicurezza a Palermo, non sono stati in
grado di proseguire nell’azione perché i migranti sanno che il loro
futuro è sotto l’arbitrio dell’autorità di pubblica sicurezza. Denunciare
oggi, per un migrante, potrebbe significare trovarsi di fronte agli stessi
agenti denunciati o ai loro compiacenti colleghi tra qualche anno.
Loprieno: Il tuo racconto ci ha fatto venire alla mente i trattamenti
disumani e crudeli che Don Cesare Lodeserto ed il suo staff riservavano
ai trattenuti all’interno dell’allora CPT di San Foca di Melendugno ed
oggetto di numerosissimi procedimenti giudiziari. Le cose che tu oggi
racconti e che sono facilmente reperibili sulla rete solo a volerle sapere
sono troppo simili a ciò che accadeva dieci anni fa. Non solo non è
cambiato nulla ma ho la sensazione sgradevolissima che le cose siano
peggiorate essendo diventate così generalizzate le violenze da essere
considerate “normali”.
Vassallo Paleologo: A fine dicembre del 2011, esattamente tra lo notte
del 28 e del 29, sono trascorsi dodici anni dalla strage del rogo del
Serraino Vulpitta in cui morirono (arsi vivi) subito tre tunisini ed altri
tre, gravemente ustionati, nei mesi successivi. Io visitai il Vulpitta
qualche settimana prima dell’incendio ed il clima che si respirava era
tesissimo. Il sovraffollamento, così come accade nelle carceri oggi,
contribuiva in maniera determinante a rendere invivibile una situazione
ove spesso l’unico modo che le forze di polizia hanno per fare rispettare
l’ordine e per farsi rispettare è picchiare, picchiare duro. L’idea che
deve passare e che deve regolare il tutto è che non conviene ribellarsi
perché le punizioni andranno ben oltre le previsioni regolamentari.
Negli istituti penitenziari accadono cose simili ma non è la stessa cosa.
Nelle carceri quantomeno ci sono giudici di sorveglianza, avvocati che
entrano ed escono, le famiglie che fanno i colloqui. Resta certamente
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Daedalus 2012
Intervista a Fulvio Vassallo Paleologo
vero che gli stranieri in carcere subiscono trattamenti differenziati
rispetto ai loro colleghi italiani. Ultimamente sta emergendo una nuova
strategia punitiva nei riguardi dei migranti: forze dell’ordine ma anche
vigili urbani in qualche modo contestano ai migranti il reato di violenza
e lesione anche in maniera assolutamente surrettizia: la lesione del
metacarpo è da intendere come il risultato di un pungo sferrato
dall’agente allo straniero piuttosto che la conseguenza di una reazione
violenta del migrante. Di un caso simile ci occupando proprio in questo
periodo qui a Palermo. Si tratta di vicende inquietanti perché sono il
sintomo evidente di una cultura diffusa tra le autorità di pubblica
sicurezza che colpisce non solo gli immigrati ma tossicodipendenti,
giovani donne, ubriachi. Soggetti deboli nei cui confronti la polizia usa
violenza gratuitamente. E ancora una volta ritornano il diritto
costituzionale ed i suoi principi. Il quarto comma dell’art. 13 della
nostra Costituzione, quello interamente dedicato alla libertà personale,
espressamente recita che “è punita ogni violenza fisica e morale sulle
persone comunque sottoposte a restrizione di libertà”. Credo sarebbe
una buona idea stampare questo principio così cristallino su adesivi da
attaccare in ogni volante, in ogni caserma, in ogni luogo ove la libertà
personale è limitata. Simili atteggiamenti violenti della polizia sono
considerati assolutamente nella norma in nord Africa ed è terribile
l’attonita sorpresa che coglie i migranti quando subiscono abusi: “non
potevamo immaginare che qui funziona come da noi”. Molti dei tunisini
giunti a Lampedusa dopo la rivoluzione dei gelsomini si guardavano
attorno quasi inebetiti perché non si aspettavano che la polizia italiana li
avrebbe trattati in questo modo.
Loprieno: E, nonostante tutto questo, il Mediterraneo è continuamente
attraversato da chi è alla ricerca di migliori condizioni di vita.
Vassallo Paleologo: Il numero degli sbarchi è comunque molto
diminuito. Nell’ultimo anno è stato come assistere a un fenomeno
eruttivo, seguito prima da una scia sismica, poi da una lavica e poi dalla
calma. Se le regole resteranno le stesse, se gli accordi bilaterali
resteranno quelli che sono e se l’Europa continuerà a pagare per la
detenzione dei migranti irregolarmente presenti, gli stati di partenza e di
approdo continueranno a privilegiare il blocco delle persone rispetto
alla loro valorizzazione anche come soggetti potenzialmente in grado di
far arrivare nei paesi di origine risorse finanziarie importanti. Sembra,
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Daedalus 2012
Intervista a Fulvio Vassallo Paleologo
invece, che i paesi da cui si parte abbiano messo in vendita la loro forza
lavoro ed il loro futuro in cambio di moneta contante. Da questo punto
di vista non meno deludente è il comportamento dei c.d. nuovi
governanti. In Libia, metà del governo transitorio è composto da ex
ministri di Gheddafi; in Egitto, la forza dei Fratelli musulmani è
diventata ancora più rilevante che nel recente passato. Chi ha ancora il
coraggio di protestare per rivendicare la libertà e la dignità viene
arrestato quando non ucciso. Nel mondo arabo vi è uno scontro tra un
Islam fondamentalista e un Islam più moderato. Il fatto che i partiti
fondamentalisti siano in crescita dappertutto e raccolgano consenso tra
il popolo e tra le classi più marginali (ma non solo) dovrebbe farci
riflettere e preoccuparci.
Loprieno: Non più di quanto avrebbe dovuto preoccuparci la situazione
preesistente. Fa molto più comodo all’Europa insistere sui pericoli di un
imperante fondamentalismo che affrontare le ragioni di una
diseguaglianza sociale e di un povertà di cui siamo correi. Altrimenti
detto ho la sensazione che a Nord del Mediterraneo in molto
preferiscano far finta di temere il fondamentalismo.
Vassallo Paleologo: Credo non ci siano molti dubbi sul fatto che, in
Europa, i centri istituzionali (e non) del potere politico ed economico
trovino molto più conveniente avere a che fare con regimi forti perché
sono quelli che garantiscono gli spazi di agibilità economica e sono
capaci di reggere un accordo politico. Regimi forti, nella accezione che
ne ho appena dato, difficilmente possono essere anche democratici.
Vedremo come saranno le nuove costituzioni ma non nutro molte
speranze o aspettative sulla avanzata democratica delle nuove
costituzioni specie in Tunisia.
Loprieno: In questa intervista corrono e si rincorrono due parole,
Mediterraneo e Costituzione, tra le quali avverto una forte assonanza.
La Costituzione è un bellissimo progetto, un insieme di principi che
spesso non trovano conferme ed anzi vengono negati. Dall’altra parte, il
Mediterraneo è sempre stato rappresentato come una bella utopia ma,
di fatto, oggi questo mare è stato trasformato in cimitero, in luogo di
esclusione piuttosto che di contatto. Non è che due utopie forse possono
rafforzarsi?
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Daedalus 2012
Intervista a Fulvio Vassallo Paleologo
Vassallo Paleologo: Vorrei crederlo ma a oggi nulla mi fa pensare che
sia possibile. La situazione nel nord Africa è diversissima, quasi
indecifrabile per molti aspetti. Ma mi sembra esistano alcuni elementi
comuni come ad esempio il fatto che l’economia corra molto più
velocemente dello Stato e del diritto. Il mio timore è che, in questi
luoghi strategici, possano affermarsi poteri economici molto forti e
penso alle multinazionali del petrolio o alle produzioni e
commercializzazione di prodotti da parte delle comunità dei cinesi.
Contestualmente vedo depressione della manodopera intesa sia come
riduzione della mobilità che come riduzione del salario; vedo
disoccupazione soprattutto giovanile esattamente come è successo da
noi. Sono già moltissimi i giovani tunisini che si stanno spostando per
lavoro in Libia. Qui sono molto ben accetti, le distanze sono facilmente
percorribili. Le tre ore che separano Brega da Tunisi sono cosa ben
diversa che la traversata del Mediterraneo. Questi e altri segnali, mi
lasciano credere che nel prossimo futuro i paesi del nord Africa si
trasformeranno in paesi di immigrazione anche in ragione del loro
potenziale tecnologico e della disponibilità di materie prime. Non
accadrà domani, ci vorrà tempo. La vera scommessa è se questa
trasformazione avverrà sotto regimi in via di democratizzazione o
seguendo, ad esempio, il modello cinese. La Cina pur non potendo
vantare il crisma della democraticità resta, infatti, un attore
fondamentale del commercio mondiale con i quali tutti i paesi del
mondo sono costretti a confrontarsi. È anche possibile, ma certo non
auspicabile, che i paesi della riva sud rientrino nella sfera del
commercio internazionale con bassissimi o anche inesistenti livelli di
democrazia.
Loprieno: Sono le tue percezioni di giurista contaminato da altre
discipline a interessarci. I migranti con cui hai avuto a che fare
percepiscono una unità del mediterraneo?
Vassallo Paleologo: Assolutamente no. Percepiscono semmai la
Francia, la Germania o anche l’Italia sebbene come ponte per
raggiungere più facilmente l’Europa centrale. L’Italia generalmente non
viene pensato come luogo di approdo definitivo perché offre troppe
poche occasioni. Un giovane tunisino, vuoi per la lingua o per le rete
parentali, ha in Francia più possibilità di realizzare il proprio progetto
migratorio anche a causa delle stesse modalità di acquisizione della
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Daedalus 2012
Intervista a Fulvio Vassallo Paleologo
cittadinanza. Se un tunisino sposa una francese o ha una figlio da una
francese ha delle ottime possibilità di sistemarsi. In Italia, a causa di una
pessima legge sulla cittadinanza, tutto questo è impossibile. Ci sono
persone che vivono in Italia da venti anni e ogni due anni devono
andare in Questura per rinnovare il proprio permesso di soggiorno. Il
sistema di welfare per gli immigrati è quasi inesistente ed odiose forme
di discriminazione sono diffuse, pur se in maniera diversa, sia al Nord
che al Sud. Non che in Francia o in Germania tutto questo non ci sia
però alcuni elementi sono maggiormente prevedibili rispetto alla
situazione di totale incertezza che regna in Italia quanto al proprio status
giuridico.
Loprieno: Davvero negli ultimissimi anni nulla o quasi nulla è stato
fatto dal governo per agevolare percorsi di integrazione tra autoctoni e
migranti. Stavo pensando alla assurdità dell’accordo di integrazione a
punti. L’integrazione da processo quantomeno trilatero (istituzioni
pubbliche, cittadini e migranti) si trasforma in obbligo: o ti integri a
punti o ti espello.
Vassallo Paleologo: Anni e anni di governo dell’immigrazione e di
politica estera affidati ad apprendisti stregoni come Maroni e Frattini
comportano, tra le altre cose, che le cose non potranno essere cambiate
in sei mesi o in un anno. Specie negli ultimi due anni, sono stati
fortemente danneggiati i rapporti tra i cittadini ed i migranti che ora
paiono un corpo estraneo in un corpo sociale che già di suo ha perso
buona parte del collante che lo teneva insieme. Ciò che oggi si avverte è
il senso di estraneità che hanno gli immigrati in Italia e la difficoltà di
aprirsi a ogni tentativo di integrazione anche quando ci sono le
occasioni. Non è facile integrare e non è facile integrarsi; non è facile
interagire con chi è stato discriminato ed additato come il capro
espiatorio di molti mali. Molti migranti hanno un atteggiamento di
sfiducia totale nei nostri riguardi e tanta voglia di andarsene. È
l’amarissimo frutto che Maroni ed il suo governo ci hanno lasciato in
eredità per il futuro.
Loprieno: Vien fuori una immagine molto triste del Mediterraneo.
Vassallo Paleologo: Scenari diversi e più rosei me li prefiguro se e
nella misura in cui le piccole e medie imprese, gli enti locali e le
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Daedalus 2012
Intervista a Fulvio Vassallo Paleologo
associazioni di settore sceglieranno di costruire qualcosa direttamente in
quei paesi. Forse un episodio può servire a meglio spiegare il mio punto
di vista. Il nostro consolato di Rabat ha ritenuto di non dover concedere
a un avvocato marocchino il visto di ingresso per poter partecipare a un
convegno organizzato dall’Asgi a Trieste. I funzionari del consolato
hanno giustificato il diniego adducendone le cause a un utilizzo
strumentale della partecipazione al convegno cui sarebbe seguito un
soggiorno illegale in Italia. Si trattava di un professionista con una
attività molto ben avviata a Rabat e con molti collaboratori. Simili
atteggiamenti di chiusura (anche ridicola) da parte delle nostre autorità
producono danni enormi: non crescono i rapporti, non si avviano
scambi né commerciali né culturali, si riduce la mobilità. Ovvio che
questo atteggiamento di sbarramento nei riguardi dello straniero solo
perché straniero rende molto in termini di dividendi elettorali. Temo che
la prossima campagna elettorale sarà ancora una volta impostata dalla
Lega in termini di pura xenofobia e razzismo.
Loprieno: I leghisti, dall’opposizione, stanno già lanciando messaggi
chiarissimi. È di qualche giorno fa l’idea insana secondo cui il servizio
dell’asilo nido potrà essere fruito solo dagli stranieri regolarmente
residenti nel comune da 15 anni.
Vassallo Paleologo: I parlamentari leghisti molto probabilmente
contesteranno anche le scelte amministrative con cui l’attuale governo
cercherà di porre rimedio ai danni della cattiveria maroniana. Anche
l’ultimo governo Prodi tentò in via amministrativa ciò che non si poteva
ottenere per via legislativa.
Loprieno: Uno dei primi atti della Ministra degli Interni è stato la
revoca della famigerata circolare 1305 con cui Maroni il primo aprile
del 2011 aveva vietato ai giornalisti l’accesso nei Centri di
identificazione ed espulsione.
Vassallo Paleologo: È certamente un buon segno ma non mi sento
neanche di enfatizzarlo troppo. I giornalisti, è vero, potranno entrare nei
Cie ma quando troveranno persone inebetite dagli psicofarmaci, che non
hanno più nessuna voglia di raccontarsi perché il raccontarsi tramite la
divulgazione di immagini o video dai loro cellulari ha loro provocato
ulteriori botte, cosa potranno fare? Dopo che per un anno intero sono
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Daedalus 2012
Intervista a Fulvio Vassallo Paleologo
successe le cose che sono successe, c’è una sola questione da porsi: i
danni sono reversibili, difficilmente reversibili o semplicemente
addirittura irreversibili? Per quando mi riguarda, credo che gli attentati
alla coesione sociale, tanto cara al presidente Napolitano, inflitti in
questi ultimi anni sono stato talmente gravi che ci vorranno molti anni
affinché si possa “guarire”. Dovrà essere superata la crisi economica, ci
vorranno nuovi progetti, bisognerà andare incontro fisicamente alle
persone nei luoghi da cui esse partono o transitano. La vera sfida è
andare lì. Io sono stato in Tunisia a settembre e sono tornato con le ossa
rotte. Ho verificato di persona come anche i nostri colleghi professori
universitari che ai tempi di Ben Alì avevano il coraggio di esporsi
denunciando ciò che accadeva ai danni dei migranti o degli operai che si
ribellavano a Redejef o a Gafsa ora sono praticamente condannati al
silenzio. Una cosa è portare una fabbrica di scarpe, altro è avviare
attività associative in difesa dei diritti umani perché si rischia di essere
arrestati. In Egitto ci sono migliaia e migliaia di giovani attivisti
democratici arrestati e esposti a pesanti trattamenti da parte della polizia
egiziana. Ho usato l’aggettivo democratico perché questi giovani e
queste giovani si sono battuti per la libertà e per la dignità umana ed è
irrilevante (per me) che siano musulmani, cristiani o coopti o altro. E
quando sono dovuti fuggire dai loro paesi per aver salva la propria vita
o non essere sottoposti a trattamenti disumani e crudeli, noi qui in Italia
li abbiamo rimandati indietro. Li abbiamo riconsegnati alla polizia
egiziana con cui quella italiana ha consolidatissimi (e moralmente assai
censurabili) rapporti di collaborazione.
Loprieno: Nel mentre noi continuiamo a ricordare ai nostri studenti ed
alle nostre studentesse la straordinaria importanza della Rivoluzione
francese del 1789 e di come essa abbia sparso i semi della libertà, della
giustizia e della eguaglianza in tutta Europa. Osanniamo le rivoluzioni
che furono per disconoscere quelle che sono in atto, sotto i nostri occhi.
Vassallo Paleologo: Sono d’accordo con te. Bisognerebbe portare i
nostri studenti lì e tentare di costruire ponti perché i ponti, quelli veri,
non sono costruiti con i governi o dai governi. Hanno da poco riaperto
l’oleodotto dalla Libia verso la Sicilia ed hanno riaperto la
collaborazione con l’Algeria per quanto riguarda il gas che, in realtà,
non si era mai interrotta. Non dobbiamo cadere nella trappola di non
considerare importanti anche questi ponti e questi scambi puramente
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Daedalus 2012
Intervista a Fulvio Vassallo Paleologo
commerciali ma la mia preoccupazione è che privilegiando solo questi
si finisca per cancellare l’aspetto umano. Del resto se sta avvenendo in
Italia non c’è ragione per credere che una diversa politica non si possa
verificare in paesi che certo non sono campioni di democrazia.
Loprieno: Mi pare che un buon titolo per questa chiacchierata possa
essere, visto che il numero è centrato sul Mediterraneo ovviamente
anche in forma critica: “Mediterraneo? Una illusione ottica percepibile
solo dalla costa europea”. Ho l’impressione che ci sia un po’ di retorica
sul Mediterraneo che solo noi siamo nelle condizioni di coltivare,
placando i morsi della nostra coscienza ma poi, dall’altra parte, questa
entità sia assolutamente invisibile. È un problema per la storia.
Vassallo Paleologo: Non saprei se considerarlo un problema per la
storia. Dal Mediterraneo, comunque, arrivano risorse anche umane da
acquistare nel modo più conveniente possibile. È conveniente acquistare
forza lavoro clandestina da pagare poco ed espellere quando e come si
vuole perché semplicemente non serve più. La forma più flessibile di
lavoro è proprio la clandestinità e, da questo punto di vista, la mia
sensazione è che si stia utilizzando il Mediterraneo come luogo di
scambio di forza lavoro irregolare a basso costo da espellere nel modo
più facile possibile quando non risponde più alle esigenze del mercato.
Insomma fabbricare clandestini è conveniente.
Loprieno: Il mio compagno, Ercole Giap Parini, ha passato un anno a
studiare un’altra “costa” di frontiera, ma dove non c’è il mare. Quella
tra gli Stati Uniti e il Messico. Da quello che ho capito, lì almeno non
c’è quella retorica, c’è un filo spinato elettrificato voluto dal
democratico Clinton. Intervistava imprenditori agricoli che gli
dicevano: noi siamo con Clinton per la elettrificazione perché questo
comporta che loro, i migranti, vengono a lavorare in condizioni peggiori
e per un salario minore. Naturalmente, Giap ha raccolto interviste
spacciandosi per un loro collega agricoltore e non certo presentandosi
come ricercatore sociale. Ed è riuscito ad avere queste “confidenze”.
Spesso le politiche di restrizione dei flussi vengono appoggiate anche da
chi pensa di sfruttare di più la manodopera.
Vassallo Paleologo: Quanti migranti lavorano nelle fabbriche e nelle
aziende di leghisti? E come mai è stata fatta una sanatoria apposta per le
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Daedalus 2012
Intervista a Fulvio Vassallo Paleologo
badanti? Uno dei problemi è che lo sfruttamento dei migranti mette in
discussione la stessa idea di democrazia dei nostri paesi e, d’altra parte,
rende più complessa la questione dell’accesso alle materie prime perché
appiattisce i rapporti con i paesi di provenienza e di transito
esclusivamente sullo scambio di materie prime. Con la Libia e con la
Tunisia gli scambi hanno a che fare o con le materie prime (gas e
petrolio) o con la facilitazione di scambi finanziari e infrastrutturali:
strade ed ospedali in cambio di oro nero. L’elemento umano è
assolutamente assente. O meglio si preferisce non formalizzarlo perché,
sottobanco, conviene a tutti che se ne parli poco, che la gente si muova,
che venga espulsa, che ritorni per essere espulsa di nuovo. Tutto ciò
diventa irrilevante se e nella misura in cui produce margini di
convenienza. Certamente si tratta di un’ottica miope. I fattori di
disperazione sociale da una parte e dall’altra del Mediterraneo
potrebbero diventare così forti da innescare rivolte: tutto dipende dal
livello di impoverimento del corpo sociale e non è detto che anche da
noi non ci saranno rivolte del pane.
Loprieno: Il pericolo per noi è che stiamo assimilando l’idea che la
differenziazione possa passare anche attraverso e sui corpi delle
persone.
Vassallo Paleologo: Concordo. Il mercato mondiale ci impone regole di
abbattimento dei diritti sociali ma questo significa anche un
abbattimento dei diritti umani. La crisi sociale si traduce in uno
svilimento dei diritti umani. La storia del Novecento sta a testimoniarlo.
Nel 1919, subito dopo la Prima Guerra Mondiale, mio nonno dovette
emigrò in Argentina ma il suo progetto migratorio fallì e ritornò in
Italia. Erano gli anni in cui si preparava il brodo di coltura del fascismo
e mio nonno diventò fascista salvo capire, allo scoccare della seconda
Guerra Mondiale, a cosa conduceva lo Stato fascista. Divenne
antifascista ma per venti anni crebbe, da salariato e con problemi di
quotidiana sopravvivenza, in quella ideologia. Talvolta, un regime
autoritario e populista (altrettanto pericoloso di una tradizionale
dittatura) appare più in grado di fornire facili e immediate risposte alle
paure e alle domande quotidiane di quanto possa fare un regime
democratico. In un percorso democratico prima di individuare una linea
di intervento si deve passare da tante mediazioni e da molti
compromessi.
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Daedalus 2012
Intervista a Fulvio Vassallo Paleologo
Loprieno: Che la democrazia, come procedura e come sostanza, sia
faticosa, imponga e richieda sacrifici è fuori di dubbio.
Vassallo Paleologo: La democrazia forse è anche un lusso che nei
periodi di vacche magre potremmo non permetterci. Non è un caso che
si muovano delle critiche alle istituzioni europee perché troppo
frammentate e, quindi, poco funzionali. Anche il povero Berlusconi che
legge e commenta i diari di Mussolini si ritrova a dovergli dare ragione:
il suo disegno presupponeva una concentrazione di poteri che,
fortunatamente per noi, gli attuali assetti costituzionali e comunitari non
consentono. La linea di tensione e di tendenza è verso il
ricompattamento delle destre populiste. Chi si presenterà alle prossime
lezioni, avrà un programma ancora più di destra e ancora più populista
anche perché dovrà sbaragliare l’agguerrita concorrenza della lega nord.
Loprieno: Ci sono tanti ingredienti pericolosi. C’è una
crisi
economica,
c’è
una
tendenza
al
populismo
ed
alla
decostituzionalizzazione, c’è un nemico etnico visibile. Certo questo
nemico non è più immediatamente l’ebreo ma potrebbe essere il rom
che oggi anche noi benpensanti facciamo fatica ad accettare.
Loprieno: Molte delle attuali condizioni ricordano molto ciò che
accadde in Europa dopo il 1919 ed in particolare al periodo successivo
all’entrata in vigore della Costituzione di Weimar ed al suo tentativo di
tenere insieme capitale e lavoro.
Loprieno: Monti incarna proprio lo spirito di quella epoca a cui facevo
riferimento: la politica completamente indebolita e lo strapotere delle
banche e dei banchieri che certo non sono incolpevoli. Sui socialnetwork fioccano le accuse alla plutocrazia. Ma cosa si cela dietro la
retorica contro le banche? Io ci vedo il sempiterno antisemitismo e
questa retorica contro i poteri occulti mi fa orrore.
Vassallo Paleologo: Ciò che dici è convincente. In una ottica
maggiormente euro mediterranea, dovremo capire come si evolverà il
feeling tra le nostre democrazie e i regimi di transizione in nord Africa.
Tutto è ancora da sperimentare e può andare nelle direzioni più diverse.
In questo momento sono davvero contento di essere un giurista e non,
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Daedalus 2012
Intervista a Fulvio Vassallo Paleologo
per esempio, un sociologo perché non capirei assolutamente nulla del
mondo circostante. Il giurista che è in me si limita a registrare
determinate percezioni, a metterle insieme, a cogliere il senso di una
prassi anche per meglio cogliere una evoluzione legislativa.
Loprieno: Da quello che so, però, un sociologo fa esattamente ciò che
hai appena descritto: cerca di cogliere il senso di una prassi e di
rapportarlo a qualche categoria che gli sembra utile.
Vassallo Paleologo: E non è facile trovarlo. Io sono in grossa difficoltà
quando scrivo un libro. Voglio rivolgermi a un pubblico vasto fatto non
soltanto di tecnici del diritto e non è facile comunicare mantenendo un
minimo di rigore scientifico, non è facile comunicare le trasformazione
in atto. I processi sono talmente in continua evoluzione che ha senso
solo fermarli in un testo per un convegno o da pubblicare su internet.
Fermarli in un testo cartaceo, nella legittima speranza che venga letto
anche dopo qualche anno dalla pubblicazione, è una impresa ardua.
Quando scrivo qualcosa mi chiedo spesso cosa di utile ci sarà tra due o
tre anni posto che in questo lasso di tempo certamente cambieranno una
serie di cose in maniera abbastanza radicale.
Loprieno: Sai cosa forse non cambierà? Non cambierà che di fronte ai
corpi dei migranti sottoposti a violenze in uno Stato che si professa
democratico continueremo a inorridire.
Vassallo Paleologo: Per chi ha almeno il coraggio della denuncia e
della indignazione, sono due cose che cerca di comunicare. Io cerco di
farlo sempre.
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Daedalus 2012
Mediterraneo e migrazioni. Una rassegna
LUIGI AMBROSI
MEDITERRANEO E MIGRAZIONI. UNA RASSEGNA
Lo scopo di questo contributo è proporre alcune brevi annotazioni
riguardanti la produzione scientifica e culturale su “Mediterraneo e
migrazioni” negli ultimi anni. Il tema rappresenta la prosecuzione e
l’approfondimento del percorso di riflessione iniziato con il secondo
numero della versione on line di Daedalus, dal titolo Il Mediterraneo
possibile, e con il terzo, Sguardi incrociati sul Mediterraneo.
L’intervallo di tempo preso in considerazione è proprio quello coperto
da questi due numeri del periodico, pubblicati tra il 2009 e il 2011.
L’oggetto è costituito da convegni e seminari, volumi e strumenti di
ricerca, in altre parole novità scientifiche ed editoriali, segnalate senza
alcuna pretesa di esaustività. Questa rassegna ha inoltre la funzione di
cornice per ulteriori e specifici contributi: le recensioni al romanzo di
Amara Lakhous, Un pirata piccolo piccolo, a cura di Valentina Fedele,
e alla raccolta di saggi di Mohammed Bennis, Il Mediterraneo e la
parola, da parte di Sabrina Garofalo; la nota critica di Stefania Salvino
al libro Occhio a Pinocchio di Jarmila Očkayová; la recensione off topic
al volume di Ulrich Beck, Potere e contropotere nell’età globale, a cura
di Rossella Paino.
La segnalazione di incontri di studio non può che iniziare da un
accenno a quello tenuto il 21 gennaio 2010 all’Università della
Calabria, con l’obiettivo di presentare il numero 2 di Daedalus, dedicato
alla cultura del Mediterraneo e alla dialettica presenza/assenza
dell’altro nell’epoca della globalizzazione. Introdotti da Ercole
Giap Parini e Vittorio Cappelli e coordinati da Alberto Ventura,
sono intervenuti il sociologo Franco Cassano e la storica Marta
Petrusewicz. Entrambi sono stati protagonisti, l’uno nella veste
dell’intervistato da Parini e Donatella Loprieno e l’altra
dell’intervistatrice dello storico americano Edmund Burke III, dei
due dialoghi che hanno aperto il numero intitolato Il
Mediterraneo possibile, mettendo sul tappeto e sviscerando il
tema, in una comune prospettiva interdisciplinare e di ampio
respiro cronologico. In tal caso, l’agile forma del contraddittorio
ha esaltato la vivacità intellettuale con cui è stata trattata la
materia, fornendo così numerosi spunti investigativi e di
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Daedalus 2012
Mediterraneo e migrazioni. Una rassegna
valutazione a un dibattito più ampio, stimolato poi con lo
strumento del Call for papers rivolto a studiosi di varia estrazione
disciplinare e territoriale. Dalle molteplici sfaccettature
considerate è emerso il rilievo, se non la centralità, del fenomeno
migratorio nel contesto mediterraneo, che con il presente numero
si intende affrontare per assi portanti, mediante dialoghi con
studiosi e operatori culturali e sociali impegnati su questo
versante, per sollecitare poi un ampliamento del dibattito per
mezzo di un nuovo Cfp rivolto a reti nazionali e internazionali di
sociologi, storici, orientalisti, ecc. Un metodo dunque che la
redazione di Daedalus ha deciso di confermare e reiterare,
valorizzando i risultati già raggiunti e cercando di sfruttarne
ulteriormente il potenziale espresso.
Per quanto riguarda la specifica prospettiva presa in esame,
va segnalato innanzitutto il convegno dal titolo Le migrazioni nel
Mediterraneo. Storia, economia, linguaggi, tenuto il 30 giugno
2010 a Napoli. La sua rilevanza sta nella pluralità di approcci
disciplinari e metodologici come pure nell’essere l’espressione di
un lavoro continuativo e strutturato. La giornata di studio
organizzata dall’Istituto di Studi sulle società del Mediterraneo
(http://www.issm.cnr.it) emerge, infatti, dal contesto istituzionale
e intellettuale del Consiglio nazionale delle ricerche, al cui
Dipartimento Identità Culturale afferisce l’Issm, nato una decina
d’anni orsono dalla fusione di tre precedenti istituti (Ricerche
sull’Economia mediterranea, Storia economica del Mezzogiorno e
Studi sulle Strutture finanziarie e lo sviluppo economico).
Dunque, con una marcata matrice storico-economica e all’insegna
della più estesa e sistematica interdisciplinarietà, l’istituto svolge
attività di ricerca lungo differenti assi, tra cui l’analisi
dell’evoluzione demografica e delle migrazioni all’interno del
bacino del Mediterraneo. Ciò avviene nell’ambito di un più ampio
progetto dipartimentale, intitolato “Migrazioni”, condotto da
diversi anni con altri istituti del Cnr, sotto la responsabilità di
Maria Eugenia Cadeddu, lungo molteplici articolazioni, tra le
quali, solo a mo’ di esempio: Migrazioni mediterranee. Lavoro,
integrazione sociale e problematiche linguistico-comunicative;
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Daedalus 2012
Mediterraneo e migrazioni. Una rassegna
Migrazioni e diritto internazionale; Aspetti storico-culturali e
linguistico-lessicografici dei fenomeni migratori e Migrazioni:
trasmissione di saperi e dialoghi interculturali. La commessa
attualmente in corso, che ha fornito il contesto al convegno, è
quella Migrazioni Mediterranee. Storia ed Economia, di cui è
responsabile la ricercatrice e docente di Lingua Araba presso il
Cnr, Immacolata Caruso. Nell’ambito dell’Issm, essa si incrocia
con una commessa dal focus tangenziale al tema delle migrazioni,
intitolata Crescita e convergenza nell’area mediterranea:
popolazione, innovazioni, istituzioni, governance, e indirizzata
dallo storico economico Paolo Malanima, direttore dell’Issm,
come parte del più ampio progetto Identità mediterranea ed
Europa. Mobilità, migrazioni, relazioni interculturali.
La ricerca del gruppo coordinato dalla Caruso intende
ricostruire il quadro complessivo delle migrazioni nel
Mediterraneo a partire dagli anni Cinquanta del XX secolo,
soffermandosi sul rapporto tra flussi migratori e sviluppo, sia nei
contesti di origine che di destinazione dei migranti. Nel panorama
dei flussi migratori internazionali, il bacino del Mediterraneo
appare particolarmente esemplificativo per comprendere la
complessità del fenomeno migratorio e i meccanismi che regolano
le migrazioni odierne, alla luce delle rilevanti trasformazioni
avvenute nell'ultimo decennio. Come l’Italia, d’altronde, molti dei
paesi interessati dalle migrazioni sono diventati allo stesso tempo
paesi di origine e di destinazione nonché di transito di migranti e,
con il permanere e spesso l'acutizzarsi delle cause che generano i
flussi, anche il modo nel quale le migrazioni si erano manifestate
in precedenza è cambiato. Tra i vari obiettivi che si pone il
progetto, c’è quello di offrire un ulteriore strumento di lavoro per
quanti indagano il tema: il database Migra-Euromed, ancora in
costruzione, che comprende statistiche di tipo economico,
costituite dai dati sul prodotto oltre che dai diversi indici di
sviluppo umano, elaborate da organismi internazionali e da
istituzioni di ricerca, e che copre un arco di tempo compreso tra
gli anni Cinquanta e l’oggi, relativamente a tutti i paesi del
Mediterraneo.
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Daedalus 2012
Mediterraneo e migrazioni. Una rassegna
I punti di vista e gli approcci presenti nel convegno
napoletano del giugno 2010 rispecchiano la complessità del tema,
a cui corrisponde l’articolazione del progetto di ricerca, senza
ignorare la priorità politica e istituzionale di cui è rivestito. Lo
attesta in particolare la seconda parte del convegno, in cui sono
stati presentati interventi di operatori e imprenditori sociali, di
soggetti che uniscono l’attività di studio con l’intervento
economico, quali l’Onlus Less, ovvero il Centro studi e iniziative
di lotta e all’esclusione sociale e per lo sviluppo, e la cooperativa
Dedalus, entrambi napoletane. Questa interazione ha naturalmente
indirizzato lo sguardo in modo più particolareggiato verso il
territorio, l’Italia e l’area napoletana e vesuviana specialmente,
sotto diversi aspetti: dalle condizioni di vita dei migranti alla
gestione dei servizi da parte degli enti locali, dall’imprenditoria
straniera alla disciplina del lavoro migrante, con un’attenzione
specifica per i problemi fondamentali e trasversali di carattere
linguistico e comunicativo. La prima parte del convegno, invece,
è stata di carattere più “accademico”, teorico, scientifico, con una
relazione riguardante il database sui flussi migratori citato in
precedenza, come strumento di gestione e trattamento di
un’imponente messe di fonti, un’altra dedicata alle specificità di
alcune aree territoriali (i Balcani, nonché i paesi del Magrheb e
del Mashreq, cioè la macroregione orientale del mondo arabo che
comprende anche Iraq e Kuwait) e quella inerente le politiche di
accoglienza nei principali paese europei e mediterranei. A questo
proposito, non sorprende la collocazione dell’Italia insieme alla
Spagna tra i paesi che applicano delle mere politiche tampone nei
confronti dei fenomeni migratori. Nella comparazione delle
politiche dei singoli paesi europei, dei maggiori paesi europei
emerge quanto conti il loro passato e la loro cultura
d’appartenenza nel fronteggiare i flussi di donne e uomini che
cercano fortuna o scampo: la Francia con un approccio utilitarista
mentre la Germania con un atteggiamento assimilazionista. Certo
ancora non è possibile individuare alcun tipo di politica, unitaria e
coerente a livello comunitario, meno di quanto sia possibile
rintracciare per ogni singolo paese.
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Daedalus 2012
Mediterraneo e migrazioni. Una rassegna
Le politiche di accoglienza (o sarebbe meglio dire di
respingimento, vista la prevalenza di questa opzione) e di
integrazione, regolarizzazione, ecc. sono un argomento che
costituisce un punto di contatto e spesso di frizione fra il mondo
della ricerca e quello istituzionale e politico, incentrando il
dibattito sull’emergenziale attualità, sulle contingenti fasi del
processo migratorio. Ne è un esempio il seminario su Gli attuali
movimenti migratori tra Tunisia, Libia e Italia, tenuto lunedì 23
maggio 2011 presso l’Università di Bergamo, con uno sguardo
sulla questione dei rifugiati e dei migranti tra Tunisia, Libia e
Italia, anche nel contesto delle recenti dinamiche rivoluzionarie
che hanno attraversato il Maghreb.
Viceversa, la tematica può essere affrontata in una
prospettiva di ampiezza cronologica notevole, attraverso un
approccio multimediale oltreché interdisciplinare, per mezzo di
un cosiddetto “contrappunto dialogico”. È ciò che ha visto
protagonisti l’antropologo, sociologo e caposcuola dei cultural
studies Iain Chambers, insieme a artisti, videomakers e musicisti
di varia provenienza (i videoartisti Anri Sala e Isaac Julien, il live
art performer Lello Lopez, il live music performer Mario 4MX
Formisano), su Migrazione, Mediterraneo e Musica, svolto l’8
giugno 2011 a Napoli. Evento basato su un progetto di
sradicamento, promosso dalle musiche che permettono di
muoversi in spazi extra-territoriali e dalla fluidità dei concetti e
dei linguaggi dell’arte contemporanea: elementi che forniscono
un’economia affettiva – una modalità per recepire e ascoltare il
mondo – in una maniera che permette di ‘piegare’ le mappe
abituali per ‘sentire’ un Mediterraneo e una modernità diversa.
Sempre a Napoli, ad attestazione della centralità anche
intellettuale – oltreché geografica - della metropoli partenopea
nello spazio mediterraneo, si è tenuto all’inizio di giugno 2011
presso l’Università Orientale, un altro convegno riguardante Le
migrazioni nel Mediterraneo. Di taglio prevalentemente giuridico,
nell’ottica prevalente della tutela diritti umani, l’incontro di studio
ha visto avvicendarsi studiosi di provenienza accademica e
scientifica, dell’Orientale e dell’ateneo Palermo, del Cnr e
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Daedalus 2012
Mediterraneo e migrazioni. Una rassegna
dell’università d’Antwerp in Belgio, nonché istituzionale, quali il
segretario della commissione Libe (libertà civili, giustizia e affari
interni) del Parlamento Europeo. Questi ultimi sono intervenuti
specificatamente su: le intercettazioni in alto mare, in relazione
agli obblighi derivanti dai trattati sui diritti umani e in materia di
salvataggio e soccorso; il ruolo di Frontex, l’Agenzia europea
istituita nel 2004, con il compito di coordinare gli Stati membri in
materia di gestione delle frontiere esterne, ad esempio attraverso
la formazione di guardie nazionali di confine, l’elaborazione di
norme comuni, l’aiuto agli Stati membri per organizzare
operazioni di rimpatrio congiunte; sulla politica di respingimento
dell’Unione Europea, con particolare riferimento alla questione
del “burden sharing”, cioè della redistribuzione dei migranti su
tutto il territorio continentale; infine, sull’accoglienza e la
detenzione dei migranti arrivati specificatamente negli ultimi mesi
dall’Africa sulle coste italiane.
Si tratta delle questioni che quotidianamente affronta
Gabriele del Grande, non dal punto di vista degli Stati impegnati a
frenare e regolare il fenomeno migratorio, ma dei migranti che
vengono respinti e spesso perdono la vita nel mar Mediterraneo. È
questo il tema del suo libro, Il mare di mezzo. Al tempo dei
respingimenti, pubblicato dalle edizioni Infinito di Castel
Gandolfo, nel 2010. Esso giunge dopo il successo del precedente
Mamadou va a morire. La strage dei clandestini nel
Mediterraneo, tradotto in diverse lingue, con cinquemila copie
vendute, tre ristampe e una seconda edizione aggiornata,
plurirecensito e pluripremiato. L’autore è l’animatore del blog
FortressEurope
(http://fortresseurope.blogspot.com),
«osservatorio sulle vittime della frontiera» e anche per Il mare di
mezzo, che ha avuto due ristampe in meno di due mesi, si
prospetta un successo editoriale, che certamente fornirà rilievo
alle storie di migliaia di uomini e donne, spesso bambini, che
compiono una coraggiosa esplorazione sulle due sponde del Mare
Mediterraneo, lungo le rotte dei viaggiatori di ieri e di oggi.
Protagonisti della narrazione del De Grande sono anche le
barriere, materiali e morali, di acciaio e pregiudizio, contro cui
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Daedalus 2012
Mediterraneo e migrazioni. Una rassegna
spesso si scontrano i migranti; i mercanti di esseri umani che li
accompagnano e i feroci carcerieri che li bloccano alla partenza,
in base a crudeli accordi internazionali, come quello tra Italia e
Libia; i pescatori del Canale di Sicilia, per cui – come ricorda
anche Emanuele Crialese nel suo recente Terraferma – non si può
lasciare che degli esseri umani naufraghino in mare senza tentarne
un salvataggio. È una storia di vite disperse in mare o rinchiuse in
un centro di espulsione, dove il diritto è sospeso… Si tratta di tre
anni di inchieste, un viaggio tra memoria e attualità, che
rappresenta un Mediterraneo sempre più blindato dalla paura
dell’altro. Del Grande si è messo in gioco di persona, risultando
espulso dalla Tunisia e nella lista nera dei servizi segreti locali,
per essersi messo sulle tracce dei somali e degli eritrei respinti in
Libia, facendo luce sul più misterioso naufragio mai verificatosi
sulla rotta per l’Italia. La sua rete di informatori, sulle due sponde
del Mediterraneo, gli fornisce materia per indagare e documentare
truffe e pestaggi. Le sue inchieste scavano nella misera storia
coloniale del nostro paese, raccontando le diaspore di due territori
occupati dalla nostra volontà di espansione imperiale, come
l’Eritrea e la Somalia.
Eppure Il mare di mezzo è stato luogo in cui – nel corso dei
secoli – è cresciuto il mito dell’ospitalità, se di mito si tratta…
Donatella Puliga, docente di Mitologia classica e Lingua e
Letteratura latina presso l’Università di Siena si è posta tale
quesito nel suo libro L’ospitalità è un mito? Un cammino tra i
racconti del mediterraneo e oltre, edito per il Melangolo nel
2010. Il volume raccoglie e commenta una serie di testi antichi
legati tra loro dal tema dell'ospitalità, raccontando la transitorietà
dell'esistenza, del nostro essere ospiti gli uni degli altri, non di
rado a noi stessi, e tutti alla terra e alla vita. Dai poemi omerici
alle Metamorfosi di Ovidio, dalla Bibbia ai grandi poemi
babilonesi, il racconto dell’ospitalità e delle sue infinite possibili
trame (l’ospitalità negata, l’ospitalità ambigua, la distanza
ospitale, il dono) si snoda in una narrazione piacevole e
affascinante, che ci parla della transitorietà dell’esistenza, del
nostro essere ospiti gli uni agli altri, non di rado a noi stessi, e
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Daedalus 2012
Mediterraneo e migrazioni. Una rassegna
tutti alla terra e alla vita. Quel vincolo attraverso cui l’incontro
con l’altro, fosse uomo o dio, comunque straniero, veniva
misteriosamente inserito in un ambito di sacralità e sentito come
un bene dei più preziosi.
In ambito letterario si muove anche Daniele Comberiati,
chargé de Recherche presso l’Université Libre di Bruxelles, dove
ha conseguito il dottorato di ricerca con una tesi sulla letteratura
italiana della migrazione. Dopo il suo libro, La quarta sponda, in
cui raccoglieva le testimonianze di nove scrittrici in viaggio
dall’Africa coloniale all’Italia, ha proseguito la presentazione dei
suoi studi con il volume Scrivere nella lingua dell’altro. La
letteratura degli immigrati in Italia (1989-2007), edito dalla casa
editrice internazionale Peter Lang nel 2010. Il contesto è quello
che ci appare dalla seconda metà degli anni Ottanta, con la già
citata trasformazione dell’Italia da paese di emigrazione a paese
di immigrazione. La letteratura scritta da immigrati è una delle
testimonianze di tale cambiamento. Comberiati esamina
storicamente e sociologicamente i mutamenti dell'ultimo
ventennio, delineandone le influenze sulla letteratura e sulla
lingua italiana, ne mette in luce le correnti culturali principali e gli
autori più rappresentativi, correla inoltre queste osservazioni agli
studi postcoloniali e di genere, e traccia della letteratura italiana
della migrazione le linee-guida e le prime conclusioni.
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Daedalus 2012
La violenza della linea retta…
STEFANIA SALVINO
LA VIOLENZA DELLA LINEA RETTA.
RIFLESSIONI SU OCCHIO A PINOCCHIO,
DI JARMILA OČKAYOVÁ, COSMO IANNONE, ISERNIA 2006
Così lo straniero, per definizione senza luogo, quindi facile al
fraintendimento, non parla ma è parlato, dietro le sue parole si ha
sempre la tendenza a leggere ciò che egli vorrebbe dire, o meglio,
ciò che non vuole dire ma che suo malgrado dice (con il colore della
pelle, i gesti, i modi, l’insito esotismo), come se la parola dello
straniero fosse un pleonasma e la sua verità, ossia la verità umana
profonda, soltanto una forma di irresponsabilità o di immaturità.
T. Lamri, I sessanta nomi dell'amore
Il romanzo Occhio a Pinocchio di Jarmila Očkayová, pubblicato nel
2006 da Cosmo Iannone Editore, è l’ultimo di quattro romanzi1 scritti in
italiano dall’autrice. L’aver scelto la lingua italiana per scrivere questi
romanzi colloca l’autrice – slovacca di nascita e immigrata in Italia
ormai da più di trentacinque anni – nel filone della “letteratura della
migrazione” o “scrittura migrante”. E della migrazione i suoi libri
narrano, conducendo la riflessione – sua e nostra – sulle complesse
ricomposizioni del sé a partire dallo strappo biografico esperito con la
dipartita – temporanea o definitiva – dal paese d’origine, ma anche sulle
dinamiche relazionali che si intrecciano tra gli individui all'interno della
società, che è anche società d'approdo per chi giunge da un altrove.
Nata in Slovacchia nel 1955, da giovanissima pubblica racconti e
poesie su alcune riviste di Bratislava. Si laurea a Bologna per poi
trasferirsi a Reggio Emilia, dove vive e lavora. Dopo essere rimasta
sospesa tra due lingue per dieci anni, l’autrice riprende a dedicarsi alla
scrittura, stavolta optando per l’italiano2, perché – come lei ha sostenuto
in diverse interviste – se uno scrittore decide di scrivere in una lingua
diversa da quella del paese in cui vive, è condannato a una sorta di
isolamento interiore, perché la lingua è come l'aria, che ci avvolge e
penetra attraverso i polmoni, entrando fin “negli anfratti affettivi,
psicologici, metaforici” (Očkayová 2002, p. 60).
1
I tre romanzi precedenti scritti dall'autrice sono: Verrà la vita e avrà i tuoi occhi
(1995); L'essenziale è invisibile agli occhi (1997); Requiem per tre padri (1998).
2
In Italia ha scritto saggi e interventi in vari campi, un racconto per ragazzi
(Appuntamento nel bosco, 1998) ed è stata curatrice e traduttrice di una raccolta di
antiche fiabe slovacche, raccolte da Pavol Dobsinsky e pubblicate da Sellerio col titolo
Il re del tempo, che nel 1998 è stato premiato dall’Unione degli Scrittori Slovacchi.
1
Daedalus 2012
La violenza della linea retta…
La scelta di scrivere nella lingua dell’altro si rivela, dunque,
principio e occasione sostantiva di arricchimento dell’immaginario
linguistico e semantico. Pone a confronto le due culture consegnando
loro “una bella lezione di reciprocità” (Očkayová 2002, p. 60) e,
liberandole da ogni particolarismo, punta apertamente all’essenziale. Le
due lingue corrono parallelamente, ognuna con i propri universi di
senso, traducendosi in una sinfonia dell’anima che tiene insieme –
eseguendole come in un’orchestra – tutte le note che meglio si
adeguano alla melodia cui si desidera dar vita. È uno spogliarsi e
indossare abiti sempre diversi, a seconda dei luoghi e dei momenti. Un
poter scegliere tra due strumenti in relazione all’umore e allo stato
d’animo. Un essere diviso e doppio che dà conto di una ricchezza e
dovizia espressiva – di modi, temi, essenze e lingue – tanto più fertile,
quanto più è messa al lavoro.
PINOCCHIO E LA SUA AUTRICE: DUE UNIVERSI PARALLELI A
CONFRONTO
L’incontro con il romanzo Occhio a Pinocchio di Jarmila
Očkayová (e con i diversi materiali che su di lei, o per mezzo di lei –
interviste, saggi, riflessioni varie – sono stati scritti), è stato foriero di
infinite suggestioni. Così tante da dover necessariamente operare una
scelta tematica 3 . Il mio sguardo si è, quindi, posato solo su alcune
questioni – migrazione, identità e riconoscimento – su cui tenterò di
svolgere delle brevi riflessioni, plausibili di ulteriore indagine, rispetto a
questo testo così ricco e complesso, i cui piani di lettura si intersecano,
complicandosi all'infinito in un continuo giochi di rimandi tra il fantastico
e il reale.
La storia che l’autrice racconta è proprio su quel burattino a noi
ben noto, le cui avventure rocambolesche e un po’ angoscianti – ma pur
sempre a lieto fine – vengono narrate nel classico di Carlo Collodi. Quel
burattino qui si presenta da sé, divenendo io narrante e raccontando in
prima persona un’altra storia, la sua storia – che è anche storia dell’
3
Un’attenzione speciale andrebbe rivolta all'uso spregiudicato e giocoso riservato alla
lingua, alle capovolte e torsioni eseguite dalle parole che prospettano un immaginario
pulsante di mondi onirici, intrecciandosi a personaggi fantastici che sbucano da ognidove, popolando le pagine di una intensa vitalità. L’apparato testuale appare intessuto
di chiari intenti ironico-parodistici e un assiduo ricorso alle metafore, il cui uso, come la
stessa autrice dichiara, è mutuato dalla cultura degli ex-paesi sovietici, dove in un clima
di rigida censura costituiva una modalità espressiva usuale e necessaria alla
sopravvivenza stessa.
2
Daedalus 2012
La violenza della linea retta…
‘umanità’ che con lui ha interagito – narrata dal suo punto di vista, che
diventa focale e de-stabilizzante. Dopo ben 250 anni di silenzio il
burattino prende finalmente la parola e ne sovverte il senso, fornendo
spiegazioni inedite, s-velandone misteri e capo-volgendo immagini e
racconti. Il rovesciamento del punto di vista – che io ho provato a
leggere attraverso le lenti di Viktor Šklovskij e Mikhail Bachtin –
propone la rappresentazione di una realtà inedita, capovolta, in cui un
burattino, liberandosi dai “fili che lo manovrano”, decide di darsi voce
facendosi “soggetto di enunciazione” (Sabelli 2007, p. 178).
La parola, “indiscussa protagonista” del romanzo (Camilotti
2008, p. 96), assurge qui ad una funzione assolutamente significativa,
divenendo dimora del disallineamento tra i differenti universi di senso,
spazio che “reca le tracce dell’alterità con cui interagisce” (Floriani
2004, p. 15). Ma anche sorgente ristoratrice e rivelatrice delle infinite
possibilità verso cui la comunicazione può muovere. È una parola che si
fa sostanza, scarnificata fino all’essenziale, sovversiva nel suo essere
costituita da mille sguardi e periferie e da nessun centro, se non quello,
profondo, primigenio, dell'animo umano.
Očkayová mostra avere una particolare predilezione per la
dimensione fiabesca, sostenuta dall’intima convinzione che essa
configuri – insieme al sogno – gli “spazi interiori della coscienza” e
come tale ci possa spronare “ad avere uno sguardo inedito sulla realtà,
più acuto, più penetrante, più partecipe” (Očkayová 2002, p. 65). La
fiaba è, dunque, assunta a parabola di vita: metafora della condizione
esistenziale e delle sue complesse, e spesso dolorose, trasformazioni.
Rispetto ai precedenti romanzi si nota un cambio di ‘umore’ della
scrittrice, che, in una intervista immediatamente successiva alla
pubblicazione di Pinocchio, afferma: “dopo tre quinti della mia vita
passati in Italia, ora mi sento più che mai, dolorosamente, straniera”
(Pegoraro 2007, p. 1). Per spiegare l’insorgere di questo suo stato
d’animo Očkayová ripercorre le fasi della sua parabola migratoria
discendente, individuando in essa tre momenti peculiari: l’abbandono
del paese d’origine e l’arrivo in Italia, segnati dall’ambizioso
conseguimento dell’integrazione e da una forte tensione verso il
presente, in una dimensione ancora venata da una pungente nostalgia
verso il passato. La necessità di ripercorrere le proprie radici per poter
giungere alla costruzione di una identità nuova, allargata. E, infine – e
siamo allo stadio da cui è scaturito Pinocchio –, la percezione che non
c’è costruzione senza ‘disintegrazione’ e sedimentazione profonda delle
diverse culture e appartenenze di cui l’esistenza ci ha fatto carico: un
3
Daedalus 2012
La violenza della linea retta…
percorso interiore che deve puntare a tirare fuori il meglio da ciò che si
è (ricevuto) facendolo “macerare”, “tentando di distillarne l'essenza”
(Pegoraro 2007, p. 1). L’impossibilità di tradurre questa dinamica
individuale in un confronto aperto, in un processo di reciproca
accoglienza ha instillato nella scrittrice l’acuta coscienza di una
solitudine profonda e il convincimento che la costruzione dell’identità
può avvenire solo in rapporto all’alterità. Solo nella reciprocità ci può
essere riconoscimento. Ed è solo riconoscendo l’altro che possiamo
riconoscere noi stessi.
Un movimento, dunque, di andata e ritorno da e su se stessi. Il
Pinocchio di Očkayová ripercorre il medesimo cammino, giungendo
alla stessa amara conclusione. Pungolando la vita (e il lettore) affinché
si risvegli dal sonno in cui è rovinosamente scivolata. Perché “la fiaba
non è stata creata, come le ninne nanne per i bambini perché si
addormentino. È nata come confessione degli adulti fatta agli adulti,
perché si sveglino”4.
PINOCCHIO E LA METAFORA DELLA MIGRAZIONE 5 : TRA
TRADIZIONE E MODERNITÀ
Pinocchio di Očkayová è una storia di duplice appartenenza che
rovina nella non appartenenza. La duplice appartenenza è quella che
Pinocchio sente nei confronti del bosco, da cui ha avuto origine, e del
mondo degli uomini, cui è stato destinato. La non appartenenza è
sancita nei suoi confronti dai ‘contesti’ cui il nostro celebre personaggio
fiabesco indirizza le sue domande di riconoscimento. Attraverso la
figura di Pinocchio l’autrice interroga, quindi, la nozione di identità: dal
punto di vista del soggetto – il burattino che tenta di conciliare le duplici
nature da cui è segnato – e della comunità – l’atteggiamento di rifiuto nei
riguardi del ‘difforme’, il non accoglimento della soggettività altra. Il suo
essere diverso, “così nudo senza la corteccia che mi aveva protetto per
secoli, e comunque fino a quel momento” (Očkayová 2006, p. 18) e lo
sforzo di vivere in between, sono ostacolati e percepiti dai contesti di
appartenenza come una minaccia alla “sicurezza di una comunità”
(Očkayová 2006, p. 18):
4
La citazione, del poeta slovacco Milan Rufus, è stata scelta da Očkayová come
epigrafe al libro di favole slovacche.
5
Come la stessa scrittrice sostiene, nell’intervista rilasciata a Pegoraro nel 2007, una
delle possibili chiavi di lettura del romanzo è vedere in Pinocchio una metafora della
figura del migrante, benché questa non corrisponda ad una sua precisa e consapevole
scelta iniziale.
4
Daedalus 2012
La violenza della linea retta…
questo coso è davvero cadaverico. Ha un’aria decisamente malsana, d’altro mondo. Ma,
dico io, vi siete chiesti da dove venga questa specie di burattino?! Vi siete chiesti che cosa
ci porteremmo a casa portandolo con noi?! Avete pensato ai vostri figli, che potrebbero
venirne contagiati? […] questa bizzarria, questa amputazione, questo ibrido che hai creato
è uno sberleffo alle leggi della natura.
E da qui lo sciorinare delle varie proposte-rimedio alla
risoluzione dell’imbarazzante ‘problema’:
Propongo di attaccarlo seduta stante all’albero d’origine. […] propongo di portarlo nel
luogo più appropriato: al museo cittadino. Lì appronteremo un’apposita sezione dandogli
il rilievo che merita. […] Propongo perciò di scavare una buca e seppellirlo dentro e
aspettare il tempo necessario perché metta radici e germogli: solo così potremo scoprire
con chi avremo a che fare. […] E questa situazione esige anzitutto questo: il controllo.
Anzi, di più: la verifica. Immediata. […] è pur sempre un ramo che si è messo a
camminare! È un fatto anormale, inquietante. In una sola parola: diabolico. […] Propongo
dunque di dargli fuoco immediatamente. Se è solo un burattino, poco male, avremo ridotto
in cenere un semplice pezzo di legno; se invece è qualcosa d’altro, riusciremo a prevenire
il peggio. - E se è qualcosa d'altro ma innocente? […] Chi siamo noi per erigerci a giudici
così estremi? Il fuoco è talmente...talmente definitivo![...] Propongo una prova più equa:
acqua...Portiamolo giù al fiume e buttiamolo dentro: se rimarrà a galla è senz'altro un
ramo; se affogherà assai probabilmente è un ragazzino (Očkayová 2006, pp. 20-22).
La condizione esperita da Pinocchio, che rimanda a quella
dell'autrice, è la condizione di un soggetto-frontiera, costretto ad abitare
un ‘terzo spazio’, il limen, lo spazio del margine, della sospensione, non
appartenendo più interamente né al contesto di partenza né a quello di
approdo.
in quel momento ero ancora in quello stato di sospensione tra il non essere più e il non
essere ancora: un ramo spezzato che prendeva lentamente la forma umana (Očkayová
2006, p. 12).
È la condizione di chi è tenuto a contrastare il disorientamento
provocato dall'evento della migrazione, il senso frantumato di sé e lo
‘stato di transitorietà’ e di imprevedibilità che caratterizzano la nuova
dimensione in cui si ritrova. È la condizione di chi ha introiettato la
“capacità di coabitare con – e di assimilare – universi simbolici in
tensione con il proprio”(Sparti 2009, pp. 261-262), tanto da farsi
“spazio che incorpora la differenza come costitutiva dell’identità” (Hall,
cit. da Giaccardi, Magatti 2001, p. 35). La soggettività del migrante
diviene alterità essa stessa, sia rispetto alla comunità d’origine che a
quella ricevente. E come tale è letta da entrambi i (o dai diversi)
contesti.
5
Daedalus 2012
La violenza della linea retta…
Mi ascoltavano sì, ma come si ascolta il rintocco di una campana, l’ululare di una sirena,
l’abbaiare di un cane lontano. Come se le mie parole fossero la colonna sonora di un film.
Un loro film. Una musica qualsiasi, dei suoni astratti. E invece io non ero astratto: io ero
un burattino in legno e ossa, e stavo male (Očkayová 2006, p. 106).
L’identità trasloca, senza quietarsi nel contesto d’arrivo “desideravo ridiventare ramo. Ma il mio pino era lontano e il mio corpo
di burattino reclamava la vita” (Očkayová 2006, p. 139) -, dando atto ad
un processo di ripensamento del sé che dovrà ricucire insieme i pezzi di
due vissuti, che si collocano, temporalmente e spazialmente, in due
differenti dimensioni dell’esperienza.
L’identità si scuce. E ricuce. Aggiungendo, come in un puzzle,
pezzi “nuovi”, che andranno a ridefinire un sé che non sarà più
appartenente e completamente identificabile con la società di partenza,
come, forse, non sarà mai completamente parte della società d’arrivo6.
Significativa è la discussione tra Geppetto e i Maestri, gli alberi del
bosco, che non riconoscono più Pinocchio come ‘uno di loro’:
–
–
–
–
–
–
–
–
–
–
–
Dimentichi un particolare Geppetto.
E cioè?
E cioè che questo è un ramo del mio albero.
Questo è Pinocchio, - precisò Geppetto.
Un orfano, - precisò il maestro Abete.
Uno sbandato, - precisò il maestro Ciliegia.
Un intruso, - precisò il maestro Pioppo.
Un capro espiatorio, - precisò il maestro Platano.
Un essere embrionale di origine sconosciuta, - precisò il maestro Cipresso.
Un'opera del diavolo, - precisò il maestro Castagno.
Un mistero da svelare, - precisò il maestro Salice.
6
Il pensiero va ad un film del 2009, Io sono l’amore, di Luca Guadagnino. La
protagonista principale è una donna russa che sposa un uomo italiano e si trasferisce a
Milano, dove crea una famiglia. Finché lei scopre l’Amore – un amore travolgente – che
la porterà ad abbandonare figli, marito ed una vita confortevole. Durante una
conversazione-narrazione con l’‘amante’ – in cui la donna tenta di mettere a fuoco il
proprio vissuto biografico – lei racconta del profondo senso di spaesamento e di
disorientamento avvertito nella sua esperienza di migrante. E dice: “Quando sono
arrivata a Milano ho smesso di essere russa. Per me c’era troppo di tutto: nelle strade,
nei negozi. Ho dovuto imparare ad essere italiana”. La sua esperienza della migrazione
è vissuta come una sostituzione di identità, a cominciare dal cambio del nome, di cui
non serba più memoria. Emerge il chiaro senso di sospensione e frammentazione che, in
questo caso, trovano un certo sollievo nella verità della relazione amorosa. Come
afferma Paolo Jedlowski: “Se la ricerca del sé ha qualche possibilità di incontrare un
punto in cui rinfrancarsi è presso l’altro: un altro solidale e amoroso che ci riconosce nel
doppio senso di attribuirci una dignità esistenziale e di farci sentire compresi”
(Jedlowski 2000, p. 119).
6
Daedalus 2012
–
La violenza della linea retta…
Un'occasione da cogliere al volo, - precisò il maestro Noce (Očkayová 2006, p. 23).
Pinocchio prova a ripensare la sua identità di uomo-burattino
anelando la nascita di una “forma” dell’essere, capace di contenere in sé
il prima e il dopo, senza essere costretto a sottrarre nessuno dei due
momenti fondanti, ma “vivendo per addizione” (Abate 2010),
riconciliato con una vita non più disgiunta e inconciliabile, ma
interiorizzata attraverso uno sguardo policromatico e polifonico.
L’identità del migrante – come costitutivamente avviene anche
per l’uomo contemporaneo – si dispiega in una ricerca che si riproduce
e si ridefinisce costantemente, restando indefinitamente incompiuta. In
fondo siamo tutti un po’ – noi individui della e nella modernità –
migranti: “siamo forse tutti stranieri sulla faccia della terra. Ogni
individuo chiuso nella sua complessità e nella sua unica e insondabile
realtà”. (Lamri 2009, p. 71) Nomadi. Viandanti. Alla ricerca mai
conclusa di una identità comprendente, che tenga insieme le infinite
dimensioni in cui l’esistenza contemporanea, sfaccettata e disomogenea,
si esplica. Homeles. Perché si è perso il senso di sicurezza ontologica,
del radicamento in uno spazio familiare in cui prevalgano
l’intellegibilità e la prevedibilità dell’agire altrui.
Il Pinocchio-migrante fa del dubbio il suo elemento biografico e
identitario
costitutivo,
istituzionalizzandolo,
declinandolo
e
ricomponendolo attraverso il paradigma della riflessività (Giddens
1994), divenuto uno dei tratti cardine della modernità.
Pinocchio non si riconosce più, non ritrova più l’identità tra il sé
che abitava l’altrove e il sé che alberga il qui e l’ora: è la tensione tra
identità e non identità, di cui parla Crespi, che qui si acuisce. È quel
“bisogno confuso di perdersi e di ritrovarsi” a cui accenna Melucci
(2000, p. 38). È quel fuoriuscire dalla cornice a cui allude Frida Kahlo7.
È come un trasloco che, dopo aver avuto luogo, richiede una
riorganizzazione “interna”: non sempre i “moduli” pensati per la prima
abitazione risultano adatti per la nuova, quasi mai si incastrano bene:
c’è sempre qualche variazione da fare, qualche aggiustamento, qualche
sostituzione. Si sperimentano così diverse soluzioni possibili: alcuni
pezzi che nel prima avevano una rilevanza maggiore, dopo potranno
apparire meno rilevante, magari usati in forma indebolita, non
egemonica. Non si tratta di costruire un’identità ex-novo, ma di ri7
Ci si riferisce alla citazione: “È necessario che le nuvole fuoriescano anche dalla
cornice. Tutto esce sempre da se stessi: il sangue, le lacrime, le nuvole, la vita stessa”.
7
Daedalus 2012
La violenza della linea retta…
modularla, arricchendola di nuovi elementi, trovando i giusti
adattamenti.
L’identità si configura, quindi, come sistema e processo,
permanenza e mutamento. Se assumiamo l’incertezza come una delle
dimensioni qualificanti l’esperienza contemporanea dell’individuo
moderno, riusciamo a cogliere meglio il senso e la portata delle
trasformazioni ‘subite’ dall’identità e il carattere processuale da essa via
via assunto.
L’esistenza di Pinocchio è una continua domanda; la sua identità un
dubbio irrisolto; la relazione con l’altro, una contraddizione dolorosa. In
questo senso l’identità si traduce in un “campo di possibilità e di limiti”
(Melucci 2000, p. 34) – soggetto ad aperture e chiusure, variazioni e
persistenze – che si costruisce in relazione con l’altro. E, sicuramente, il
Pinocchio di Očkayová si delinea come una figura intrisa, dalle radici
ai rami protesi verso il cielo, di modernità.
I “FILI” DELLA DIFFERENZA: LA DIFFICOLTÀ DEL
RICONOSCIMENTO
Il riconoscimento dell’altro si configura come “l’imperativo
morale fondamentale” dell’individuo, la cui violazione comporta la
violazione della stessa natura di essere umani (Cortella cit. da Crespi
2011, p. 8). Sparti la definisce come un atto di respons-ability, verso
l’altro e verso noi stessi. Come lo stesso autore precisa, il termine
‘riconoscimento’ è usato non nel senso hegeliano, ripreso da Crespi, di
riconoscimento ‘reciproco’, né nel senso kantiano di “eguale rispetto”,
ma come “riconoscimento pratico” o, con il termine inglese,
acknowledgement. Quando ad essere riconosciuta è un’altra persona,
l’aknowledgement si traduce in “risposta alla sua presenza”, che
significa essere sensibili o “responsivi” nei suoi confronti8.
Pinocchio durante il suo “viaggio iniziatico” – come lo definisce
la scrittrice in una sua intervista – “dal bosco/albero/natura a qualcosa
di autenticamente umano. O atrocemente disumano, laddove l'umanità
viene calpestata, negata” (Pegoraro 2007, p. 2), sperimenta il
fraintendimento, il dissenso e il conflitto: elementi che impediscono il
8
In particolare Sparti opera una distinzione tra identificazione cognitiva o recognition e
riconoscimento etico espressivo o aknowledgement: mentre il primo è un capire “con
chi abbiamo a che fare”, e identifica “una funzione di orientamento sociale”; il secondo
è un approvare, un “conferire valore alla presenza dell’altro”, che “contribuisce sia a
formare geneticamente una identità personale che a mantenere eticamente la dignità
della nostra appartenenza alla metasfera dell’umanità” (Sparti 2000, pp. 54-55).
8
Daedalus 2012
La violenza della linea retta…
processo dell’incontro con l’altro. Il tentativo di spogliare lo sguardo
dai confini che lo vincolano, viene qui ostacolato dalle comunità di
‘appartenenza”, che incatena la sua lacerante parole9, impietosamente
profanando “tutto ciò che oggi vuole dirsi ancora umano” (Očkayová
2006, p. 184)10. La sua soggettività non è, dunque, riconosciuta nella
sua identità totale, ma subisce un processo di emarginazione e di
misconoscimento, che impedisce la reciprocità.
Nell’atto del riconoscimento è insita la scelta dell’altro, che si
traduce in un atto di responsabilità. Si tratta di tessere trame di
inclusione o di esclusione dell’altro. E l’esclusione, nella storia di
Pinocchio, è “ad alta gradazione angoscica” (Očkayová 2006, p. 119),
benché da essa il nostro burattino tenti di sfuggire, smaterializzandosi in
uno ‘stoppino’ – “Stoppinocchio” – tramite il quale recupera la libertà
del pensiero e dell’immaginazione11. Credo che questo passaggio sia
significativo: Pinocchio consegna al proprio ‘doppio’ le sue aspirazioni
(emotive e sociali) recondite, non realizzate; le consegna all'ombra di se
stesso, che si ritaglia nel sogno-visione uno spazio di libertà irriducibile,
una via di fuga da una realtà che ha scartato la propria soggettività,
ricusandola12. Come ci ricorda ancora Sparti, l’atto del riconoscimento
9
Il riferimento è chiaramente ai concetti di langue e parole di de Saussure, che qui non
è dato approfondire.
10
A un certo punto della storia Pinocchio viene trascinato sotto la Quercia grande da
Mangiafuoco e incatenato e minacciato di morte se non avesse pronunciato le parole
fatali: “Desidero avere dei fili!”. Il rifiuto gli costa l’incarcerazione in un casotto a
forma di pescecane, da cui non ne uscirà, se non in forma ‘rarefatta’.
11
Alla fine anche Pinocchio di Očkayová si trasformerà in uomo: ma sarà un uomo in
catene e rinchiuso a vita in un gabiotto soffocante, benché ancora irriducibilmente
aggrappato alla sua immaginazione e alla speranza.
12
Esempi di questo sdoppiamento si possono riscontrare in molta parte della letteratura
moderna, in cui troviamo diversi personaggi che “non avendo una chiara coscienza del
proprio Io”, si sdoppiano, sostituendolo “con quello di un altro, estraneo” (De Vidovich,
p. 47). Tra questi, ricordiamo due tra i tanti personaggi della tradizione letteraria slava:
Akakij Akakievič, protagonista del romanzo Il cappotto di Gogol’ e Goljadkin, del Sosia
di Dostoevskij. E la lista potrebbe continuare: penso soprattutto a Gregor Samsa de La
metamorfosi di Franz Kafka. In relazione alla vicenda di Pinocchio, molto ci dice il
racconto di Gogol’. A differenza di Pinocchio, il personaggio del racconto di Gogol’,
attua la strategia dell’isolamento dal mondo, rintanato nel guscio della sua pensione,
dove conduce un’esistenza monadica. È la resa dell’individuo di fronte ad una società
da cui è disconosciuto. Ed è proprio al fine di ottenere riconoscimento – oltre che per
proteggersi dal freddo pungente di San Pietroburgo – che Akakij Akakievič decide di
dar fondo ai suoi risparmi e farsi cucire finalmente un cappotto nuovo, per mezzo del
quale, sebbene per un tempo brevissimo, ‘conquisterà’ una nuova identità – omologante
– che gli permetterà finalmente di essere visto e considerato dai suoi colleghi, e di
9
Daedalus 2012
La violenza della linea retta…
all’interno di una relazione – che non è il risultato scontato dell’incontro
con l’alterità – conferisce alla persona riconosciuta un ‘bene d’identità’,
determinandone una ‘fioritura’. Quando ci accostiamo, ci ‘esponiamo’
all’altro nell’incontro, siamo generalmente colti da un ‘impulso scettico’
(che è ciò che succede per esempio ai ‘maestri’ nei confronti di
Pinocchio), per mezzo del quale tendiamo ad eluderlo, cosicché
nascosto ai nostri occhi, l’altro non si vede, non gli si dà la giusta
considerazione etica e sociale.
Tale scetticismo può, dunque, sfociare in una elusione (che è
disconoscimento della stessa condizione umana, ovvero della finitudine,
dei limiti e della vulnerabilità che le sono proprie) che crea indifferenza
e separatezza; o tramutarsi in un riconoscimento che può essere,
appunto, di tipo cognitivo (l’individuo viene identificato all’interno
della categoria di ruolo) o espressivo (riconoscimento della singolarità
dell’individuo e della sua dignità). Ciò che accade in ‘questa’ storia di
Pinocchio è proprio l’elusione, la separatezza, una percezione distorta
dell'alterità, giustificata dall’assunzione di una prospettiva ‘centrista’ che
stabilisce aprioristicamente chi è (o dev’essere) illuminato “dai raggi di
‘valenza universale’” (Očkayová 1995, p. 102). Per dirla con le parole
della nostra autrice, il mondo non è altro che “un mosaico di idee, o meglio
di raccoglitori di idee, tessere viventi che si accostano l’una all’altra e
nell'accostarsi percepiscono l’alterità accanto e ne sono percepite e così
disegnano i confini di sé, che sono contemporaneamente i confini dell’altro
e l’idea che ci facciamo del mondo intorno a noi. Dunque, non solo il
mondo non esiste se noi non lo percepiamo, ma nemmeno noi esistiamo se
non veniamo percepiti dal mondo” (Očkayová 1995, p. 23).
Il riconoscimento è, dunque, un bisogno inalienabile
dell’individuo, e viene prima ancora del riconoscimento di sé. È un atto
che potremo considerare come elementare e fondativo dell’esistenza
umana, che si gioca, come nella comunicazione, tra un emittente e un
destinatario, o nei racconti, tra un soggetto narrante e un uditore. È la
modalità dialogica e relazionale che si instaura tra due soggetti
interlocutori e, come tale, non è neutra, ma può essere positivamente o
negativamente connotata, e aggettivata con una vasta gamma di
assumere un’inedita, benché momentanea, consistenza, dando luogo ad un principio di
quel riconoscimento etico, attraverso il quale si attua la cura dell’identità, nella
relazione con l’altro. Il racconto si conclude con la morte di Akakij, il quale, non
riuscendo a sopportare la ‘perdita’ del cappotto nuovo, si trasfigurerà in un fantasma
che, nella notte – a mo’ di rivincita – sbeffeggia i malcapitati strappando loro i cappotti
da dosso…
10
Daedalus 2012
La violenza della linea retta…
espressioni. Il riconoscimento è essenziale per la costruzione
dell’identità individuale: la sua non concessione, il suo
misconoscimento divengono condizioni distruttive dell’identità. Che è
quanto si verifica a conclusione della fabula romanzata da Jarmila
Očkayová.
Il finale del romanzo di Pinocchio, che si presenta come una
sbavatura rispetto al classico collodiano, destabilizzando il lettore che si
aspetta il lieto fine, ci consegna l'impressione di un dialogo interrotto.
L'invito alla speranza sembra infrangersi contro un'incomunicabilità che
si fa pietra, tramutandosi gradualmente in una dimensione di
indifferenza stagnante, che tutto copre e raggela. Essa si tradisce quale
piaga incurabile del soggetto in relazione, in cammino verso la ricerca
della propria identità e del senso universale del vivere. Punte di
angoscia si introducono nelle pieghe dell’animo del lettore – che,
ritornato quasi bambino, si chiede: ma perché?, ma che fanno?, ma non
si rendono conto che così lo ridurranno alla morte? –, disorientandolo
fin quasi allo smarrimento di fronte ad una fine così inaspettatamente
amara e (quasi) fraudolenta. È l’ombra dell’(insopprimibile?) umana
incomprensione che transita attraverso le parole palpitanti, insinuando
trepidazione e inquietudine. La costernazione che ne promana è appena
spezzata dal farsi carne di una flebile speranza: una nostalgia per un
futuro che si traduce in un sogno muto: “la felicità dell'attesa del
sole”(Abate 2007, p. 75), che Pinocchio pare rincorrere “come un
assetato che segue un miraggio” (Lamri 2009, p. 69).
E Pinocchio, “occhio di pino”, con “quel suffisso che nel mio
nome specifica la facoltà visiva” (Očkayová 2006, 18), muove verso
l’ultimo viaggio: il viaggio di ritorno verso di sé. Controvento. Perché
qui il ribaltamento della storia si manifesta sino alla sua conclusione:
l’eroe non vince, ma, alla stregua di una visione onirica, si dilegua nel
bosco incantato, sconfitto dal drago13.
Se è vero che “lo straniero conosce “in vita” l'esperienza della
morte – “Si muore a degli affetti, a dei paesaggi, dei pensieri per
rinascere ad altri affetti, altri paesaggi, altri pensieri” (Lamri 2009, p.
44) – lo straniero-Pinocchio muore senza aver la possibilità di rinascere
a nuova vita: di trovare ciò per cui si era messo in cammino, di veder
fiorire unitamente le sue due identità attraverso una parabola di
13
Questa considerazione riecheggia volutamente la conclusione della proesia
‘Germanese’ di Carmine Abate: “[...] L'eroe vince sempre / e il drago sconfitto ma vivo
/ si dilegua nel bosco incantato” (Abate 2011, pp. 67-68).
11
Daedalus 2012
La violenza della linea retta…
metamorfosi interiore. E muore per volontà di chi non ha saputo
(voluto?) riconoscerlo, di chi lo ha estromesso – isolandolo ed
escludendolo – in nome di una diversità che spiazza e intimorisce: è
l'impossibilità di categorizzarlo, di farlo rientrare in forme ingessate ma
immediatamente riconoscibili che induce la comunità a respingerlo.
Concluderei con le parole della stessa autrice:
sono profondamente convinta che le radici etniche siano importantissime: forgiano il
nostro senso di appartenenza, la coscienza della nostra identità, il nostro primo alfabeto
dei valori, dei sogni, delle emozioni. Ma non siamo alberi per cui le nostre radici hanno
davvero un senso, soltanto se sappiamo protenderle verso gli altri (Očkayová 2002, p. 62).
12
Daedalus 2012
La violenza della linea retta…
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14
Daedalus 2012
«voglio fare la straniera»…
SONIA FLORIANI
«VOGLIO FARE LA STRANIERA».
APPUNTI DI LETTURA SU CONCERTO A BERLINO
DI FRANCESCA VISCONE, CITTÀ DEL SOLE,
REGGIO CALABRIA 2009
IL MURO E I MURI
Il “concerto a Berlino” – che dà il titolo al romanzo di Francesca
Viscone1 – è un’esecuzione al pianoforte sulle macerie del muro, sotto
una pioggia pungente.
Il muro di Berlino è stato ormai abbattuto. Il romanzo si apre,
appunto, sull’evento, di cui riferisce Piera, la giovane donna calabrese
che è la protagonista e l’io narrante. Piera assiste al crollo, ma con
distacco, senza lasciarsi coinvolgere dall’euforia dei Berlinesi. Non
perché sia straniera, bensì perché aspettava da tempo che l’evento
accadesse, perché ha ormai capito che la storia è fatta di inizi e di
conclusioni, e che il superamento è la sua legge ineluttabile. E perché è
convinta che non tutti gli eventi riescono a cambiare effettivamente il
corso della Storia e i destini individuali, e, nel caso specifico, che
l’abbattimento di questo muro di mattoni non contribuirà ad abbattere
altri ‘muri’, invisibili e impercettibili, ma non meno invalicabili.
A riguardo, la ragazza avrà ragione: il crollo del muro di Berlino
non riesce nemmeno a scalfire altri ‘muri’, quelli eretti sul pregiudizio
che non si lascia tentare dalla curiosità dell’esperienza e della
conoscenza dirette, i quali sono funzionali, in Germania e ovunque, a
mortificare, a discriminare, a escludere l’altro. Da qui il suo
convincimento che un muro di mattoni, deperibile come tutto ciò che è
materiale ed edificato, potrebbe essere di minore impedimento, nella
coesistenza con l’altro, del “muro dei muri” – si può dire parafrasando
Abate (2006)2 – del pregiudizio.
Non che il muro di Berlino non abbia diviso ed escluso, non
abbia lasciato tracce di sé nella ‘grande’ Storia, o non abbia segnato
1
Francesca Viscone, calabrese, è docente di lingua e civiltà tedesca, scrittrice,
giornalista e saggista. La pubblicazione di questo romanzo è del 2009, per le edizioni
Città del Sole di Reggio Calabria. Nel testo farò a esso riferimento con la sigla CaB.
2
Il racconto di Abate, che dà il titolo alla raccolta di cui è parte, narra di un episodio di
violenza estrema ai danni di un giovane figlio di immigrati italiani nella Germania post
riunificazione, un episodio che attesta la resistenza del ‘muro’ del razzismo nonostante
la caduta (eccessivamente enfatizzata e celebrata) di altri muri fisici.
1
Daedalus 2012
«voglio fare la straniera»…
irrimediabilmente le ‘piccole’ vite di tanti uomini e tante donne. Anzi.
Queste tracce e questi segni Piera li aveva già rilevati in passato nella
parte est di una Berlino ancora divisa, nel corso di una visita solitaria
nella città stretta nella morsa del regime, oppressa dal controllo
poliziesco, immobilizzata nel passato, decadente nell’architettura, e
deprivata delle libertà fondamentali, di qualunque prospettiva, di
qualunque aspirazione, se non quella alla fuga, solo immaginata o anche
tentata. E li rileva poi, più drammaticamente, nel vissuto e nel destino di
Christian, il giovane pianista berlinese di cui si innamora.
La famiglia di Christian è originaria della Germania orientale.
Dopo aver vissuto l’orrore della guerra, la divisione del Paese la pone –
come accade, del resto, a tanti Tedeschi dell’Est – davanti a una scelta
difficilissima: scegliere in quale Germania vivere e quale abbandonare;
decidere quale Germania eleggere a propria patria. Una ‘scelta’
lacerante che, quando ‘privilegia’ la fuga, impone la separazione,
l’abbandono e, quasi sempre, una lacerazione non ricomponibile.
Il padre del giovane, Uwe, seguendo la madre e i fratelli, scappa
alla volta della Germania occidentale prima della costruzione del muro;
la fidanzata, Ulrike, lo raggiunge successivamente, dopo che il muro è
stato costruito, attraverso una fuga fantasiosa e pericolosa con cui si
lascia dietro i familiari. Nonostante il matrimonio e la nascita di
Christian, Ulrike non riesce a superare il rimorso per aver abbandonato
la sua famiglia e, poi, per la morte del fratello ucciso nel corso di un
tentativo di fuga all’Ovest. A questo punto, andando incontro a un
tragico destino prima di incarcerazione e poi di collaborazione con la
Stasi, la donna fa ritorno nella Germania orientale, scomparendo per
sempre dalla vita del marito e del figlio. A questo ulteriore abbandono,
Uwe reagisce in maniera estrema: abbandona, a sua volta, il figlio e il
mondo, e vive recluso in casa, intento a un’impresa folle, quella
dell’abbattimento e della ricostruzione continua delle pareti di casa, un
tentativo forse di esorcizzare il ricordo di quel muro che, costruito per
dividere uno stesso popolo, ha separato tanti dal proprio percorso
esistenziale.
Christian, abbandonato da tutti, lasciato a se stesso, chiuso nel
ricordo ossessivo della madre da cui spera ardentemente di essere
cercato e trovato, fa del suo attaccamento al pianoforte e del suo
progetto di divenire un concertista il baricentro della sua esistenza.
Ma, purtroppo, il passato familiare si impone come forza
distruttiva sul suo vissuto proprio quando il futuro pare avviarsi. Nel
corso del suo primo concerto importante a Berlino, ricompare la madre
2
Daedalus 2012
«voglio fare la straniera»…
che, non vista, assiste all’esecuzione del figlio. A questa fuggevole
ricomparsa segue il suicidio della donna. E Christian si arrende,
lasciandosi travolgere e inghiottire dalla sofferenza del passato e del
presente, e non potendo pertanto procedere verso il futuro, nella sua vita
e nella sua carriera, nella relazione con Piera.
L’esecuzione al pianoforte sulle macerie del muro è di Christian,
ormai fuori dal mondo e irraggiungibile per tutti, chiuso in una
dipendenza ossessiva ed esclusiva dal suo pianoforte. E questa
esecuzione è l’ultima immagine che Piera cattura di lui,
immediatamente prima di lasciare per sempre Berlino e dopo essersi
dovuta arrendere all’impossibilità di questa storia d’amore.
Eppure, il giovane pianista tedesco e la giovane studentessa
calabrese avevano scommesso sulla tenuta della loro relazione, sulla
possibilità di attraversare insieme il presente e il futuro accogliendosi
nei rispettivi mondi e nelle rispettive storie. A patto però, come intuisce
Piera, di riuscire entrambi a prendere le distanze dal proprio passato e a
liberarsi dai relativi vincoli – Christian, dal suo passato personale di
abbandoni, solitudine e sofferenze, dal passato familiare di fughe,
lacerazioni e sconfitte, dal passato tedesco di violenza e orrori; Piera,
dal passato subìto nel luogo d’origine e dagli eventi dolorosi che hanno
toccato persone a lei care. Nessuno dei due riesce nell’intento,
nemmeno Piera, in fuga perenne dal paese, ma incapace di staccarsi
effettivamente dal passato. La loro storia viene, quindi, sconfitta dai
fantasmi del passato, che non riescono tuttavia a soffocare i sentimenti,
i ricordi, la sofferenza.
Il muro dei muri – sembra allora di capire – può anche essere il
muro interiore che i vincoli e il peso del passato riescono a costruire
dentro di noi, un muro invisibile agli altri, impercettibile per sé e per gli
altri, eppure invalicabile nella corsa dentro il presente, verso il futuro,
alla volta dell’altrove.
L’ERRANZA, GLI ALTROVE E IL NON RITORNO
Piera, che abbiamo visto immersa nelle vicende tedesche, non è una
migrante. Quantomeno non lo è secondo la categoria sociologica di
migrante, la cui definizione più ricorrente, ancorché problematica per la
sua approssimazione, include il trasferimento dal paese natio o di
residenza abituale e la prolungata permanenza nel nuovo paese
(Ambrosini 2005, p. 17). Nel romanzo i termini che ricorrono
maggiormente per descrivere il suo movimento continuo sono
“fuggitiva” e “nomadismo”. Io proporrei di considerarla un soggetto
3
Daedalus 2012
«voglio fare la straniera»…
errante. Piera si è messa in viaggio, senza una meta precisa ma con una
chiara direzione: la sua erranza prevede soltanto di andare avanti, verso
nuovi altrove, e di non tornare mai indietro, né al paese natio né in
alcuno dei luoghi in cui è già stata. Come lei stessa afferma: “In verità,
non tutte le rondini sono ritornelle. Alcune vanno e basta” (CaB, p. 75).
Piera è, appunto, una rondine non ritornella.
Sintetizzando la sua giovane biografia nei tre luoghi più salienti,
Piera dice di sé: “Venivo da un paesino vuoto e abbandonato e da una
Napoli violenta e invivibile. Berlino per me era tutto un mondo. Era il
mondo intero” (CaB, p. 84).
La ragazza è nata e cresciuta in un tipico paesino calabrese,
arroccato sulla collina e distante uno sputo dalla costa. Nei suoi
vent’anni o poco più di vita, il paese è stato per lei l’unico luogo in cui
ha provato un senso di appartenenza totalizzante, il luogo degli affetti
certi e irrinunciabili, l’unico luogo in cui è stato pensabile condividere
ogni cosa e di cui avere nostalgia. Queste certezze esistenziali sono state
però pagate a un prezzo altissimo: il primato della comunità sulla
persona. In paese, difatti, il controllo sociale sulla persona è costante e
capillare impedendo così qualunque aspirazione alla libertà,
all’autodeterminazione, alla scelta. In paese, cioè, ognuno è deprivato
della libertà di essere se stesso e diverso dagli altri, ma a ognuno è
imposto di essere uguale agli altri, di comportarsi come gli altri, di fare
le stesse cose degli altri, anteponendo quello che pensano tutti a quello
che pensa e vuole il singolo, il pregiudizio e le convenzioni sociali
all’esperienza e ai sentimenti. Il tutto immerso nel vuoto,
nell’immobilismo, nella chiusura verso l’esterno, nel ripiegamento su di
sé3. E con l’aggravante della presenza mafiosa, che tutto può distorcere
e tutti può traviare, ma, rinunciando a credere che un’altra realtà sia
possibile, la resistenza per non farsi contaminare diventa sempre più
difficile, la libertà di azione e scelta e, spesso, la vita sono messe a serio
Il suicidio dell’amica Letizia, per esempio, è stato la conseguenza tragica del rifiuto
opposto dalla famiglia alla sua storia d’amore con un giovane palestinese, degli ostacoli
posti al ricongiungimento fra i due amanti, dell’abbandono inflitto nel momento della
solitudine e della disperazione. Come conclude amaramente Piera: “A volte è quasi più
facile non avere nessuno. Non avere nessuno che abbia delle idee, dei desideri sul tuo
conto o dei progetti di felicità per il tuo futuro” (CaB, p. 36).
3
4
Daedalus 2012
«voglio fare la straniera»…
rischio, e la progettualità, che si nutre di vita, diventa sempre più
evanescente4.
Rinunciando alla certezza e al conforto dell’appartenenza, dal
paese si deve scappare via e non farvi più ritorno. L’erranza di Piera
inizia, appunto, con questa fuga.
La fuga è stata preceduta e, in un certo senso, originata da altre
fughe, più lontane nel tempo. La fuga del paese da se stesso: agli inizi
dell’adolescenza di Piera, il paese si è difatti svuotato ed è sceso dalla
collina al mare, e sui suoi vicoli e sulla sua piazza è calato
definitivamente il silenzio. Ma anche le fughe di breve distanza che
Piera compiva insieme a Nicola, amico d’infanzia e primo amore, per
sottrarsi al controllo ossessivo della comunità paesana, e per poter
immaginare altre fughe insieme in futuro, alla volta delle metropoli in
cui accade la Storia e in cui poter essere finalmente liberi. E,
soprattutto, la fuga migratoria del padre della ragazza.
Il padre di Piera – come tanti, troppi Calabresi - è migrato in un
Paese europeo, da cui faceva periodicamente ritorno a casa, ma mai del
tutto visto che il suo sguardo rimaneva sempre velato di altrove.
Quando tornava, l’uomo evitava di farsi vedere in giro e non faceva
alcun tentativo di reintegrazione in paese. La sua fuga perenne lo
portava a chiudersi nel progetto ambizioso, mai realizzato
compiutamente, di costruire una grande casa per l’intera famiglia.
La biografia del padre è stata forse per la ragazza la lezione più
convincente che nessuna fuga possa consentire un effettivo ritorno, e,
soprattutto, di mettere nuovamente radici, di avere nuovamente dimora
nel posto che si è lasciato (o in qualunque altro).
Nell’erranza di Piera, la tappa di Napoli è soltanto una parentesi,
quella universitaria, che si profila tale già al momento della scelta e che
si confermerà tale attraverso l’esperienza. La città è esperita, cioè,
soltanto come un altrove di passaggio, in cui la giovane non sa cercare
e non sa trovare niente se non quel forte senso di precarietà che “è
l’unica cosa che rischia di diventare eternamente stabile nella mia vita”
(CaB, p. 66), e sul quale non sembra possibile edificare un progetto di
vita di lungo termine. Forse anche perché la città presenta delle
similitudini inquietanti con il paese di origine: la presenza di una
(micro)criminalità diffusa in maniera capillare, alla quale sembra
Il fratello di Titti, un’altra amica di infanzia, pagherà con la vita la scelta di avvicinarsi
agli ambienti mafiosi, seguendo l’infelice esempio del padre di entrare in contatto con
questi ambienti e di scendere a compromessi.
4
5
Daedalus 2012
«voglio fare la straniera»…
impossibile sfuggire e che limita fortemente la libertà di movimento;
l’impossibilità di sottrarre la propria quotidianità alla coralità della
comunità che abita il vicolo del centro storico in cui Piera vive, di
sottrarsi agli eventi (spesso paradossali) che animano il quartiere, di
sottrarre gli eventi della propria vita all’occhio vigile della comunità, di
stare insomma per conto proprio e di sottrarsi al vocio continuo, ai
rumori, al chiasso; e, per di più, l’impossibilità di sottrarre la propria
quotidianità all’emergenza post terremoto, che dovrebbe ormai essere
superata, ma che è stata invece routinizzata, contribuendo ad
‘arricchire’ quel misto di disordine, improvvisazione e precarietà che in
questa città sono la norma.
La tappa di Berlino è la cifra più autentica dell’erranza in cui
Piera vuole trasformare la sua esistenza. La città è un altrove in cui
poter archiviare i luoghi nei quali è già stata e le esperienze già vissute,
e da cui procedere in avanti, verso altrove sconosciuti. Perché è una
metropoli popolata di una varietà molto differenziata di persone, in cui
potersi sentire uno “straniero in terra di stranieri” (Floriani 2004, p. 89),
potersi confondere protetta dall’invisibilità dell’anonimato, e godendo
così di libertà di movimento, di pensiero, di scelta.
A Berlino, nella parte ovest, la giovane donna approda quando la
città è ancora divisa. La sua erranza sta già prendendo forma attraverso i
suoi movimenti in Europa. “Io avevo cominciato a girare l’Europa,
inquieta” (CaB, p. 58). Un’inquietudine che, approdando a Berlino, si
declina come aspirazione all’estraneità e al ritorno a sé e al presente.
“Ma era questo che volevo: […] assaporare la sensazione di essere
un’estranea, una straniera fra le tante e nient’altro. […] Volevo […]
godere la libertà dell’anonimato. Camminare per strade affollatissime
senza conoscere nessuno, senza essere riconosciuta, sentendomi parte
integrante di quell’universo ignoto. […] E poi niente. Cercavo il
presente” (CaB, pp. 79-80).
Questo è, invero, il senso dell’intera esperienza tedesca di Piera,
anche se le motivazioni dichiarate sono di volta in volta diverse. Da
studentessa universitaria, è intenta a svolgere la sua tesi di laurea e
lavora come assistente di lingua italiana e come interprete; il ritorno a
Düsseldorf, subito dopo la laurea, per capire dove andrà poi; da qui
torna, per insistenza di Christian, nella Berlino non più divisa dal muro,
una città in transizione e non ancora ridefinita nella sua forma e nella
sua struttura, che teme in effetti di affrontare perché non vorrebbe
sovrapporla, nella sua indefinitezza, alla Berlino divisa dei suoi ricordi.
Nella nuova Berlino, che proprio come lei non sa ancora cosa diventerà,
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Daedalus 2012
«voglio fare la straniera»…
si compie il suo destino di errante, quando svanisce la possibilità di
intrecciare il suo percorso a quello di Christian e di radicarli entrambi
nella città.
LA STRANIERA, LE APPARTENENZE RELATIVE E LA
NARRAZIONE-DIMORA
L’erranza di Piera è un movimento sempre in avanti, alla volta di nuovi
e sconosciuti altrove, che non prevede il ritorno ai luoghi già vissuti, e
attraverso cui la giovane donna diviene una straniera.
La figura dello straniero è stata tematizzata in sociologia – a
partire dal breve e fortunatissimo saggio di Georg Simmel (1908) –
soprattutto con riferimento al contesto di approdo, dove lo straniero non
ha un passato, ma ha un presente e avrà un futuro. L’estraneità di Piera
riguarda, invece, sia il luogo di origine sia gli altrove che si
susseguiranno nella sua esistenza, ed è la presa di coscienza della prima
estraneità che darà origine e forma a tutte le altre esperienze di
straniera.
Il paese di origine è stato, nel vissuto della ragazza, il luogo delle
radici, il luogo dell’appartenenza certa. Smette di esserlo, non tanto
quando si indeboliscono le radici ed entra in crisi il senso di
appartenenza, bensì quando non si riescono a intravedere le condizioni
per costruire qui il proprio futuro, per elaborare e perseguire qui un
progetto di vita, perché è un luogo svuotato di condizioni del genere,
immobile nel suo vuoto di condizioni, e in cui la libertà di scelta e di
autodeterminazione è negata. Piera, cioè, diviene straniera nel suo paese
perché qui non vi è un futuro in cui radicare il progetto di sé.
“Dove sono nata io non ci sono muri. Solo impossibilità. Limiti.
Non è l’America. Chi nasce nessuno diventa nessuno. Allora cominci a
vedere lo spazio vuoto. Il paese e il suo vuoto ti crescono dentro. Poi i
divieti. L’adolescenza che brucia. Aspetti l’università come un
miracolo. Per andare via. Finisci gli studi. Vai via, ancora una volta. A
un certo punto non ti importa più dove. A un certo punto capisci che il
biglietto sarà sempre di sola andata. E anche il ritorno non è un ritorno
ma un andare, perché nel frattempo nessuno più ti riconosce e tu non
riconosci più nessuno” (CaB, p. 72).
Il senso di estraneità rispetto al futuro non è meno totalizzante di
quello relativo al passato; forse lo è ancor di più. Rende inimmaginabile
il progetto del ritorno. “Quando l’estraneità ha vinto su tutto, non c’è
alcun ritorno possibile. […] Si può vivere solo guardando avanti. […]
Qualsiasi posto andrà bene. Purché sia diverso da tutti i luoghi che ho
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Daedalus 2012
«voglio fare la straniera»…
conosciuto finora. L’importante è andarsene. Da qui o altrove” (CaB,
pp. 36, 37, 43).
Piera, divenuta straniera nella sua terra, è presa da “una strana
nostalgia, come di terre sconosciute” (CaB, p. 13) e ‘sceglie’ di errare di
altrove in altrove, alla ricerca di quel futuro di cui sente di essere stata
deprivata. Ma, errando da un altrove all’altro, essendo ‘qui’ oggi e non
rimanendo anche domani, incontrare il futuro è difficile, direi
impossibile. In un’erranza continua è invece possibile trovare e
acquisire altro.
Il soggetto errante è un soggetto di passaggio che, in quanto tale,
può più facilmente sottrarsi alle aspettative e alle richieste altrui, e
conquistare così libertà di immaginazione, di movimento, di scelta –
che, agli occhi di Piera proveniente da una comunità fortemente
condizionante, risalta in modo particolare. Anzi, è irrinunciabile. “Mi
piace sentirmi straniera. Non devo giustificare niente. Mi accettano tutti
così come sono e anche se sono diversa dagli altri e ho delle stranezze,
va bene così: è perché sono straniera. Gli stranieri hanno diritto a una
maggiore libertà. […] L’importante è restare un po’ straniera.
Ovunque.” (CaB, p. 9).
Non si può dire, invero, che questa libertà dello straniero sarebbe
consentita e garantita ovunque. Non lo sarebbe nel paese natio di Piera.
La ragazza, infatti, apprende dall’esperienza quel che immaginava da
adolescente: un soggetto è tanto più libero di essere straniero quanto più
è grande la città in cui si trasferisce, e tanto più se questa città è
popolata di stranieri di diversa provenienza, perché è la consistenza
della presenza multietnica che legittima la personale condizione di
straniero rendendola immediatamente comprensibile. Lo straniero è
tanto più libero di essere tale laddove “è pieno di gente […] eppure […]
non c’è nessuno” (CaB, p. 16), come, per esempio, nella multietnica
metropoli di Berlino, dove è consentito “alla nostra diversità e
disuguaglianza di rimanere dappertutto testardamente identica a se
stessa. […] Tutti uguali. Tutti diversi. Tutti profondamente estranei gli
uni agli altri” (CaB, p. 24).
L’estraneità, che Piera sa costruire di altrove in altrove, si declina
dunque, da un lato, come liberazione dai vincoli del radicamento e,
dall’altro, come perdita dell’appartenenza. Uno stato, quest’ultimo, che
non è però rielaborato negativamente, in termini di angosciosa
solitudine, disadattamento, struggente nostalgia. Questa figura di
straniero errante perde difatti il senso assoluto di appartenenza, quel
senso che vincola e limita, conquistando in cambio più sentimenti
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Daedalus 2012
«voglio fare la straniera»…
parziali di appartenenza ai tanti e diversi luoghi che si succedono nel
suo percorso di erranza, una parzialità che fa rima con libertà.
Percependosi ed essendo percepita dagli altri come una straniera,
Piera finisce per rivendicare questa condizione per le potenzialità che
apre. “Qui sono straniera. […] Io non sono di qui e nessuno mai lo
dimentica. […] Sbaglia. Io sono anche di qui. È proprio perché sento di
appartenere a tanti posti che sono straniera. Sono straniera dentro
perché nulla mi possiede totalmente” (CaB, p. 8).
In definitiva, l’errante Piera diviene una straniera, cioè un
soggetto dalle molteplici appartenenze relative, cui corrispondono più
estraneità relative che, di altrove in altrove, aprono nuovi spazi di
libertà personale.
Però, se la moltiplicazione e la relativizzazione delle
appartenenze e delle estraneità arricchiscono in termini di libertà del sé,
possono al contempo destabilizzare perché deprivano del conforto del
radicamento e, quindi, del calore di una dimora. È improbabile, infatti,
che ci si possa sentire a casa laddove si è di passaggio, in attesa di
muovere verso il prossimo altrove.
In questa erranza continua, straniante e liberatoria, l’unica dimora
possibile sembra essere il sé con i suoi ricordi relativi all’antica dimora
ormai perduta, “a quell’altrove che è sempre il luogo dove nascono le
fughe e i sogni, la terra dove si è nati e che si porta nel cuore” (CaB, p.
115), e con le storie che ha incontrato, che racconta, che rielabora e fa
proprie. “Voglio costruire storie. Voglio raccontare fiabe. Io non ho un
progetto di vita. Voglio fare la straniera. […] Voglio essere libera.
Come l’aria. Libera e lontana. Da qui e da altrove” (CaB, pp. 18, 34).
L’immagine che conclude il romanzo rende ancora meglio questa
idea dell’erranza infinita, nel corso della quale solo la narrazione può
dare dimora: “La mia vita non è altro che la strada che percorro ogni
giorno, sentiero che insegue i mulinelli del tempo. Cammino cammino e
ogni tanto salgo a cavallo del vento. Ho proiettato la mia scelta di fuga
verso tempi e spazi infiniti. Sono diventata narratrice di fiabe, di antiche
magie e principesse inventate. Allora vago, di piazza in piazza e di
paese in paese e canto le storie di cui sono prigioniera.” (CaB, p. 116).
La biografia errante di Piera sembra allora suggerirci che quando
la dinamica fra “nostalgia di casa” e “nostalgia dell’altrove” (Jedlowski
2009, pp. 14-15) – dinamica che è costitutiva di ogni biografia
contemporanea – si risolve a favore della seconda, quando cioè è il
richiamo dell’altrove a determinare la direzione del cammino, e non è
più possibile il ritorno al luogo d’origine, lì dove “il mondo ci si è
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Daedalus 2012
«voglio fare la straniera»…
manifestato per la prima volta, e il modo in cui ci si manifestò ci è a
lungo apparso come quello «naturale»” (Jedlowski 2009, p. 113), lì
dove pertanto ci si è sentiti intimamente a casa, diventa impossibile
riconquistare la prima dimora e forse anche altre dimore fisiche, ma non
per questo si è destinati a rinunciare per sempre al conforto di una
dimora. Forse non sarà soltanto una, forse non sarà definitiva, forse non
sarà fisica, ma altre dimore possono ancora essere possibili. I racconti,
in cui rielaborare, comprendere e conquistare la propria esperienza,
possono offrire dimora – come accade nel vissuto di Piera e come è
ipotizzato da Jedlowski (2009). Una dimora poco solidamente edificata,
a tratti anche evanescente, ma, almeno, sosta nell’erranza e rifugio dalle
sue fatiche. Niente di certo e di rassicurante, ma meglio di niente. Per
tutti i soggetti contemporanei condannati, loro malgrado, alle forme più
diverse di erranza.
BIBLIOGRAFIA
Abate C. (2006), Il muro dei muri, Arnoldo Mondadori, Milano.
Ambrosini M. (2005), Sociologia delle migrazioni, il Mulino, Bologna.
Floriani S. (2004), Identità di frontiera. Migrazione, biografie, vita
quotidiana, Rubbettino, Soveria Mannelli.
Jedlowski P. (2009), Il racconto come dimora. Heimat e le memorie
d’Europa, Bollati Boringhieri, Torino.
Simmel G. (1908), Lo straniero, trad. it. in S. Tabboni (a cura di)
(1991), Vicinanza e lontananza. Modelli e figure dello straniero come
categoria sociologica, FrancoAngeli, Milano, pp. 147-154.
Viscone F. (2009), Concerto a Berlino, Città del Sole, Reggio Calabria.
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Daedalus 2012
Amara Lakhous…
VALENTINA FEDELE
AMARA LAKHOUS, UN PIRATA PICCOLO PICCOLO,
EDIZIONI E/O, ROMA 2011
Amara Lakhous è uno dei più noti esponenti della letteratura migrante,
insieme eterogeneo in cui confluiscono esperienze personali e generi
letterari diversi, ascrivibili ad autori direttamente o indirettamente legati
alle migrazioni, che scelgono come forma espressiva la lingua italiana,
con la quale ingenerano un rapporto peculiare, complesso, al centro
delle riflessioni degli studiosi del campo.
Da questo punto di vista, Lakhous rappresenta quasi
un’eccezione, visto che nel suo caso la lingua italiana non sostituisce
completamente la lingua araba, piuttosto entrambe sono parte della
stessa ipotesi creativa, dello stesso progetto letterario e dell’utopia
narrativa, manifesto dell’autore, di arabizzare l’italiano e italianizzare
l’arabo, e che si concretizza non solo in una scrittura in doppia lingua,
ma in uno stile linguistico ibrido, contaminato, metropolitano – come lo
definisce l’arabista Francesco Leggio nella post-fazione del libro – che
il pubblico ha imparato a conoscere nei due scritti che hanno affermato
l’ingresso di Lakhous nel panorama letterario italiano Scontro di Civiltà
per un Ascensore a Piazza Vittorio (2006) e Divorzio all’Islamica a
Viale Marconi (2010).
Contaminazioni e stile metropolitano caratterizzano lo stile
dell’autore fin dal primo romanzo, il cui manoscritto risale al 1989,
inizialmente pubblicato, ma non distribuito, in Italia, nella traduzione di
Francesco Leggio, col titolo Le cimici e il Pirata (1999) e uscito
nuovamente nel 2011 per le Edizioni e/o con il titolo “Un Pirata
Piccolo Piccolo”. Il racconto, ambientato nell’Algeria degli anni
immediatamente precedenti la guerra civile che dal 1992 avrebbe
insanguinato il paese, si rivela estremamente attuale, alla luce delle
Primavere Arabe che hanno scosso recentemente la riva sud del
mediterraneo e il Vicino e Medio Oriente.
La storia, infatti, ripercorre, attraverso i pensieri che ne
attraversano la mente, tre giorni della vita di Hassinu, un piccolo
borghese – il titolo richiama, ma senza riferimenti diretti, il film di
Monicelli (1977) e l’omonimo libro di Cerami (1976) Un borghese
piccolo piccolo – scapolo, sulla soglia dei quaranta, cui piace
presumersi discendente del pirata Reis Hamidou, al quale ispira le sue
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Daedalus 2012
Amara Lakhous…
azioni, circostanza sostenuta dal vivere nel Quartiere dei Pirati e dal
sostenere attivamente la pirateria televisiva.
La quotidianità di Hassinu, fatta di lavoro, di moschea, di sesso
programmato e a pagamento, di incursioni familiari, fornisce un ritratto
secco e nello stesso tempo corale della società urbana algerina alla fine
degli anni ’80, una società che manca di lavoro, di prospettive e di
speranza, disillusa dagli eventi storici, impossibilitata al cambiamento,
all’interno della quale tutti cercano, con più o meno successo, di trovare
senso e significati, nella religione e nella cultura, negli affari e nel
clientelismo: è questa la società che, come dice l’autore nella
prefazione, “ha anticipato in qualche modo tutto quello che sta
succedendo oggi nel mondo arabo” (p. 15) e che determina la
declinazione che la Primavera Araba ha avuto in Algeria, rispetto ai
paesi confinanti, segnata dalla paura di una memoria nazionale mai
pienamente rielaborata, repressa, disattesa, in qualche modo rubata,
come le vite che incrociano la strada e i pensieri del protagonista.
D’altra parte, Hassinu stesso è l’emblema di una generazione
rubata: nato il 29 febbraio, d’un colpo ha 40 anni, un’età difficile, di
bilanci anch’essi rubati, perché d’improvviso si accorge che è passato
del tempo, che non ha un suo posto, un riconoscimento sociale, che è
sospeso, come il giudizio su coloro che sono pazzi, bambini o dormienti
di cui parla l’hadīth in epigrafe.
Vite pazze, infantili e dormienti – come tutti nel Quartiere dei
Pirati dove si dorme per riempiere le ore disoccupate o per sfuggire ai
problemi – vite da cimici, di cui il protagonista disprezza la vicinanza,
l’odore, le parole, i pensieri, ma a cui tragicamente anch’egli
assomiglia, malgrado i vestiti costosi, l’ordine e la pulizia dei suoi
giorni e la convinzione di essersi guadagnato il paradiso.
L’alternativa è andare via: emigrando, rifugiandosi dalla
religione, drogandosi, dormendo, impazzendo o rimanendo bambini, e
Hassinu si ritrova necessariamente a pensare che non importa se hai
venti, quaranta o sessant’anni, se la tua età è comunque rubata non
rimane che essere un pirata immaginario e inconsapevole, che, con
l’unica compagnia della sua virilità Fértas, non alzerà mai bandiera
bianca.
BIBLIOGRAFIA
Cerami V. (1976), Un borghese piccolo piccolo, Garzanti, Milano.
Lakhous A. (1999), Le cimici e il pirata, Arlem, Roma.
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Daedalus 2012
Amara Lakhous…
Lakhous A. (2006), Scontro di civiltà per un ascensore a piazza
Vittorio, Edizioni e/o, Roma.
Lakhous A. (2010), Divorzio all’islamica in viale Marconi, Edizioni
e/o, Roma.
Lakhous A. (2011), Un pirata piccolo piccolo, Edizioni e/o, Roma.
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Daedalus 2012
Mohammed Bennis…
SABRINA GAROFALO
MOHAMMED BENNIS, IL MEDITERRANEO E LA PAROLA.
VIAGGIO, POESIA, OSPITALITÀ, DONZELLI, ROMA 2009
“La mia appartenenza al Mediterraneo è appartenenza al viaggio”
(Bennis 2009, p. 27): è sufficiente leggere questa frase per entrare
immediatamente nella poesia e nel pensiero di Mohammed Bennis.
Poeta marocchino
della generazione degli anni ’70, è
riconosciuto come uno dei maggiori rappresentanti dell’avanguardia
artistica del Nord Africa per la sua forte innovazione e sperimentazione
nella scrittura. Autore di più di trenta opere tra poesie, traduzioni saggi
e prose, la sua può essere definita letteratura migrante per i contenuti, le
prospettive, le modalità e il pensiero. Nella dimensione globale del
nostro tempo, è necessario, secondo Bennis, ripartire dai punti di vista,
dalle diverse prospettive per leggere la realtà e riconsiderare il passato
svincolato da condizionamenti e rigide categorie. Il poeta è, in tal senso,
capace di andare oltre la visione che normalmente, come scrive
Francesca Corrao, “sfugge alla vista. Bennis sostiene che il messaggio
poetico ha un alto valore umanitario” (Corrao in Bennis 2009, p. X).
Il Mediterraneo e la parola è un testo dinamico e aperto, che
mette in evidenza il rapporto stretto e dialettico tra poetica e
Mediterraneo. L’autore, ripercorrendo la sua vita, propone una lettura
dei diversi modi in cui lo spazio mediterraneo è stato costruito come
idea, a partire da quella che definisce visione araba, che ignorando il
mare, si concentra su “quel passaggio ristretto che ci permette di andare
da un quartiere all’altro come se l’intera regione costituisse un’unità
architettonica urbana che attraversiamo senza timore né difficoltà”
(Bennis 2009, p. 4). Un passaggio, aperto che riporta all’assenza di
distinzione di una identità coloniale e colonizzata, e che ha sviluppato,
nel poeta ancora adolescente, una consapevolezza che, come scrive, “ha
trasmesso una speciale forza d’animo nel difendere la mia libera
appartenenza alla cultura mediterranea” (Bennis 2009, p. 5).
Passare senza timore è quindi un atteggiamento legato
all’appartenenza, a quel sentimento tipico del 1968 che spingeva a
pensare e andare oltre, come se si potesse appartenere sia all’una che
all’altra riva del Mediterraneo. Ma con il passare degli anni questa idea
di Mediterraneo aperta e dinamica si chiude. Sono gli anni ’80, quelli in
cui si vive forte la sensazione che “lo spazio aperto del Mediterraneo
(…) fosse stato rubato” (Bennis 2009, p. 5) da chi ha reso difficile quel
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Daedalus 2012
Mohammed Bennis…
passaggio, quasi come se la riva settentrionale avesse chiuso le porte a
sud.
Ma è qui il centro della trattazione: “vietare il viaggio reale
racchiude in sé il divieto del viaggio simbolico”, un legame tra
spostamenti vissuti e immaginati, che mette in discussione quel rapporto
particolare con percorsi di vita, a partire dall’idea del viaggio come
“dimensione ineliminabile dell’esperienza biografica” (Floriani in
Siebert, Floriani 2010, p. 140). Ancora, tutto ciò implica una riflessione
sul rapporto tra quel particolare viaggio che sono le migrazioni e la
costruzione di una idea del Mediterraneo suggerita da Fernand Braudel,
come spazio movimento.
La dimensione della mobilità geografica è insita
nell’immaginario mediterraneo: spostamento, movimento, viaggio.
Scriveva Braudel, nel Mediterraneo “all’apporto dello spazio
circostante, terrestre e marino, che è alla base della vita quotidiana, si
assommano i doni del movimento” (Braudel 1985, p. 28). Uno spazio
quindi, di incontro, di scambio, di pratiche quotidiane di accoglienza.
Allo scambio, secondo Bennis, viene assegnata una funzione di
creazione: “e in questo scambio creativo — scrive — colgo ciò che
perpetua l’essenza del Mediterraneo in quanto dimora comune” (Bennis
2009, p.12).
Quello che viene definito il movimento azzurro dell’intercultura,
facendo riferimento all’immagine del mare, porta in sé il carico di
significato offerto dall’esperienza del viaggio. Appartenere al
Mediterraneo è appartenere al viaggio, è situarsi in uno spaziomovimento che è apertura verso l’altro “senza indugi e ripensamenti”. Il
Mediterraneo è, altresì, spazio di riconoscimento perché è lo spazio
dell’accoglienza di culture e lingue che trovano una dimora comune.
Dimensione centrale ha qui la parola: il linguaggio è visto come il
luogo dell’incontro tra le culture, e le traduzioni producono importanti
cambiamenti: “per il poeta – scrive Corrao – quello del tradurre non è
un lavoro chimico, ma fisico, perché si tratta dell’incontro tra due
forme” (Corrao in Bennis 2009, p. XV). La poesia è, in questo senso,
una parola che fa durare le parole, dando un valore al sogno che è legato
alla memoria (Bennis 2009, p. 53). Per Bennis, la costruzione del
Mediterraneo passa attraverso il potere della poesia, “che non si ferma
ai confini”.
L’autore afferma: “Ogni poesia mediterranea è mia. Ogni poesia
che annuncia il viaggio, che dà ospitalità che semina generosità. In ogni
angolo del mondo. È lì che comincia il Mediterraneo. Non un luogo
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Daedalus 2012
Mohammed Bennis…
recintato da principi geografici o da un’idea che rinnega l’Altro che
viene dal sud, da oriente o da occidente” (Bennis 2009, p. 29). Il
Mediterraneo è quindi, luogo della resistenza, ovvero “alternativa
mediterranea” (Cassano 2007) rispetto ai modelli di narrazione
dominanti, rispetto “alla deriva universalistica e monoteistica che viene
dall’occidente estremo” ma anche denuncia contro “il fondamentalismo
neoimperiale che si propone di recidere ogni rapporto tra le due rive del
Mediterraneo” (Bennis 2009, p. 16).
Bennis lo scrive
a chiare lettere: “La globalizzazione
contraddistingue un momento in cui la supremazia dell’economia
riorienta la politica verso la strategia dell’utile, e tende a svilire tutto ciò
che percepisce di dominio dell’inutile. La cultura, in questa strategia, è
l’inutile per eccellenza. La ricerca scientifica, le opere del pensiero e le
creazioni letterarie e artistiche sono sempre considerate beni inutili in
rapporto alle merci che obbediscono alla logica del profitto e delle leggi
del mercato” (Bennis 2009, p. 17). La poesia, la cultura e la ricerca sono
quindi, secondo l’autore, spazi di resistenza: luoghi di dialogo e di
incontro, di ospitalità e di bellezza. Unica soluzione, per costruire un
Mediterraneo, dimora comune.
BIBLIOGRAFIA
Bennis M. (2009), Il Mediterraneo e la parola. Viaggio, poesia,
ospitalità, Donzelli, Roma.
Braudel F. (1985), Il Mediterraneo. Lo spazio e la storia. Gli uomini e
la tradizione, Bompiani, Milano.
Cassano F. (2007), Il pensiero meridiano, Laterza, Roma-Bari.
Siebert, R., Floriani, S. (2010), Incontri tra le righe, Pellegrini,
Cosenza.
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Daedalus 2012
Wu Ming 2, Antar Mohamed…
GIULIANO SANTORO
WU MING 2, ANTAR MOHAMED, TIMIRA. ROMANZO METICCIO
EINAUDI, TORINO 2012
Anni fa, all’indomani del successo di “Q” e al momento del cambio di
nome da Luther Blissett a Wu Ming, il gruppo di scrittori Senza Nome
diffuse il suo manifesto d’intenti e promise di mantenere fede
all’impegno della scrittura collettiva. “Wu Ming intende valorizzare la
cooperazione sociale tanto nella forma del produrre quanto nella sua
sostanza – si leggeva nella dichiarazione di intenti del gruppo. La
potenza del collettivo è allo stesso tempo contenuto ed espressione del
narrare”. Poteva apparire come una promessa ingenua o magari come
un’ostinazione ideologica. E invece leggendo romanzi come “Timira”,
che porta la firma di Wu Ming 2 e Antar Mohamed capisci come i
Senza Nome tengano fede sempre di più a quella promessa, cogliendo al
tempo stesso la necessità di mantenere uno stile autoriale e
l’esperimento di allargare il racconto e renderlo davvero orizzontale e
multiplo. Collettivo.
Il libro racconta la storia di Isabella Marincola, figlia rimossa del
passato italiano: nasce dalla relazione tra suo padre Giuseppe e la donna
somala Aschirò Assan. Isabella è il parto illegittimo del colonialismo. Il
soldato, mescolando in un groviglio inestricabile (uno dei tanti grovigli
di questa storia), retoriche da “missione civilizzatrice” coloniale e buon
senso paterno, non accetta di fare quello che facevano praticamente tutti
gli italiani occupanti: rifiuta di abbandonare i figli meticci del sogno
imperiale italico in Africa. Dunque, decide di riconoscere lei e suo
fratello maggiore Giorgio, di strapparli alla madre per crescerli
nell’Italia del fascismo.
Giorgio cresce a Pizzo Calabro, dove il colore della sua pelle
passa sostanzialmente inosservato. Arriva a Roma per le scuole
superiori, si arruola nelle brigate partigiane di Giustizia e Libertà e
viene ucciso dalle truppe naziste in ritirata, ormai a guerra finita, in Val
di Fiemme. La sua storia è stata raccontata da Lorenzo Teodonio e
Carlo Costa in “Razza partigiana” (edito da Iacobelli). Isabella, invece,
arriva direttamente a Roma, dove suo padre si è sposato e ha avuto altri
due figli e dove sperimenta da subito la sua esistenza in-between di
straniera nelle sue nazioni.
È una storia di violenza coloniale e postcoloniale, questa. Ma è
anche una storia di padri e madri, di riconoscimenti e abbandoni, di
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Daedalus 2012
Wu Ming 2, Antar Mohamed…
patrie e matrie, di figli e figliastri. Perché, come sostiene la scrittrice
algerina Assja Djebar, “La colonia è innanzitutto un mondo diviso in
due […] La colonia è un mondo senza eredi, senza eredità. I bambini di
entrambe le parti non vivranno nella casa dei loro padri” (il corsivo è
mio). I figli dei colonizzatori e dei colonizzati, insomma, hanno in
destino di essere dei “senza patria”, incapaci di riconoscere nella terra
che li ospita il luogo delle origini e quello dell’arrivo. Questa è la
condizione contemporanea, ci sentiamo un po’ tutti nella condizione di
essere dei profughi culturali, e questa è la condizione di Timira, figlia al
tempo stesso di colonizzatori e colonizzati.
Da una vita straordinaria, al di fuori dell’ordinario, cogliamo la
metafora potente del farsi-uno-del mondo, del confondersi tra centro e
periferia, tra colonizzatori e colonizzati, tra scultori e modelli, tra registi
e attori. La donna finisce a far da modella, precipita nel mondo del
cinema. È una mondina nera in “Riso Amaro”, pietra miliare del
neorealismo: pare che il regista Giuseppe De Santis l’avesse scelta per
rafforzare l’allegoria delle donne lavoratrici come metafora
dell’Internazionale. Poi, il ritorno a Mogadiscio, dove sposa un
musulmano, prende il nome di Timira e mette al mondo Antar, che oggi
vive a Bologna, fa il mediatore culturale ed è co-autore di questo
romanzo. Ma Timira non è solo Timira. È anche Isabella. La donna
rivendica la sua libertà di donna italiana, rifiutando i vincoli dell’uso
locale e senza per questo conformarsi agli usi dell’aristocrazia coloniale
italica. È elegante, ma a modo suo, perché “eleganza e colori accesi non
vanno d’accordo nelle mode d’Occidente”.
Il ritorno in Italia della protagonista nel 1991, all’alba della
Seconda Repubblica e durante la guerra civile somala e la guerra
umanitaria dell’Occidente contro Saddam Hussein, rappresenta l’arrivo
della colonia, delle sue contraddizioni e dei suoi conflitti nelle nostre
città, in un mondo “che si sono venduti tra loro senza che fossimo
avvertiti”, un mondo nel quale all’improvviso le galline diventano
avvoltoi e si avventano sui cadaveri. Quello che prima veniva
artificialmente separato dai confini culturali e materiali, non può più
essere nascosto. Di tutto ciò l’inquietudine esistenziale di IsabellaTimira è il simbolo, con la sua vita ingombrante e perturbante, difficile
da incasellare. Porta la violenza della schiavitù nel suo bagaglio
culturale, per questo rifiuta di farsi serva in Italia, nonostante si trovi a
fare da dama di compagnia a una donna bolognese – significativamente
chiamata Itala – che va perdendo la memoria e non riesce a distinguere i
suoi ricordi da quelli della sua badante.
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Daedalus 2012
Wu Ming 2, Antar Mohamed…
“Timira” è un romanzo percorso da una tensione palpabile.
Mettiamo il naso tra le sue pagine e veniamo presi da una sorta di
agitazione, un’inquietudine che non fa stare comodi sulla sedia, “Come
se avessimo delle puntine sotto il sedere”, dice Wu Ming 2 parlando del
libro. Questa tensione è la ricerca di un rapporto paritario tra narratore e
narrato e tra autori, uno stile davvero scevro da ogni retaggio coloniale.
È un approccio che ricorda lo spiazzamento imposto allo sguardo sulle
donne del sud del mondo da parte della femminista anglo-indiana
Nirmal Puwar. Per sottrarre le donne dalla condizione obbligata di
“vittima”, di puro oggetto astratto della violenza coloniale e patriarcale,
magari da compatire e aiutare senza tuttavia condividerne le lotte e le
aspirazioni, Puwar sposta l’obiettivo da chi è osservato verso chi
osserva e chiede: “Che cosa state cercando?”, per scoprire che lo
sguardo occidentale va alla ricerca soltanto della marginalità, della
victimhood. Allo stesso modo, Timira-Isabella sbuca dalle pagine del
romanzo e chiede a Wu Ming 2: “Cosa vuoi fare di me?”. La domanda è
dirompente. L’ex modella sa bene quale è la differenza tra “posare” per
un artista e interagire con lui, essere co-autrice. “I margini per l’autonarrazione sono particolarmente aperti quando le testimoni sono capaci
di suscitare pietà è lacrime”, nota Puwar. “Ho cominciato a chiedermi
se sia possibile, per uno che di mestiere scrive e racconta storie, porgere
la tastiera a chi non l'ha mai usata prima e aiutarlo a mettere in romanzo
la sua vita, senza però confiscarla con le metafore e gli arnesi che ha
imparato a usare”, confessa invece Wu Ming 2.
Non è facile scrivere una storia così complessa. Non è facile
ambientare un romanzo a cavallo tra tempi storici diversi, culture
differenti e luoghi molteplici, facendo intrecciare le tante voci di Timira
e le molte lingue narranti. La scelta intrigante di mettere in scena la
voce dello scrittore e la sua paura di colonizzare le vite dei narrati,
affiancando le sorti dei personaggi del romanzo. I dubbi metodologici e
le scelte letterarie emergono pagina dopo pagina assieme all’evolversi
del racconto. Quei dubbi fanno il paio con le traversie di Isabella
Marincola e di Antar Mohamed. In fondo, anche loro come noi –
genitori, figli e genti del mondo postcoloniale – sono alla ricerca di un
domicilio, del modo giusto per abitare il mondo.
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Daedalus 2012
Ulrich Beck…
ROSSELLA PAINO
ULRICH BECK, POTERE E CONTROPOTERE NELL’ETÀ
GLOBALE, LATERZA, ROMA-BARI 2010
Il pensiero sociologico contemporaneo dispone di una ricca serie di
espressioni linguistiche volte a definire gli aspetti e i fenomeni più
rilevanti della società attuale: postmodernità, tarda modernità, alta
modernità, seconda modernità, modernità riflessiva, società del rischio,
società di contatti, società dell’informazione, società globalizzata e il
più recente dell’elenco, la società cosmopolita. Il senso ultimo di questo
sforzo terminologico va probabilmente ricercato nella maggiore
attenzione prestata dalla disciplina verso i temi connessi alla domanda
“cosa succede?” piuttosto che verso le questioni sottese alla domanda
“perché accadono queste cose?”. Da qui la maggiore diffusione di
analisi e teorie “diagnostiche”, piuttosto che “esplicative”, che provano
a comprimere la realtà in alcune strutture concettuali ordinate, in alcuni
modelli teorici che darebbero un significato più definito alle
trasformazioni sociali percepite nel mondo globalizzato.
Famosi teorici sociali del nostro tempo, quali Jurgen Habermas,
Anthony Giddens, Zygmunt Bauman, Manuel Castells, Jean
Baudrillard, hanno offerto diverse diagnosi di questo tipo, generalizzate
e assiologicamente caratterizzate (ad esempio la teoria dell’agire
comunicativo di Habermas, la teoria della strutturazione di Giddens,
ecc.).
Ulrich Beck è un’esponente di primo piano della sociologia, che,
per intenderci, abbiamo denominato “diagnostica”, e il suo volume
Potere e contropotere nell’età globale, originariamente pubblicato in
Germania nel 2002, in Inghilterra nel 2005 e disponibile in Italia dal
novembre del 2010, ne è un chiaro esempio. È importante per il lettore
tenere a mente queste date perché questo saggio è un testo che è stato
scritto in un mondo in cui la guerra in Afghanistan non era ancora
scoppiata, Saddam e Bin Laden erano ancora vivi e Bush era Presidente
degli Stati Uniti.
Con Potere e contropotere nell’età globale, Beck cerca di
realizzare due ambiziosi obiettivi: uno metodologico e uno ideologico
(inteso come nesso tra la comprensione del mondo e una pratica di
trasformazione conseguente). Da un lato, Beck mira a formulare un
nuovo paradigma scientifico che prenderebbe in considerazione le
trasformazioni adottate dalla seconda modernità per effetto della crisi
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Daedalus 2012
Ulrich Beck…
globale ed ecologica, l’aumento delle diseguaglianze transnazionali,
l’individualizzazione, le forme precarie di lavoro retribuito e le sfide
della globalizzazione culturale, politica e militare. Dall’altro lato, viene
proposta una nuova pratica, basata sulla conoscenza acquisita come una
conseguenza di questa nuova prospettiva, ovvero la pratica del realismo
cosmopolita, caratterizzata da una serie di atteggiamenti che pongono
l’attenzione non solo sul ruolo cruciale del potere economico globale,
ma anche sugli attori del business globale nei rapporti di cooperazione e
competizione tra Stati.
L’innovazione epistemologica di Beck, colta nell’efficace
metafora dell’immaginazione cosmopolita (che riecheggia la metafora
dell’immaginazione sociologica di Charles Wright Mills), è frutto del
cambiamento di paradigma che richiede l’abbandono del nazionalismo
metodologico, ossia dell’approccio teoretico incentrato sull’idea di
società dello Stato-nazione, in modo tale che gli Stati e i loro governi
siano considerati come pietre angolari dell’analisi delle scienze
politiche, in favore del cosmopolitismo metodologico (che prevede lo
smantellamento dello spazio e della politica, despazializzazione dello
Stato e della società, emergenza della società civile mondiale,
molteplice appartenenza politica, e religioni ed etnie pluralizzate).
Sostiene Beck che questa conversione metodologica è motivata
dalla logica della globalizzazione e dalla “grande trasformazione”
indotta dagli sviluppi economici e politici causati dalla globalizzazione
stessa. Il potere, di conseguenza, si è spostato in un altro luogo e, se le
scienze politiche intendono ancora studiare il potere in modo adeguato,
devono andare in quest’altro luogo mediante il mutamento di struttura
concettuale. Il cambiamento del concetto di potere deve essere inteso
non solo in senso spaziale/geografico, occorre invece transitare da Statinazione con confini rigidi e ben definiti a società commerciali
transnazionali, corpi impersonali antidemocratici che esercitano la
sovranità economica. È necessario ammettere l’esistenza di una nuova
forma organizzativa non pubblica di violenza privata e legislativa che si
erga al di sopra degli Stati sovrani, senza possedere essa stessa la
sovranità dello Stato. Questo cambiamento deve avvenire anche in
senso sociale e culturale, come dimostrato dagli stessi criteri su cui
risiedeva il potere nella prima modernità. In quella fase, violenza, forza
militare o intervento, consenso democratico e principio territoriale, sono
stati riconvertiti in un tipo diverso di dominazione, basata
sull’efficienza, la conoscenza e la flessibilità economica, intesa come
l’abilità di investire più convenientemente altrove.
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Daedalus 2012
Ulrich Beck…
Questa nuova condizione di “senzatetto”, per così dire, del
capitale globale ha enormi implicazioni sia per le politiche di Stato che
per la vita quotidiana e il benessere dei cittadini globali. Di
conseguenza, gli Stati sono costretti a competere tra loro per attrarre
flussi di denaro mentre i cittadini debbono diventare sempre più
dipendenti dalle azioni volontaristiche delle società transnazionali nel
perseguimento di profitti. Abbastanza sorprendentemente, questo
pessimismo teoretico (la convinzione del ritardo dei concetti tradizionali
e il bisogno impetuoso di cambiamento) è associato a un punto di vista
pratico e ideologico abbastanza ottimistico: “globalizzazione non è
destino, può essere formata e influenzata”. Come risultato, i processi
globali appaiono non come una sorte inevitabile, come afferma la
narrativa del capitalismo globale, ma come un corso illimitato di azioni
che potrebbero essere trasformate e dirette secondo l’equilibrio di forze
esistenti in un dato momento.
In questo modo, gli sforzi ideologici di Beck sono orientati ad
analizzare come questo equilibrio di forze emerge e cambia, con quali
strategie e quali vantaggi e, infine, come i “bravi giocatori” (qui le
simpatie di Beck sono evidenti) possono evitare di perdere i loro
benefici. Prima di tutto, lo stesso gioco della globalizzazione, dichiara
Beck, è molto diverso dai vecchi giochi perché, a differenza dei giochi
politici dell’era dello Stato-nazione, che funzionavano con
l’applicazione di un certo numero di regole, la nuova politica mondiale
si preoccupa di cambiare le regole continuativamente. Né i giocatori né
le loro strategie sono pre-determinati. Invece, i partecipanti guadagnano
la loro posizione nel metagame, ovvero nella metodologia di
comportamento che ogni giocatore applica in determinate situazioni di
gioco, organizzandosi politicamente nel gioco. Una volta che lo
scenario è aperto, altri giocatori possono entrare in scena come, per
esempio, le reti terroristiche (Organizzazioni non governative dedite
alla violenza, come le definisce Beck).
Tre attori principali di solito acquisiscono il potere di partecipare
a questo processo di formazione e influenza della globalizzazione: gli
Stati-nazione, il capitale (il nuovo ordinamento economico neoliberale)
e la società civile globale. Ognuno di questi attori-giocatori ha a
disposizione una serie di strategie possibili e risorse di ogni tipo
(discorsive, finanziarie, etiche e politiche) così come diversi livelli di
auto-organizzazione.
I risultati del gioco della globalizzazione
dipendono dalle abilità dei giocatori di approfittare sia delle proprie
forze che delle debolezze dei loro rivali. In sostanza, suggerisce Beck,
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Daedalus 2012
Ulrich Beck…
un giocatore svantaggiato può solo essere emarginato ma non eliminato
dal tavolo poiché esiste un legame di reciprocità tra coloro che causano
la rovina di un attore indesiderato. Il business globale necessita di uno
Stato forte (deregolamentazione del mercato, privatizzazione dei servizi
pubblici e rafforzamento delle norme commerciali globali non possono
essere raggiunti da uno stato debole), così come ha bisogno di cittadini
globali disciplinati per usufruire dei beni e dei servizi forniti dalle
imprese. Di conseguenza, la coesistenza, non solo è possibile ma
necessaria.
Dal momento che la società civile globale sembra essere un
progetto futuro, il gioco principale è condotto dallo Stato e dal grande
capitale piuttosto che da una realtà tangibile. Per indebolire lo Stato, il
capitale usa vari stratagemmi che possono essere raggruppati in quattro
categorie principali: strategie autarchiche (per rendere lo Stato
facilmente sostituibile e intercambiabile), strategie di sostituzione (per
mettere lo Stato in competizione col maggior numero possibile di stati
confrontabili), strategie di monopolizzazione (lo Stato deve aver
interiorizzato il regime del mercato mondiale neo-liberale, un
monopolio sulla razionalità economica per il commercio globale) e
strategie di dominio preventivo (lo Stato deve usare il suo monopolio
sulla violenza per rafforzare l’autonomia e il potere vincolante degli
attori del business globale). Al riguardo, le politiche e gli sforzi dello
Stato saranno destinati a combattere queste strategie del capitale globale
e gli Stati potranno scegliere tra: strategie di indispensabilità, strategie
di insostituibilità, strategie volte alla riduzione della competizione tra
Stati, strategie volte alla ripoliticizzazione della politica, strategie volta
alla trasformazione cosmopolita degli Stati.
Nella riflessione di Beck, lo Stato-nazione, il “grande perdente”
della globalizzazione, potrebbe assumere maggiori poteri sullo spazio
transnazionale dei flussi e contrastare l’autarchia del capitale. La
prospettiva lungo cui si muove il sociologo tedesco si avvicina,
attraverso un’evidente sensibilità sociologica, a quella di politologi
come Martin Shaw o David Held. In questa direzione, lo Stato
cosmopolita accede a nuove possibilità di azione connettendosi e
aprendosi a reti transnazionali fornite da altri Stati, istituzioni
sovranazionali ed organizzazioni di vario tipo.
Riguardo alla società civile globale (sorprendentemente solo
poche delle 472 pagine sono dedicate allo sforzo della comprensione del
suo ruolo e delle sue possibilità), la sua fonte principale di potere risiede
nella retorica e nei racconti. Beck immagina questa situazione in una
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Daedalus 2012
Ulrich Beck…
sorta di trappola di legittimazione dove, le società transnazionali e le
organizzazioni commerciali hanno molto potere ma poca legittimità. I
movimenti sociali, invece, hanno solo poco potere ma un alto grado di
legittimità che trae la sua origine dal prestigio della moralità come fonte
di potere nell’età globale. La base del contropotere della società civile
globale contiene principalmente due strumenti straordinari: le
Organizzazioni non governative, attraverso cui i cittadini possono
imporre un regime etico globale dei diritti umani che può ammortizzare
i beni del capitale globale nella giusta prospettiva e, il cliente globale,
che detiene l’enorme potere globale di rifiuto e di non-acquisto il quale,
può influenzare la politica del capitale globale.
Suggerisce Beck che gli Stati interpreteranno un ruolo
d’intermediari tra il grande capitale e i cittadini e, le future battaglie,
saranno combattute per l’accesso e la manipolazione di quest’ultimo. Le
difficoltà filosofiche e politiche emergono quando nozioni speculative e
altamente astratte come cosmopolitismo, parti mondiali e società civile
globale sono tradotte in pratica politica. Beck non riesce a offrire una
struttura discorsiva e istituzionale attraverso cui queste nozioni vengono
poste in essere, non ha intrapreso una carriera di calcolo dei rischi,
ancora meno ha cercato di ridurli.
Il sociologo tedesco, nell’ambito dell’accademia, sembra
ritagliarsi un ruolo da Cassandra, diagnosticando l’ottimistica inutilità
con cui cerchiamo di gestire l’ingestibile. Come potrebbe emergere un
discorso globale sui diritti umani se lo stesso contenuto del concetto
“diritti umani” varia a seconda delle culture e delle comunità? Come
potrebbe la sostanza umanistica del “cosmopolitismo” e della “società
civile globale” opporsi al ricco simbolismo del capitalismo che può
travisare queste nozioni e imporre ad esse nuovi significati attraverso la
pubblicità? In altre parole, i cittadini globali sceglieranno la baffuta
figura militante di José Bové o i corpi seducenti delle sosia della diva
Pamela Anderson su spiagge tropicali ovvero, l’immaginario standard
del paradiso capitalista?
Similmente, il cosmopolitismo di Beck (la lotta per una cultura umana
in cui tradizioni molto diverse possono vivere l’una accanto all’altra)
sembra trarre ispirazione dalla “sfera pubblica” habermasiana, in cui gli
attori sono ugualmente resi potenti dalle capacità argomentative e
razionali del discorso. Beck sembra riprodurre la stessa logica
ottimistica e ingenua: nonostante la dichiarata neutralità ideologica, il
cosmopolitismo incorpora in sé una forte e pericolosa illusione in
quanto, è basato sull’inconsapevolezza (o sulla manipolazione) delle
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Daedalus 2012
Ulrich Beck…
condizioni di accesso alla sfera politica e dei fattori di discriminazione
che limitano le possibilità di accesso. Qui, l’uguaglianza delle tradizioni
è forse più un’illusione retorica che una sorta di dimensione reale e le
risorse discorsive che una comunità possiede sono differenziate e non
equilibrate.
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