piergiorgio branzi il reportage d`autore
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piergiorgio branzi il reportage d`autore
SPECIALE BIANCONERO PIERGIORGIO BRANZI IL REPORTAGE D’AUTORE Esploriamo con Piergiorgio Branzi, giornalista televisivo e noto fotografo, il linguaggio del reportage in bianco e nero: dalle immagini di Cartier Bresson ai suoi anni di Mosca, fino ad oggi, ai tempi del digitale. Mosca. Piazza Rossa, 1965 c. Facciamo una premessa. Guardando al passato, possiamo dire che gli anni Cinquanta furono certamente un momento di risveglio della fotografia italiana. Animavano la scena alcuni fotoclub molto noti, come ad esempio La Gondola, a Venezia, dove i nomi degli iscritti erano quelli di Gian- ni Berengo Gardin, Fulvio Roiter, Paolo Monti, oppure l’Unione Fotografica, di Donzelli, e poi il circolo fotografico La Bussola, di Firenze. A ben guardare, all’epoca non era semplice entrare a far parte de La Bussola. Nel 1953 era stato fondato addirittura un secondo fotoclub voluto da Giuseppe Cavalli e che era denominato Misa, dal nome di un fiume vicino a Senigallia, organizzato in modo da fungere un po’ da vivaio per i futuri soci de La Bussola. Tra i soci di questi sodalizi c’erano Alfredo Camisa, Mario Giacomelli, Nino Migliori e, appunto, Piergiorgio Branzi. Mosca. Piazza Rossa, 1965 c. Fu così che Branzi, prima nel Misa e poi in La Bussola, percorse inizialmente le strade della “fotografia italiana”. Fu l’inizio di una lunga avventura. Branzi, da La Bussola, si dimetterà dopo relativamente poco tempo, tra l’altro anticipando lo scioglimento del circolo stesso. Punterà a proporre le sue immagini in ambito decisamente professionale. Già nel 1955 aveva girato il sud Italia, scoprendo e scattando foto legate ad un mondo poco noto a moltissimi italiani e tutto da conoscere, da documentare. Aveva negli occhi le immagini di Henri Cartier Bresson, le foto di Brassai, di Doisneau, tutti maestri francesi che avevano lasciato un’impronta decisiva nel mondo della fotografia. Secondo Giuseppe Pinna, riprende foto che rispecchiano il suo sforzo di capire, non fa del neorealismo ma fa una sorta, dice il critico, di “calligrafismo” fotografico. Per dirla con Leo Longanesi, la fotografia di allora è “stradale”; si potrebbe anche dire che è la versione italiana della formula de “l’image à la sauvette” che Henri Cartier Bresson aveva, da non molto tempo, proposto. Dove scatta? In passato lui stesso ha detto di riconoscersi in immagini di una serie spagnola ripresa nel 1956 ma i luoghi delle foto sono i più vari: va a Parigi ed a Venezia, a Napoli; è stato in Spagna a Manzanares ed in Lucania, in Grecia e a Comacchio. Ma c’è la verve professionale: nel 1956 troviamo Piergiorgio Branzi a collaborare con Il Mondo, di Pannunzio. È tra i fotografi più pubblicati sul giornale. Nel 1961 lo ritroviamo in una mostra “Gli uomini intorno a noi”, sempre con foto pubblicate da Il Mondo. Avviene un salto professionale: nel 1962 è giornalista RAI. E il direttore del Telegiornale RAI, Enzo Biagi, lo invia nell’URSS. Siamo nel pieno della guerra fredda. Piergiorgio Branzi risiede al sesto piano di un palazzone, già edificio di funzionari di partito, allora riservato ad industriali, diplomatici, giornalisti. Ci sono una garitta e una sentinella all’ingresso: un addetto prende nota di chi entra e chi esce, su fogli in duplice copia. È a Mosca, da poco, quando un incaricato dell’ambasciata lo avvisa di una crisi internazionale in corso: i bombardieri strategici americani, con armamento atomico, sono già in volo. Sicu- ramente Mosca è uno tra i primi bersagli. Poi la crisi, fortunatamente, rientra. Piergiorgio Branzi vive in URSS e, tutte le volte che può, scatta. La sua fotografia non costituisce il suo lavoro, al momento è inviato RAI, ma è uno strumento parallelo, straordinario, di documentazione. Scatto dopo scatto, raccoglie un prezioso mosaico di impressioni, di tessere. Tutte insieme sono determinanti per descrivere una città e un Paese. Le foto, dal 1962 al 1966 verranno infine raccolte in un bel libro, Diario moscovita (Il ramo d’oro editore). Sono tutte immagini bianconero. Piergiorgio Branzi ha pubblicato su moltissimi periodici, come Ferrania, Diorama, Camera, US Camera, Photography Year Book, Coronet, Gallery, Popular Photography, Progresso Fotografico. A Piergiorgio Branzi sono state dedicate decine di esposizioni fotografiche, italiane ed estere. La FIAF, Federazione Italiana Associazioni Fotografiche, nel 1997 l’ha eletto autore dell’anno; è membro del fotoclub Leica. È nato nel 1928 a Signa, vicino Firenze, terzo di sette fratelli. Ha scoperto la fotografia Napoli. Ex-voto, 1955. sfogliando le più belle pagine di libri splendidi di grandissimi fotografi: Edward Weston ed Ansel Adams, Evans e Margareth Bourke White, Eugene Smith e via e via. Una notevole occasione l’ha avuta dalla piccola libreria aperta dal padre, Renato Branzi, che negli anni del fascismo era stato costretto a lasciare l’impiego nelle ferrovie (era attivista delle Acli e critico verso il regime). Quando lo contattiamo, Piergiorgio ci pre- cisa di avere ripreso a fotografare nel 1995, dopo una sospensione di parecchi anni. Prima, infatti, era distratto dall’impegno dell’attività come giornalista televisivo: “non c’era una vera incompatibilità tecnica tra fotografia e ripresa video, ma certamente c’era un’incompatibilità mentale”. Il più recente lavoro è un bel libro, per la collana Maestri della fotografia italiana del Novecento, edito dall’Istituto Superiore per la Storia delle Fotografia, dal titolo Piergiorgio Branzi. La presentazione è di Sandra S. Phillips, Conservatore Senior del MOMA di San Francisco. L’accurato testo critico è di Paolo Morello, direttore dell’Istituto Superiore. Come attrezzatura fotografica punta sempre su Leica, o pensa alla fotografia digitale? Dopo i primi scatti anche con una vecchia Napoli. Vicolo, 1955. Mosca. La gruista 1965. Condor, sono passato alla Rollei ad infine alle Leica, alle quali sono rimasto fedele. Sono macchine molto adatte alla mia fotografia perché sono discrete e di azione rapida, sono silenziose, parlo delle Leica a telemetro, e sono adattissime alla fotografia bianconero di elevata qualità. Le riprese di Diario moscovita sono tutte e sempre con Leica. Se mi chiede se adopero la fotocamera digitale Leica Digilux, la risposta è negativa. Confesso che in qualche modo adopero il digitale, ma non in ripresa. Per essere esatti scatto con le tradizionali Leica a telemetro, classiche, e poi digitalizzo i negativi. La stampa, dunque, è digitale. Mi appoggio ad un laboratorio attrezzato e di fiducia. Punto a stampe abbastanza grandi. La ripresa in digitale non l’ho ancora coltivata, forse… quando sarò grande! Non ho mai provato a riprendere con una fotocamera digitale forse anche per un fatto generazionale. Ma devo sottolineare che ho ottenuto ottimi risultati con la stampa digitale. Sono molto contento di questa soluzione e credo che stamperò d’ora in avanti solo con tecnica digitale. Anche per un motivo semplice: quella che si ottiene è un’immagine realmente “definitiva e riproducibile” in più copie realmente identiche. Viceversa, se si passa attraverso un ingranditore tradizionale, sia che si stampi in proprio, sia che la stampa sia eseguita da uno stampatore di fiducia, noto che ogni volta il risultato è un po’ diverso. Io desidero invece una certezza. Abbiamo presente gli splendidi scatti di Mosca ai tempi della guerra fredda. Ha fotografato prevalentemente sempre in bianconero? Il discorso è lungo. Il flusso d’immagini in movimento, che in ambito televisivo mi sono trovato a produrre per motivi professionali, segue un ritmo in rapida successione. È proprio questo flusso di riprese che mi ha, in qualche modo, suggerito di fermare e raccogliere, questa volta per me stes- so e per mia personale memoria, alcune situazioni, luoghi, volti. In occasione della mia permanenza a Mosca ho colto molti appunti di un diario visivo, affidati alla “memoria” della mia Leica. Sono stati preziosi per aiutarmi a capire di quale farina erano impastati quei moscoviti con i quali avrei a lungo convissuto. Quanto alla mia preferenza per il bianconero, dipende dal fatto che per me il bianconero suggerisce e stimola più del colore. Il colore è appariscente e sicuramente esiste una efficace interpretazione coloristica. Ma il bianconero è come la pagina scritta di un libro, è un sottolineare la forma, è un andare all’essenziale. Consente a ciascuno, su ogni personaggio ritratto, di calcare un’immagine mentale che risulta essere anche più esplicativa di quella reale. Il bianconero distrae meno. Il colore è troppo riproduttivo della realtà. Il bianconero è più interpretativo. Maurizio Capobussi